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LOTTE PROLETARIE E LEGGI ECCEZIONALI


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Lotte proletarie e leggi eccezionali
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Sul filo del tempo

Lotte proletarie e leggi eccezionali

Ieri

Da decenni e decenni i marxisti radicali considerano come caratteristica centrale della direzione «farisea» del moto operaio il porre a supremo scopo la lotta perché la politica dello Stato, dai periodi di leggi eccezionali e repressioni di polizia, rientri nella «legalità normale e costituzionale».

«Costringere il potere esecutivo a rientrare nella costituzione» – «abolire le misure liberticide e creare nel paese una reale distensione» – sono di questo calibro le consegne centrali che si possono leggere, in questo equinozio di primavera, del 1950, sui giornali che si professano i continuatori della politica di classe tracciata dal marxismo da più di un secolo, che pretendono di seguire la linea che va dal «Manifesto dei Comunisti» a «Stato e Rivoluzione».

In fatto, anzitutto, come dicono i legulei, è poi eccezionale per il tempo borghese l’uso della forza di polizia e della repressione armata? Vi sono stabili e duraturi esempi di atmosfera di tolleranza e di distensione, di lotta nell’ambito della legalità? Che da tali periodi abbia guadagnato la causa del proletariato e del socialismo, o la causa nemica, è un’altra questione, e la risposta è parimenti negativa per il marxismo radicale. La classica polemica di Lenin e di Trotzky sul terrorismo contro Kautsky e tutti gli altri rinnegati, ha stabilito abbastanza che si debba pensare del forse unico esempio di lotta di classe tiepida, quello che va per la Germania, dalla fine delle leggi eccezionali al voto per la guerra kaiserista, in cui la grande sozialdemokratie perse tutto, ed anche l’onore. Un quarto di secolo, 1890 – 1914. L’apparenza di una vittoria vantata proletaria, la realtà della più disastrosa e vergognosa ritirata. Sulle lezioni di questo bilancio si fondò tutta la costruzione rivoluzionaria del bolscevismo, del leninismo e della terza Internazionale di Mosca.

Qui in Italia si erano fatte indigestione di regime di polizia sotto l’Austria bicipite, i Borboni, il Papa-re, i tirannelli toscani-emiliani, lo abbiamo imparato a scuola. Non meno se ne erano fatte sotto il regime sardo-piemontese nel '21 e nel '31 e così via; questo nelle scuole sabaude si diceva di meno.

Dal 1860, costituzione del borghese italo regno, si fece forse una indigestione di libertà e di tolleranza, e gli strappi furono tanto rari da gridare allo scandalo? Gli strappi furono invero i periodi in cui la polizia borghese non passeggiò e sparò per le vie e le campagne, restando sempre prontissima a farlo, fedele per tanto e classicamente benemerita.

Il costituzionale parlamentare e plebiscitistico regno è appena costituito, che deve condurre contro il brigantaggio una vera guerriglia, e non solo nel mezzogiorno. Repressione di forze reazionarie e legittimiste? Vada pure; non certo i marxisti, da quando hanno letto in Engels i tre capitoli della «Teoria della forza», si stupiscono che il nascente Stato borghese si tenga in piedi con la polizia, la mitraglia e il terrore. Comunque si intrecciano a questa pulizia dalle reliquie feudali – piuttosto ammorbante, questa polizia che mai si completa! – ogni tanto le manette all’avvocato Giuseppe Mazzini e qualche schioppettata alle gambe al cav. Giuseppe Garibaldi, quando si permettono di applicare ad litteram quell’articolo dello Statuto che autorizza il cittadino a liberamente spostarsi nel territorio nazionale.

Nel 1870 già la polizia dello Stato democratico è al lavoro decisamente verso sinistra, per moti di lavoratori dalla Romagna alla Sicilia; gli interventi si disseminano fino ai fasci siciliani del 1893 e non mancarono le leggi eccezionali di sospensione delle famose «garanzie» costituzionali.

Dovremmo rifare la storia delle lotte contro l’invio di truppe in Africa e dei fatti del 1898? Ricordare Crispi, Pelloux e compagnia, lo stato d’assedio, i tribunali militari, gli scioglimenti di partiti e soppressioni di giornali? Eccezioni, o regola del vivere al potere e al privilegio, della borghese classe dominante? Questo è il punto. Si capisce che nei momenti in cui nessuno tocca quel privilegio e minaccia quel potere, gli sbirri sono tenuti in caserma e le canne delle armi non scottano. Vige la distensione, quando uno mangia e l’altro guarda mangiare senza dir nulla. Rettifico: delegando il dire le sue ragioni ai deputati democraticamente eletti.

Come racconta l’Unità vennero per fortuna al potere «il vecchio Zanardelli e il giovane Giolitti»: perché no un salutino a colui che fu re sul mare? L’antifascismo ci ha portato a questo: apologia del giolittismo, nostalgia di quella fase di pretea distensione, che aprì con tre rivolverate giunte a segno Gaetano Bresci. Una nostalgia più limacciosa di quella del ventennio.

Ma proprio con la politica di Giolitti, con l’orgia dei lavori pubblici impetrati dalle cooperative riformiste, e col traffico dei deputati proletari nelle anticamere dei ministeri, col roseo sogno delle visite in giacchetta al Quirinale dai capi dell’Estrema, si apre la fase degli eccidi proletari, quelli sì veramente a catena. Le date formano un crescendo insostenibile, i nomi di sconosciuti paeselli: Roccagorga, Verbicaro.… passano alla storia.

Si chiamava Mussolini il capo dei socialisti, quando il proletariato rispose. E non rispose colla politica dell’appello al fronte unito di tutti gli amici della libertà, ma colla politica di forza dell’intransigente partito operaio e dei sindacati che lo seguivano, benché i deputati del partito e i capi sindacali nella maggioranza avrebbero preferito l’agitazione «in forme legali».

Non intendiamo dire che Mussolini fosse sulla piena linea marxista della «teoria della forza». Era il proletariato italiano, giunto ad un alto livello di vigore classista, che si poneva sul giusto terreno di lotta. Non sono gli individui e i capi che creano le consegne della lotta sociale; talvolta essi le interpretano. Nella forza e nella violenza Mussolini e quelli del suo stampo vedono piuttosto un fine in sé, ed un mito, idealizzano la bagarre per la bagarre, e riducono la rivoluzione al solo spumeggiare della sommossa. Nella bagarre e nella sua teoria, più che nella lunga opera rivoluzionaria, sintesi di molte e lunghe attese virili e di poche fulminati decisioni, che non sono di capi ma della storia, scorgono i mezzi uomini la via senza attributo per salire al Whalalla della pubblicità. Nel gennaio del 1913 per dirne una, militanti di sinistra già dovettero richiamare Mussolini per la apologia di un moto di Napoli contro il decreto catenaccio del dazio (Giolitti, va sans dire) che, si vide i lavoratori in piazza a fronte della sbirraglia, aveva alla testa un comitato di fronte unico in cui, oltre si capisce ai partiti «popolari», erano le associazioni di commercianti ed industriali! Mussolini fece ammenda, ma non si tratta di lui.

Al prossimo eccidio lo sciopero generale! La consegna rimane storica fu parafrasata pochi anni dopo da Claudio Treves alla Camera, osando benché riformista sfidare l’ira della canea patriottarda: al prossimo inverno non più in trincea! Divenne così il responsabile del getto dei fucili a Caporetto: non contano nulla le tendenziali ideologie dei capi proletari quando le fasi della lotta sono mature, e lo spiega Engels quando mostra il significato marxista delle misure della Comune, guidata da proudhonisti e blanquisti. Ma questa difficile elaborazione del giusto metodo costa alla classe rivoluzionaria tragiche prove.

L’eccidio venne alla Villa Rossa di Ancona e venne lo sciopero generale nazionale proclamato ad oltranza, ossia senza il termine coglione delle ore 18 o delle ore 24. È evidente che nello sciopero la polizia spara di nuovo e di nuovo uccide.

Oggi si fa dello sciopero ad ora fissa, ad ondata, a singhiozzo, a catena, a rovescio, un mezzo per agitare la «rivendicazione» della polizia senza armi in piazza, dell’autodisarmo dello Stato borghese!

Lo sciopero generale politico, per i marxisti rivoluzionari, sulla via che va dalla settimana rossa nostra del 1914 alla tanto più grande settimana rossa dell’Ottobre di Leningrado, non corre allo sbocco ipocrita della distensione, o della polizia distributrice di caramelle, ma al l’armamento del proletariato e alla distruzione della polizia di classe borghese.

La settimana rossa si chiuse tra il tremore della borghesia, che più che grazie al Cristo ed al questore le dovette rendere al riformistame confederale. Non poteva essere la rivoluzione. Anche il titolo dell’articolo dell’Avanti! è rimasto storico – merita l’aggettivo più di tante porcherie dello stesso autore e di altri – «Tregua d’armi». Il significato delle lotte proletarie deve essere nel loro concatenamento verso una lotta finale; esse non perseguono un equilibrio tra le forze dei due contendenti ma l’abbattimento della classe nemica. La lotta colle armi può avere soste, ma non rinunzie. Qualunque «buona condotta» costituzionale del regime borghese non toglie che i proletari preparino la guerra sociale, per giungere a prenderne l’iniziativa nel momento storicamente favorevole allo sviluppo rivoluzionario.

Venne la guerra, venne il fascismo; queste forme di impiego del potere di Stato meriterebbero la maggiore analisi, ma comunemente non sono adoperate contro la nostra tesi del borghese «sbirrismo permanente».

Prima di chiudere questa scorsa lasciamo per un momento l’Italia. Vediamo cosa dice Engels nel 1891 sulla Francia, nella prefazione alle «Guerre civili». Egli mostra inseparabile dal regime sociale e politico capitalistico la esistenza e la virulenza crescente dell’apparato di potere esecutivo. Questo giganteggia nella prima rivoluzione, nella costruzione napoleonica, traverso la monarchia orleanistica e borbonica e, possiamo dire noi, nelle quattro o cinque con quella che annuncia De Gaulle e che non sarà meno ricca di «guardiens de la paix», democratiche repubbliche. Quando queste sorgono i borghesi di opposizione hanno sempre bisogno del proletariato di Parigi.
«Nessuna rivoluzione è potuta scoppiare dal 1789 in Francia senza assumere un carattere proletario: di guisa che il proletariato, come quello che la vittoria aveva acquistata a prezzo del suo sangue, si presentava con pretese sue… più o meno confuse all’inizio, si appuntavano nella richiesta di farla finita con la diversità di classe tra i capitalisti e i lavoratori… gli operai erano tuttavia armati… per i borghesi il disarmo degli operai era la prima condizione. Ecco quindi sorgere ad ogni rivoluzione guerreggiata dagli operai una nuova lotta, la quale finisce colla disfatta dei lavoratori».
Questa la storia del 1848 e della feroce repressione di polizia e militare condotta nel giugno dalla repubblica borghese che aveva vinto in febbraio grazie agli operai:
«Dopo cinque giorni di eroico combattimento, gli operai vennero sopraffatti. Ne segui un vero bagno di sangue tra i prigionieri inermi, del quale il simile non era veduto dal tempo delle guerre civili che preludiarono al tramonto della repubblica romana. Fu la prima volta che la borghesia mostrò a quale dissennata crudeltà di vendetta essa può venire incitata appena che il proletariato osi mostrarsi in faccia a lei come classe a sé, con propri interessi e proprie esigenze. Eppure il 1848 non fu che un gioco da ragazzi in confronto della bufera che infuriò nel 1871».

Oggi

La storia ha quindi insegnato che più gli operai danno appoggio alle lotte democratiche della borghesia, più ne sono ripagati col massacro. Ma se nel 1852, nel 1871 e nel 1917 si trattò di capire tale insegnamento, lo scandalo per quanto avviene dopo lo schifoso blocco proletario-borghese nella cosiddetta lotta partigiana, la sorpresa per l’uso che fa la borghesia dell’apparato esecutivo e poliziesco, non si possono più spiegare con la incomprensione delle lezioni della storia, ma solo col tradimento e l’aperta complicità.

Se adunque della lezione dei fatti in Francia, in Italia, in Russia e ovunque, noi passiamo ai problemi della lotta rivoluzionaria operaia, non è possibile non vedere che la esistenza di un potere organizzato ed armato negli stati moderni rappresenta la normale e permanente disposizione della classe capitalistica all’impiego della violenza, anche più sanguinosa, per conservare il proprio dominio e privilegio sociale. È la essenza dello Stato, la regola e la norma, non la eccezione, del suo funzionamento.

Il centro dell’insegnamento di Marx e di Lenin sta nel dimostrare impossibile la esistenza di un potere statale neutrale ed equidistante dagli interessi delle opposta classi, sta più ancora nel dimostrare che chi, in presenza dei mostruosi stati moderni che hanno fatto guerre spaventose e gonfiato a dismisura i loro apparati, ripete questo postulato e invoca costituzioni superclassista, non è soltanto un cattivo lettore nel libro della storia, ma è un servitore della borghesia quanto il poliziotto che spara; anzi meno coerente, e alla fine più ignobile e più efficace.

Lenin, scrivendo nel 1917, sembra aver letto i giornali dei leninisti del 1950. Udite:
«I democratici piccolo-borghesi, cotesti sedicenti socialisti che hanno sostituito alla lotta di classe i loro sogni sull’intesa tra le classi, si sono parimenti figurata la trasformazione socialista come una specie di sogno, non nella forma del rovesciamento della classe sfruttatrice, ma nella forma di una sottomissione pacifica della minoranza alla maggioranza cosciente dei suoi compiti. Questa utopia piccolo-borghese, indissolubilmente legata al riconoscimento di uno Stato al di sopra delle classi, è finita in pratica con il tradimento degli interessi delle classi lavoratrici, come l’ha mostrato, per esempio, la storia delle rivoluzioni francesi del 1848 e del 1871, come l’ha mostrato l’esperienza della partecipazione «socialista» ai ministeri borghesi in Inghilterra, in Francia, in Italia e altrove, alla fine del XIX secolo e al principio del XX».
E dice ancora Lenin con forza che
«per tutta la vita Marx ha lottato contro questo socialismo piccolo-borghese, sviluppando in maniera conseguente la dottrina della lotta di classe fino ad una dottrina del potere politico dello Stato». «La dottrina della lotta di classe applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, conduce necessariamente al riconoscimento del dominio politico del proletariato, della sua dittatura, cioè di un potere che non condivide con nessuno, e che si appoggia direttamente sulla forza armata delle masse… per schiacciare la resistenza inevitabile e disperata della borghesia».

Discendiamo dal puro ossigeno nella muffitica anidride carbonica della propaganda staliniana. Sentiremo rivendicare la inserzione degli interessi materiali della masse nel costituzionale ordine dello Stato! Sentiremo a questo contestare che basta il rispetto della carta statutaria ad assicurargli la disarmata distensione da parte delle masse. Vedremo che si è votato il disarmo di queste, e gridato e affisso i «Viva la polizia», che si chiede passeggi inerme (lo faceva ad armi scariche in tempo fascista). Vedremo che per rimedio a tutto si propone di condividere il potere non solo con Einaudi, Nitti od Orlando, ma con lo stesso De Gasperi.

Noi crediamo che gli operai avanzati, i militanti del marxismo rivoluzionario, quelli che abbracciarono la causa socialista leggendone la tesi sia nel fragore delle officine che tra le pagine della Prefazione alla Critica dell’Economia politica e della Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, in partenza si non sarebbero ingaggiati se si fosse parlato di un movimento per presidiare gli sgarri della legalità e della costituzionalità, porre al traguardo la pace di classe e la distensione, minacciare sì come eccezione il ricorso alla forza e all’azione popolare, ma solo nel caso che si dovesse raccogliere la provocazione del potere esecutivo se esorbitava dalle sue facoltà o si metteva contro quello legislativo. Per questo bastava nascere nelle botteghe dei droghieri e studiare nelle pagine romantiche di Victor Hugo.

«La migliore garanzia della libertà è il fucile nelle mani dell’operaio».
Garanzia per la libertà borghese e quindi per l’ordine borghese. Appena il fucile degli operai non servì più contro i ritorni restauratori feudali, fu loro tolto e usato contro di loro.

Noi da allora diciamo:
«La sola garanzia per togliere per sempre la libertà ai borghesi, libertà di sfruttare ed opprimere, è il fucile nelle mani dell’operaio, è la rottura dell’apparato esecutivo dello Stato legale».

Sappiamo da allora che la violenza borghese è scientificamente scontata. Non è sorpresa, eccezione, scandalo o provocazione. È la «resistenza inevitabile e disperata», definita da Lenin, alla iniziativa rivoluzionaria nell’ora suprema dell’assalto. Nell’ordine garantito e nella tranquillità della piazza, sta per noi permanente la violenza borghese in ogni atto distributivo, molecolare, secondo le leggi dell’economia privata. Per rompere questo equilibrio, complesse e contrastanti che siano le vicende degli urti, degli scontri, delle avanzate e delle ritirate di classe, la vittoria del proletariato dovrà ad un certo punto fondarsi sulla proclamata iniziativa, colpendo il momento utile per provocare il nemico borghese alla battaglia. I rivoluzionari vinceranno quando sapranno essere loro i provocatori. Se provocazione vuol dire attirare il nemico in uno scontro preparato per sopraffarlo, allora proprio alle provocazioni avversarie non si risponde con una violenza inutile e disfattista.

Scelba fa il suo mestiere di sbirro, e se provoca i suoi avversari, peggio per quelli che gli hanno fatto la strada ad essere più forte di loro, peggio per la strategia imbecille che ha fatto il gioco del potere capitalistico in tutte le azioni balordamente impostate, dalla guerra in Spagna, alle tante resistenze su cui si è costruita la presente dittatura delle forze mondiali del capitale.

Fummo noi gli iniziatori e i provocatori fortunati una volta, con Lenin, che lasciando a mezzo le pagine del profondo studio sulla dottrina marxista dello Stato, provocò i borghesi e i socialtraditori russi con una telefonata dall’Istituto Smolny, e gli operai e i marinai ribelli di Leningrado spezzarono loro la schiena.

Tutta la questione della fase imperiale totalitaria del capitalismo e dei «fascismi» è stata quindi alla rovescia; a partire da Zinoviev nel 1922 fino agli esemplari più pericolosi, i «trotzkisti» di oggi, secondo i quali in dottrina va tutto bene, ma siccome le masse credono alla fiaba della reazione e della provocazione, lì bisogna far leva per vincere il terno al lotto. Non vedono che ci fanno invece leva magnificamente, malgrado cento anni di lavoro politico di partito i socialtraditori.

Bisogna gioire e non querimoniare che fosse giunto il tempo in cui la borghesia sentiva il bisogno di schierarsi e di mobilitare il suo apparato esecutivo per la «resistenza disperata» tanto attesa.

Nel chiudere il «18 brumaio» Marx descrive in maniera lapidaria questo formarsi dell’apparato esecutivo di polizia – non certo «sul vuoto» ma a difesa del privilegio borghese – quasi fuori e contro tutta la società. Occorreva Lenin perché riuscissero chiare le parole: il potere esecutivo in contrasto con l’Assemblea legislativa, esprime l’eteronomia della nazione, in contrasto alla sua autonomia (ossia alla funzione costituzionale borghese). Ma con ciò è data partita vinta alla teoria rivoluzionaria, e, se non ci fossero i traditori, al partito veramente rivoluzionario e non sporcamente piagnone.

E il vecchio Marx si fa ancora una volta citare da Vladimiro Ilic:
«Ma la rivoluzione va al fondo delle cose. Attualmente la sua strada attraversa ancora il Purgatorio. Essa conduce i suoi affari con metodo. Fino al 2 dicembre 1851 (poniamo al 28 ottobre 1922) essa non aveva fatto che metà del suo lavoro: si occupò da questo momento dell’altra metà. Per prima cosa, aveva perfezionato il potere del Parlamento perché fosse possibile (a Luigi, a Benito) di rovesciarlo. Ora che ha raggiunto questo scopo, perfeziona il potere esecutivo, lo riduce alla più semplice espressione, lo isola e lo oppone a sé, ne fa l’unica ragione di sventura, per poter concentrare contro di esso tutte le sue forze distruttrici (sottolineato da me, Vladimiro annota). E quando avrà portato a termine la sua opera preparatoria, l’Europa si alzerà in piedi e le griderà nella sua gioia: ‹Vecchia talpa, come hai tu bene scavato!!›.»

Questa gioia rivoluzionaria si mutò nella costernazione imbecille ed aventiniana degli «scandalisti», dei «provocazionisti», di tutti quelli che accorsero sotto la bandiera del «Viva la libertà», ed un presidente dell’Internazionale pagò davanti al plotone di esecuzione la colpa di non aver capito che questo significava: «Viva la borghesia!».

Questa è la dialettica della commedia umana e sociale: Inferno: democrazia parlamentare. Purgatorio: regime borghese di polizia; Paradiso: dittatura del proletariato.

Lavorerà ancora, con costanza secolare, la vecchia talpa del vecchio Marx. Lavorerà nel sottosuolo incoerente su cui si fondano le vertiginose acciaiate strutture della potenza capitalistica, sebbene tante volte il duro lavoro sia stato distrutto dalle «zoccole» giovani o mature della politica di mestiere.


Source: «Battaglia Comunista», n.7 del 1950

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