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AUSCHWITZ, OVVERO IL GRANDE ALIBI


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Auschwitz, ovvero il grande alibi
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Auschwitz, ovvero il grande alibi

La stampa di sinistra ci mostra nuovamente che il razzismo, ed essenzialmente l’antisemitismo, costituisce in un certo senso il Grande Alibi dell’antifascismo: è la sua bandiera favorita e al tempo stesso il suo ultimo rifugio nella discussione. Chi resiste all’evocazione dei campi di sterminio e dei forni crematori? Chi non si inchina davanti ai sei milioni di ebrei assassinati? Chi non freme davanti al sadismo dei nazisti? Tuttavia siamo di fronte a una delle più scandalose mistificazioni dell’antifascismo, e per questo dobbiamo smontarla.

Un recente manifesto del M.R.A.P. (Movimento contro il Razzismo, l’Antisemitismo e per la Pace) attribuisce al nazismo la responsabilità della morte di cinquanta milioni di esseri umani di cui sei milioni di ebrei. Questa posizione, identica a quella del «fascismo guerrafondaio» dei sedicenti comunisti, è tipicamente borghese.

Rifiutandosi di vedere nel capitalismo stesso la causa delle crisi e dei cataclismi che sconvolgono periodicamente il mondo, gli ideologi borghesi e riformisti hanno sempre preteso di spiegarli con la malvagità degli uni o degli altri. Si vede qui l’identità fondamentale tra le ideologie (se così si può dire) fasciste e antifasciste: entrambe proclamano che sono i pensieri, le idee, le volontà dei gruppi umani che determinano i fenomeni sociali.

Contro queste ideologie, che noi chiamiamo borghesi perché sono le ideologie di difesa del capitalismo, contro tutti questi «idealisti» passati, presenti e futuri, il marxismo ha dimostrato che sono, al contrario, i rapporti sociali che determinano i movimenti ideologici. È qui la base stessa del marxismo, e per rendersi conto di fino a che punto i nostri pretesi marxisti l’hanno rinnegato, è sufficiente vedere che per loro tutto passa attraverso le idee: il colonialismo, l’imperialismo, il capitalismo stesso, non sono che degli stati mentali.

Cosicché tutti i mali di cui soffre l’umanità sono dovuti a malvagi fomentatori: di miseria, d’oppressione, di guerra, etc. Il marxismo ha dimostrato che, al contrario, la miseria, l’oppressione, le guerre e le distruzioni, ben lungi dall’essere dovute a volontà deliberate e malefiche, fanno parte del funzionamento «normale» del capitalismo. Ciò si applica in particolare alle guerre dell’epoca imperialista. Vi è un punto che svilupperemo più ampiamente a causa dell’importanza che presenta per il nostro argomento: è quello della distruzione.

Anche quando i nostri borghesi e riformisti riconoscono che le guerre imperialiste sono dovute a conflitti di interessi, essi restano largamente al di sotto della comprensione del capitalismo. Si veda la loro incomprensione del significato della distruzione. Per loro il fine della guerra è la Vittoria, e le distruzioni di uomini e di impianti dell’avversario non sono che mezzi per giungere a questo fine. Tanto che alcuni ingenui prevedono delle guerre fatte a colpi di sonnifero! Noi abbiamo dimostrato che la distruzione è, invece, il fine principale della guerra. Le rivalità imperialiste che sono la causa diretta delle guerre, non sono esse stesse che la conseguenza della sovrapproduzione sempre crescente.

Il motore della produzione capitalistica è in effetti costretto a «imballarsi» a causa della caduta del saggio di profitto e la crisi nasce dalla necessità di accrescere senza posa la produzione e dall’impossibilità di smaltire i prodotti. La guerra è la massima soluzione capitalistica della crisi; la distruzione massiccia d’impianti, di mezzi di produzione e di prodotti, permette alla produzione di riprendersi, e la distruzione massiccia di uomini rimedia alla «sovrappopolazione» periodica che va di pari passo con la sovrapproduzione.

Bisogna proprio essere un illuminato piccolo borghese per credere che i conflitti imperialistici potrebbero risolversi altrettanto bene con una partita a carte o attorno a una tavola rotonda, e che le enormi distruzioni e la morte di decine di milioni di uomini siano dovute soltanto all’ostinazione degli uni, alla malvagità degli altri e alla cupidigia di altri ancora.

Già nel 1844, Marx, rimproverava agli economisti borghesi di considerare la cupidigia come innata invece di spiegarla e dimostrava perché i cupidi erano costretti ad essere tali. Ed è fin dal 1844 che il marxismo ha dimostrato quali sono le cause della «sovrappopolazione»:
«La domanda di uomini regola necessariamente la produzione di uomini, come di qualsiasi altra merce» (K. Marx, «Manoscritti»). «Se l’offerta supera largamente la domanda, una parte dei lavoratori cade nella mendicità o muore di fame», scrive Marx. Ed Engels: «Non vi è sovrappopolazione che dove vi sono troppe forze produttive in generale» e «… [abbiamo visto] che la proprietà privata ha fatto dell’uomo una merce, la cui produzione e la cui distruzione dipendono unicamente dalla domanda; ché la concorrenza in questo modo ha assassinato e quotidianamente assassina milioni di uomini…» (F. Engels, «Abbozzo di una critica dell’economia politica»).
L’ultima guerra imperialista, lungi dallo smentire il marxismo e da giustificare la sua «revisione», ha confermato l’esattezza delle nostre analisi.

Era necessario ricordare questi punti prima di occuparci dello sterminio degli ebrei. Questo ha avuto luogo non in un periodo qualunque ma in piena crisi e guerra imperialiste. È dunque all’interno di questa gigantesca impresa di distruzione che bisogna spiegarlo. In questo modo il problema diventa chiaro; non dobbiamo più spiegare il «nichilismo distruttore» dei nazisti, ma perché la distruzione si è concentrata in parte sugli ebrei.

Su questo punto nazisti e antifascisti sono d’accordo: è il razzismo, l’odio per gli ebrei, è una «passione», libera e feroce, che ha causato la loro morte. Ma noi marxisti sappiamo che non vi è passione sociale che sia libera, che nulla è più determinato di questi grandi movimenti di odio collettivo. Vedremo che lo studio dell’antisemitismo dell’epoca imperialista non fa che illustrare questa verità.

È a ragion veduta che noi diciamo «antisemitismo dell’epoca imperialista»; poichè, nonostante gli idealisti di ogni tipo (dai nazisti ai teorici «ebraici»), considerino l’odio per gli ebrei uguale in tutti i tempi e luoghi, noi sappiamo che non è affatto vero.

L’antisemitismo dell’epoca attuale è totalmente differente da quello dell’epoca feudale. Non possiamo sviluppare qui la storia degli ebrei, che il marxismo ha interamente spiegato. Noi sappiamo perché la società feudale ha mantenuto gli ebrei come tali; noi sappiamo che se le borghesie più forti, quelle che hanno potuto fare presto la loro rivoluzione politica (Inghilterra, Stati Uniti, Francia) hanno quasi interamente assimilato i loro ebrei, le borghesie più deboli non hanno potuto farlo. Non dobbiamo spiegare qui la sopravvivenza degli «ebrei», ma l’antisemitismo dell’epoca imperialista. E non sarà difficile spiegarlo se, invece di occuparci della natura degli ebrei o degli antisemiti, noi considereremo la loro posizione nella società.

In seguito alla loro storia gli ebrei si trovano oggi essenzialmente nella media e piccola borghesia. Ora questa classe è condannata dall’avanzata irresistibile della concentrazione del capitale. È questo fatto che ci spiega come essa sia all’origine dell’antisemitismo, il quale non è, come ha detto Engels,
«null’altro che una reazione di strati sociali feudali, votati a scomparire, contro la società moderna che si compone essenzialmente di capitalisti e di salariati. Serve soltanto a obiettivi reazionari sotto un velo apparentemente socialista».

La Germania del periodo tra le due guerre ci mostra questa situazione a uno stadio particolarmente acuto. Il capitalismo tedesco, scosso dalla guerra, dalla spinta rivoluzionaria del 1918–1928, sempre minacciato dalla lotta del proletariato, subisce profondamente la crisi mondiale del dopoguerra. Mentre le borghesie vittoriose più forti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia) furono colpite relativamente poco, e superarono facilmente la crisi del «riadattamento dell’economia alla pace», il capitalismo tedesco cadde nel marasma completo. Si può dire che furono la piccola e la media borghesia a patirne maggiormente, come in tutte le crisi che conducono alla proletarizzazione delle classi medie e a una maggiore concentrazione del capitale, attraverso l’eliminazione di una parte delle piccole e medie imprese. Ma qui la situazione era tale che i piccolo-borghesi rovinati, falliti, espropriati, liquidati, non potevano neppure finire nel proletariato, colpito esso stesso duramente dalla disoccupazione (7 milioni di disoccupati al culmine della crisi): essi cadevano dunque direttamente nella condizione di miserabili, condannati a morire di fame appena esaurite le loro riserve. È per reazione a questa terribile minaccia che la piccola borghesia ha «inventato» l’antisemitismo. Non già, come dicono i metafisici, per spiegare le disgrazie che la colpiscono, quanto per tentare di preservarsene concentrandole su uno dei suoi gruppi.

All’orribile pressione economica, alla minaccia di distruzione estesa che rendevano incerta l’esistenza di ogni suo membro, la piccola borghesia reagiva sacrificando una delle sue parti, sperando così di salvare e di assicurare l’esistenza alle altre. L’antisemitismo non deriva né da un «piano machiavellico» né da «idee perverse»: scaturisce precisamente dalla costrizione economica.[1] L’odio per gli ebrei è ben lontano dall’essere la causa prima della loro distruzione, non è che l’espressione del desiderio di delimitare e di concentrare su di loro la distruzione. Succede a volte che gli operai stessi giungano al razzismo. Ciò avviene quando, minacciati da una disoccupazione massiccia, essi tentano di farla concentrare su certi gruppi: italiani, polacchi o altri méteques (stranieri), bicots (arabi), negri, etc. Ma nel proletariato queste tendenze hanno luogo solo nei peggiori momenti di demoralizzazione, e non durano. Nel momento in cui entra in lotta il proletariato vede chiaramente e concretamente dove è il suo nemico: il proletariato è una classe omogenea che ha una prospettiva e una missione storiche.

La piccola borghesia, al contrario, è una classe storicamente condannata. Nello stesso tempo essa è anche condannata a non poter comprendere nulla, a essere incapace di lottare: non può che dibattersi ciecamente nella macchina che la stritola. Il razzismo non è un’aberrazione dello spirito: è e sarà la reazione piccolo-borghese alla pressione del grande capitale. La scelta della «razza», vale a dire del gruppo sul quale si cerca di concentrare l’opera di distruzione, dipende evidentemente dalle circostanze. In Germania gli ebrei presentavano i «requisiti» del caso ed erano i soli ad averli: essi erano quasi esclusivamente dei piccolo-borghesi, e, in questa piccola borghesia, il solo gruppo sufficientemente identificabile. Solamente su di loro la piccola borghesia poteva incanalare la catastrofe.

Era in effetti necessario che l’identificazione non presentasse difficoltà: bisognava potere definire esattamente chi sarebbe stato distrutto e chi risparmiato. Da ciò quella detrazione dal totale di coloro che avevano i nonni battezzati, che, in contraddizione flagrante con le teorie della razza e del sangue, sarebbe sufficiente a dimostrarne l’incoerenza. Si trattava proprio di logica! Il democratico che si accontenta di dimostrare l’assurdità e l’ignominia del razzismo come d’abitudine non coglie il problema reale.

Incalzata dal capitale, la piccola borghesia tedesca ha dunque gettato gli ebrei ai lupi per alleggerire la propria slitta e così salvarsi. Naturalmente non in maniera cosciente, ma era questo il significato del suo odio per gli ebrei e della sua soddisfazione per la chiusura e il saccheggio delle loro botteghe. Bisogna dire che per parte sua il grande capitale era felicissimo di quanto accadeva: esso poteva liquidare una parte della piccola borghesia con il consenso della piccola borghesia. Meglio ancora: era la stessa piccola borghesia che si incaricava di questa liquidazione. Ma questa maniera «personalizzata» di presentare il capitale non è che una cattiva immagine: come la piccola borghesia, il capitalismo non sa ciò che fa. Egli subisce la costrizione economica e segue passivamente le linee di minor resistenza.

Non abbiamo parlato del proletariato tedesco. Ciò perché non è intervenuto direttamente in questa faccenda. Esso era stato sconfitto e, ben inteso, la liquidazione degli ebrei non ha potuto essere realizzata che dopo la sua sconfitta. Ma le forze sociali che hanno condotto a questa liquidazione esistevano prima della disfatta del proletariato. Lasciando le mani libere al capitalismo, questa disfatta ha semplicemente permesso alle forze sociali di «realizzarsi».

È allora che è iniziata la liquidazione economica degli ebrei: espropriazione in tutte le forme, interdizione dalle professioni liberali, dall’amministrazione, ecc. Poco a poco gli ebrei vengono privati di tutti i mezzi di esistenza: essi possono vivere solo con le riserve che hanno potuto salvare. Durante tutto questo periodo, che va fino alla vigilia della guerra, la politica nazista verso gli ebrei si riassume in due parole: Juden raus! Ebrei fuori! Si cerca con tutti i mezzi di favorirne l’emigrazione. Ma se i nazisti non cercavano che di sbarazzarsi degli ebrei non sapendo che farne, e se gli ebrei, dal canto loro, non domandavano altro che di andarsene dalla Germania, nessuno altrove li voleva accogliere. Ciò non è sorprendente, perché nessuno poteva accoglierli: non vi era un solo paese capace di assorbire e di mantenere diversi milioni di piccolo-borghesi rovinati. Solo una piccola parte di ebrei poté partire. I più rimasero, loro malgrado e malgrado i nazisti. In un modo o nell’altro, con l’esistenza in sospeso.

La guerra imperialista aggravò la situazione sia quantitativamente che qualitativamente. Quantitativamente perché il capitalismo tedesco, obbligato a ridurre la piccola borghesia per concentrare nelle sue mani il capitale europeo, intraprese la liquidazione degli ebrei di tutta l’Europa centrale. L’antisemitismo aveva fatto le sue prove: non c’era che da continuare. Ciò rispondeva, d’altronde, all’antisemitismo indigeno dell’Europa centrale benché quest’ultimo fosse più complesso (una orribile mistura di antisemitismo feudale e piccolo-borghese, nella cui analisi non possiamo qui entrare).

Al tempo stesso la situazione si era aggravata qualitativamente. Le condizioni di vita erano rese assai più dure dalla guerra; le riserve degli ebrei si esaurivano; essi erano condannati a morire di fame in breve tempo. In tempi «normali», e quando si tratta di un piccolo numero, il capitalismo può lasciar crepare da soli gli uomini respinti dal processo di produzione. Ma era impossibile fare ciò in piena guerra e per milioni di uomini: un tale «disordine» avrebbe paralizzato tutto. Bisognava che il capitalismo organizzasse la loro morte.

D’altronde non li uccise di colpo. Per cominciare furono ritirati dalla circolazione, raggruppati, concentrati. E li fece lavorare sottoalimentandoli, cioè sovrasfruttandoli a morte. Uccidere l’uomo di lavoro è un vecchio metodo del capitale. Marx scriveva nel 1844:
«Per essere condotta con successo, la guerra industriale esige numerose armate che si possano ammassare in un punto e abbondantemente decimare» («Manoscritti»).[2]
Occorreva d’altronde che questa massa sostenesse le spese per la propria vita, finché viveva, e quelle per la morte in seguito. E che producesse plusvalore fino a che ne fosse in grado. Perché il capitalismo non può procedere all’esecuzione di uomini che ha condannato se non ne ricava profitto. Ma l’uomo è coriaceo. Anche se ridotti allo stato di scheletro gli ebrei non morivano abbastanza in fretta. Bisognava massacrare quelli che non potevano più lavorare, poi quelli di cui non si aveva più bisogno perché gli sviluppi della guerra rendevano la loro capacità di lavoro inutilizzabile.

Il capitalismo tedesco si è, d’altra parte, rassegnato a fatica all’assassinio puro e semplice. Non certo per umanitarismo, ma perché non ricavava nulla. È così che è nata la missione di Joel Brand di cui parleremo perché mette bene in luce la responsabilità del capitalismo mondiale. Joel Brand era uno dei dirigenti di un’organizzazione semiclandestina degli ebrei ungheresi. Quest’organizzazione cercava di salvare gli ebrei con tutti i mezzi: nascondigli, emigrazione clandestina, e anche corruzione di SS. Le SS del Juden-Kommando tolleravano queste organizzazioni che tentavano più o meno di utilizzare come «ausiliarie» per le operazioni di rastrellamento e di smistamento.

Nell’aprile del 1944, Joel Brand fu convocato al Juden-Kommando di Budapest per incontrare Eichmann, che era il capo dell’ufficio per le questioni ebraiche delle SS. Eichmann, con l’accordo di Himmler, l’incaricò di questa missione: recarsi presso gli anglo-americani per negoziare la vendita di un milione di ebrei. Le SS domandavano in cambio 10 000 autocarri, ma erano pronte a tutti i mercanteggiamenti, tanto sul tipo che sulla quantità delle merci. Di più proponevano la consegna immediata di 100 000 ebrei al momento dell’accordo per dimostrare la loro buona fede. Era un’affare serio.

Disgraziatamente l’offerta esisteva ma non esisteva la domanda! Non solamente gli ebrei ma anche le SS si erano lasciate prendere dalla propaganda umanitaria degli Alleati. Gli Alleati non volevano questo milione di ebrei. Né per 10 000 autocarri, né per 5000, né per altro.

Qui non possiamo entrare nei dettagli delle disavventure di Joel Brand. Egli partì per la Turchia e finì nelle prigioni inglesi del Medio Oriente. Gli Alleati rifiutarono di «prendere sul serio quest’affare», facendo di tutto per screditarlo e soffocarlo. Finalmente Joel Brand incontrò al Cairo Lord Moyne, ministro di Stato britannico per il Medio Oriente. Egli lo supplicò di ottenere almeno un accordo scritto che, anche se non rispettato, avrebbe permesso almeno la salvezza delle 100 000 persone.

«E quale sarà il numero totale?»
«Eichmann ha parlato di un milione».
«Come potere immaginare una cosa simile, signor Brand? Che farò di questo milione di ebrei? Dove li metterò? Chi li accoglierà?»
«Se la Terra non ha più posto per noi, non ci resta che lasciarci sterminare», disse Brand disperato.[3]

Le SS furono più lente a capire: esse credevano agli ideali dell’Occidente! Dopo lo scacco della missione di Joel Brand e durante lo sterminio, esse tentarono ancora di vendere degli ebrei al Joint (organizzazione degli ebrei americani), versando persino un «acconto» di 1700 ebrei in Svizzera. Ma, a parte le SS, nessuno ci teneva a concludere questo affare.

Joel Brand aveva invece compreso, o quasi. Aveva compreso dove portava la situazione, ma non perché. Non era la Terra a respingerli ma la società capitalistica. Non in quanto ebrei, ma perché respinti dal processo di produzione, inutili alla produzione. Lord Moyne fu assassinato da due terroristi ebrei, e Joel Brand apprese più tardi che costui aveva sovente compatito il tragico destino degli ebrei:
«La sua politica era dettata dall’amministrazione inumana di Londra».
Ma Brand, che citiamo per l’ultima volta, non aveva compreso che questa amministrazione inumana non è che l’amministrazione inumana del capitale, e che è il capitale ad essere inumano. Il capitale non sapeva che fare di questa gente. E non ha neppure saputo che fare dei rari sopravvissuti, condotti alla condizione di «esuli» che non si sapeva dove ricollocare.

Gli ebrei sopravvissuti sono riusciti finalmente a trovarsi un posto. Con la forza, e approfittando della congiuntura internazionale, lo Stato d’Israele è stato costituito. Ma anche ciò è stato possibile solo rendendo esuli altre popolazioni: centinaia di migliaia di rifugiati arabi conducono da allora un’esistenza precaria (perchè inutile al capitale) nei campi di raccolta.

Abbiamo visto come il capitalismo abbia condannato a morte milioni di uomini respingendoli dalla produzione. Abbiamo visto come li ha massacrati estraendo da essi tutto il plusvalore possibile. Ci resta da vedere come li sfrutti ancora dopo la loro morte, come sfrutti la loro stessa morte.

Sono innanzitutto gli imperialisti del campo alleato che se ne sono serviti per giustificare la loro guerra e per giustificare dopo la vittoria il trattamento infame inflitto al popolo tedesco. Si sono precipitati sui campi e sui cadaveri diffondendone ovunque le raccappriccianti fotografie ed esclamando: guardate che porci sono questi Crucchi! Come abbiamo avuto ragione di combatterli! E come abbiamo ora ragione a fargli passare la voglia di ricominciare! Quando si pensa agli innumerevoli crimini dell’imperialismo, quando si pensa, ad esempio, che nello stesso momento (1945) in cui i nostri Thorez cantavano vittoria sul fascismo, 45 000 algerini (provocatori fascisti!) cadevano sotto i colpi della repressione; quando si pensa che è il capitalismo mondiale il responsabile di questi massacri, l’ignobile cinismo di questa soddisfatta campagna dà veramente la nausea.

Nello stesso tempo anche tutti i nostri bravi democratici antifascisti si sono gettati sui cadaveri degli ebrei. E li agitano sotto il naso del proletariato. Per fargli sentire l’infamia del capitalismo? No, al contrario: per fargli apprezzare, per contrasto, la vera democrazia, il vero progresso, il benessere di cui esso gode nella società capitalistica. Gli orrori della morte capitalistica devono far dimenticare gli orrori della vita capitalistica e il fatto che essi sono indissolubilmente negati fra di loro. Gli esperimenti dei medici SS dovevano far dimenticare che il capitalismo compie la sua gigantesca «sperimentazione» quotidiana con i prodotti concerogeni, gli effetti dell’alcolismo sull’ereditarietà, la radioattività delle bombe «democratiche». Se si mostrano le abat-jour di pelle umana è per far dimenticare che il capitalismo ha trasformato l’uomo vivente in abat-jour. Le montagne di capelli, i denti d’oro, i cadaveri divenuti merce, devono far dimenticare che il capitalismo ha fatto dell’uomo vivente una merce. È il lavoro, la vita stessa dell’uomo, che nel capitalismo è merce.

Sta in ciò l’origine di tutti i mali. Utilizzare i cadaveri delle vittime del capitale per tentare di nascondere questa verità, servirsi di questi cadaveri per proteggere il capitale, è il modo più infame di sfruttarli fino in fondo.

Notes:
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  1. Il «Corriere della Sera» del 31 dicembre 1987 riporta un’interpretazione attribuita a un certo Rainer Reinhart, vicepresidente del settore amministrativo del VII distretto bavarese il quale, su un manuale di amministrazione militare, avrebbe definito lo sterminio organizzato come «vittoria dei principii di economicità». Si legge nel manuale:
    «Si pone la questione di carattere fondamentale se l’economia, intesa come principio formale, in caso di un potere dedicato al servizio del benessere pubblico, possa essere applicato universalmente. Se noi consideriamo tutto ciò partendo dal principio che il fine giustifica i mezzi, allora anche l’uso del gas venefico per lo sterminio di massa degli ebrei invece di una lunga serie di esecuzioni individuali è stata un’applicazione del principio di economicità».
    Nonostante si tratti di un evidente paradosso che porta alle estreme conseguenze, nell’ambito di un certo sistema di riferimento, il cosiddetto principio di economicità, l’osservazione non è peregrina. Si tratta di vedere, appunto, quali sono i limiti, vale a dire il sistema di riferimento, entro i quali si applica il supposto principio. Il capo della comunità israelita di Berlino Ovest, Heinz Galinski, ha reagito dichiarando che il brano incriminato
    «è carico di disprezzo per la memoria delle vittime dell’olocausto e fornisce la prova di un modo di pensare antidemocratico».
    Aggiunge il «Corriere»:
    «L’imbarazzo delle autorità militari è temperato dal fatto che, anche se di largo uso, il manuale non è adottato ufficialmente».
    L’economicità non è un «principio universale», ma se il sistema di riferimento è il capitalismo, in quell’ambito lo è e basta. Se il nazismo è una delle forme in cui si manifesta il capitalismo, ecco che il «principio» trova la sua naturale e più conseguente applicazione. Galinski sbaglia di grosso attribuendo al «modo di pensare antidemocratico» un’osservazione fin troppo banale: si cade infatti nell’ovvietà notando che la democrazia non è meno massacratrice del totalitarismo. Ciò che cambia è solo la giustificazione formale, ma l’ambito giuridico è stabilito ad hoc e non fa cambiare la natura profondamente economica dell’atteggiamento sociale borghese. [⤒]

  2. La citazione non è di Marx stesso, ma Marx sta semplicemente citando l'opera di Eugène Buret del 1841 «La misère des classes laborieuses en France et en Angleterre». Si legge nell'originale:
    «La guerre industrielle exige, pour être conduite avec succès, des armées nombreuses qu’elle puisse entasser dans le même lieu et décimer largement.» (sinistra.net)[⤒]

  3. La missione di Brand non fu l’unica. Un altro vano tentativo fu compiuto a Londra da Jan Karski, che cercò di ottenere aiuti dagli anglo-americani per il Ghetto di Varsavia. L’episodio è raccontato da Annette Wieviorka:
    «Lo scontro [fra resistenti e truppe tedesche] era stato condotto nell’isolamento più completo, malgrado la situazione del Ghetto fosse nota a tutti. Il polacco Jan Karski, per esempio, lo aveva visitato nell’ottobre del 1942 prima di recarsi in missione a Londra dove aveva cercato invano di ottenere l’aiuto degli alleati. Si incontrò con Artur Zygielbojm, emissario del Bund, che aveva lasciato la Polonia clandestinamente nel gennaio 1940. Anche gli sforzi di Zygielbojm per sensibilizzare gli inglesi e gli americani sulla sorte degli ebrei di Varsavia furono vani. Il 12 maggio 1943 si uccise con un colpo di pistola. Nella sua ultima lettera scrisse: ‹Assistiamo passivamente allo sterminio di milioni di uomini, di donne e di bambini senza difesa e torturati a morte; questi paesi sono diventati i complici degli assassini […] Non posso restare in silenzio, non posso continuare a vivere mentre viene eliminato quanto resta della popolazione ebraica in Polonia, cui appartengo […] Con la mia morte intendo protestare energicamente contro lo sterminio del popolo ebraico›» («Storia e dossier», Luglio-Settembre 1993, Giunti, Firenze). [⤒]


Source: «Programme Communiste», n. 11, aprile-giugno 1960
Rivisto e completato da una nota nella primavera del 2021. (sinistra.net)

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