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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (II)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (II)
Parte prima
Lotta per il potere nelle due rivoluzioni
1 – La guerra 1914
2 – Crollo da incubo
3 – Sette tesi sulla guerra
4 – Niente «teoria nuova»
5 – Le rivoluzioni simultanee?
6 – Abbasso il disarmo!
7 – Giovanili esuberanze
8 – Operaio e fucile
9 – Patria e difesa
10 – Vittoria nel solo paese
11 – La carta cambiata
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Notes
Source


Parte prima

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (II)

Lotta per il potere nelle due rivoluzioni

1 – La guerra 1914

Non può lasciarsi da parte la relazione che corre tra la Rivoluzione in Russia del 1917 e la prima guerra mondiale scoppiata nel 1914, punto molto noto e da noi infinite volte ricordato. Tutto lo sviluppo storico che lega tra loro le vicende dei partiti marxisti in Europa e in Russia, e il legame tra le prospettive dell’avvenire che si formarono e le particolarità della loro vita politica interna e delle loro lotte di tendenza, hanno come cruciale passaggio la crisi storica vulcanica, il terremoto politico dell’agosto 1914 da cui 41 anni ci separano.

Benché non si voglia qui fare storia e le cose essenziali siano scritte nella testa di tutti, occorrerà pure richiamare i capisaldi.

A Sarajevo, capitale della Bosnia, provincia in prevalenza slava passata dall’impero ottomano a quello austriaco dopo le guerre balcaniche, il 28 giugno l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono del vecchissimo Francesco Giuseppe, passa con la moglie in carrozza scoperta. Sono abbattuti dai colpi di rivoltella di due giovani nazionalisti bosniaci.

Nelle poche tragiche settimane trascorse il governo di Vienna affermò che gli attentatori avessero confessato negli interrogatori di essere agenti del movimento indipendentista e del governo serbo. Il 23 luglio, si disse per segreto incitamento del kaiser Guglielmo, il ministro degli esteri austriaco Berchtold trasmise alla Serbia lo storico ultimatum che imponeva una serie di misure di politica e di polizia interna. Il termine era di sole 48 ore: la Serbia rispose in tono debole ma non accettò tutte le condizioni. Il 26 il primo ministro inglese Grey cercò di intervenire per una conferenza, cui la Germania si oppose. Il 28, un mese dopo l’attentato, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia.

Il 29 mobilitò la Russia, il 30 la Germania, sulle due frontiere. Il 31 la Germania intimò alla Russia di revocare in 24 ore l’ordine di mobilitazione, e non avendo avuto risposta le dichiarò guerra l’1 agosto. Il 3 dichiarò guerra alla Francia, il 4 invase il Belgio senza dichiarazione di guerra. Solo il 6 agosto l’Austria dichiarò guerra alla Russia.

Come si sa, il governo belga decise di resistere con le armi all’invasione e la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania per il motivo che gli impegni internazionali per la neutralità del Belgio erano stati violati, al che il conte Bethmann-Hollweg ministro degli esteri oppose la frase famosa che i trattati non sono altro che pezzi di carta.

La storia ha poi acquisito che gli inglesi pochi giorni prima avevano assicurato a Berlino il non intervento in caso di guerra coi franco-russi, incoraggiando così il governo del kaiser a precipitarsi nel cratere.

Prima di vedere gli immediati riflessi dell’andamento della guerra sulla situazione in Russia, che qui interessa, è tuttavia necessario sgranare un altro rosario, quello della rovina del socialismo internazionale, che costituì l’altro aspetto di quei giorni di tragedia.

Situazione su cui occorre riflettere come ben diversa da quella di esplosione della guerra 1939. Allora in ogni paese si scontrarono due alternative nette: la posizione internazionalista di classe da una parte, dall’altra una posizione nazionale e patriottica di unanimità – e ciò con analogia assoluta in tutti i paesi. Nel 1939 tutto era mutato, e in dati paesi era presente un disfattismo borghese che fondò i movimenti contro la guerra di aperti «partigiani del nemico nazionale». Nel primo ciclo storico il nazionalismo trionfò, nel secondo si divise in due nazionalismi. Il ciclo in cui l’internazionalismo si leverà in piedi si attende ancora.

2 – Crollo da incubo

Due giorni dopo l’ultimatum dell’Austria alla Serbia il partito socialista germanico lanciò un forte manifesto contro la guerra in cui l’atto era condannato come «deliberatamente calcolato per provocare la guerra» e si dichiarava che per i governanti di Vienna non sarebbe stato «versato neppure un goccio di sangue di soldato tedesco».

Ma quando nei giorni 29 e 30 a Bruxelles, convocato d’urgenza, si riunì l’Ufficio Socialista Internazionale, già la situazione precipitava. Parlò il capo dei socialisti austriaci, il vecchio Vittorio Adler:
«Siamo già in guerra. Non attendetevi altre azioni da noi. Siamo sotto la legge marziale. I nostri giornali sono soppressi. Non sono qui per fare un discorso in un comizio ma per dirvi la verità che ora, mentre centinaia di migliaia di uomini marciano verso le frontiere, ogni azione è impossibile».
Non vi era più un Bebel, morto alla fine del 1913; per i tedeschi erano presenti Haase e Kautsky che discutevano direttamente con Jaurès e Guesde sulla estrema speranza di localizzare la guerra tra Austria e Serbia (magnifica l’attitudine dei pochi socialisti di Serbia).

Lo sciopero generale contro la mobilitazione viene proposto solo dall’inglese Keir Hardie (non indegno fu l’atteggiamento del piccolo British Socialist Party) e dalla Balabanoff che con Morgari rappresenta l’Italia. Ma chi risponde gelidamente? Il marxista ortodosso Jules Guesde:
«Uno sciopero generale sarebbe efficace solo nei paesi in cui il socialismo è forte, e faciliterebbe così la vittoria delle nazioni arretrate su quelle progredite. Quale socialista può desiderare l’invasione del suo paese, la sua sconfitta ad opera di un paese più retrogrado?».

Lenin non era lì, ma in un villaggio dei Carpazi con la moglie malata; malata con disturbi di cuore era Rosa Luxemburg. Grande fu il destro e non ortodosso Jaurès, che tuonò nel grandioso comizio davanti ad una immensa folla echeggiante le grida: abbasso la guerra! guerra alla guerra! viva l’Internazionale! Due giorni dopo il nazionalista Vilain abbatteva il grande tribuno con due revolverate, a Parigi.

La riunione non seppe fare altro che anticipare al 9 agosto il congresso mondiale socialista già fissato a Vienna pel 23. Ma come bene osserva Wolfe quei 10 giorni sconvolsero il mondo tanto quanto non hanno fatto i successivi decenni[2].

Intanto dal 31 al 4 agosto a Berlino si susseguono sedute della direzione socialista e del gruppo parlamentare, forte di ben 110 deputati al Reichstag.

Fu mandato Müller a Parigi ove si svolgeva la stessa questione, ma i più dei compagni francesi dissero: la Francia è aggredita, noi dobbiamo votare ai crediti di guerra, e voi tedeschi no. A Berlino 78 voti contro 14 decisero il ai crediti con una dichiarazione che declinasse la responsabilità della guerra. Il 4 tutti i 110 furono dati votanti per i crediti (compresi i 14, tra cui il presidente del partito socialdemocratico tedesco Haase e perfino Carlo Liebknecht, per disciplina) sebbene uno, ma uno solo, Kunert di Halle, si fosse allontanato dall’aula.

Lo stesso giorno i dispacci di stampa portavano da Parigi la stessa maledetta notizia: i crediti per la difesa nazionale passati alla unanimità.

Nelle due capitali le folle per le strade dimostravano al grido di viva la guerra! Trotsky era anche lui quei giorni in Austria, nella capitale. Sbalordito ascoltò le grida di esaltata gioia dei giovani dimostranti. Che specie di idea li accende? egli si chiese. L’idea nazionale? Ma non è l’Austria la negazione stessa di ogni idea nazionale? Ma Trotsky viveva della fede nelle masse, e nella sua autobiografia trovò una spiegazione del tutto ottimista a questo sommuoversi scatenato dalla mobilitazione, salto nel buio delle classi dominanti[3].

3 – Sette tesi sulla guerra

Lenin non aveva, passato che fu fortunosamente dall’Austria, ove era un cittadino nemico, nella neutrale Svizzera, notizie sicure sul contegno dei socialisti russi. Si era detto che tutta la frazione alla Duma dei socialdemocratici, anche menscevichi, aveva rifiutato il voto ai crediti di guerra. Ma alcune cose gli erano rimaste nella gola:

Kautsky, che egli ancora considerava un suo maestro, aveva nella discussione per il voto opinato per l’astensione, ma aveva poi con mille sofismi giustificato e difeso il voto favorevole stabilito dalla maggioranza. Aveva poi appreso che a Parigi Plechanov si era dato a fare il propagandista per gli arruolamenti nell’esercito francese. Lenin traversò giorni di rabbia e di furore fino a che non si orientò per la necessità di tutto ricominciare e defenestrare i nuovi traditori. Appena poté riunire sei o sette compagni bolscevichi, presentò loro sette scarne tesi sulla guerra. Erano lui e Zinoviev con le compagne, tre deputati alla Duma e forse la russo-francese Inessa Armand.

Primo. La guerra europea ha il tagliente definito carattere di guerra borghese dinastica e imperialista.

Secondo. La condotta dei capi della socialdemocrazia tedesca, partito della seconda Internazionale (1889–1914), che hanno votato i bilanci di guerra e che ripetono le frasi borghesi e scioviniste degli junker prussiani e della borghesia, è diretto tradimento del socialismo.

Terzo. La condotta dei capi socialisti francesi e belgi, che hanno tradito il socialismo con l’entrare nei governi borghesi, comporta eguale condanna.

Quarto. Il tradimento del socialismo da parte della maggioranza dei capi della Seconda Internazionale significa il crollo politico e ideologico di questa. La causa fondamentale di questo crollo è il predominio attuale dell’opportunismo piccolo-borghese.

Quinto. Sono false ed inaccettabili tutte le giustificazioni date dai vari paesi per la loro partecipazione alla guerra: la difesa nazionale, la difesa della civiltà, la democrazia e così di seguito.

Sesto. Il compito della socialdemocrazia in Russia consiste in primo luogo in una lotta senza sosta e senza mercé contro lo sciovinismo grande-russo e monarchico-zarista, e contro la sofistica difesa di un tale sciovinismo da parte dei liberali o costituzionali democratici russi, e parte dei populisti. Dal punto di vista delle classi laboriose ed oppresse di tutti i popoli di Russia, il minor male sarebbe la piena disfatta della monarchia zarista e del suo esercito, che opprime Polonia, Ucraina e molti altri popoli dell’impero.

Settimo. La consegna dei socialisti nel momento attuale deve essere una penetrante propaganda, estesa anche agli eserciti e alle aree di attività militare, per una rivoluzione socialista e per l’esigenza di volgere le armi non contro i propri fratelli, ma contro la reazione dei partiti e governi borghesi in tutti i paesi… l’azione illegale nel paese e nell’esercito… l’appello alla coscienza rivoluzionaria delle masse contro i capi traditori… l’agitazione in favore delle Repubbliche tedesca, russa, polacca.

Il testo fu adottato con pochi emendamenti o meglio aggiunte:
1. Un attacco al cosiddetto «centro» che aveva capitolato di fronte agli opportunisti, e doveva essere tenuto fuori dalla nuova Internazionale. Forse questo diretto colpo a Kautsky non uscì dalla penna di Lenin.
2. Un riconoscimento che non tutti i lavoratori erano stati preda della febbre di guerra, ma in molti casi si erano dimostrati ostili allo sciovinismo e all’opportunismo. Tale aggiunta fu forse dovuta alle notizie di quei paesi ove parte del movimento era sulla buona via (Serbia, Italia, Inghilterra, alcuni gruppi greci, bulgari, ecc.).
3. Un’aggiunta sulla Russia che Wolfe trova di indubbia fonte Leniniana in quanto costituisce «una caratteristica formulazione delle esigenze e delle parole d’ordine di una rivoluzione democratica in Russia». E l’abbiamo voluta porre qui perché ci riporta sul filone conduttore del nostro tema:
«Lotta contro la monarchia zarista e lo sciovinismo grande-russo, panslavista; propaganda per l’emancipazione e l’autodecisione dei popoli oppressi dalla Russia, con le parole d’ordine immediate: repubblica democratica, confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari, giornata lavorativa di otto ore»[4]

Poche settimane dopo lo scoppio della guerra del 1914 la prospettiva dei marxisti rivoluzionari è dunque chiara.

In Europa: liquidazione della Seconda Internazionale e fondazione della Terza.

In Europa: lotta per liquidare la guerra non con la pace ma con l’abbattimento del dominio capitalistico di classe (rivoluzione socialista), previo rovesciamento di tutte le dinastie.

In Russia: perdita della guerra, fine dello zarismo, rivoluzione democratica con misure radicali. Passaggio a una rivoluzione socialista solo insieme a una simile rivoluzione europea[5].

4 – Niente «teoria nuova»

Questo ciclo viene raccontato nella ufficiale, stalinista «Storia del partito bolscevico» in modo da concludere al formarsi da parte di Lenin, e dinanzi al crollo del movimento europeo nell’opportunismo, di una «teoria nuova», che sarebbe quella della rivoluzione in un solo paese. Viene quindi in questo senso e a questo fine rivendicata l’adesione a tutta la inesausta crociata di Lenin contro i social-patrioti di ogni riva:
«Tale la concezione teorica e tattica dei bolscevichi nelle questioni della guerra, della pace e della rivoluzione»[6].
È invece evidente che, sotto pretesti più speciosi di quelli dei Guesde e dei Kautsky, le consegne clamorosamente date ai partiti comunisti nella seconda guerra mondiale, buttandoli tutti su un fronte in combutta con le borghesie, non hanno lasciato pietra su pietra della teoria di Lenin per la guerra, per la pace, e per la rivoluzione, in quanto essa non era che la «vecchia teoria» di Marx che i traditori del 1914 avevano analogamente dilaniata, e che Lenin a loro vergogna aveva gloriosamente riedificata. Che altro è la vittoria del paese retrogrado di Guesde a Bruxelles, se non l’eterna menzogna della deprecata vittoria dei fascisti sulla Francia o l’Inghilterra?

La falsificazione d’ufficio fa leva su due articoli di Lenin del 1915 e 1916. Quello del 1915 ha il titolo «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti di Europa». Lenin fa molte riserve su questa consegna, giustissime. Essa stava nelle sette tesi nella forma: Stati Uniti repubblicani di Europa, coordinata alla rivendicazione delle repubbliche di Russia, Germania e Polonia. (Oggi tutte fatte, ma quando ci aggiungeremo quella inglese?). Poi giustamente il partito decise di soprassedere a questa parola politica, che poteva dar luogo a malintesi. Secondo Lenin gli Stati Uniti d’Europa fra Stati capitalistici (non solo dinastici) sono una formula inammissibile: ma ciò non perché formula ancora pre-socialista e solo democratica, in quanto tali rivendicazioni possono essere utili, ma perché nella specie un tale organismo sarebbe reazionario. Ottima e profetica opinione sulle varie federazioni e leghe europee oggi propugnate da tutte le parti, anche staliniste.
«In regime capitalistico gli Stati Uniti di Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie»[7].

Si scusi l’insistere nella digressione. Oggi sarebbero stati secondi di quelli di America, che hanno in quella spartizione ormai il posto del leone. Ma ciò non rende che più «aut impossibile aut reazionaria» la formula federeuropea.

O contro l’America, come li vedeva Lenin nel 1915, o sotto l’America come oggi li avanzano (e magari sotto la Russia, o sotto una loro intesa) gli Stati Uniti d’Europa non si formerebbero che contro le colonie e contro il socialismo.

Per noi, dice Lenin chiaramente, è più rivoluzionaria la situazione della guerra che quella del federalismo europeo (altro che aver adottata tutta la teoria, ecc., ecc., da parte delle citate sacrestie!).

La nostra parola sarebbe Stati Uniti del mondo, Lenin dice. Ma non ci conviene neppure questa, prima perché coincide col socialismo,
«in secondo luogo perché potrebbe generare l’opinione errata dell’impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese e una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri».

E qui che li vogliamo, quei signori. E il periodo successivo a questo che la storia ufficiale invoca:
«L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata la produzione socialista, si ergerebbe contro il resto del mondo capitalistico attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi [qui finisce la citazione degli alleatoni di Roosevelt, e prima di Hitler, dei castratori della rivoluzione e del pensiero di Lenin; ma noi seguitiamo] infiammandole ad insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati»[8].

5 – Le rivoluzioni simultanee?

L’altra citazione di cui il testo indicato vuol fare stato è di un articolo dell’autunno 1916: «Il programma militare della rivoluzione proletaria» in cui è trattata apertamente l’ipotesi di un paese capitalistico in cui ha vinto il proletariato, che conduca una guerra contro paesi rimasti borghesi, e vi porti la rivoluzione. Un tema che più volte abbiamo fatto nostro, e che soprattutto sta a mille miglia dalle formidabili buffonate della «coesistenza pacifica», della «emulazione» e della «difesa contro l’aggressione», in quanto quella guerra sarebbe guerra di classe, di squisita aggressione, e soprattutto di non dissimulata dichiarazione al proletariato del mondo di altro non attendere che il momento in cui sia possibile attaccare la fortezza dello sfruttamento capitalistico.

Il volgare trucco sta nel passare dall’una all’altra di queste tesi: conquista del potere politico in un solo paese – costruzione del socialismo in un solo paese capitalistico dove si sia conquistato il potere – costruzione del socialismo nella sola Russia. Ed è quest’ultima cosa che sosteniamo appartenere al regno dei sogni, come i fatti economici palpabili – nella seconda parte di questo rapporto – ci ripeteranno.

Ecco la gran balla, che vuole giustificare la nuova teoria (per poi cacciarsela, nuova o vecchia che sia, sotto le piote). «Questa teoria differiva radicalmente dalla concezione diffusa tra i marxisti nel periodo del capitalismo pre-imperialistico, allorché i marxisti ritenevano che il socialismo non avrebbe potuto vincere in un solo paese ma avrebbe trionfato contemporaneamente in tutti i paesi civili». E poi: Lenin distruggeva, ecc.[9].

Questa non è che una favola fabbricata parola per parola e di cui Lenin non si è mai occupato. Chi mai ha creduto a questa storia del socialismo simultaneo in tutti i paesi? Né i sinistri, né a maggior ragione i destri del marxismo. E i paesi civili, quali sarebbero poi stati? La Russia certo no, ma la Francia, l’Inghilterra, l’America. E la Germania? A sentire i collitorti del 1914, quelli del 1941, e quelli di oggi che per colpire la comunità europea di difesa rialzano questo abusato spauracchio del tedescone in armi, la Germania è più incivile… dell’Ottentozia!

Prima tuttavia di continuare a disperdere l’equivoco centrale che anima tutto il racconto della storia proletaria ad usum Kremlini, occorre fare un’osservazione. Questo preteso dualismo tra due teorie, la vecchia e la nuova, l’una sorta dalla situazione del capitalismo pre-imperialista e seguita, con relativa tattica, dalla Seconda Internazionale, e l’altra che sarebbe stata scoperta e instaurata da Lenin, sulle esperienze della fase (tappa) imperialista più recente, non è solo la stimmata propria dell’opportunismo stalinista.

Lo stesso opportunismo della II Internazionale viveva di una pomposa (e schifosa) nuova teoria: quella che si vantava di aver fatto giustizia di un Marx quarantottesco e catastrofico, autoritario e terrorista, e che aveva infatti modellato, in luogo dell’ispido corrusco «red terror doctor», il molto onorevole parlamentare socialdemocratico in tuba e sciammeria (vedemmo di tali insetti perfino a Mosca), schifante il partito di classe e corteggiante i sindacati economici panciafichisti e gradualisti, pompiere di ogni azione delle masse, e finalmente, tra i furori bianchi di Vladimiro Ulianov, nonché di noi ultimi fessi, votatore dei crediti per il massacro imperialista. Era la teoria revisionista di Bernstein e soci, e cantava l’eterno motivo puttanesco: quei tem-pi so-no pas-sa-ti…

Orbene, la stessa vecchia storia della vecchia teoria ottocento di barbon Carlo, e della nuova teoria novecento che si osa affibbiare a Lenin, ma è patrimonio di uno scimmiesco esercito di mandrilli retrospelati che osano farfugliarne il nome, è propria di tanti gruppetti che stalinisti non si dicono, perché non si accorgono di esserlo, e che – come tante volte staffilammo – si danno a ricarenare la barca della rivoluzione, che avrebbe dato in secco perché non c’erano loro, poveri cercopitechi, a disegnare la nuova teoria, forti di quello che Marx non seppe, e Lenin cominciò appena a compitare; di tanti gruppetti che ad ogni tanto in una paurosa «bouillabaisse» di dottrine o di masturbate letture annunziano di darsi a «ricostruire il partito di classe». Lasciamo questi messeri alle loro esercitazioni (che falliscono soprattutto a quello scopo in cui è l’uzzolo misero che li muove, fare del rumore) e torniamo alla manipolazione cremlinesca.

6 – Abbasso il disarmo!

L’altro apporto alla teoria della «rivoluzione in un solo paese» è tratto da quelli del concilio di Mosca da altro articolo, dell’autunno del 1916, che tratta altro tema: cioè batte in breccia, come aveva fatto l’altro del '15 per gli Stati Uniti d’Europa, un’altra «parola» che gli elementi di sinistra del movimento socialista durante la guerra, e in ispecie quelli dell’Internazionale Giovanile Socialista, andavano lanciando in opposizione al social-sciovinismo: quella per il disarmo. È un possente attacco al pacifismo, coerente in Lenin, coerente attraverso i decenni nella «vecchia teoria» di Marx, inseparabile dalla disperata difesa dei marxisti radicali in tutti i tempi contro il pietismo filantropico-umanitario di radicali piccolo-borghesi e di libertari anche, contro le visioni gradualiste del riformismo fine ottocento, che in una general vespasiana di corporativismo bonzesco ed elettoralismo democratico voleva affogare forza, violenza, dittatura, guerra degli Stati e guerra delle classi, sozza veduta che sta agli antipodi del marxismo integrale ed originario, vendicato dalle mirabili mani dei cucitori di toppe. Da riproporsi oggi contro i raccoglitori di firme, in faccia ai banditori della crociata della pennina contro il cannone e il missile atomico[10].

Dall’articolo «Il programma militare della rivoluzione proletaria», che nelle nostre esposizioni (che nulla inventano o scoprono, ma solo ripropongono il materiale storico, dotazione del movimento anonimo ed eterno, nei quadri e nei cicli precisi del suo sviluppo) trova il suo giusto impiego, ecco il brano che fa comodo agli ufficiali:
«Lo sviluppo del capitalismo avviene nei diversi paesi in modo estremamente ineguale. E non potrebbe essere diversamente in regime di produzione mercantile [applica et fac saponem!…]. Di qui, l’inevitabile conclusione: il socialismo non può vincere simultaneamente in tutti [corsivo di Lenin] i paesi. Vincerà dapprima in uno o in alcuni paesi, mentre gli altri rimarranno, per un certo periodo, paesi borghesi e preborghesi.
Questo fatto provocherà non solo attriti, ma anche l’aperta tendenza della borghesia degli altri paesi a schiacciare il proletariato vittorioso dello Stato socialista. In tali casi la guerra da parte nostra sarebbe legittima e giusta. Sarebbe una guerra per il socialismo, per l’emancipazione degli altri popoli dall’oppressione della borghesia«
.

Passo che è tutto oro colato. Ma lo sono anche le frasi che precedono:
«La vittoria del socialismo in un solo paese non esclude affatto, e di colpo, tutte le guerre. Al contrario le presuppone».

Altro che pretendere, come fanno gli stalinisti, di essere in un paese socialista, e quindi preparare la pace universale! Sono in un paese borghese, il loro pacifismo è farisaico quanto quello borghese anti-1914, poi anti-1939, ed oggi anti-terza guerra (1970?). Farà la stessa fine.

E poi vi sono le frasi immediatamente successive.
«Engels aveva perfettamente ragione quando, nella sua lettera a Kautsky del 12 settembre 1882, riconosceva categoricamente la possibilità di «guerre difensive» del socialismo già vittorioso. Egli alludeva appunto alla difesa del proletariato vittorioso contro la borghesia degli altri paesi»[11].
Poveri miei chierichetti! Proprio negli scritti cui fanno ricorso per mostrarci Lenin che partorisce la nuova teoria, questi, con l’abituale limpida condotta del ragionamento, mostra che quanto egli va dicendo era ben noto ai marxisti «del secondo periodo pre-imperialistico»; ossia ben 38 anni prima; e certo non era noto ad Engels perché se lo fosse sognato quella notte autunnale, ma in quanto si rifaceva all’abc del marxismo partorito dalla storia in sul 1840.

A noi interessa l’inquadratura storica e tutta la costruzione dell’articolo. Non potendolo tutto riprodurre ne diamo il possente scheletro.

7 – Giovanili esuberanze

Lenin era stato colpito dalle tesi di Grimm nella Jugend-Internationale. Nei programmi minimi dei vecchi partiti era inserita la voce: milizia di popolo, armamento del popolo. La guerra aveva reso di attualità questo problema: è noto che i sindacati anarcoidi sostenevano la tesi «rifiuto al servizio»: loro esponente al congresso internazionale di Stoccarda nel 1907 era stato Hervé che aveva sostenuta la giusta tesi dello sciopero generale con un discorso sconnesso teoricamente (giudizio dello stesso Lenin). Orbene i giovani marxisti di sinistra proponevano di sostituire alla parola: armamento del popolo, quella: disarmo. Lenin si oppose.

Vogliamo ricordare che anche nella gioventù socialista italiana in quegli anni fu discusso a fondo e non solo teoricamente ma anche in famosi processi il problema antimilitarista. Si condannò come prettamente borghese la posizione individualista idealista: Io sono contro lo spargimento di sangue e non prendo il fucile. Quando la questione verteva sull’entrata dell’Italia in guerra, affermammo che nel dirci neutralisti si presentava male la nostra posizione rivoluzionaria: noi non ci ponevamo come traguardo la «neutralità» dello Stato borghese, e nemmeno il suo compito di mediatore, e di propugnatore della assurda idea: disarmo universale, tanto borghese quanto quella del disarmo individuale. In pace o in guerra dicemmo (a nostra vergogna, Lenin non lo conoscevamo nemmeno): Siamo nemici dello Stato borghese: dopo la mobilitazione, quali che le forze nostre possano essere, non gli offriremo neutralità, non disarmeremo la lotta di classe, tenteremo di sgarottarlo.

Miei bravi giovani, Lenin dice, voi volete rivendicare il disarmo totale perché questa è la più chiara, decisa, conseguente espressione della lotta contro qualsiasi militarismo e qualsiasi guerra. Ma è qui che sbagliate. Questa premessa è idealistica, metafisica, non ha a che fare con noi: essere contro la guerra per noi è un punto di arrivo fondamentale, ma non un punto di partenza. La stessa abolizione della guerra è parola non nostra. La guerra è uno dei fatti storici che segnano le tappe del ciclo capitalista nella sua salita e discesa: abolire la guerra per fortuna non vuoi dire nulla, se no vorrebbe dire fermare quel ciclo prima che giunga la soluzione rivoluzionaria. Ma queste sono frasi nostre. Lenin va – talvolta un poco troppo – per il concreto. Egli spiega in quali casi non siamo contro le guerre.

In primo luogo espone le guerre rivoluzionarie borghesi sostenute dai marxisti. Ci rimettiamo alle nostre lunghe trattazioni del tema[12]. La tesi che nel campo Europa tali guerre sono finite col 1871, quando Marx lo sentenziò con la formula «ormai tutti gli eserciti nazionali sono confederati contro il proletariato», è dal Grimm sostituita con l’altra «evidentemente falsa»: in quest'epoca di sfrenato imperialismo nessuna guerra nazionale è più possibile. Lenin avrebbe siglata la tesi se vi fossero state aggiunte le parole: nel campo europeo, tra le potenze europee, schiaffeggiando profeticamente la «liberazione nazionale» francese o italiana apologizzata nel 1945. Ma qui contrappone la piena possibilità – ancora attuale – di guerre nazionali extraeuropee, in Asia, in Oriente.

In secondo luogo le guerre civili sono guerre e non finiranno che con la divisione della società in classi: altro strappo alle famose «qualsiasi» guerre.

Infine Lenin cita la guerra rivoluzionaria non più borghese ma socialista di domani. Tre tipi dunque di guerre giuste, ossia che noi possiamo dover appoggiare. Secondo Lenin, ecco la giusta formulazione:
«La parola d’ordine e l’accettazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914–16 sono soltanto una forma di corruzione del movimento operaio mediante la menzogna borghese».
Questa risposta, egli dice, colpisce gli opportunisti più che ogni platonica parola per il disarmo o contro ogni difesa della patria. Egli propone di aggiungere che ormai qualsiasi guerra di queste potenze: Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Russia, Italia, Giappone, Stati Uniti, non può che essere reazionaria, e in essa il proletariato deve lavorare alla sconfitta del «suo» governo, approfittandone per scatenare l’insurrezione rivoluzionaria[13].

Questa teoria è incardinata sul radicato anti-pacifismo di Marx ed Engels. Quale sarebbe, staliniani, la teoria nuova? Forse l’epoca del pieno imperialismo era nel 1939 chiusa? E si doveva invece difendere la patria prima in Germania ed Austria, sfottendola altrove – poi in Francia, Inghilterra, Italia, per salvarle dalla Germania? Evidentemente qui è di bisogno la terza teoria, poi la quarta e via senza fine; ma gira sempre quel disco che vi piace tanto: i tem-pi so-no mu-ta-ti…

Ma è l’opportunismo che pute sempre al modo stesso.

8 – Operaio e fucile

Poiché si tratta del movimento dei giovani, Lenin dopo aver detto che non si deve includere la consegna del disarmo, ma sostituire quella della milizia di popolo con quella di milizia proletaria, rileva la necessità della preparazione tecnica militare ai fini insurrezionali, altro punto su cui da vari decenni si batte, se pure ne abbiamo purtroppo viste le applicazioni solo al puro purissimo servigio di ideologie borghesi, in movimenti illegali sì ma promananti da Stati ed eserciti borghesi. Lenin ricorda perfino l’armamento delle donne del proletariato. «Come reagiranno le donne proletarie? Si limiteranno a maledire ogni guerra e tutto ciò che è inerente alla guerra, rivendicando il disarmo? Mai le donne di una classe oppressa veramente rivoluzionaria accetteranno una funzione così vergognosa. Esse diranno ai loro figli: ‹Presto sarai cresciuto. Ti daranno un fucile. Prendilo e impara a maneggiar bene le armi. E una scienza necessaria ai proletari: no, non per sparare sui tuoi fratelli, sugli operai degli altri paesi – come accade in questa guerra attuale e come ti consigliano a fare i traditori del socialismo – bensì per combattere contro la borghesia del tuo paese, per mettere fine allo sfruttamento, alla miseria e alle guerre, non con le pie intenzioni, ma piegando la borghesia e disarmandola›»[14].

Questo discorso gli stalinisti non lo possono citare. Le donne le invitano appunto a formulare pii desideri; tanto pii, che invocano ad esempio massimo di disarmatore proprio Pio (lui, a petto di tal gentaccia, rispettabile) Dodicesimo.

Al fine di far capire ai giovani quella dialettica, che tanti dalle bianche chiome non ce la fanno ancora a smaltire, Lenin persegue la sua tesi fino a lasciare in piedi – teoricamente – l’espressione difesa della patria e guerra di difesa. Bisogna saper leggere, in questi casi. Nella letteratura marxista, essendo assodato che la frase «contro tutte le guerre» non si rinviene, essendo propria o di liberali o di libertari, e che deve intervenire una distinzione storica non sempre semplice tra le varie guerre e i diversi tipi di guerra, si era finito tuttavia con l’ereditare, ai fini di tale distinzione, la formula del linguaggio comune: quando si è attaccati ci si difende. Benché si sia lontani le mille miglia dal trasferire sul piano storico, come fanno i filistei, le regolette della morale individuale, si finì col chiamare guerre di difesa le guerre che andavano sostenute ed appoggiate, o almeno non sabotate. E notissimo che il primo Indirizzo della I Internazionale sulla guerra franco-prussiana contiene la frase: Da parte tedesca la guerra è guerra di difesa. Ed infatti era Napoleone III che baldanzosamente aveva sferrato l’attacco. Ma il fatto è che sulla fine di quel ciclo storico interessa a Marx più la rovina di Bonaparte che quella degli odiati prussiani, e Bonaparte (vedi la ricca messe di citazioni) è considerato alleato degli zar: nulla sarebbe cambiato se si fosse mosso Moltke per primo, e il grido non fosse stato: à Berlin! à Berlin!, ma nach Paris, nach Paris![15].

9 – Patria e difesa

Che scrive infatti Lenin, almeno nella sempre ufficiale traduzione in italiano?
«Ammettere ‹la difesa della patria› nella guerra in corso [1916] significa considerarla una guerra ‹giusta›, conforme agli interessi del proletariato – e nulla più, assolutamente nulla, poiché nessuna guerra esclude l’invasione. Sarebbe semplicemente sciocco negare ‹la difesa della patria› da parte dei popoli oppressi nella loro guerra contro le grandi potenze imperialiste, o da parte del proletariato vittorioso nella sua guerra contro un qualsiasi Galliffet di uno Stato borghese» (Galliffet fu il massacratore dei comunardi di Parigi)[16].

Noi, che non cambiamo mai le «proposizioni» o i «teoremi» della teoria, ma talvolta osiamo riordinare l’uso dei simboli, abbiamo messo in corsivo le parole nessuna guerra esclude l’invasione, per rendere evidente la chiosa.

Come non è dialettica la formula: Avversiamo tutte le guerre, così non meno metafisica e borghese è quella: Siamo contro le guerre, a meno che non siano guerre di difesa, e sia minacciato e invaso da un nemico il territorio nazionale, dato che la difesa della patria è sacra a tutti i cittadini di qualunque paese. Questa è appunto la formula dell’opportunismo che spiega come lo stesso giorno i francesi e i tedeschi votino nelle rispettive unanimità per la guerra nazionale. Le parole nessuna guerra esclude l’invasione richiamano un articolo dell’«Avanti!» del 1915 su «Socialismo e difesa nazionale»[17]. Con la formula del dovere della difesa nazionale non si accettano talune guerre, ma proprio qualunque guerra. Sferrato dagli Stati borghesi l’ordine di aprire il fuoco, di qua o di là entrambi i territori sono in pericolo, alle volte uno degli eserciti abbandona per ragioni strategiche il proprio, anche essendo «aggressore», e gli esempi storici sono a iosa. Quindi noi distinguiamo tra guerra e guerra, ed anche se usiamo talvolta i termini popolari (noi invero vorremmo dar loro l’ostracismo) di guerra giusta o difensiva, per designare sbrigativamente una guerra che appoggiamo e di cui crediamo utile il successo al corso rivoluzionario, in realtà ci poniamo solo il problema dialettico storico: questa data guerra interessa il proletariato? È, come Lenin ha ora detto, conforme agli interessi del proletariato? Per la guerra 1914 si risponde: no, da nessuna parte. Ed hanno torto anche i socialisti belgi sebbene sia pacifico trattarsi di un paese neutro aggredito; hanno ragione i bravi compagni della non meno aggredita Serbia.

Ma ad esempio nel 1849 Marx ed Engels appoggiano l’Austria contro la piccola Danimarca, aggredita palesemente, e fanno, come ampiamente mostrato nel rapporto di Trieste sui fattori di razza e nazione, il medesimo per tutte le guerre fino al 1870. Avrebbero appoggiato le invasioni napoleoniche e negato alle guerre tedesche del principio del secolo la natura di guerre giuste, difensive, e perfino di indipendenza, come nella generale idea borghese e piccolo-borghese. Interessava la rivoluzione, allora, che vincesse il primo Napoleone e non la Santa Alleanza.

Comunque è fondamentale sempre in Lenin la preoccupazione che il partito tragga le sue decisioni non dal quadro integrale della nostra completa, complessa, mai seccamente dualistica, veduta della storia che si svolge, ma da una frase formale, che varie volte è una frase borghese. Noi troveremmo più esatto dire non che in dati casi ammettiamo la giustezza della guerra e la patria difesa, ma che davanti alla guerra in dati tempi e luoghi sabotiamo la guerra, in altri difendiamo la guerra. La parola patria è troppo aclassista, e Lenin nelle stesse più diffuse tesi 1916 ben fa propria la frase del «Manifesto» che patria, noi proletari, non ne abbiamo.

Comunque il pericolo di adottare alla leggera parole come quella del disarmo è davvero enorme e significa ripiegamento totale nella ideologia borghese.

10 – Vittoria nel solo paese

Non è stata una digressione inutile – anche se è stata ripetizione di già esposti concetti, tuttavia da martellare soprattutto ai fini di inchiodare che la teoria della guerra e della pace è fissa e immutata dai soliti oltre cent’anni – quella sulla considerazione della guerra generale scoppiata nel 1914, in quanto essa si lega strettamente al tema storico della rivoluzione di Russia, come si premise.

Chiariti i due testi di Lenin incaricati della condanna di due stolide ubbie: gli Stati Uniti in Europa e il disarmo europeo mondiale, torniamo al punto che si è voluto distorcere dagli staliniani: la rivoluzione in un paese solo.

I nostri testi si devono leggere pensando che non nacquero per andare a riempire un certo vuoto in uno scaffale della biblioteca aggiungendo un capitolo in astratto ad una astratta materia e disciplina, ma nel vivo di una polemica che era la sottostruttura storica di una reale battaglia di opposte forze ed interessi. Qui siamo nel vivo dello scontro tra Lenin e i fautori delle guerre. Bisogna seguire il nutrito dialogo che presto diverrà lotta armi alla mano sui più diversi fronti.

I marxisti rivoluzionari dicono: In nessun paese questa guerra può essere appoggiata, niente difesa della guerra, ma in tutti i paesi sabotaggio della guerra e anche della difesa della patria.

Gli opportunisti ed anche i più pericolosi centristi rispondono ipocritamente: Siamo pronti a farlo. Ma alla condizione che con matematica certezza, mentre noi fermiamo alle spalle l’esercito del nostro Stato, sia fermato anche l’altro. Se questa garanzia manca, non faremmo che difendere la guerra del nemico.

E chiaro che una tale obiezione apparentemente logica, afferrabile quanto lo sono tutte le odierne tesi popolari degli sciagurati attivisti che parlano al proletariato, contiene la bancarotta della rivoluzione. Così ad esempio nella guerra con l’Austria si riuscì a impedire, con sovrumani sforzi, che i parlamentari socialisti italiani votassero per i crediti, ma quando avvenne la frana di Caporetto, solo in quanto i borghesi ci fecero l’onore di attribuirla alla nostra propaganda (come tratterebbe un tal problema storico un Togliatti? Direbbe che è infamia far franare il Veneto, gloria la Sicilia? Tanto ad opera sua nulla franò), i nostri onorevoli volevano precipitarsi a votare i fondi per la difesa sul Grappa, e imboccare la via di tedeschi e francesi del 1914. Se fu bene o male averlo impedito non si può dire: certo è che si rivelò a luce meridiana la peste opportunista, che successivamente si dovè trattare a ferro rovente.

Non era Lenin tipo da arrestarsi a tale argomento. Solo un imbecille non è in grado di intendere che occorre che ogni partito rivoluzionario saboti la guerra del proprio Stato, egli disse ripetutamente. In verità la nostra consegna era proprio la più difficile e meno banale, e l’avvenire su questo punto ha molto insegnato sulla impossibilità di procedere sempre con frasi cristalline, e sull’autentica gloria della «oscurità rivoluzionaria» in cui teniamo il gran Carlo a maestro.

Comunque Lenin è qui irriducibile ed egli stesso scrive sulle sue dure dimostrazioni il titolo inequivocabile: controcorrente.

La storia non volle che egli, nella sua grandezza, vedesse venire il pericolo osceno di ripiombare impotenti nel limaccioso fondo della corrente, che sembrava a tutti noi capovolta ma purtroppo non lo era.

Bisogna sabotare la guerra da uno e dall’altro lato del fronte senza la condizione che il sabotaggio sia di pari forza, senza badare se dall’altra parte sia per avventura inesistente. Bisogna egualmente, in una tale situazione, con un esercito nemico che varca lo sguarnito fronte, cercare di liquidare la propria borghesia, il proprio Stato, di prendere il potere, di instaurare la dittatura del proletariato.

Parallelamente con la «fraternizzazione», con l’agitazione internazionale, con tutti i mezzi a disposizione del potere vittorioso, si provocherà il moto ribelle nel paese nemico.

La risposta è facile, da parte del centrismo: Ma se tale moto malgrado tutto fallisce, lo Stato e l’esercito nemico restano efficienti, e vengono ad occupare il paese rivoluzionario per rovesciare lo Stato del proletariato; che farete?

Lenin ebbe per questo due risposte: una sta nella storia della Comune, che non avrebbe esitato, potendo debellare la sbirraglia borghese di Francia, ad accogliere a cannonate anche i prussiani, ma in nessun caso avrebbe abbassata la rossa bandiera della rivoluzione. L’altra risposta ai contorti apologizzatori della guerra borghese, imperialista, controrivoluzionaria, fu appunto: la guerra. La nostra guerra, la guerra rivoluzionaria, la guerra socialista.

Contro lo stesso nemico allora? Allora la stessa guerra da noi difesa?, sogghigna il filisteo contraddittore. No, perché la nuova guerra è guerra di classe, perché non è condotta al fianco dello Stato borghese e del suo stato maggiore, già travolti; perché la sua non sarà vittoria di una coalizione imperialista ma della rivoluzione mondiale.

11 – La carta cambiata

Questo punto storico riguarda la possibilità di una manovra rivoluzionaria dell’Internazionale opposta a quella dei traditori del 1914, come del tutto opposta a quella che fu fatta nel 1939 e 1941.

L’opportunismo è il bill di non-rivoluzione, la tregua di classe interna concessa a tutti i belligeranti, fino a guerra finita.

Mostreremo che è trucco volgare assimilare questo vergognoso, sfacciato espediente di traditori alla pretesa adesione preventiva del movimento ad una teoria che imponesse la «rivoluzione simultanea» in tutti i paesi.

La formula di Lenin è il negato bill, la negata tregua in tutti i paesi in guerra non meno che in pace, la pressione verso l’evento rivoluzionario nella vittoria e nella sconfitta dello Stato, e soprattutto l’utilizzazione rivoluzionaria di questa.

Ovunque il rovescio di guerra ne desse la possibilità il partito proletario doveva prendere il potere: questa avrebbe dovuto essere la politica in Germania, questa in Francia e questa, diciamo subito, in Russia.

La Francia senza la Germania avrebbe dovuto avere un governo socialista; o la Germania senza la Francia. Entrambi tali governi avevano la possibilità di risolute misure anti-capitalistiche e soprattutto di afferrare alla gola gli industriali di guerra, e dovevano subito, dalla parte in cui si era vinto, non disarmare, ma organizzare un esercito rivoluzionario, per fermare quello nemico, per impedire lo jugulamento della propria rivoluzione.

La costruzione del comunismo in Russia, e in generale in un «solo» paese prevalentemente feudale e patriarcale, non ha a che vedere con questa tesi, e non si può poggiare su di essa: è altro paio di maniche.

Che dovevano fare i rivoluzionari in Russia? Perdio, è mille volte detto in tutte lettere: non il socialismo, ma una repubblica democratica. L’ipotesi del socialismo in un solo paese è ovvia, ma si scrive: paese capitalista.

Eccolo: dalla vostra manica, signor baro, l’asso è uscito.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. B. D. Wolfe, «I tre artefici della rivoluzione d’ottobre», Firenze, 1953, pag. 836. [⤒]

  2. L. Trotsky, «La mia vita», Milano, 1961, pagg. 200–202. [⤒]

  3. Lenin, «I compiti della socialdemocrazia rivoluzionaria nella guerra europea», in «Opere», XXI, pag. 12. [⤒]

  4. Cfr. anche, di Lenin, «La guerra e la socialdemocrazia russa» e «La situazione e i compiti dell’Internazionale socialista» («Sotsial – Demokrat», nr. 33 del 1° nov. 1914), in «Opere», XXI, pagg. 19–32. Per la Sinistra in Italia, cfr. la documentazione contenuta nella nostra «Storia della sinistra comunista. 1912–1919», cit. [⤒]

  5. «Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S. – Breve Corso», Mosca 1945, pag. 145. [⤒]

  6. «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa», in «Opere», XXI, p. 313. [⤒]

  7. «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa», in «Opere», XXI, pag. 314. [⤒]

  8. «Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S. – Breve Corso», Mosca 1945, pag. 145. [⤒]

  9. Cfr. «Sulla parola d’ordine del 'disarmo’», in «Opere», XXIII, pagg. 92–102. [⤒]

  10. «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 77. [⤒]

  11. Cfr. fra l’altro i «Fili del tempo» apparsi nei nr. 10–14/1950 e 4–6/1951 di «Battaglia comunista», allora nostro organo quindicinale. [⤒]

  12. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 83. [⤒]

  13. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 81. [⤒]

  14. Nel testo originale è stato scritto in tedesco sbagliato: «zur Paris! zur Paris!» [sinistra.net, giugno 2000] [⤒]

  15. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 78. [⤒]

  16. «Avanti!» del 21-XII-1915, riprodotto nella nostra «Storia della Sinistra Comunista, 1912–1919», cit., pagg. 259–261. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 11, Giugno 1955

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