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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XI)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XI)
94 – Dogma o guida per l’azione?
95 – La pretesa «filosofia della prassi»
96 – Ancora Lenin filotempista
97 – Famoso «fronte antidestro». Kornilov
98 – Fronte svanito, bolscevismo avanzante
99 – Preparlamento e boicottaggio
100 – L’insurrezione e un’arte!
101 – Ancora contrasto nel partito
102 – Gli organi della lotta
103 – La suprema ora
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XI)

94 – Dogma o guida per l’azione?

È necessario inserire ancora alcuni rilievi nel corso cronologico di questa esposizione, pur rendendoci conto che siamo ancora sulla soglia del vero tema, svolto nelle parti finali delle riunioni di Napoli e Genova, ossia l’economia sociale in Russia dalla rivoluzione di Ottobre in poi.

Dobbiamo provare che la posizione di Lenin e del partito tra il luglio e il settembre 1917, in cui si abbandonò la parola «il potere ai Soviet», che poi doveva essere ripresa per la lotta armata di ottobre non fu un lapsus, non subì la lamentevole vicenda del riconoscimento di errore, in cui la rivoluzione spense piano piano le sue fiamme e la sua gloria nei successivi anni.

Questa formula del riconoscimento vale per le persone, che poco importano coi loro pentimenti, sottomissioni o cruente liquidazioni. Per il partito essa si trasforma nell’altra di rettifiche successive della strategia della classe operaia, derivate dall’apparire di situazioni «impreviste». Man mano che queste successive accostate hanno condotto il proletariato mondiale e russo nei più fetenti miasmi del pantano borghese, si è con sempre più potenti risorse iniettata nelle masse smarrite la credenza ignobile che questo dettame sia contenuto nella linea di Marx, di Engels, di Lenin, ridotti alla pietosa figura di spregiudicati allievi dell’ultima moda.

Noi siamo lunghi nell’esporre, non gli episodi gloriosi o vergognasi, ma le successive valutazioni del corso storico da parte del movimento marxista, per provare che esse sono legate ad un corso unitario indeformabile, teorizzato di getto non da una mente qualunque in un tempo qualunque, ma da un collettivo movimento di classe determinato all’epoca fissa dell’apparire del contrasto tra capitalisti e proletari, epoca più feconda a questo fine delle passate e delle posteriori. Noi siamo – è bene dirlo, fra tanto annebbiarsi di immagini trasmesse, nella forma cruda – per un corpus di dottrina che non è permesso mutare, lungo l’arco storico della classe operaia moderna, dal suo apparire alla scomparsa delle classi. Se un insegnamento storico smentisse questa costrutta dottrina «di parte» del passato e del futuro, essa, nella dannata e contestata ipotesi, crollerebbe nel nulla, e non potrebbe essere salvata da contingenti puntellature, da ibridazioni bastarde. E dobbiamo, come abbiam detto, essere lunghi, per opporci al gioco di citazioni con cui, senza collocarle nel tempo, nel filo dei tempi, nello specifico documento di cui si tratta, si cerca di avvalorare questo spregevole eclettismo, a cui tutto il disfattismo, che ci ha a tante riprese travolti, ma non dispersi, integralmente si riconduce.

Tutta la letteratura dello stalinismo mira, nella sua possente organizzazione, a questo traguardo. Ad esempio vi ricorre una frasetta di Lenin, o a lui attribuita, che condensa il concetto:
«il marxismo non è un dogma, ma una guida all’azione».

95 – La pretesa «filosofia della prassi»

Questa vecchia frase, che Gramsci usò allo scopo di evitare che la parola marxismo non facesse passare i suoi quaderni sotto la pedestre censura carceraria, è anch’essa equivoca, e non qui concluderemo la disquisizione, cui occorre ancora dare materiale anche relativo alla politica comunista, oltre che in Russia, anche nel mondo, nella sua lunga storia.

Il marxismo ha a che fare con la prassi (parola che significa azione umana, comportamento della specie uomo, e null’altro di diabolico), ma non nel senso che ne faccia il soggetto, il punto di appoggio, la chiave del mondo sociale e della sua storia. Meglio è dire che il marxismo è una dottrina o scienza delle cause e delle leggi della prassi, e che non tratta della prassi del singolo individuo ma del comportamento medio sociale. La spiegazione che ne dà non consiste nel porre tale comportamento alla base, ma alla sommità della ricerca, il che non vuol dire che questo effetto di cause ambienti, materiali e relative alla materiale vita della specie, non si riverberi in cause del procedere storico: lo fa, ed è tutto qui il misterioso «capovolgersi» della prassi, quando lo si scopre non nel pensiero e nella volontà del singolo uomo, anche di eccezione, ma nell’intervento in tempo maturo delle classi sociali in senso largo e del partito di classe in senso più stretto. A questo punto e in questo piano si vede che la dottrina marxista non sorse per soddisfare la voluttà di cervelli anelanti di scoprire il retorico mistero dell’essere, ma per servire di base al movimento di una data classe sociale e del partito che ne prepara la rivoluzionaria vittoria.

Al lume di questo rapido richiamo, la frase che il marxismo non è un dogma ma una guida per l’azione, anche se figura, per motivi che è facile a volta a volta trovare, in tesi di propaganda di agitazione e di battaglia, non dice nulla e non vale nulla.

Dogma nella comune accezione etimologica e filosofica significa un’affermazione derivante da una sopraumana rivelazione, che è valida per tutti i tempi e che non è consentito negare e nemmeno sottoporre a critica analisi. I trascendentisti lo ammettono, gli immanentisti lo negano alla loro maniera e noi marxisti… ci freghiamo degli uni e degli altri.

Noi non diciamo né che il dogma è stato rivelato dal dio, né che è stato inventato da un furbacchione o una banda di furbacchioni. Il dogma è sorto in un tempo ed una società determinati, come primo embrione di una scienza, e non di scienza astratta ma di scienza che doveva servire alla prassi: sia a tramandare le tradizioni della prassi (dell’esperienza, dell’attività sociale anche primitiva), sia come base di normativa pratica, di codice etico. La forma dogmatica sorse per interesse di classi che volevano conservare una struttura sociale e il suo controllo. La religione non è, per noi, e non appare come risposta all’esigenza di capire il mondo, ma a quella, molto precedente ed assorbente, di controllare la società (e in genere per infrenare le sue tendenze a mutarsi).

In sostanza per un marxista i dogmi, storicamente, erano guide per l’azione. La frase che il marxismo non è dogma ma guida per l’azione è dunque un nonsenso, se detta da un marxista.

Essa ci espone a confonderci con due posizioni borghesi: una che l’attuale scienza di classe sia uscita dalle pastoie del dogma rivelato e autoritario, e quindi faccia legge uguale per lor signori borghesi e per noi. L’altra che col condannare i dogmi fideisti si sia fatto tutto quel che occorreva per avere il diritto di guidare l’azione umana, e si sia chiuso il periodo delle rivoluzioni. Per noi le vecchie società avevano per guida dell’azione un sistema di dogmi, quella borghese ha per guida di azione una falsa scienza e una filosofia che si pretende a torto antimitologica e consacra vuoti ideologismi sull’umanità la personalità e la libertà al solo fine di difendere e conservare il modo sociale capitalistico – il marxismo è una nuova forma di superare e il dogma, e il borghese antidogma, e di porre, in linee prima improponibili, il vero rapporto tra conoscenza e prassi, dottrina ed azione, in dialettica inseparabilità.

Ben si dice che il marxismo non è dogma, in quanto è teoria di una classe sociale che nasce ad un dato svolto storico e tratta scientificamente i fatti sociali del presente, del passato e dell’avvenire. Ben si può dire che la teoria marxista vale di guida alle decisioni del partito, e in questo senso di guida all’azione della classe.

La frase che collega i due termini, nella troppo pasteggiata dagli opportunisti formuletta di comodo, può servire solo a ribattere chi voglia esaurire il marxismo nello studio del divenire storico, oscurandone il lato essenziale della partecipazione collettiva alla storica azione.

96 – Ancora Lenin filotempista

La posizione della sfiducia contingente nei Soviet è storicamente della più alta importanza, perché converge in una tesi marxista e Leninista essenziale che si pone contro tutti gli operaismi, laburismi, sindacalismi, consigliaziendismi destri e sinistri, e che siamo soliti a spesso richiamare. La rivoluzione non è una questione di forme di organizzazione. Ovvero: essa non è una questione costituzionale, ma una questione di forze di classe.

Questo resta dimostrato quando si fa vedere che quella sfiducia, non contraddicente alla fiducia nel risultato finale della conquista del potere, molto dopo Ottobre, viene sempre considerata come giustissima, nel detto tempo luglio-settembre. Il documento è questo.

Al II Congresso di Mosca dell’Internazionale Comunista, nel giugno 1920, sulla questione del parlamentarismo Lenin, e Bucharin relatore, respinsero la proposta di abbandonare in Europa la partecipazione alle elezioni parlamentari, sostenuta dalla frazione comunista astensionista italiana. Ambo gli oratori presero atto che la stessa non cadeva nell’errore di proporre in Italia l’immediata formazione dei Soviet, propugnata dagli altri gruppi che poi ebbero a convergere nella formazione a Livorno 1921 del partito comunista (Bombacci, Gennari ed altri: quanto ai torinesi essi nella loro particolare dottrina mal distinguevano la rete degli organismi di azienda, immersa nella società attuale, dagli organi di un nuovo potere politico rivoluzionario).

Bucharin osservò che i compagni astensionisti
«riconoscono con noi che non si può procedere all’organizzazione immediata di Soviet operai in tutti i paesi. I Soviet sono organi di combattimento del proletariato. Se le condizioni che rendono possibile questo combattimento mancano, non ha senso creare dei Soviet, perché essi si trasformerebbero in appendici filantropico-culturali di altre istituzioni puramente riformiste, e v’è il grave pericolo che si organizzino secondo il modello francese, in cui un paio di individui si riuniscono in associazioni pacifiste e umanitarie, prive di ogni valore rivoluzionario»[83].

Lenin trattò, dunque non a caso, lo stesso punto notando che il rappresentante degli antiparlamentaristi italiani
«ha detto che bisogna trasferire la lotta in un altro campo, nei Soviet. Ma ha poi riconosciuto che i Soviet non possono essere creati artificialmente. L’esempio della Russia dimostra che i Soviet possono essere costituiti durante la rivoluzione o nella imminenza di essa. Al tempo di Kerenski, i Soviet (e precisamente i Soviet menscevichi) erano costituiti in modo tale che non potevano dar vita in nessun caso al potere proletario»[84].

È chiaro che la deduzione dell’uno e dell’altro oratore era che fino a che i Soviet non sorgessero nella lotta, lo scopo – allora a tutti comune – di distruggere il parlamento borghese si dovesse raggiungere lavorando dentro i parlamenti per sabotarli. Gli astensionisti obbedirono, ma restando sulle loro posizioni formularono la previsione facile che nessun parlamento sarebbe caduto per sabotaggio dall’interno, e il partito che vi entrasse sarebbe finito nel marxistico «cretinismo parlamentare». Non è qui questo il punto, ma quello di provare come sia concatenata strettamente in corso unitario l’interpretazione della rivoluzione di Russia, lungo trent’anni in generale, e in ispecie nei trapassi sconvolgenti dei mesi del 1917, anno di fuoco.

Lasciamo l’argomento rilevando – a confusione di quanti considerano una fredda storiografia di cose morte la nostra ricostruzione – quale sapore di ironia abbia l’articolo che per la «Pravda» ha scritto, nell’ultimo anniversario della rivoluzione sovietica, quegli che sarebbe il successore in pectore del segretario generale dei comunisti italiani. Due occasioni, costui ha scritto, si sono perdute per sovietizzare l’Italia: quella del primo dopoguerra nel 1919–20, e quella del secondo dopoguerra col movimento di liberazione.

L’una e l’altra volta, in posizione difensiva o offensiva, il proletariato italiano, potente nelle città e nelle campagne, maggioranza e prima forza sociale del paese, cimentato dal disgusto per avere bevuto fino alla feccia il calice oleoso delle democrazie parlamentari borghesi, che ad ogni fase superano se stesse nella propria ignominia, è stato distornato dalle soglie della rivoluzione di classe da tutta una gamma di «compromessisti», ha fatto naufragio negli Aventini e nei Comitati di Liberazione Nazionale, forme regressive a fronte delle quali il più menscevico e kerenskiano dei Soviet di Russia è un modello di forza rivoluzionaria.

Il tartufesco rimpianto suona amara beffa, sulle labbra degli affogatori della rivoluzione nel costituzionalismo più smaccato, e se possibile perfino, in episodi di oggi, sotto-parlamentare. Un Gronchi è assai meno di un Kerenski! Anche se altrettanto ama esser teatrale.

97 – Famoso «fronte antidestro». Kornilov

La nuova situazione era dunque questa: il partito bolscevico aveva apertamente dichiarato esaurita ogni possibilità di pervenire al potere per via pacifica ed entro i Soviet: questi, diretti dai social-opportunisti, si erano ancor più aggiogati al governo di coalizione coi borghesi diretto da Kerenski, il quale aveva non meno apertamente iniziato la repressione del movimento proletario rivoluzionario e la messa dei bolscevichi fuori della legge.

Frattanto l’offensiva al fronte scatenata dal governo Kerenski era finita nel disastro, e il tedesco avanzava.

L’esercito era comandato dal generale Kornilov, che al 3/16 agosto, sviluppando un sistematico piano reazionario, imponeva l’istituzione della pena di morte per i militari, non solo al fronte ma anche nelle retrovie.

Il governo provvisorio, che mirava alla dispersione dei Soviet, benché a lui non ribelli, indisse per il 12/25 agosto in Mosca una «Conferenza di Stato», uno dei tanti tentativi di mettere in piedi, prima delle elezioni per la Costituente, una rappresentanza «popolare» confacente agli interessi borghesi.

I Soviet vi furono rappresentati al solito da menscevichi e socialisti rivoluzionari. Kerenski minacciò di reprimere con la forza ogni movimento nelle città ed ogni tentativo espropriatore nelle campagne. Kornilov andò più oltre chiedendo lo scioglimento dei Soviet. Al suo Quartiere Generale si avvicinarono con aiuti di ogni sorta grandi terrieri, industriali e banchieri, e con esso stabilirono stretti rapporti gli agenti degli alleati francesi e inglesi.

I bolscevichi, che lavoravano intensamente e guadagnavano influenza tra le masse, opposero alla Conferenza uno sciopero generale a Mosca e in altre città. D’intesa con Kerenski, Kornilov spostava da Pietrogrado le truppe di tendenza rivoluzionaria e vi avvicinava reggimenti che riteneva «fedeli». La stessa gravità di queste misure cominciò ad impressionare Kerenski e il suo governo, spargendo lo smarrimento tra i soldati menscevichi ed esserre.

Il 21 agosto / 3 settembre Kornilov aveva abbandonata la città di Riga ai tedeschi: quattro giorni dopo mosse verso Pietrogrado. Kerenski aveva invano trattato con lui per sostituirgli altro comando: Kornilov gettò la maschera e mosse contro il governo civile.

Kerenski dichiarò il generale «traditore della Patria» e invocò l’aiuto delle masse popolari. Nel comitato centrale esecutivo dei Soviet intervenne per i bolscevichi Sokolnikov, che dichiarò essere il suo partito pronto a «trattare misure militari con gli organi della maggioranza del Soviet» al fine di respingere Kornilov. Trotsky così si esprime ed aggiunge che
«menscevichi ed esserre accettarono quest’offerta ringraziando e digrignando i denti, poiché i soldati e gli operai ora seguivano i bolscevichi»[85].

È importante che questo esempio di fronte unico tra tutti i partiti operai, di cui tanto si è discusso nel seguito per giustificare altre forme di tattica del fronte unico «politico», sorse sul piano militare e non come un vero accordo tra i comitati dirigenti i partiti. È da notare che la stessa Storia ufficiale dice che
«lividi di spavento, i capi socialisti-rivoluzionari e menscevichi chiesero in quei giorni protezione ai bolscevichi, convinti come erano che nella capitale essi erano la sola forza reale capace di sconfiggere Kornilov. Ma, mobilitando le masse per la disfatta di Kornilov, i bolscevichi non cessavano la lotta neppure contro il governo kerenskiano. Essi smascheravano di fronte alle masse il governo di Kerenski, dei menscevichi e dei socialrivoluzionari, i quali con la loro condotta politica avevano favorito obiettivamente il complotto controrivoluzionario di Kornilov».

Non vi fu bisogno di passare dalla mobilitazione delle masse lavoratrici ad una vera guerra civile. Contro l’avanzante ottavo corpo di cavalleria al comando di Krymov si schierarono alla periferia di Pietrogrado operai armati dei sindacati, guardie rosse, reparti di marinai di Kronstadt. Agitatori bolscevichi raggiunsero la «divisione selvaggia» cosacca: la truppa rifiutò di proseguire la marcia sulla città rossa. Il generale Krymov si fece saltare le cervella: Kornilov stesso coi suoi seguaci Lukomskij e Denikin fu arrestato al quartier generale di Moghilev l’1/14 settembre. Kerenski, rimasto al potere, dopo non molto liberò costoro. Fu una avventura in sostanza incruenta. Ma aumentò in modo decisivo il prestigio dei bolscevichi.

98 – Fronte svanito, bolscevismo avanzante

Battuto Kornilov, Lenin dispone che si riprenda la parola del potere ai Soviet, i quali avevano per la forza del movimento bolscevico dimostrato di aver vinta facilmente una battaglia che Kerenski avrebbe perduto. Lenin attraverso la stampa, a dire di Trotsky, «propose un compromesso ai fautori di compromessi» che tanto aveva svergognati. Impegnatevi, disse, a garantire la piena libertà di propaganda ai bolscevichi, e questi si impegneranno a non attaccare «la legalità sovietica», ossia rispetteranno la volontà della maggioranza del Soviet senza ricorrere alla forza insurrezionale.

Ma come ben Lenin sapeva furono i «fautori di compromessi» a declinare il compromesso coi bolscevichi. Questo non giovò loro: il prevalere dei bolscevichi su essi era vicino. E qui Trotsky, grande anche come storico, scrive:
«Come nel 1905, il vantaggio che la prima ondata della Rivoluzione aveva dato ai menscevichi, disparve tosto nell’atmosfera inasprita della lotta di classe. Ma contrariamente alla linea di sviluppo della prima Rivoluzione, la crescita del bolscevismo ora corrispondeva al rafforzamento e non al declinare del movimento delle masse»[86].

Ben diverso è, come studieremo al suo luogo, il gioco del compromesso e della «offerta di compromesso» in un paese appena uscito dalla rivoluzione antifeudale, e in uno ove questa è lontana, scontata, passata. Tuttavia questa frase ci ricorda un rapporto a Mosca della direzione del Partito Comunista d’Italia dopo lo sciopero generale di agosto 1922 contro il fascismo, che segnò la vera data della vittoria della controrivoluzione borghese capitalista e dello Stato tradizionale, di solito confusa con la farsa della marcia su Roma e del 28 ottobre, pretesa rivoluzione in frack quirinalesco. Scrisse il partito italiano: il proletariato dopo avere valorosamente combattuto è stato battuto non dai fascisti ma dallo Stato borghese e dalle sue forze armate. Le sue forze ripiegano, ma quelle del nostro partito avanzano rispetto a quelle dei partiti opportunisti. La lotta deve continuare contro la borghesia fascista come contro i socialisti opportunisti[87].

Sembrò questa la via che preparasse una nuova fase rivoluzionaria, in cui il partito comunista avanzasse in una situazione di ripresa proletaria e rivoluzionaria.

Mosca nel 1924 dettò la parola: Blocco per la libertà con tutti gli antifascisti. Quelli che ebbero lo stomaco di raccoglierla sono ancora oggi affogati nel popolarismo parlamentare, affamati di blocchi di governo non coi soli socialdemocratici e liberali italiani, ma addirittura coi cattolici. Una situazione di movimento in avanti intrinseco ed estrinseco come quella del settembre bolscevico 1917 non si può nemmeno intravedere.

Disgraziati tra i disgraziati quei poveri operai che la sogneranno in una nuova «rivista» schedaiola, ove la degenerazione del costume sarà ancora più palese, in tutte le sfumature contendenti.

99 – Preparlamento e boicottaggio

Visto che la «Conferenza di Stato» aveva preparato il terreno a Kornilov (i bolscevichi non vi erano nemmeno invitati), il governo di coalizione tentò di risollevare le sue sorti con una «Conferenza Democratica», convocata stavolta dal Comitato Esecutivo dei Soviet per lo stesso giorno della caduta di Kornilov, 1/14 settembre. Fu gabellata come matrice di un Pre-parlamento o Consiglio della Repubblica. Frattanto i bolscevichi avanzavano di successo in successo. Il 3/16 settembre Trotsky e gli altri loro capi venivano liberati. Il giorno dopo nel Soviet di Pietrogrado una votazione dava la prima volta la maggioranza ai bolscevichi. Il 9/22 doveva dimettersi il vecchio presidio; l’11/24, sostituendo Čcheidze, Trotsky tornava al suo posto del 1905, alla presidenza.

Si pone subito per i bolscevichi la questione se debbano prendere parte al cosiddetto Pre-parlamento. È in questo tempo che cominciano le celebri lettere di Lenin al Comitato Centrale, che pongono la questione dell’insurrezione, e con un incalzante crescendo incitano a predisporla, e finalmente e contro tutte le esitazioni esigono che sia scatenata.

Su questa questione del Pre-parlamento avvenne al solito una disparità di opinioni. I bolscevichi designati come membri di tale Consiglio consultivo presero parte alle prime sedute: ben presto Lenin, dopo avere indicato il tenore delle prime dichiarazioni, denunzianti ogni possibile ulteriore compromesso coi partiti che lo avevano respinto, richiese l’uscita della «frazione» (noi diciamo gruppo) del partito.

Il Comitato Centrale, discorde, rimise il problema alla riunione della stessa «frazione». In questa Stalin e Trotsky furono per il boicottaggio, riscuotendo l’approvazione di Lenin con lettera del 22–24 settembre (5–7 ottobre). Ma furono per la partecipazione Rykov e Kamenev, ottenendo la maggioranza. L’espressione di Lenin era stata particolarmente drastica; dobbiamo dare alle masse una parola chiara e precisa: date un calcio a Kerenski e al suo Pre-parlamento![88].

Finalmente il 24 settembre / 7 ottobre la frazione bolscevica lasciò il risibile pseudo parlamento: Ci appelliamo alle masse! Tutto il potere al Soviet! Un mese dopo questa parola era realtà.

100 – L’insurrezione e un’arte!

Dobbiamo rapidamente seguire il decorso della lotta per prendere il potere. Le vicende ne sono note: ma dato il fatto notevole che una corrente del partito si oppose, dobbiamo dare la precedenza a questa questione «politica» per verificare dopo con quale programma sociale il partito bolscevico impostava la battaglia conclusiva, e stabilire ancora una volta la continuità della prospettiva.

Indubbiamente mai più sarà possibile avere la serie vera della corrispondenza tra Lenin e il centro del partito, e quella dei verbali del Comitato Centrale in cui si dibattevano gli storici punti; preparare l’attacco armato, scegliere il momento per sferrarlo con successo[89].

Uno scritto di Lenin dell’1/14 settembre si riferisce diffusamente al problema della crisi economica e della «catastrofe imminente» per la Russia, governata da borghesi e social-traditori, e minacciata da colpi di destra. Ma una lettera al comitato centrale che segue di pochi giorni (13/26) porta decisamente in primo piano il tema dell’assalto al potere: Il Marxismo e l’Insurrezione. L’urgentissima comunicazione non omette di riportarsi alle basi di dottrina. I revisionisti di destra del marxismo hanno rivolto l’accusa di blanquismo ai marxisti radicali. In Marx invece l’insurrezione è trattata come un’arte, nello stesso senso che si parla con correzione terminologica di un’arte della guerra e delle sue norme e regole[90].

Distingue i marxisti rivoluzionari dai blanquisti il fatto che essi non considerano l’insurrezione come la sola attività politica e non la considerano un’attività da intraprendere in un momento qualunque. La guerra, dicono i teorici militari, è una continuazione della politica degli Stati. Nessuno Stato è sempre in guerra, normalmente il mezzo della sua politica estera e dei suoi rapporti anche di contrasto con altri stati è la negoziazione, la diplomazia: quando da questa si passa (e come oggi vediamo nei più vari modi e trapassi) alla guerra dichiarata. esiste per condurre questa un’arte, affidata agli Stati maggiori.

L’estrema forma del contrasto tra le classi sociali è la guerra civile, Marx lo dice ad ogni momento.

Lenin chiarisce la differenza col blanquismo nello stabilire che per l’iniziativa dell’insurrezione non basta il volere di un gruppo cospirativo e nemmeno di un partito rivoluzionario (sempre indispensabile, non sufficiente di per sé ed in ogni caso e momento). Occorre un determinato grado di attività delle masse, che in genere si ravvisa ad un solo istante del decorso di una grande lotta classista. Scoprire tale momento, come prepararlo e condurre l’azione armata, è un’arte che il partito deve studiare, conoscere, applicare felicemente.

Lenin esamina i rapporti delle forze al 3–4 luglio e conclude che in quel momento il partito non doveva tentare l’assalto. Gli avversari non erano ancora sconvolti dagli eventi, lo slancio rivoluzionario proletario era limitato.

Dopo l’episodio Kornilov, tutto questo, dai due lati, è mutato. Oggi «la nostra vittoria è certa». Lenin disperde l’alternativa, cui sa che alcuni credono, di un’azione nel seno del Preparlamento.
«La decisione sta fuori della Conferenza, nei quartieri operai di Pietrogrado e di Mosca»!

I tedeschi minacciano Pietrogrado. Il governo non può più difenderla e non può né vuole fare la pace. Noi, dice Lenin ponendo a questo stadio le due facce del tremendo problema internazionale, noi soli possiamo fare le due cose. Proporremo la pace, anche un armistizio ci basterà. «Ottenerlo oggi significa già vincere il mondo intero!» Ma se non potremo fermare l’ondata noi condurremo anche la disperata guerra rivoluzionaria: per il fronte toglieremo ai capitalisti stivali e pane! Brest Litovsk doveva superare questa più che tragica alternativa.

Per la Conferenza Lenin sostiene non discorsi ma una breve dichiarazione, cui seguirà il boicottaggio del derivato Preparlamento. Rottura completa con la borghesia, destituzione di tutto il governo attuale, rottura con gli imperialisti franco-inglesi, passaggio di tutto il potere nelle mani di una democrazia rivoluzionaria guidata dal proletariato rivoluzionario.

Lenin sottolinea le ultime parole e ci riconferma che non ha interruzioni la linea del 1905 e di Aprile, se pur dispiace a Trotsky: ciò in connessione, egli aggiunge, col nostro progetto di programma: la pace ai popoli, la terra ai contadini, confisca dei profitti scandalosi dei capitalisti, repressione dello scandaloso sabotaggio della produzione perpetrato da essi. Per la centesima volta: la rivoluzione socialista, ma non la società socialista (che verrà, lo vedremo presto ancora, da Occidente).

Dopo di ciò azione a fondo nelle officine e nelle caserme (notate: in questa convulsa fase dell’attacco non si attendono alleati contadini insorti). Subito dopo ciò, scegliere il momento propizio per l’insurrezione.

Come nota Trotsky (mentre qui Lenin vuole solo dimostrare che non si resta fedeli al marxismo e alla Rivoluzione se non si capisce che l’insurrezione va trattata come un’arte) le sue comunicazioni passano all’applicazione in concreto, si diffondono su tutti i particolari della strategia insurrezionale, dei posti da prendere, delle forze da dislocare…

101 – Ancora contrasto nel partito

Nella lettera dell’8/21 ottobre Lenin incita ancora e discute perfino la cifra di armati occorrenti per superare la resistenza del governo. Egli in tal frangente torna a citare Carlo Marx:
«L’insurrezione, come la guerra, è un’arte».
Si serve delle stesse raccomandazioni fatte da Marx 65 anni prima, e conclude con la finale citazione di Danton,
«il più grande maestro di tattica rivoluzionaria finora conosciuto: dell’audacia, ancora dell’audacia, e sempre dell’audacia»!
E Lenin chiude così:
«Speriamo che nel caso in cui sarà deciso di agire, i dirigenti applichino con successo i grandi comandamenti di Danton e di Marx».
«Il successo della rivoluzione russa e della rivoluzione mondiale dipende da due o tre giorni di lotta»![91].

Nella storica riunione del Comitato Centrale cui Lenin giunge travestito, il 10/23 ottobre (a quindici giorni dalla vittoria) si vota la mozione che deduce l’urgenza di attaccare da motivi tratti dalla situazione internazionale: l’ammutinamento della flotta in Germania, come più alta manifestazione di sviluppo in tutta Europa della rivoluzione socialista mondiale… la situazione militare, ecc… mettono all’ordine del giorno l’insurrezione armata.

La decisione non fu concorde. Kamenev e Zinoviev votarono contro. Non seguiremo qui tutte le manovre della storia ufficiale per far credere che anche Trotsky in qualche modo dissentisse, e che non fosse lui a dirigere in pieno l’arte dell’insurrezione. Negli anni dal 1920 al 1926 queste cose le raccontavano a Mosca, senza che nessuno dissentisse, anche le pietre.

Il 16/29 ottobre nella riunione allargata del Comitato Centrale i due tornarono a parlare contro l’insurrezione. Battuti ancora una volta, e qui fu il fatto grave, due giorni dopo dalle colonne di un giornale menscevico affermarono che il loro partito sbagliava, lanciandosi in una pericolosa avventura.

La nuova lettera di Lenin del giorno stesso è tremenda. Egli si impegna a chiedere al Congresso che i due siano espulsi dal partito, li chiama signori e li sfida a fondare un partito dissidente «con qualche decina di disorientati o di candidati all’assemblea costituente». Lenin si ferma sulla rivelazione di una decisione interna del partito. Accenna agli «argomenti ideologici» dei due: l’attesa dell’assemblea costituente, sperando (!) di resistere fino ad allora, e un «querulo pessimismo»: i borghesi sono fortissimi, gli operai ancora troppo deboli.

La conclusione di Lenin è questa, drammatica:
«Momento difficile. Compito arduo. Tradimento grave».
Lenin non dispera un momento degli operai.
«Gli operai serreranno le file, l’insurrezione contadina e l’impazienza estrema dei soldati al fronte compiranno l’opera! Serriamo le file, il proletariato deve vincere!»[92].
Ma egli vede sabotata la lotta di due o tre giorni, nella cerchia delle grandi capitali.

102 – Gli organi della lotta

In un primo tempo, al momento dell’abbandono del Preparlamento, fu dal partito (nel racconto di Trotsky) formato un Ufficio per le informazioni sulla lotta con la controrivoluzione[93] affidato a Trotsky, Sverdlov e, proposto da Stalin in sua vece, Bubnov. Secondo Trotsky Stalin era per l’insurrezione, ma non credeva il partito pronto. Secondo Stalin, è il contrario, o addirittura Trotsky fece una proposta tale da silurarla. È incredibile questo estremo raggiunto, nella nostra età, nel modo di esporre la storia: si mente alla Danton: dell’audacia, ancora dell’audacia, e sempre dell’audacia! Ci perdoni la grande giacobina ombra, se prendiamo a prestito per così vile cosa la sua storica parola.

Il 9/22 ottobre il conflitto tra Soviet e governo stava per scoppiare per il minacciato trasferimento al fronte della guarnigione rivoluzionaria. Nel seno del Soviet, Trotsky propose e formò il Comitato Militare Rivoluzionario.

Sotto le pressioni bolsceviche il Secondo Congresso panrusso dei Soviet era convocato per il 20 ottobre / 2 novembre. Poiché era necessario che il potere fosse preso almeno a Pietrogrado prima del 20, perché il Congresso, in cui era sicura la maggioranza per la tesi bolscevica, potesse prendere il potere a governo giù battuto, alla descritta seduta del 10/23 si stabilì come giorno per l’insurrezione il 15/28. Al Comitato Militare parvero troppo pochi 5 soli giorni (su ciò specula Stalin) e del resto alla riunione allargata del 16/29 uno era già passato. In quella, mentre le date incalzavano, e Zinoviev e Kamenev tentavano di far rinviare tutto almeno fino alla riunione del Congresso, Stalin divagò senza proporre date. La grave situazione fu sciolta dai capi del Comitato Panrusso, non ancora bolscevico: costoro decisero di spostare il congresso dei Soviet al 25 ottobre / 7 novembre.

Quei cinque giorni di più bastavano al Comitato Militare Rivoluzionario. Ma intanto la questione fu complicata dall’atteggiamento del «Rabocij Put», che pur non ponendosi contro Lenin disse che era troppa l’asprezza del suo articolo contro Kamenev e Zinoviev.

Il 16/29 fu anche deciso di organizzare un «Centro rivoluzionario militare» del Partito, con Sverdlov, Stalin, Urickij, Dzeržinskij e Bubnov. Stalin ha in seguito gonfiata l’opera di questo centro, per vari anni a detta di Trotsky dimenticato, e che del resto nella decisione di pugno di Lenin doveva far parte del Comitato militare del Soviet, pacifico protagonista dell’azione. Non ci diffonderemo su questa poco edificante questione: non certo Trotsky è quello che inventa, e del resto stanno con lui i documenti che cita e la generale notorietà sulla sua azione, e il riconoscimento di essa da parte di Lenin e di migliaia di partecipanti a quelle giornate[94].

103 – La suprema ora

Lenin scrive l’ultima storica lettera la sera del 24 ottobre / 6 novembre: pare che nella stessa giornata, e prima di riceverla, il Comitato Centrale decidesse l’azione.

Nel protocollo Trotsky fa le proposte e comunicazioni fondamentali: Stalin, assente, non ha mai detto il perché. La storia ufficiale della sua partecipazione – sebbene né Trotsky né alcun altro lo abbia mai tacciato di poco coraggio – è fatta non di acciaio, ma di materia plastica.

A noi interessa più che il dettaglio delle ore e degli scontri, che è da molte fonti ben noto, la valutazione di Lenin sulla fiammeggiante urgenza della situazione.

«Compagni, ogni ritardo nell’insurrezione equivale veramente alla morte. Voglio con tutte le mie forze convincere i compagni che ora tutto è sospeso ad un filo, che sono all’ordine del giorno questioni che non sono risolte da conferenze né da congressi (nemmeno da congressi dei Soviet), ma esclusivamente dai popoli, dalle masse, dalla lotta delle masse armate».
«Bisogna a qualsiasi costo, stasera, stanotte, arrestare il governo dopo aver disarmato (e sconfitto se opporranno resistenza) gli junker ecc.».
«Non si può attendere! Tutto può essere perduto!»
«Chi deve prendere il potere? Questo ora non ha importanza. Lo prenda il Comitato Militare Rivoluzionario o ‹un’altra istituzione› che dichiari di volerlo consegnare ai veri rappresentanti degli interessi del popolo, dell’esercito, dei contadini».
«Non lasciare il potere nelle mani di Kerenski e Co. fino al 25, in nessun caso: decidere la cosa immancabilmente stasera o stanotte».
«Noi non prendiamo il potere contro i Soviet, ma per essi. La presa del potere è compito dell’insurrezione. Il suo scopo politico si preciserà dopo. Sarebbe la rovina o puro formalismo attendere l’incerto voto del 25»!
«Il governo esita. Bisogna finirlo ad ogni costo! Indugiare nell’azione equivale alla morte»![95].

La notte del 25 ottobre /6 novembre Lenin viene allo Smolny. Alla mezzanotte tra il 6 e il 7 l’azione comincia. Alle 3 del pomeriggio Lenin appare al Soviet di Pietrogrado. Alle 9 cominciano le operazioni contro il Palazzo d’Inverno. Alle 11 di sera del 7 si apre il secondo Congresso panrusso dei Soviet.

I social-traditori lo abbandonano. Il Congresso assume il potere. Nel giorno stesso il manifesto del partito bolscevico ai «Cittadini di Russia» aveva dichiarato che il governo provvisorio era finalmente stato deposto[96].

Il grande ciclo della lotta era compiuto con la fase della presa insurrezionale del potere.

Il partito era di fronte al suo programma. Ma, molto prima dei compiti sociali, questo stesso e la storia gli ponevano ancora tremendi compiti politici. Proletari e socialisti, questi secondi, al mille per mille. Ancora involti in grosse scorie democratiche e capitaliste, i primi.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Cfr. il testo completo in «O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale», Ediz. «Il Programma Comunista», Milano, pag. 39. Si veda inoltre la già citata «Storia dello Sinistra comunista 1919–1920», pagg. 614–623 e 702–707; e, per la «costituzione dei Soviet» in particolare, ivi, pagg. 183–186. [⤒]

  2. Lenin, «Discorso sul parlamentarismo», 2 agosto 1920, in «Opere», XXXI, pag. 240. [⤒]

  3. L. Trotsky, «Stalin», cit., p. 311. [⤒]

  4. L. Trotsky, «Stalin», cit., pag. 311–312. Lenin d’altronde aveva scritto al Comitato Centrale bolscevico, il 30 agosto/12 settembre:
    «In che cosa consiste il mutamento della nostra tattica, dopo il sollevamento di Kornilov? Consiste nel modificare la forma della nostra lotta contro Kerenski. Senza minimamente attenuare la nostra ostilità verso di lui, senza ritrarre neanche una parola di quanto abbiamo detto contro di lui, senza rinunciare al compito di abbatterlo, diciamo… non ci metteremo ad abbatterlo oggi, lo combatteremo in un altro modo, mostrando chiaramente al popolo (che lotta contro Kornilov) la debolezza e le esitazioni di Kerenski. Lo facevamo anche prima. Ma oggi questo è diventato l’essenziale: in questo [sic!] consiste il mutamento» («Al C.C. del POSDR», in «Opere», XXV, pag. 274). [⤒]

  5. La «Relazione del CC del PCd’I sull’opera del PC fra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista» si legge, riprodotta quasi due anni dopo, ne «Lo Stato Operaio», anno II, nr. 6 del 6 marzo 1924 (cfr. in specie il paragrafo finale su «Le conseguenze dello sciopero»). [⤒]

  6. Il testo di Lenin, col titolo «Dal diario di un pubblicista» si legge in «Opere», XXVI, pagg. 41–47. [⤒]

  7. Cfr. ora «I bolscevichi e la rivoluzione d’ottobre – Verbali delle sedute del C.C. del P.O.S.D.R. (b) dall’agosto 1917 al febbraio 1918», Roma, Editori Riuniti, 1962. [⤒]

  8. «Il marxismo e l’insurrezione», in «Opere», XXVI, pagg. 12–17. Ma cfr. anche la lettera precedente, del 12–14/25–27 settembre, «I bolscevichi devono prendere il potere», che la anticipa, pagg. 9–11, e l’articolo «La crisi è matura», di poco successivo, pag. 63–71. [⤒]

  9. «Consigli di un assente», in «Opere», XXVI, pag. 166–167. L’1 ottobre aveva scritto:
    «Temporeggiare è un delitto… Attendere è un crimine verso la rivoluzione» (ivi, pagg. 125–126). [⤒]

  10. «Lettera ai membri del Partito bolscevico», 18-(31) ottobre 1917, in Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 201–204. [⤒]

  11. I protocolli ne danno la piena conferma: riunione del C.C. del 7/20 ottobre, in «I bolscevichi e la rivoluzione di Ottobre», cit., protocollo 24, pag. 185. [⤒]

  12. Nei protocolli si legge infatti…
    «Questo centro [il Centro rivoluzionario militare] entrerà a far parte del Comitato rivoluzionario del Soviet». (Cfr. «I bolscevichi e la rivoluzione di Ottobre», cit., pag. 221). [⤒]

  13. «Lettera ai membri del C.C.», 24 ott. (6 nov.) 1917, in Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 220–221. Rimandiamo allo stesso volume per l’intera serie delle incalzanti lettere di Lenin fino all’insurrezione, e al citato «I bolscevichi e la rivoluzione d’Ottobre» per le sedute del Comitato Centrale e gli scambi di lettere con Kamenev e Zinoviev. [⤒]

  14. cfr. Lenin, «Opere», XXVI, pag. 224 [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 22, Dicembre 1955

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