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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXXI)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXI)
51 [152] – I piani della ricostruzione
52 [153] – Parametri disponibili
53 [154] – Piani antebellici
54 [155] – Piani postbellici
55 [156] – Non vi furono miracoli
56 [157] – Il mezzo monetario
57 [158] – Storia del rublo
58 [159] – Volume monetario dei piani
59 [160] – Investimento postbellico
60 [161] – Nascita e morte dell’«investimento»
61 [162] – Parabola commestibile
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXI)

51 – I piani della ricostruzione

Nella grande mente di Leone Trotsky la trasformazione del capitalismo in socialismo non si poteva iniziare in Russia che come fase successiva a quella della ricostruzione dell’industria distrutta, fino ad un livello che non doveva essere soltanto quello del 1913 sotto lo zar, ma uno tanto alto, da essere pari a quello dei capitalismi maturi ed avanzati. Egli calcola il potenziale industriale dei grandi paesi del mondo, e vede che a tal fine si deve procedere assai velocemente. Paragonando la produzione, poniamo di acciaio, in rapporto alla popolazione con quella tedesca o americana, si vede chiaro nel 1926 che si tratta di un mezzo secolo, salvo ritmi elevatissimi che l’opposizione trotzkista propone invano alla maggioranza staliniana per vari anni, fino a che questa non li fa suoi. Ma non è un zig-zag della politica, come a Trotsky pare quando incrimina il suo avversario, bensì un’obbedienza alle leggi proprie dell’industrialismo capitalista.

La distinzione è altrove. Stalin chiama questa corsa a diventare tanto industriali quanto i paesi borghesi «edificazione del socialismo», e chiude gli occhi alla prospettiva, che sembra spegnersi, della rivoluzione internazionale. Trotsky sa che si tratta di una costruzione di capitalismo da parte di un potere proletario, e la chiama costruzione delle condizioni del socialismo, il che deve farsi con le manovre della finanza capitalista e monetaria. Fino alla sua morte egli seguiterà a vedere la condizione per la società socialista in Russia, prima che passino i decenni, e il lungo cinquantennio del passo economico-tecnico, nella Rivoluzione d’Europa e d’America. Egli vuole che la conquista del potere politico non sia infranta; e chiede siano rispettate due condizioni: dichiarare che la costruzione del capitalismo industriale di Stato non è quella di una società socialista; mantenere l’indirizzo della politica mondiale nel lavoro alla rivoluzione interna di classe in tutti i paesi.

Trotsky non ha mai inteso che industrializzando a tempo di primato si sarebbe data una lezione ai borghesi battendoli nel potenziale costruttivo; si trattava solo di una condizione tecnica minima per mantenere il calore del focolare centrale della rivoluzione internazionale; e il socialismo egli si augurava di mostrarlo ai borghesi che funzionasse non in Russia, ma nella stessa casa loro, e prima dei cinquant’anni famosi che Stalin gli rinfacciò.

Chi non capirà mai questo sono i «trotzkisti» ufficiali, che negano all’economia russa il carattere capitalistico.

La discussione avveniva alla vigilia del primo piano quinquennale, una delle tante glorie rubate da Stalin, e abbiamo detto come nello studio gli si voleva attribuire una velocità decrescente, e poi si intese di dover partire almeno dal 9 per cento annuo. Era facile calcolare che la rincorsa all’Occidente sarebbe stata troppo lenta, anche se il ritmo avesse potuto restare costante, ed anche se in Occidente si procedeva al 5 o al 3 per cento annuo, data l’enorme distanza tra i livelli di partenza. Trotsky calcola infatti che nel 1935 gli indici russi procapite sono indietro a quelli dell’ovest di tre, cinque, otto, dieci volte.

Nel 1927, quando si discuteva, si trattava di farli salire non meno di cinquanta volte. Ammesso che nei paesi di occidente l’incremento fosse del 3 per cento, con la prima prospettiva dal 9 al 4 per cento, e la media del 6,5 annuo, la leggendaria rincorsa sarebbe avvenuta al passo del solo 3 e mezzo per cento, supposta pari influenza dell’aumento di popolazione, sfavorevole come sappiamo alla Russia. Il tempo occorrente, salvo crisi e guerre, sarebbe stato di 114 anni! Se si voleva arrivare a quel livello nel famoso cinquantennio, che Trotsky poneva come tempo per fare il socialismo nella Russia isolata, nella nota polemica storica del 1926 (ossia per il 1975 che menzioniamo ogni tanto) sarebbe occorso il ritmo dell’8 per cento. Aggiunto il 3 dei rivali, e l’1 e mezzo della popolazione, l’ascesa uniforme dell’indice di produzione totale avrebbe dovuto essere del 12,5 per cento annuo: è quello effettivo di oggi (1955, intendiamo).

Che l’indice di partenza sia decrescente fatalmente gli staliniani lo ignoravano; ma dato che ridevano dei 50 anni di Trotsky e (di «aver edificata l’industria socialista» presero a blaterare dopo 20 anni) sarebbe stato il 26 per cento[280] che loro occorreva, e dovettero mordersi la lingua per aver deriso i «super-industrializzatori»

Di qui (dopo che l’ebbero capita) gli staliniani gridarono che si doveva portare al 30 il 20 per cento fissato per il primo piano quinquennale. Ma si trattava non di edificare il socialismo, bensì appena la sua soglia economica.

52 – Parametri disponibili

Questa marcia dell’accumulazione traverso i piani quinquennali russi e le vicende storiche abbiamo due vie per seguirla: dato che tutta l’accumulazione si farà nella conversione alterna di merci in capitali, potremmo adottare l’unità rublo. Ma questa non è rimasta costante nel tempo, e già Trotsky venti anni fa dovette scartarla. Teoricamente la cosa è possibile se si conoscono i bilanci statali espressi in rubli, anche quanto ai profitti che le aziende industriali investono direttamente, e alla loro parte che versano allo Stato per gli investimenti nell’economia nazionale.

Rinviando questa indagine, fermiamoci ancora all’impiego degli indici della produzione industriale[281]. Ammettendo che siano attendibili le statistiche ufficiali sovietiche, e le dichiarazioni ai vari congressi, noi disponiamo di tale parametro, che abbiamo già largamente usato, per gli anni dal 1919 al 1955, con la sola lacuna del biennio tenebroso 1941–42, e abbiamo il riferimento noto al 1913. Questo indice della produzione industriale si trae dalle statistiche dei prodotti delle principali industrie debitamente combinati; vi sono delle incertezze e certo avremo a che fare con progressioni più ottimiste della realtà, ma vi sono due vantaggi: l’indipendenza dalle variazioni valutarie e la corrispondenza col valore reale di tutta la massa annua dei prodotti dell’industria capitalista, che è il capitale nel senso di Marx; mentre molto più vi è da dire quando si passa a misure in denaro di capitali investiti nel ciclo produttivo e nelle installazioni fisse, vecchio nodo della nostra discussione con gli apologeti dell’economia di mercato e della fecondità della ricchezza morta.

Cominciamo ab initio, ed intanto liberiamoci della panzana che la pianificazione sia stata il toccasana che ha fatto rifiorire l’industria stritolata con un passo travolgente. La travolgenza del passo iniziale, diciamolo l’ennesima volta, non è dovuta alla capacità dei governanti, si chiamino Stalin, Gladstone o Eisenhower, ma al minimizzarsi della quota di partenza.

Diamone subito la prova storica. I nostri indici sono adeguati al 100 per l’anno 1929, e abbiamo detto che cominciano dal 1919, in cui si aveva (sempre da fonti sovietiche) la quota 33: un terzo del 1929. A questa scala il 1913 aveva segnato 52,6: dunque, come ben sappiamo, nel 1919 si era ancora in discesa. Ma il punto più disastroso si ha nel successivo 1920 con l’indice 7 (sette) che fa all’amore con lo zero, sicché parliamo di capitalismo cessato, e che d’ora innanzi rinasce. Da 52,6 a 7, sappiamo bene, siamo a meno di un settimo.

Dal 1919 al 1927 non si fanno ancora piani industriali, ma si lotta armi alla mano coi nemici di classe interni ed esterni, e anche si lotta in seno al partito sulla politica generale ed esterna come su quella interna economica da adottare; come ampiamente riferito in questo studio. Il gioco degli indici economici avviene dunque fuori di ogni «dirigismo» di poteri, e della stessa dittatura rivoluzionaria, la cui prima manovra in grande nel 1921 consiste nello sciogliere ogni freno alla necessità degli scambi mercantili, ossia, come dice l’immenso Lenin senza veli, al capitalismo! E l’industria riparte da sola.

Quali i ritmi? Vediamoli di anno in anno. Dal 1919 al 1920 si è ancora precipitato paurosamente in basso: da 33 a 7; vuol dire calare al 21,2 dal 100, perdere nientemeno che il 78,8 per cento in un anno. Nel 1921 si ha il primo passo, e ci si fornisce l’indice 10. Ma da 7 a 10 vuol pure dire crescere di 3 su 7 e dunque del 44,4 per cento annuo, indice che davvero è stupefacente.

1922: si sale a 14, balzo annuo del 30,8 per cento; 1923: da 14 si va a 20, lo scatto è sbalorditivo: 47,1 per cento! Al 1924 si va a 24, col 20 per cento. Al 1925 l’indice è 39 e l’incremento annuo è stato favoloso addirittura: 63,3 per cento. Non viene ancora la pianificazione, ma l’industria risorge; 1926, indice 56; aumento 42,9 per cento. Il 1927 è anno di crisi nella società russa e nel partito, e l’aumento sarà del solo 14,3 per cento. Col 1928 si aprirà il primo piano quinquennale. Ma intanto facciamo un bilancio del periodo antepiano; partendo dal minimo di 7 del 1920 e andando al 64 del 1927, si tratta di sette anni senza piani, in cui la produzione dell’industria, si può ben dire per virtù propria, è cresciuta 9 volte, ossia dell’800 per cento. Il ritmo di incremento annuo costante che permette questo volo non è incredibile, è solo il 37 per cento annuo come si vede a occhio da quelli di anno in anno. Non crediamo che il giochetto abbia annoiato: ci caviamo comunque il gusto di dire che il nostro periodo settennale antepiani batte in partenza tutti i successivi piani, che andiamo ad esaminare, e di cui tanta gente si è stragonfiata!

53 – Piani antebellici

Il I piano quinquennale fu deliberato nel 1927. Si discusse di esso in varie riprese e durante la sua esecuzione: era l’economia che spontaneamente correva più del piano, per il rinascere del capitalismo che si avvantaggiava di essere covato nel nido staliniano e innaffiato ogni tanto col sangue dei veri bolscevichi, che passavano per essere al potere. Il 7 gennaio del 1933 Stalin si poteva gloriare del bilancio di questo primo anno. Vediamone il corso negli indici. Anni 1928, 1929, 1930,1931, 1932. Dopo l’indice 64 del 1927 questa è la progressione: 79,100, 130, 162, 185. Gli scatti annui sono alti, ma col proseguire del piano vanno rallentando: 25; 26; 29,7; 24,8; 14,1. Stalin indicò il medio incremento del 22 per cento annuo, ma il calcolo ce lo dà un poco più alto: 193,7 per cento in tutto il periodo, 24 per cento all’anno in media.

Il II piano copre gli anni dal 1933 al 1937 inclusi. Periodo di pace e di libera attività ricostruttiva; ma l’argomento forte degli staliniani è che in questo periodo dei primi due piani scoppiò la tremenda crisi mondiale 1929–1932 che non fu dall’economia sovietica in nessun modo avvertita. La cosa non contrasta con lo svolgimento che conduciamo ora, e si spiega con l’autarchia di isolamento della Russia del tempo. Deve tuttavia rilevarsi che il 1931 e il 1932 sono gli anni di minor incremento del piano, e il 1933 è il peggiore del II piano, di cui questa è la serie: Indici dopo il 185 del 1932: 202, 238, 293, 382, 424. Scatti anno per anno: 9,2; 20,1; 23,1; 30,2; 11,4. Non è male notare che il 1937 è in Occidente anno di crisi che si riapre e segnala la guerra: crisi di Stalin! Il risultato totale del piano è l’aumento del 129,2 per cento in cinque anni, che dà la media annua del 18 per cento: dunque la velocità del secondo piano è inferiore a quella del primo, sebbene entrambi abbiano avuta piena esplicazione.

Venendo al III piano quinquennale, che doveva coprire gli anni 1938, 1939, 1940, 1941 e 1942, vediamo che fu spezzato dalla guerra. Nella fine del 1939 la Russia d’accordo con la Germania attaccò e liquidò facilmente la Polonia, senza riceverne una forte scossa, e solo nel 1941 fu travolta nella guerra generale. I primi tre anni ci danno indici progressivi: partiti dal 424 (o 429 in altra fonte) per il 1937, abbiamo 477, 522, 616, e gli scatti sono: 12,5; 9,5; 18. In tre anni il 45,3 per cento totale, e la media del 13,3 per cento; dunque già siamo in ribasso rispetto ai piani precedenti. Gli altri due anni sono di indietreggiamento: da 616 del 1940 si passa a 555 del 1943, nel 1944 si risale a 641, ma nel 1945, anno in cui si metterà in cantiere il quarto piano, primo del dopoguerra, siamo ancora più giù, al minimo di 567. Inserendo i dati del 1941 e del 1942 e partendo dal massimo del 1940, si hanno due negativi del 2 e del 21,4 per cento, poi due rimonte del 16,9 e del 15,6 e infine ancora l’ultima caduta dell’11,5 per cento. Se si guarda tutto il periodo terzo piano-guerra, dal 1938 al 1945, in otto anni tutta la variazione vale il 33,7 per cento, e per anno solo il 3,7 per cento. Sappiamo che alla stessa guerra resistette validamente l’economia statunitense.

54 – Piani postbellici

Dal 1946 viene lanciato con grande scalpore il IV piano quinquennale di cui non è dato riportare qui le previsioni. Ma i suoi risultati, pur sapendo noi che il partire da una guerra fornisce sempre ritmi alti, non sono eccezionali. Infatti il 1946, primo anno del piano, è in regresso, e dopo si ha la ripresa. Si parte dall’indice del 1945 che era 567, e si cade a 464, per avere in seguito 568, 717, 865, 1076. In tutto il non regolare quinquennio l’aumento globale è l’89,8 per cento (lo stesso che darà il quinto piano) e vi corrisponde il medio 13,7.

Quanto agli scatti anno per anno essi sono: – 18,2; 22,4; 26,2; 20,7; 24,4. Volendo dare un miglior giudizio dell’esito di un tale piano, in periodo proprio di nazione invasa dal nemico e poi vittoriosa, che predispone in generale a vigorose riprese, si può abbandonare il primo anno di crisi e fare il computo sugli altri quattro, che danno un aumento globale del 132 per cento ed uno annuo medio del 23,4 per cento. Dovremmo però tenere in conto che la massima caduta dovuta alla guerra, tra il 1940 e il 1946, in sei anni, fu del 21,4 per cento negativo, e se si prendono i due anni dal 1944 al 1946 del 27,6 per cento avendo nel primo caso il ritmo negativo del – 11,5 per cento, nel secondo del – 18,2 per cento all’anno.

Rimane l’ultimo piano quinquennale 1951 – 1955 che ha dato una regolare progressione, poggiata sul 1076 del 1950, con gli indici successivi: 1259, 1413, 1590, 1808, 2038, cui corrispondono gli scatti annui del 17,0; 12,2; 12,6; 13,7; 12,7. In tutto il quinquennio si è avuto l’aumento globale dell’89,4 cui corrisponde il medio ritmo del 13,6 per cento.

Tutto ciò mostra che in Russia non si è progressivamente elaborato un metodo artificiale per frustare la corsa dell’accumulazione, ma si è avuta una fioritura di industrialismo con la regola, da noi dimostrata per tutti i paesi del mondo, della decrescenza degli indici. Questa regola si conferma se si scelgono periodi consecutivi, tali che in ciascuno non vi siano vertici intermedi più alti degli estremi (curva dei vertici superiori, trattata alla riunione di Ravenna). Lo mostrammo altra volta: dal 1919 al 1940 si va da 33 a 616 in 21 anni, l’aumento è di 18,7 volte: 15 per cento annuo. Dal 1940 al 1955: da 616 a 2038; l’aumento totale è di 3,31 volte in 15 anni, annuo medio dell’8,3 per cento, nettamente minore.

Se poi prendiamo i periodi ora detti dei piani, dobbiamo tener conto delle guerre e crisi, e avremo la serie, che riassume quanto detto:

Periodo antepiani 1920–1927:
37 per cento annuo medio (partenza da crisi distruttiva):
I piano quinquennale 1928–1932:
24 per cento;
II piano quinquennale 1933–1937:
18 per cento;
III piano quinquennale 1938–1940:
13,3 per cento (interrotto dalla guerra);
Periodo bellico 1941–1946:
- 4,6 per cento;
Quattro anni sul IV° piano quinquennale 1947–1950:
23,4 per cento (partenza da crisi bellica);
V piano quinquennale 1951–1955:
13,6 per cento (ricostruzione normale);
VI piano quinquennale 1956–1960:
per cento in previsione.

La norma della decrescenza del ritmo di accumulazione col tempo è dunque confermata dal capitalismo industriale russo come da qualunque altro, ed anche l’effetto che su questo decorso hanno le distruzioni dovute alle guerre e alle invasioni, anche quando le guerre sboccano nella vittoria finale.

Gli alti ritmi che nello specchio si rinvengono, e sui quali è stata costruita tutta la colossale opera di propaganda alla quale da gran tempo opponiamo le nostre elaborazioni, sono anche spiegati dal fatto che l’industrialismo che nasce più in ritardo organizza i suoi primi impianti, anche se quantitativamente ancora limitati, sul migliore esempio qualitativo che la tecnica internazionale e la scienza applicata, su cui nel mondo moderno non esiste più praticamente segreto e monopolio tecnologico, pone a disposizione, ed in genere forma impianti tutti nuovi e moderni e di rendimento maggiore di una forte aliquota di quelli di altri paesi, che ancora funzionano nella forma della non recente origine e con carattere di inferiorità e minore resa[282].

55 – Non vi furono miracoli

Non è dunque una verità sicura che solo grazie al sistema della pianificazione statale si sia ottenuto un alto ritmo di sviluppo industriale. Già da molti decenni Engels, quando fece la critica del progetto di programma per il congresso di Erfurt, aveva avvertito che non è carattere distintivo tra l’economia borghese ed il programma socialista l’accusa alla prima di «Planlosigkeit» ossia di assenza di piano, in quanto già dal 1890 e prima la produzione capitalista aveva preso ad esplicarsi secondo piani di insieme e vasti programmi pluriennali non meno che plurinazionali.

Il motivo quindi per il quale ogni potere proletario e comunista in Russia anche non minacciato ed intaccato da degenerazione avrebbe dovuto accedere al Piano economico non era quello che per tale via l’industrializzazione, che era necessità primordiale e fisiologica, sarebbe stata più accelerata, ma i motivi che sussistevano erano di ordine rivoluzionario e politico[283]. Fondamentale quello, da noi sempre avanzato, della difesa armata del conquistato potere in Russia e della sua tutela in attesa che la rivoluzione di classe attraesse altri paesi nel suo girone, e con le risorse di essi incomparabilmente superiori a quelle russe e sicuramente salve da una distruzione di grado comparabile alla russa passasse a piani internazionali, anzitutto, ed in seguito aventi quel carattere socialista che risiede in ben altre basi, e fra l’altro non contiene quella di una accelerazione intensa del ritmo di accumulazione.

Le basi dei futuri piani dell’economia socialista, che del resto non si assume possano andare in vigore dall’oggi al domani dopo la conquista del potere anche in paesi di sviluppatissimo industrialismo, consistono nell’essere impiantati al di fuori dell’ambiente mercantile e del mezzo dell’equivalente moneta.

Lenin chiamò tali piani «piani materiali» e si può ben dire «piani fisici», mentre in Russia era necessità inviolabile procedere per piani finanziari; e quindi prima dei piani si pensò a sistemare la questione dell’equivalente moneta, soffiata praticamente via dalla tempesta di un’inflazione senza precedenti; a parte il fatto che un tale fenomeno non arrestò mai le rivoluzioni borghesi dei secoli precedenti.

Tale necessità era riconosciuta da Lenin, in quanto egli, senza rinunziare al collegamento tra ogni atto tecnico e amministrativo del nuovo Stato e la propaganda ed agitazione dei massimi fini socialisti, lontani e mondiali, se non europei, sapeva doversi affrontare una pianificazione di tipo capitalista e non ancora di tipo, nel senso tecnico-economico, socialista.

Egli fece la distinzione a proposito di quel suo piano di elettrificazione della Russia a cui abbiamo altre volte accennato, e che viene citato a giustificazione pubblicitaria degli andamenti successivi dei piani staliniani.

Questo piano detto del Goelro (piano di Stato per l’elettrificazione della Russia) fu concepito nel 1920 per un periodo che doveva essere da 10 a 15 anni. Dobbiamo notare che la base fisica di un tale piano è la ricchezza di energia idroelettrica in Russia, che era fin dal primo momento, con tutte le acque in moto, divenuta possesso diretto dello Stato. Non bisogna dimenticare che i corsi d’acqua e il loro potenziale energetico anche in molte nazioni borghesi sono demanializzati, e del resto senza un piano unico nazionale, ed internazionale come già vige oggi tra Italia, Francia, Svizzera, ecc., non sono concepibili i moderni elettrodotti ad altissimo potenziale e la trasmissione di energia nei due sensi oltre i confini statali anche per compensare geograficamente le periodicità di piene e di magre.

L’energia elettrica è la più «socialista» di tutte, ed anche più dell’energia nucleare, che in avvenire si ridurrà ad una caldaietta trasportabile ovunque, un succedaneo della primordiale locomobile a vapore, condotta sul posto di impiego da una coppia di bravi buoi, che il mite Virgilio amava

Ecco il passo di Lenin, nel suo articolo «Sul piano economico unico». Egli considera come prova della serietà scientifica del piano di elettrificazione il fatto che esso contiene
«un bilancio materiale e finanziario (in rubli-oro) dell’elettrificazione: circa 370 milioni di giornate lavorative, tante tonnellate di cemento, tanti mattoni, pud di ferro, rame, ecc., turbogeneratori di una determinata potenza ecc…»[284].

Noi riteniamo che si vedrà il primo piano socialista quando la parte di esso espressa in unità monetaria sarà eliminata: naturalmente un tale piano deve comprendere tutti i settori dell’attività produttiva e del consumo, passando direttamente dalle tante giornate di lavoro al tanto di alimenti e simili, e dovrà nelle sue frontiere contenere almeno il massiccio centrale dell’Europa coi fiumi che ne scendono, dalla Mosa e dal Rodano al Danubio e alla Vistola.

Questo piano non urlerà di avere strafatto. I piani russi avrebbero segnato gli stessi indici quantitativi se la qualità socialista non fosse stata loro affibbiata o affibbiabile, come se la guerra civile 1918–1922 fosse stata perduta e il grande piano lo avessero eretto non i grandi capitalisti russi, ma un trust colossale di imprese occidentali, quale era il sogno della borghesia mondiale nel febbraio 1917. Si trattava del risultato deterministico di aver fatto a pezzi le pastoie medievali, non di capolavori di trust di cervelli, rossi o no.

Oggi la grande banca mondiale delle Nazioni Unite fa prestito agli Stati poveri, e ha un capitale di 9 trilioni di dollari: investe più di un piano quinquennale sovietico, tra qualche anno. È socialismo? Lo è la Cassa del Mezzogiorno coi suoi mille miliardi di pacchia?

La carta falsa giocata dallo stalinismo si può definire anche così: hanno preso la rivoluzione socialista per una bonifica di zone depresse, arena degna di vecchie beghine e di filibustieri sfrontati.

56 – Il mezzo monetario

Per assodare che è una frottola quella che la storia non abbia ancora visto nulla di simile, come scatenamento di forze produttive, alla rosa dei piani quinquennali sovietici nell’industria (sappiamo quale magra si sia avuta in agricoltura, e sappiamo quale stigmata sia questa dei modi capitalistici di economia) ci sono serviti da materiali di prova gli indici della produzione, in quanto sono di fonte sovietica, e non quindi fabbricati per il nostro assunto ma per l’opposto, e in quanto derivano solo dalla «faccia fisica» dei grandi piani, e sono un composto di tonnellate, metri cubi, kilowatt, e così via.

Ma bisogna pure confrontare la storica corsa dei piani usando altre grandezze economiche, che troviamo espresse in milioni e miliardi di rubli, e che parimenti danno misure dell’accumulazione capitalista, e degli investimenti di prodotti a nuovo capitale nei vari settori dell’economia.

Bisogna dire dunque qualcosa della moneta russa dopo il 1917.

Uno studio molto serio sui fatti della pianificazione russa, indipendentemente dall’ideologia dell’autore (Bettelheim), dice che bisogna studiare le «categorie» principali dell’economia sovietica, e le elenca così: moneta, mercato, salario, prezzo, profitto ed interesse. Dice l’autore che esse «somigliano» a quelle dell’economia capitalista, ma «hanno un contenuto profondamente diverso»[285]. Noi, convinti che si parli di «categoria» quando si ha riguardo al contenuto e non all’apparenza, alla sostanza e non alla forma, affermiamo che sono le stesse categorie del sistema capitalista.

L’autore si avvale di citazioni non solo degli economisti ufficiali russi di Stato ma anche di Lenin e Trotsky, nelle stesse fonti da noi usate. Sappiamo già che Trotsky in un famoso discorso sulla NEP del 1922 e nel suo libro sulla «Rivoluzione Tradita» afferma che l’uso del campione costituito da una solida unità di moneta è indispensabile per migliorare il rendimento del lavoro e la qualità della produzione. Ma ciò non costituisce certo un compito che esca dai limiti del capitalismo, il quale, almeno da giovane, ha in questi casi raggiunto i suoi massimi fastigi.

Comunque chi avesse pensato che «il sistema socialista è al sicuro dall’inflazione monetaria» sarebbe stato smentito dai fatti, perché il rublo ha sempre oscillato. Allora gli economisti di Stato si sono dati a raccontare che le oscillazioni della quota del rublo nel «sistema sovietico» non avevano influenza sul gioco dei prezzi e dei salari reali. È sempre la solita sbilenca tesi: Qui in Russia c’è tutto quel che c’è in Occidente, ma sotto il nostro cielo e sempre un’altra cosa.

In linea di fatto, il solo equivalente generale adottato per calcolare i piani è stato il rublo monetario. Ciò sebbene gli stessi economisti ufficiali Varga e Strumilin abbiano sostenuto che, secondo la dottrina di Marx, solo equivalente generale, ossia unità comune a prodotti differenti, è il tempo di lavoro e il solo calcolo economico reale si deve fare sulla sua base. Ragioni «tecniche» hanno scartato questa forma di elaborazione dei piani. Bucharin aveva detto – correttamente – di più:
«dal giorno in cui i mezzi di produzione sono socializzati, la forma valore cade, e la sola contabilità in natura (o fisica) è ammissibile».

57 – Storia del rublo

Dovendo d’ora innanzi avere a che fare col rublo, vediamo un poco quel che si può dire della sua natura e vicenda storica.

Il rublo sovietico è definito in rapporto ad uno standard aureo, ma non è una moneta convertibile in oro a richiesta del portatore. Non è convertibile in valute estere in quanto ne sono impedite l’esportazione e l’eventuale importazione. I regolamenti che lo Stato fa per il commercio estero, di cui ha il monopolio, sono previsti in valute straniere (oggi il dollaro). E si pretende che il cambio rublo-dollaro non abbia influenza sui prezzi interni. Ad esempio nel 1931 a Berlino si quotava il «cervonetz» (dieci rubli rivalutati) due marchi, mentre la parità ufficiale era di 21,6 marchi (in Rentenmark a loro volta rivalutati dopo l’inflazione seguita alla prima guerra).

Comunque nel 1924 quando apparve il cervonetz il suo valore venne definito con la legge istitutrice di 7,74 grammi di oro puro. Il 14 novembre 1935 il rublo fu poi svalutato (è l’inflazione deplorata da Trotsky che la deduce dal volume del circolante che nel primo piano quinquennale variò da 1,7 a 5,5 miliardi di rubli, e all’inizio del secondo arrivò a 8,4). Va tuttavia notato che nel primo periodo la massa del prodotto economico salì al triplo e quindi il circolante doveva almeno triplicarsi e giungere al 5,1, pure ammettendo che agricoltura e scambio seguissero l’industria a molta distanza.

Fu solo in seguito che si stabilì che tutti i pagamenti nei due sensi tra la cassa centrale statale e quelle delle industrie di Stato invece di effettuarsi in moneta avessero luogo contro certificati contabili, il che valeva di freno alla salita della circolazione.

Comunque nella svalutazione del 1935 i 7,74 grammi di oro puro del cervonetz scesero a soli 1,74 grammi, ossia a non molto più del quinto.

Per dare un’idea del valore rispetto alle altre monete, si può considerare l’equivalenza aurea di esse, che logicamente ha significato per l’epoca della prima emissione legale.

Prima della prima guerra l’oro costava 3,60 lire italiane, e la lira valeva quindi 0,278 grammi di oro puro. Dopo la svalutazione della prima guerra, nel 1928 fu svalutata nel rapporto 3,66 portandola a soli 0,0785 grammi. Dal 1928 al 1954 si avrebbe una svalutazione dovuta alla seconda guerra di 51 volte rispetto all’oro e di 56 rispetto all’indice dei prezzi all’ingrosso (oggi ancora, come è noto, salito). Oggi mille lire italiane corrisponderebbero in oro a circa un grammo e mezzo; e un dollaro a circa un grammo. Con relazione quindi molto grossolana si può dire che alla sua istituzione nel 1924 il rublo valeva quanto cinquecento lire italiane odierne, e il cervonetz cinquemila. Infatti quel pezzo di oro (su cui era ironicamente scritto: proletari di tutto il mondo unitevi!) era quanto il «Napoleone» buonanima, che valeva ai bei tempi del 1900 venti lire dell’epoca e come potere di acquisto reale anche più di 5000 di oggi.

In dollari di oggi il cervonetz 1924 valeva 7,74 e il rublo 0,77. Con la svalutazione del 1935 il rublo rosso scese dunque a 0,174 dollari, ossia un quinto. Oggi si afferma all’ingrosso che il rublo russo è un quarto di dollaro in quanto i ribassi generali di prezzi imposti dal centro lo avrebbero rivalutato, e questo non è affatto facile da stabilire in base al reale potere di acquisto, su cui si vedono citate le cose più contraddittorie di questo mondo da giornalisti e «turisti» ammessi in Russia. Quello che è certo è che nel seguire cifre in rubli dei piani ufficiali dal 1928 ad oggi dobbiamo ritenere che le cifre del quinto piano, per ragguagliarle a quelle del primo, andrebbero per lo meno divise per quattro; ed il lettore tenga presente questa indicazione tutt’altro che precisa e precisabile nel considerare il ritmo degli aumenti.

58 – Volume monetario dei piani

Ogni sviluppo dell’industrializzazione si fa attraverso un incremento del volume e del valore degli strumenti produttivi e quindi destinando un margine di ciascun ciclo produttivo, risparmiato su quello consumato, a nuovo investimento di capitale.

Ora secondo le statistiche ufficiali sovietiche i piani hanno determinato una progressione impressionante di investimenti nella produzione, suddivisi fra tutti i rami della stessa.

Non parliamo qui della valutazione teorica di tale impostazione, del tutto identica a quella delle economie capitaliste dichiarate; e conforme, checché si dica per la messa in scena della nuova forma sociale, alla dottrina delle scuole economiche borghesi contemporanee.

Nel periodo antepiani, ossia dal 1918 al 1928 (includendo questo per tre trimestri, in quanto in effetti l’anno fu perduto nella trasformazione del primo piano quinquennale, reso più audace) tutto l’investimento di capitali si ridusse a 15,7 miliardi di rubli. Non ci è dato sapere come si sono adeguate le cifre degli anni anteriori al cervonetz, e non sappiamo nemmeno se esistono. In ogni modo è facile osservare che fino a quando l’industria lavora molto al di sotto della possibilità dei suoi impianti originari, e quanto meno finché la sua produzione diminuisce sensibilmente di anno in anno, non avviene nessun investimento in essa di nuovo capitale. Quindi l’investimento è stato zero dal 1917 al 1920, anno minimum, e fino al 1926, anno in cui la produzione raggiunse il livello antebellico, esso si è tenuto nei limiti della ricostruzione degli impianti distrutti. Ammessi perciò i 15,7 miliardi di rubli (del massimo valore monetario, si ha diritto di ritenere) gli anni del periodo considerato devono limitarsi al periodo 1921–1928 e la media sarebbe di circa due miliardi annui. Quando saremo arrivati ai 150 miliardi indicati per il 1955 (in quali rubli?) l’investimento sarà settantacinque volte maggiore, laddove l’indice della produzione totale dell’industria del 1926 è stato di 36 volte maggiore. Un confronto teorico può caso mai farsi tra l’indice di produzione e quello di investimento nell’industria, ed allora potrebbe anche verificarsi che il valore dei prodotti (capitale per Marx) crescesse più rapidamente della spesa di impianto, perché giocano l’aumento della produttività del lavoro e la minore aliquota relativa di spese salari.

Se i rubli che la statistica usa fossero quelli svalutati del supposto quarto, l’investimento 1955 sarebbe non 75 volte, ma solo diciannove volte maggiore della cifra di partenza.

In ogni maniera, per il primo piano ci sono date le cifre seguenti: IV trimestre 1928, miliardi 1,3 e quindi annui 5,2. Per i seguenti quattro anni 7,6; 12,7; 18,4; 21,6. Gli incrementi annui dell’investimento sono per cento: 46,2; 67; 45; 17,4. In tutti i quattro anni l’aumento è da 100 a 415, il medio 43 per cento. Si delinea un’altra nettissima curva di incrementi decrescenti.

Prendiamo infatti il secondo piano. Nel 1937 saremo a 33,8 miliardi investiti; e dal 1932 l’aumento è soltanto del 56.5 % (contro il 315 per cento del primo quinquennio) e quello medio del 9,3 per cento circa. I dati annuali sono 18,0; 23,7; 27,8; 38,1; 33,8, con scatti annui non regolari.

Il terzo piano è quello spezzato dalla guerra e da considerare per i soli tre anni 1938, 1939 e 1940. Cifre di investimento realizzato 35,1; 40,8; 43,2. Scatti per cento 3,8; 16,3; 5,9. In tre anni solo il 27,8 %, medio 8,5 %.

Gli anni di guerra danno: 1941: 37,4; 1942: 23,0; 1943: 23,1; 1944: 31,7; 1945: 39,2;. Per dieci anni in pratica si è segnato il passo, ed è certo che si tratta in gran parte di investimento in ricostruzione e non in ampliamento.

59 – Investimento postbellico

I due piani postbellici formano una serie nuova di investimento di capitali. Dopo i 39,2 miliardi del 1945 la serie dei cinque anni è la seguente: 46,8; 50,8; 62,1; 76,0; 90,8. Gli scatti sono quelli di una ripresa dopo crisi generale: 19,4; 8,6; 22,2; 22,4; 19,5. In tutto il piano l’aumento è il 132 per cento e la media annua il 18,2 per cento.

Il V piano ci dà, partendo dal detto 90,8 del 1950, le cifre di investimento in miliardi di rubli di: 102,1; 113,8; 119,2; 140,3; 149,9.

La marcia è meno decisa che nel quarto piano: scatti del 12,5; 11,6; 4,8; 17,7; 6,5. L’aumento totale è del 65 per cento, metà di quello del quarto piano, quello medio annuo del 9,2 %, contro il 18,2 del quarto piano. Tutto indica che si è alla fine della ricostruzione.

Il riassunto della serie espressa in rubli, e con la detta riserva sul valore monetario, risulta così:
I piano 1928–1932. Passo del 43 per cento.
Il piano 1933–1937. Passo del 9,3 per cento.
III piano 1938–1940. Passo dell’8,5 per cento.
Periodo di guerra e distruzione 1941–1945. Diminuzione del 9,3; al 2 per cento annuo.
IV piano 1946–1950. Passo del 18,2 per cento. Sforzo ricostruttivo generale.
V piano 1951–1955. Passo del 9,2 per cento.
VI piano 1956–1960. Passo previsto del 9 per cento.

Diamo ragione di questo ultimo coefficiente, che è il minore di tutti i precedenti piani, anche se sarà realizzato, e conferma il criterio della decrescenza. Nel discorso di Bulganin si trova detto che in tutto il V piano gli investimenti per l’economia nazionale furono di 594 miliardi, ma che per il VI piano se ne prevedono 990. L’aumento nel piano sarebbe il 66,6 %. Però, dal quadro che fin qui abbiamo seguito dell’annuario sovietico ufficiale, il V piano ha dato 625,3, e lo scatto tra i due piani come totali dei quinquenni sarebbe del 58,3 %. Lo scatto fra i totali del IV e V piano nella detta serie di cifre sarebbe stato da 326,5 a 625,3 ossia da 100 a 191,5 in indici, e ciò è confermato dal discorso di Chruščëv che dichiara 100 e 194.

Rifletta però il paziente lettore che nella nostra tabella qui sopra abbiamo dato non gli scatti tra gli investimenti totali nel quinquennio, ma quelli tra i due anni finali di due piani consecutivi. Col nostro criterio tra quarto e quinto piano lo scatto sarebbe, come riferito, solo del 65 per cento; in luogo del 91,5 che si desume dal criterio globale. Quindi nella nostra tabella bisogna partire da un rapporto minore del 66,6 per cento previsto da Bulganin tra i due totali quinquennali del quinto e sesto piano.

Col 9 per cento annuo a partire da 150 miliardi del 1955 si avrebbe la serie: 164, 178, 194, 211, 231. Il totale del sesto piano risulta 978 come all’incirca promette Bulganin. Ebbene, lo scatto nel piano da 149,9 a 231 è del 54 per cento, mentre tra i due piani precedenti era stato del 65. Quindi i sovietici stessi prevedono che il «passo dell’investimento» diminuisca nel tempo. Il 54 per cento in cinque anni vale infatti la media del 9 per cento tra il 1955 e il 1960, come premesso in tabella, media minimum.

60 – Nascita e morte dell’«investimento»

Abbiamo così messa in ordine la questione dell’accumulazione a ritmo calante, forma per esprimere le note antiche leggi della società capitalistica stabilite nel marxismo, tanto in rapporto al montante fisico della produzione industriale quanto in rapporto al montante dell’investimento di denaro in capitale produttivo, col rilievo che l’uno e l’altro rallentamento sono accresciuti se le rispettive quantità si considerano relative alla popolazione crescente (montanti pro-capite) E per la seconda unità monetaria con la riserva dell’effetto delle variazioni nel potere economico della moneta, il quale tuttavia non farebbe variare di troppo i ritmi dati di anno in anno, che sono quelli che alla nostra ricerca interessano, ma toglie molto significato alle cifre totali, date nella propaganda dell’investimento globale in tutta la serie dei piani o in tutto il periodo dopo il 1917.

Mentre quindi la nostra paziente verifica della legge di decrescenza del ritmo è assodata indiscutibilmente, resta sia molto discutibile il confronto tra gli investimenti totali «nell’economia nazionale» tra un piano e l’altro, sia di dubbio significato (anche se si fosse tentata un’adeguazione delle cifre espresse in rubli) una tabella come quella dell’investimento totale che dal 1929 al 1955 ha raggiunto 1428 miliardi, mentre resta da commentare che di essi 865 sono stati investiti nell’industria, ed il resto nei trasporti, servizi generali ed agricoltura, con l’aggiunta fuori della detta cifra di 128 miliardi che le aziende colcos collettive hanno, dal loro profitto, reinvestito nella loro organizzazione.

Va anche notato che non tutto l’investimento deriva dal piano statale, ma una parte dai piani aziendali, parte che ha una decisa tendenza ad aumentare, e certo l’avrà molto più decisa dopo le nuove direttive del recente Soviet Supremo, che anche andranno considerate, per allentare la centralizzazione statale e fare larga parte a piani autonomi regionali e locali.

Ad esempio la cifra di Bulganin dei totali dei due piani V e VI in 593,7 e 990 riguarda non l’investimento fondamentale, ma solo quello statale, e dà lo scatto del 66,6 per cento come detto. Ma il totale generale del V piano è stato di 625,3, ossia gli investimenti non statali sono stati 31,6 miliardi, circa il 5 per cento. Facile profezia è quella che nel 1960 essi saranno relativamente molto più forti. Del resto non figura tutto l’investimento non statale, perché sfugge tutto quello delle micro-aziende colcosiane, che non è disprezzabile (si pensi a quello che i francesi chiamano cheptel, le scorte vive) e di altre aziende artigiane micro-industriali di commercio e di contrabbando.

La dottrina che esiste la moneta come mezzo dello scambio, ma in Russia essa non è accumulabile a capitale da parte di nessuno, è una sciocchezza allo stato chimico puro: e, se fosse la caratteristica del socialismo, non vi sarebbe una sola pagina di Carlo Marx che non meriti la più obbrobriosa delle destinazioni.

La grande accumulazione capitalista di Stato, come del resto in tutti i paesi moderni, è una grande scodella di caffelatte nazionale, ideale per immergervi le fettine imburrate del profitto privato, da tutti i settori dei suoi bordi sterminati.

61 – Parabola commestibile

Prima tuttavia di discutere la destinazione degli investimenti, è bene che sia detto qualcosa sulla loro formazione; per ribadire che essa non è dissimile da quella classica capitalista descritta da Marx e dai marxisti nella teoria dell’accumulazione progressiva.

Alla base del semplice fenomeno vi è una somma di denaro da una parte e una massa di forza lavoro vendibile dall’altra; oltre che merci di ogni genere sul mercato. Per riprendere fiato per altre corse tra i numeri, banalizziamo la cosa. Io ho alcuni milioni in denaro; da dove vengano, importa nulla; guadagnati lavorando, risparmiando, profittando, sfruttando o rubando sulla via maestra. Stanno lì. Oppure non li ho affatto e una banca me li presta, oppure anche, per spiegare perché il banchiere non investe lui facendo a meno della mia capacità di «organizzare» (di passaggio un’altra formula del socialismo: Società dove nessuno organizza: vedremo che in Russia vi sono le «organizzazioni» che investono; come in ogni paese sviluppato, i capitalisti non si chiamano più signor Pinco Pallino ma «organizzazione S.P.P.»), ne adopero una certa somma a far fare dalla macchina statale una legge speciale (o un capitolo di piano) a mio personale comodo.

Disponendo per una di queste vie della somma di denaro mi faccio il piano aziendale. Poniamo che voglia fabbricare bolle di sapone. Debbo comprare un suolo, un fabbricato, e un macchinario di soffiatrici meccaniche, per cui faccio una circolare e ricevo le offerte di cento case specialiste nel mondo. Una parte del mio denaro se ne va in capitale fisso, in impianti produttivi che compro una volta per sempre ma non vendo mai, e quindi non «realizzo» più.

Se avessi speso tutto, ecco che non farei neanche la prima bolla. Mi deve restare una somma per il capitale di esercizio: comprare sapone ed ogni tanto rabberciare la fabbrica e le soffiatrici, deperibili come ogni umano bene (meno lo Spirito, e compresa la iridescenza delle bolle di sapone). Inoltre debbo assoldare gli operai che manovrano le soffiatrici. Mi deve restare una somma per questo, che i borghesi chiamano capitale di esercizio. Non è detto che devo predisporre questa moneta in cassa per un anno, ma per un tempo minore, che Marx chiama tempo di rotazione del capitale (questo è il vero capitale, diviso in costante e variabile, e non, centesima volta, il costo o valore dei mezzi di produzione come impianti fissi). Ciò in quanto, fatta la prima rotazione, vendo le prime bolle e faccio soldi. L’investimento è misurato da tutta questa spesa: quella nell’impianto fisso, e quella nel capitale circolante dei borghesi, che devo avere in cassa in partenza.

Una differenza base tra Stato investitore, e organizzazione di filoni investitori, che facciamo a meno di chiamare privati, perché è solo lo Stato a farsi privare dei suoi quattrini, è che il capitale di Stato non ruota mai, per anni e anni, e quell’altro gira come una trottola. Ed ora torneremo con questa sapienza nostra da dozzina nella mirabolante patria del socialismo.



Notes:
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  1. Ossia 21,5 % di incremento medio annuo (che porta 100 a 5000 in vent’anni) + 3 % dell’Occidente + 1,5 % della popolazione. [⤒]

  2. Sono state qui utilizzate le uniche statistiche allora disponibili: quelle date da Stalin nei rapporti ai congressi del PCUS sugli adempimenti dei piani economici. In realtà venivano fatti passare per indici della produzione industriale gli indici di sviluppo della grande industria, che aumenta molto più rapidamente. In seguito alla pubblicazione in italiano nel 1957 del I annuario statistico dell’URSS, fummo in grado di smascherare quest'ennesimo falso. La gonfiatura dei dati risulta chiaramente a pag. 45 del detto annuario dal confronto fra le due serie di indici per gli anni dal 1913 al 1955. Poco conta che l’«errata-corrige» si pubblichi 20 anni dopo. [⤒]

  3. Per le successive riforme nell’impostazione stessa dei piani, cfr. la già citata «Appendice», più oltre. [⤒]

  4. Appunto questi motivi determinarono tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 la battaglia congiunta di Lenin e Trotsky contro i fautori dello smantellamento del monopolio del commercio estero e – con qualche legittima cautela nel primo – per un rafforzamento dei poteri del Gosplan. Cfr. Lenin, «Opere», XLV, pagg. 617 sgg. e «Trotsky Papers», («Trotsky Papers», 2 voll., 1917–1919 e 1920–1922, a cura di J. M. Meyer, L’Aja – Parigi, 1964 e 1971.), II, pagg. 745 sgg.; questioni sulle quali, come e più su quella delle nazionalità, Lenin era disposto, se le sue condizioni di salute l’avessero permesso, a battersi aspramente nel partito. Purtroppo, al XII congresso della primavera 1923, Trotsky, solo e tutto preso dai due primi problemi, non dette sul terzo la battaglia progettata da Lenin (che era pronto, occorrendo, a trasferirla in seno al congresso dei Soviet), e l’«offensiva» prevista lasciò aperti gli interrogativi più gravi sul regime di vita interna del PCR, anche se registrò un certo successo sul piano strettamente economico. [⤒]

  5. «Il piano economico unico», 21 febbraio 1921, in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 124. [⤒]

  6. Ch. Bettelheim, «La pianificazione sovietica», trad. it., Milano 1949, pag. 69. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 6, Marzo 1957

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