LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXXII)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXII)
62 [163] – Stato, capitale, denaro
63 [164] – L’occidente batte la stessa via
64 [165] – Investimenti statali e fondamentali
65 [166] – Divisione dell’investimento
66 [167] – L’insuccesso agricolo
67 [168] – Costruzione e «appalti»
68 [169] – Percentuale degli appalti
69 [170] – Servizi delle moderne «organizzazioni»
70 [171] – Stato minchione
|< >|
Notes
Source


Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXII)

62 – Stato, capitale, denaro

Da trent’anni discussioni interminabili si svolgono in Russia attorno a due principali aspetti del problema economico. Il primo consiste nel capire in che cosa effettivamente consista la macchina economica che si è venuta a formare e che si è dovuto lasciar formare, l’altro nel confrontarla in cento modi con gli «schemi di Marx» per raggiungere la dimostrazione che si tratta della macchina socialista, da Marx preveduta, che si è sostituita a quella capitalista.

Se però si fossero effettivamente intesi gli schemi dati da Marx per il modello capitalista appunto, si sarebbe visto che essi proprio vanno benissimo per tutto spiegare; mentre tutte le volte che si è voluta sostenere una differenza essenziale tra l’economia russa e quella vigente nell’occidente borghese, si sono sottomessi gli «schemi di Marx» a brutali e intollerabili deformazioni.

La polemica che ad onde e contro-onde si è svolta tra economisti sovietici si riduce alla ricerca della più utile possibile storcitura dei modelli di Marx che consenta di affermare che in Russia si è usciti fuori (e quando allora vi si sarebbe stati dentro?) dai confini del capitalismo.

Abbiamo stabilito (per evitare un momento le grosse questioni di teoria) che per leggere l’economia russa reale, in modo pacifico, occorre adoperare queste grandezze e far campeggiare questi enti: la Moneta, il Capitale, e lo Stato come soggetto economico. Enti che passeggiano benissimo nello schema di Marx, ma in quello che riguarda appunto il pieno fiorire del modo capitalista di produzione.

Non potremmo seguire il corso del fenomeno russo di investimento dei capitali nella produzione, se non possedessimo la misura rublo, ossia se il capitale non si lasciasse in modo alterno valutare come massa di merci e come massa di denaro.

Non potremmo assicurarci dell’entità di questa unità di misura, se non ricorressimo al suo saggio mercantile, ossia al corso dei prezzi, e al suo inverso, o mutevole potere di acquisto del rublo stesso.

Apparentemente ci si risponde che il fatto nuovo vi è: ossia è quello che ogni investimento viene operato dallo Stato, non potendo essere fatto da altro soggetto economico, e che quindi tutte le decisioni di nuovi investimenti, di ripartizione del totale in rubli che è dato ad ogni ciclo investire, dipendono da atti centrali dello Stato.

Ora questa distinzione anzitutto non è vera nel fatto; ma quando lo fosse non potrebbe assolutamente essere assunta per quella che definisce una società socialista, ormai, come ad ogni passo si afferma, per intere generazioni stabilizzata, e con in corso i soli miglioramenti relativi che pretende di raggiungere ogni altra economia nel mondo: aumento della ricchezza e del reddito nazionale, del consumo e del tenore di vita della popolazione.

Infatti se è indispensabile il denaro e se questo per essere misurato ha bisogno del mercantile indice dei prezzi, e se unico organo per distribuire quella parte, misurata in moneta, del prodotto globale che deve andare in nuovo capitale da investire in mezzi di produzione è lo Stato, la misura moneta e il misuratore Stato diventano eterni. Lo Stato da strumento politico per reprimere i ritorni conservatori delle forze capitalistiche interne ed esterne e le forze ad esse concomitanti costituite dalla tradizione radicata in ogni strato sociale e nello stesso proletariato, diventa lo Stato operatore economico; ogni economia senza operatori, come ogni società senza Stato, diventano improponibili Marx e Lenin sono morti.

Inoltre la distinzione, sterile in dottrina, non sussiste nel fatto: in Russia (come nelle versioni e cifre ufficiali) non tutta l’economia è operata dallo Stato, e non tutto l’investimento. Nell’agricoltura sappiamo che vi sono i colcos che operano un capitale proprio isolato, parte distribuendolo ai soci e parte reinvestendolo, e vi sono poi le aziende familiari che fanno quel che vogliono del loro prodotto, sfuggendo perfino alla legge mercantile che debba tutto, almeno per un momento, figurare in rubli. Infine le aziende industriali hanno un bilancio proprio e un investimento interno, che figura nel piano, ma non figura nel bilancio di uscite e spese dello Stato imprenditore, dello Stato operatore, dello Stato investitore.

La formula potrebbe essere ridotta allora a questa: Nulla si investe senza che lo Stato lo permetta; o forse in quella ancora più modesta: Nulla si investe senza che lo Stato lo annoti in rubli. E tuttavia la sconsolante economia familiare rurale ha il diritto di sottrarsi anche a questa ultima scolorita formulazione, e con essa altre piccole economie urbane, e tutte le clandestine.

63 – L’occidente batte la stessa via

Queste formule gradate sono tanto poco audaci (e per nulla rivoluzionarie) che è facile rilevare come l’Occidente, che è pacifico non essersi affatto smosso dalla piattaforma di base dell’economia capitalistica e mercantile, le ha da gran tempo adottate.

Lo Stato operatore economico è una realtà generale, tanto ad esempio in America ove vige una pomposa e macchinosa legge anti-monopolistica, quanto in Italia ove un intero pantano di ranocchi grida al dilagare dei monopoli, ma plaude poi a gran coro alle operazioni dello Stato, e tanto più quanto più sballa. Ora che si è formato un ministero delle partecipazioni statali, ossia delle funzioni dello Stato come operatore, investitore e imprenditore, non si è protestato altro che per il fatto che non vi presiedesse un ministro socialcomunista.

In America d’altra parte le operazioni statali sono in prima linea, ad ogni passo sollecitate dalle grandi corporazioni industriali, che minacciano di non poter fare senza di quelle i loro stessi interni piani di investimento.

In realtà il capitalismo è sempre quello, come tante volte ha ribadito Lenin, e tuttavia non si verifica più il fatto dell’investimento di moneta nella produzione che sia condotto con forze di un privato e nel segreto privato, se pure mai ciò sia completamente avvenuto in passato.

Fin da quando, col primo avanzare deciso del capitalismo, le operazioni di investimento ed anche di gestione di imprese importanti non si sono più fatte senza ricorrere a società, a compagnie, ad anonime, e sono divenute impensabili senza la partecipazione e l’anticipazione delle banche, in pratica è lo Stato che ha assistito come elemento indispensabile a tutte quelle operazioni.

Le misure – Marx ed Engels lo hanno mille volte avvertito – che nel «Manifesto» del 1848 erano proposte come le prime di un potere politico operaio, sono poi state man mano attuate dagli Stati borghesi, senza che ne fosse ancora scosso il potere politico di classe. In ogni paese tutte le banche cadrebbero senza date operazioni di una Banca Centrale, nella quale operano le decisioni dello Stato Centrale. Diventano sempre più rare le operazioni di finanziamento che non assista lo Stato, o con una speciale legge, o attraverso uno dei tanti organi parastatali, che pesano sul suo bilancio direttamente (ciò vuol dire su prelievi dal lavoro di tutta la popolazione) e nelle quali una parte del capitale (o, il che è lo stesso, una parte del servizio degli interessi e quote di ammortamento) non ricada sullo Stato. Il giro del capitale, che nella dottrina marxista è per definizione originaria fatto sociale rispetto alle forme storiche di giro privato della ricchezza, diventa sempre più giro pubblico. Senza addentrarci nei particolari di questo quadro è facile concludere che anche alle economie di Occidente può applicarsi la definizione, che si pretende socialista: Non avviene investimento a meno che lo Stato o lo operi, o vi contribuisca, o lo autorizzi, o si assicuri tutti gli elementi per registrarlo ed annotarlo; e questo non ai fini innocenti delle imposte, ma ai fini di un diretto incoraggiamento, come in tutti i «piani», i «programmi» e le «prospettive» apparentemente di statistica neutra, ma in effetti di propaganda e di classe.

Il socialismo tutto è fuorché il rientro di tutta l’economia in una economia statale; comunque anche in Russia l’economia statale è un campo più piccolo di quello di tutta l’economia, che anche lì si chiama con formula equivoca economia nazionale, e che lo Stato e il partito di governo tentano di provar di controllare tutta, mentre non riescono nemmeno a tutta rilevarla.

64 – Investimenti statali e fondamentali

Le statistiche russe di cui ci siamo già serviti tendono a provare che la misura monetaria della massa investita in ogni anno e in ogni piano tende a crescere progressivamente. Le tabelle da cui siamo partiti ostentano di aver fatto un’adeguazione monetaria e parlano di rubli ridotti tutti ai prezzi dell’aprile 1955, ma noi abbiamo dovuto esprimere i nostri radicati dubbi su questo.

Abbiamo tuttavia dimostrato che, anche ammesso che si tratti di misura in denaro di capacità di acquisto costante, è falso che il grado dell’investimento, il suo passo o ritmo, vada crescendo, mentre invece anno per anno e quinquennio per quinquennio è drasticamente diminuito; e sempre più appare certo che nel piano in corso la diminuzione sarà più netta.

Prima di passare a dire quanta parte del prodotto passato ad investimento in tutto il campo dell’economia russa è oggetto di operazione di Stato, rileviamo ancora una volta il falso, il banale trucco a cui si ricorre per mettere in scena una corsa al crescere dell’investimento, che nemmeno sacrificando severamente il consumo di beni non durevoli si è potuta ottenere.

La tabella generale che ci dà le due colonne degli investimenti in miliardi di rubli: quella minore relativa agli investimenti dei piani statali, e quella maggiore che presenta tutto l’investimento nell’economia, per ciascun piano quinquennale (quattro anni e un trimestre del primo, cinque del secondo, tre e mezzo del terzo, quattro e mezzo di guerra, cinque del quarto, cinque del quinto) ci dà a destra i valori della media annuale dell’investimento.

Allora è facile mostrare che l’investimento cresce di anno in anno in valore assoluto perché si va da 14,5 miliardi annui nel primo piano, a 125,1 nel quinto, come totale investimento nell’economia, e per il piano statale da 13,7 a 118,7 all’anno, mentre per il sesto piano l’investimento preveduto da Bulganin nel piano statale raggiunge 198 miliardi annui.

Formando invece la serie degli aumenti relativi annui, calcolati sulla cifra investita nell’anno precedente, noi abbiamo mostrato come la pretesa serie crescente è invece una serie decrescente, a somiglianza di quella di ogni paese capitalistico storico.

Basta, infatti, sostituire alla serie ora data piano per piano la serie degli «scatti» da una cifra all’altra per vedere ancora una volta la solita legge di calata del ritmo:
Investimento annuo nazionale, percentuali di aumenti per piano, parte di piano, o periodo: 95,2 %; 39,9 %; meno 24,2 %; 117 %; 91,6 %.
Investimento statale: 93,4 %; 41,5 %; meno 22,1 %; 113 %; 90,8 %; previsione del 66,8 %.

Al solito è solo un periodo negativo, che dà il lancio di un successivo esaltato, e poi riprende il declino.

Se adesso ci domandiamo quanta parte del totale investimento di capitale è contenuta nel piano statale, vediamo che essa, a tenore delle cifre a nostra disposizione, è in verità molto forte. Si tratta in modo quasi regolare del solo 5 per cento che rimane fuori dai «piani statali», il che non vuole ancora dire dal bilancio dello Stato, di cui diremo poco più oltre. Tuttavia a tali investimenti «fondamentali» altra statistica aggiunge quelli operati dai colcos, con loro capitale tratto da guadagno ciclico e non da intervento statale. Tale cifra non è importante, sebbene in continuo aumento, dato che come sappiamo l’agricoltura colcosiana è andata dai primi anni della rivoluzione fortemente progredendo come numero di aziende collettive, e di terra a disposizione, e di lavoratori associati. Nel 1929 i colcos investirono solo 0,4 miliardi, e nel 1955 sono giunti a 18,8. Tale notevole cifra rappresenta sul totale del piano generale il 12,5 per cento e sul piano statale il 13,2. Il peso dunque della forma di capitalismo cooperativo-privato agrario, rispetto a quella capitalista statale (è comoda confusione chiamarle tutte e due socialiste!), non è per nulla indifferente. Possiamo anche confrontare le cifre di tutto il quinto piano quinquennale. Totale del piano miliardi 625,3, totale statale 593,7, totale quinquennale dei colcos 61,4, ossia rispettivamente il 9,8 ed il 10,3 per cento. Ciò indica che il peso relativo dell’economia cooperativa rispetto alla statale è in aumento. Infatti il quarto piano aveva dato 29 miliardi ai colcos sui totali di 326,5 e 311,1, ossia meno di oggi: 8,9 e 9,3. Più evidente è la cosa secondo i dati anno per anno, se li prendiamo a partire dal completo sviluppo del colcos, nel 1933. In tale anno l’investimento colcos era rispetto al totale generale il 6,1 per cento, nel 1938 era l’8 per cento, nel 1942 il 9,6 per cento; nel 1950 il 7,3 per cento; oggi, come detto, il 9,8 per cento. L’economia privata cooperativa guadagna più terreno di quella statale.

65 – Divisione dell’investimento

Disponiamo di un’altra suddivisione degli investimenti anno per anno. Non tutta la somma indicata come investita nell’economia nazionale va in capitale di gestione di nuove aziende istituite o di ampliamento di aziende esistenti. Una gran parte di esso è destinata a lavori «di costruzione e di montaggio», ossia comprende le opere pubbliche, a cui ogni Stato anche liberale dedica una parte ingente delle sue spese, e l’installazione prima di nuove aziende di produzione, costituente cioè creazione di capitale fisso, che, vogliano o meno i vari gruppi di economisti sovietici modificatori di Marx, può chiamarsi ricchezza e ricchezza nazionale, o patrimonio nazionale, o magari patrimonio statale, ma non è né capitale costante né capitale variabile gettato nel fiume della produzione. Non è infatti un ponte, una ferrovia, il capannone di una nuova fabbrica, la macchina che vi si alloga, né materia prima né logorio annuo (ammortamento) di impianti fissi, e non è stanziamento al fondo salari, ossia, con buona pace di questi signori e orripilamento con essi dei professori delle economie borghesi, è investimento, ma non è capitale. Per essere scientifici è «immobilizzazione» ma non «investimento in capitali di esercizio», cose diverse per lor signori e per noi marxisti.

Tutti gli Stati del mondo e della storia immobilizzano denaro raccolto tra la popolazione con mezzi adeguati alle forme economiche del tempo e con esso fanno costruzioni di uso pubblico, strade, canali, porti e così via, sin dai faraoni e dai babilonesi ed anche prima. Oggi tutto questo viene a far brodo nell’investimento socialista!

Siamo infatti in presenza di una partizione dell’investimento globale di cui è messa in evidenza una parte altissima che costituisce «investimento in lavori di costruzione e di montaggio». Consideriamo che questa voce sia più larga di quella corrente di «spesa statale per opere pubbliche», a raggiungere la quale in un paese borghese dobbiamo sommare i bilanci in opere pubbliche di Stato, province e comuni.

Ad esempio sui noti miliardi 625,3 investiti nel corso dell’ultimo piano quinquennale espletato, 1951–1955, ben 394,8, ossia il 63,1 per cento, rappresentano i «lavori di costruzione e di montaggio».

Per intendere questa divisione si dovrebbe riferirla a quella dell’investimento totale tra le varie branche dell’economia. Negli ultimi dati di Bulganin sulla previsione del VI piano quinquennale, dei 990 miliardi se ne dichiarano destinati all’industria ben 600, circa il 60 per cento, e si dice che si prevede un aumento del 70 per cento rispetto al V piano; che avrebbe dunque investito nell’industria 353 miliardi, e sul noto totale di 594 il 59,5 per cento. Un tale rapporto sarebbe più forte che nei primi piani, che da altra fonte (Bettelheim) avrebbero destinato all’industria: il 47,2 per cento il I piano (sempre quanto a realizzazione), circa il 45 il II. In detti piani l’agricoltura aveva una forte percentuale, ossia il 26,2 per cento nel I e circa il 20 per cento nel II. Nel VI piano in progetto essa avrebbe dagli investimenti statali 120 miliardi, circa il doppio che nel V piano, ma solo il 12,1 per cento sul totale. È vero che sono previsti altri 100 miliardi dei colcos, all’infuori come sappiamo del piano statale; e quindi in totale 220 contro 600 dell’industria. Nella branca trasporti e comunicazioni sappiamo che nel I piano fu investito il 19,8 per cento, e nel II tra il 20 e il 25 per cento. Mancano nei discorsi Chruščëv e Bulganin le cifre per il V e il VI piano, ma è detto che il loro rapporto è di 100 a 170.

Un’altra cifra, quella nelle costruzioni edili, in parte esorbita dai piani statali in quanto vi provvedono anche le municipalità. Questa cifra è stata di 120 miliardi nel quinto piano e la si annuncia di 200 nel sesto (tutte le ultime notizie indicano che dopo il primo anno si è molto in ritardo sul programma di questo).

Comunque l’indirizzo di tutta la politica economica sovietica al momento della formazione del sesto piano e del XX congresso era questo. Tutto l’investimento statale nell’economia nazionale dovrebbe aumentare del 66,6 per cento. La parte destinata all’industria in generale, senza dare distinzione tra la pesante e la leggera e l’alimentare, aumenterebbe del 70 per cento. Aumenterebbero nello stesso rapporto, all’incirca, l’investimento nei trasporti e comunicazioni, quello nelle costruzioni edili, nell’industria leggera ed alimentare, quello degli investimenti dei colcos, estranei al piano statale. Una sola cifra fa eccezione a questa regolare marcia di tutta l’economia, quanto a investimento, dei due terzi circa in più; ed è quella prevista per l’agricoltura cui si vuole dare nel nuovo piano statale il doppio del precedente, elevandola dall’11 al 12 per cento del totale. Infatti nel quinto piano si investì dallo Stato nell’agricoltura per 65 miliardi su 594, nel quarto per 26 su 311, ossia l’8,4 per cento. Si vuole dichiaratamente dare maggior peso all’agricoltura, ma i risultati del 1956 non sembra abbiano corrisposto al programma, per quanto dettato da esigenze pressanti.

66 – L’insuccesso agricolo

Abbiamo in varie sedi affermato che il passo agricolo della produzione russa è così deludente, che i traguardi posti al sesto piano quinquennale, che difficilmente sarà condotto con esiti brillanti, non sono in fondo che quelli già segnati per il quinto piano stesso, alla fine del quarto.

Sarà utile sostare un momento a dare la prova di questo grave fatto, ricordando come nel 1950 si erano fatte le previsioni per il quinto piano. La produzione dei cereali espressa in milioni di quintali aveva nell’anno 1950 dato la cifra 1160. Nel V piano si annunziò di volerla aumentare dal 55 al 65 per cento, e quindi la produzione 1955 avrebbe dovuto essere di 1798 a 1914 milioni di quintali. Ma il decorso del quinquennio, di cui in quanto precede abbiamo già dato le tabelle, fu disastroso nel 1951: 1125, ossia meno del 1950. Nel 1952: 1310. Nel 1953 altro indietreggiamento: 1170. Nel 1954 lieve ripresa: 1220. Si annunziò di avere nel 1955 fatto uno sforzo enorme, ma in realtà si trattò di un anno agrario dappertutto favorevole, che dette 1500 milioni di quintali, molto meno degli attesi 1798 a 1914, con un premio sul 1950 del solo 29,3 % al posto del pianificato 55–65!

Come ben sappiamo per il 1960 non si è osato prevedere di più dei 1800 milioni di quintali, che rispetto ai 1500 di partenza del piano danno solo il 20 per cento di aumento, e che ripetono senza alcuna audacia quelli promessi già per il quinto piano.

Altre previsioni in materia di produzione di derrate agrarie del V piano quinquennale vanno pure ricordate, in rapporto a quella che è stata la realizzazione annunciata al XX congresso, e per ribadire la nostra dipintura sfavorevole dell’agricoltura russa, data nel «Dialogato coi morti»[286] e nelle precedenti parti di questo studio.

Anche il cotone doveva andare da 100 a 155–165, ed è appena andato a 109. Invece il lino ha dato buoni effetti: previsione da 100 a 140–150, realizzazione 149. Non così le barbabietole da zucchero che invece di 165–170 hanno dato 147. Per le patate si promise 140–145 e Chruščëv dovette annunciare «raccolto basso»; ciò vuol dunque dire meno di 100.

Come sappiamo egli ha potuto annunciare che i semi di girasole che erano impegnati a salire da 100 a 150–160 sono andati a 207, e quell’oratore ne ha potuto fare, come si vede da tutte le sue manifestazioni, un’efficace cura.

Egli non ci ha detto che cosa sia accaduto di uva, tabacco e tè che dovevano salire da 100 a indici dell’ordine di 155–175.

Possiamo quindi chiudere questa parentesi con la conclusione, solidamente ribadita, che il sistema economico russo riesce a stento a far tenere alla produzione agraria un ritmo pari a quello della popolazione che incrementa, ma mentre la popolazione delle campagne integra il suo consumo con un’economia naturale familiare non rilevabile dalle statistiche, il consumo di cibi della popolazione urbana a dismisura crescente, e molti suoi annessi consumi di beni non durevoli di origine agraria, decrescono irreparabilmente e richiedono un intensificato sacrificio di pluslavoro e di plusvalore, conformemente allo storico effetto di ogni avvento di economie capitalistiche, giusta la dottrina base di Marx.

67 – Costruzione e «appalti»

Verrà ora sulla scena il più malfamato di tutti i personaggi delle società capitalistiche che hanno ammorbato ed ammorbano il mondo moderno: nientemeno che il volgarissimo rapporto che si chiama «appalto».

Ciò serve a continuare nel nostro studio circa la ripartizione in un’economia come la russa del valore prodotto dal lavoro e del plusvalore che si genera dal lavoro salariato nelle imprese; e come questo processo (senza rivelare con questo caratteri originali ai lumi di una critica marxista) aggravi la condizione della popolazione urbana rispetto a quella rurale, ancora eccedente alle insidiose e antisociali forme del godimento diretto molecolare, cui la società russa offre, senza elevarlo dalla millenaria impotenza, una speciale tutela, avendo reso non commerciabile come prima del capitalismo la terra goduta.

Abbiamo detto che i dati ufficiali russi ci porgono una statistica di quella parte degli investimenti che i piani quinquennali destinano al potenziamento dell’economia nazionale, che consiste in lavori di costruzione e di montaggio.

Questo rilievo ci ha indotti a ritornare alla partizione degli investimenti tra i vari rami della produzione, per stabilire tra quali di questi può avere incidenza questa speciale partizione.

Al di fuori di essa restano le «sovvenzioni» statali alle aziende che sono in crisi di produzione e si presentano «deficitarie», ed anche quelle somministrazioni di pubblica finanza alle aziende che devono aumentare la produzione e quindi fare acquisti maggiori di materie da lavorare e assunzioni di personale più numeroso.

La spesa per nuove costruzioni (genericamente fabbricati) e montaggi (genericamente macchinari, impianti, armamenti tecnici, condotte di ogni genere) può incidere sugli investimenti del settore comunicazioni e trasporti, in grandissima misura, e su quelli industriali come su quello agrario. Bulganin ad esempio ha detto che nei 600 miliardi che il piano quinquennale riserva all’industria sono comprese queste realizzazioni: costruzione di centrali elettriche, di aziende dell’industria chimica, della siderurgia e della metallurgia non ferrosa, delle industrie carbonifera e petrolifera, di quelle dei materiali da costruzione, della forestale. Ai quali settori si prevede di destinare 400 dei 600 miliardi.

Nei limiti della nostra ricerca non siamo in grado di dire come tra i vari rami si dividono i miliardi di costruzioni e montaggi, ma solo di confrontare tale cifra con quella dell’investimento globale.

La tabella che abbiamo tratta dall’annuario statistico di Stato ci dà la percentuale di questi lavori al totale, che non varia grandemente, ma ha solo una tendenza alla diminuzione negli ultimi piani quinquennali, il che ci sembra conforme al rallentare generale dell’accumulazione e della creazione di nuovi impianti produttivi in rapporto alla gestione di quanto già esiste, sintomo di un capitalismo che si prepara a «calmare i giovanili bollori».

Nel I piano abbiamo avuto l’85 per cento, assai alto: ma sappiamo che si risorgeva da una distruzione totale e si doveva prima ricostruire, poi gestire.

Il II piano ha dato l’80 per cento; il III, spezzato, 79; il periodo di guerra 78. Il IV piano è sceso a 64 ma con questa serie: 70, 65, 64, 63, 60. Il V piano, stabile nei cinque anni tra 64 e 62, ci dà 63. Il maresciallo Bulganin non ha creduto informarci delle previsioni su questo speciale indice nel sesto piano, ma ci dirà presto una cosa interessante.

68 – Percentuale degli appalti

Disponiamo di un’ultima tabella che va, anno per anno, dal 1933 al 1955. Essa lascia quindi fuori solo il I piano, e ci indica, dopo aver ripetuto il volume degli investimenti in lavori di costruzione e di montaggio, il minor volume sul precedente che viene «dato in appalto ad organizzazioni».

Per fare un esempio, nel V piano quinquennale su 625,3 miliardi generali ne sono stati investiti in costruzioni e montaggi 394,8, e di questi sono «dati in appalto» ben 332,3. Rispetto al IV piano abbiamo avuto questi incrementi, ripetendo quello generale già noto: Investimento generale: aumento 91,5 per cento. Costruzioni e montaggi, aumento 89,6 per cento. Appalti, aumento 113,2 per cento.

Nel discorso Bulganin troviamo questa promessa, che gli investimenti, come ben sappiamo, nel nuovo piano quinquennale si limiteranno a salire, non più del 91, bensì del solo 66,6 per cento, ma che, non nel piano, ma
«attualmente oltre l’80 per cento di tutto il volume dei lavori di costruzione viene affidato per contratto a speciali organizzazioni edili».
Infatti la nostra tabella ci dà per il 1955 la rispettabile proporzione di 83 per cento, e i dati appaiono filare d’accordo.

Dunque in Russia esiste l’appalto, esiste il contratto di appalto, e copre nientemeno un rapporto di 83 per cento del tutto. Bulganin non dice che nel sesto piano coprirà probabilmente il 90 e più, ma ora lo trarremo noi dalle cifre.

Ma prima vogliamo riferire, ci si scusi, un aneddoto. Cerchiamo novità e troviamo di continuo vecchiumi dei più disgustosi. Ci si annunzia in tutte le direzioni la primizia stuzzicante dei miracoli del socialismo, e finiamo con tra i piedi l’appalto, delle cui gesta ladresche siamo edificati non diciamo nell’Italia fondata dai comitati di liberazione, o dalla marcia su Roma, ma in quella classica che ci hanno trasmesso gli imperatori romani coi loro appaltatori e i loro Verre pieni di soldi al punto da scoppiare. Quale serie di delusioni!

Un giornalista italiano è in visita da un saggio ospite cinese che si è evidentemente prefisso di sbalordirlo coi costumi stranissimi del suo particolarissimo paese. L’interlocutore non meno arguto trova modo a ogni originale pratica e costumanza che gli viene descritta di ribattere che la cosa non lo stupisce menomamente, perché faccende del genere sono all’ordine del giorno a casa sua. Un po’ smontato il colto cinese finalmente si alza e traendo di sotto alla sua persona una specie di panchetto sul quale stava assiso esclama, mostrando che è fatto di un pacco di giornali piegati e strettamente legati tra loro con una cordicella a più croci: Dove credete che in Cina vadano a finire i giornali stampati dopo letti? ebbene: sotto il sedere! Oh questa poi, risponde calmissimo il visitatore, non mi riesce proprio nuova per nulla: in Italia i giornali vecchi non li destiniamo all’uso di diversa parte del corpo!

Con il quale aneddoto non abbiamo voluto manifestare la nostra speciale stima per quel prodotto primo della civiltà moderna che è la stampa, a stento superata dalla carta igienica, quanto fare un paragone calzante fra la poca originalità delle rivelazioni del cinese, e quella degli annunci pomposi dei dirigenti sovietici, quando vantano di avere allestito davanti agli occhi abbagliati del vecchio mondo una struttura sociale impensabile ed inattesa, i cui caratteri tutti sono stati finora ignorati e riescono di inedito modello – davanti alla massiccia apparizione di un rapporto economico tanto rancido, quanto il contratto di appalto di lavori con l’amministrazione dello Stato!

Viene sollevata una questione che interessa grandemente sotto il profilo quantitativo e sotto quello qualitativo. Ci sia consentito di dare la precedenza al primo, con altre brevi cifre, in quanto può riuscire un po’ più pesante.

Non possiamo verificare se la mancanza di dati per il primo piano quinquennale oltre che per gli anni che lo precedono derivi dall’assenza del fenomeno nel periodo successivo alla rivoluzione e alla distruzione delle vecchie imprese private e borghesi appaltatrici di lavori edilizi ed affini. Probabilmente dopo aver riconosciuto che si poteva statizzare la sola industria, e che le diverse esigenze dell’agricoltura e del commercio avevano reso necessario rassegnarsi alle forme del mercato monetario e dello scambio di prodotti agrari, si rimase restii ad intendere che nel campo della produzione dei manufatti lo Stato potesse rinunziare ad essere, oltre che nuovo proprietario titolare delle fabbriche ed imprese espropriate, anche loro gestore a mezzo di diretto suo personale remunerato a tempo di lavoro, e, come dicono i borghesi, per conduzione diretta, in economia diretta; esperimento che per tutti gli Stati borghesi riesce sempre ultrarovinoso e di spregevole rendimento. Forse si ritardò, per così dire, ad ingoiare un altro rospo di così immani proporzioni. Comunque non possiamo dedurre che dalle cifre in nostro possesso.

Nel primo anno di tabella la proporzione tra il volume dei lavori dati in appalto e quello totale è molto basso: 25 per cento. Deve pensarsi che lo Stato conducesse i tre quarti delle costruzioni di opere fatte col suo denaro in economia diretta; anticipando materiali e spese di personale. La percentuale sale nei 5 anni del II piano senza posa: 25, 25, 27, 34, 48, e la media del quinquennio è 33. Sebbene sia noto che le cifre assolute in miliardi di dollari delle due colonne ebbero oscillazioni notevoli negli anni di guerra, l’indice o aliquota degli appalti che qui ci interessa non cessa di aumentare: per il parziale terzo piano diviene 56; e per gli anni di guerra sale ancora a 59. Non trascriviamo tutta la serie dei 23 anni che non presenta mai un ritorno indietro, e basterà dire che nel quarto piano si sale al 73 per cento medio, e nel quinto a ben 81.

Si tratta dunque, quale che sia l’ingranaggio reale dell’appalto di lavori dello Stato russo, di un fenomeno di aumento del sistema tanto deciso quanto irreversibile, e la percentuale degli appalti sale ad ogni piano di uno scatto tra il 5 e il 10 per cento: il che ci autorizza a dire che alla fine del sesto piano saremo al 90 per cento, ossia praticamente alla regola che la totalità delle spese dello Stato per costruzioni ed impianti si fa attraverso un contratto con un ente appaltatore.

Naturalmente ci si dirà che non abbiamo capito che si tratta di «appalto socialista», e dobbiamo quindi vedere la questione sotto il profilo qualitativo.

69 – Servizi delle moderne «organizzazioni»

Il fatto assodato che lo Stato russo spende in un anno oggi circa 80 miliardi su 93,5 di lavori di costruzione ed installazione attraverso contratti con enti di cui si tratta di definire la natura economica. Quando tra due enti si stipula un contratto ciò vuol dire che gli interessi dei due enti sono differenti ed il contratto evita che quelli dell’uno sopraffacciano di troppo quelli dell’altro. Naturalmente si verrà subito a raccontare che altro è il contratto capitalista, altro sarà il «contratto socialista». Poiché di un tale documento non ci è ancora accaduto di sentir parlare, e tutto quel che possiamo presumere è che la sua destinazione sarebbe quella dei giornali del cinese, non ci resterebbe che elevare un’altra delle nostre definizioni del socialismo, nella solita lapalissiana maniera: Il socialismo è quell’economia, nella quale non si fanno contratti.

Altro fatto assodato è che esiste una somma di denaro che lo Stato deve erogare, e che nel piano vi è ad esempio un progetto per una diga fluviale e relativa centrale elettrica che si prevede costi, poniamo, due di quegli 80 miliardi, e che quindi ad uno stadio determinato del procedimento quei due miliardi passeranno all’ente contraente a cui la controparte nell’appalto consegnerà la diga. Questo avveniva a Tebe, a Ninive ed a Roma; e la cosa in Russia non può andare diversamente, se è vero che dopo spesi quei due miliardi ne resteranno, per le esigenze dello Stato e del piano, 78. Se così non fosse allora davvero di Lapalisse-Bulganin si dovrebbe dire che, un quarto d’ora prima della sua morte, non «il était encore en vie» (era vivo ancora) ma, secondo la versione originaria, «il faisait encore envie» (suscitava invidia a vederlo).

Alt! Questo originale quanto misterioso contratto si stipula non con un volgare appaltatore capitalista, ma con «speciali organizzazioni», e noi non le abbiamo mai viste, non sappiamo come siano fatte, non le abbiamo mai guardate contro il tubo di Röntgen e ne ignoriamo, poverelli, la solida struttura socialista.

Monsieur de Boulganine, si vous n’êtes pas mort, mort devant Pavie… se siete ben vivo davanti all’emulativo mobile-bar del Cremlino, e alla vostra salute, ascoltate il nostro povero ed occidentale: ti conosco mascherina! Nonno e babbo conoscevano, in questo bel clima borghese, il trogloditico appaltatore, noi non ne incontriamo più, e si offrono, quando una «stazione appaltante» privata o pubblica ha da spendere qualche miliardo di centesimi italiani, le più anonime e compite «organizzazioni».

«Essendo informati che vi occorre installare una linea telefonica diretta con l’ufficio del maresciallo Bulganin in Mosca, ci pregiamo porre a vostra disposizione la provata esperienza in materia della nostra «specializzata» organizzazione, e vi sottoponiamo il preventivo alle migliori condizioni, e il nostro schema di contratto per il quale i nostri uffici hanno calcolato il prezzo di ventidue copechi alla versta, ecc…».

Il capitale si presenta oggi in ogni momento nella forma di una «organizzazione», e dietro questa parola divenuta non più sinonimo di fraternità in una lotta aperta come ai tempi gloriosi delle lotte operaie, ma ipocrita finzione del comune interesse, dietro l’inespressiva e antimnemonica sigla dell’inafferrabile azienda, tra affaristi, amministratori, tecnici, operai specializzati, manovali, cervelli elettronici, robots e cani da guardia, dei fattori della produzione e degli stimolatori del reddito nazionale, compie l’immonda funzione che sempre ha compiuto, anzi una funzione immensamente più ignobile di quella dell’imprenditore in nome personale che si faceva pagare intelligenza, coraggio e vero pionierismo agli albori della società borghese.

Anche nei paesi capitalistici questa forma più spinta della spersonalizzazione del capitale, che Marx ha scolpita nelle sue previsioni man mano che toglieva dalla scena come inutile la figura padronale del capitalista, scusandosi di non averla dipinta in tinte rosée[287], e disegnava le linee taglienti della sparizione della forma capitale come un processo grandioso e irriducibile al pettegolare sulle personalità, i loro brindisi e i loro rutti oratori, viene ogni giorno più assunta dall’industria delle costruzioni, e delle installazioni.

70 – Stato minchione

L’organizzazione non solo è il moderno capitalista senza persona, ma è anche il capitalista senza capitale, perché non ne ha bisogno alcuno. L’impresa di appalto edilizio non ha fissa dimora e non ha patrimonio immobiliare: il suo cantiere glielo dà lo Stato appaltante, e lo si scrive nel primo articolo del contratto. È chiaro che noi non abbiamo mai letto un contratto di lavori in Russia, ma siamo sicuri che lo sapremmo scrivere. In Russia i capitali che lo Stato ed il piano stanziano per lavori ed impianti non viene versato nella Gosbank o banca centrale di Stato, per cui passano i versamenti – e i prelievi – dalle industrie generiche che lo Stato gestisce – fin quando, lì ed ovunque, senza pregarne un organizzato appaltatore? – ma viene passato a banche speciali. Queste non possono fare alla speciale organizzazione l’offesa di considerarla capitalista, e tengono a sua disposizione anche il primo milione di rubli, se non il primo rublo, entro i limiti dello stanziamento. Anche in Occidente ogni ditta che abbia avuto un contratto con lo Stato va alla prima banca, lo mostra, ed ha tutti i soldi che le servono non già per compiere l’opera ma per arrivare al primo versamento. Se l’impresa lavora su contratto vuol dire che sono stabiliti dei prezzi che le sono riconosciuti per l’esecuzione dell’opera, e di date parti e quantità di opera. Questi prezzi contengono un margine di profitto, e la sola differenza con l’appaltatore classico è che non vi è più per lui nessuna vera anticipazione di valore e nessun vero rischio nel caso che l’opera costi troppo o non corrisponda allo scopo. Probabilmente la sola differenza che vi è nel contratto russo è che la speciale organizzazione appaltatrice non versa nessuna «cauzione di garanzia». Nei paesi borghesi questa clausola si sa magnificamente come eluderla in cento modi. L’organizzazione di affari ha il suo proprio intelligente piano: non presenta ditte responsabili con valori vivi, ma fa andare avanti una «società pilota» con un capitale finto, e se anticipa in cassa poche somme sono quelle per guadagnarsi la facile simpatia degli uffici statali che devono vagliare offerte, proposte e contratti.

Qui si scopre da un lato la fallacia della sciocca dottrina sulla burocrazia di Stato, o di partito, nuova classe dominatrice e sfruttatrice che la fa a proletari e capitalisti, e si scopre sotto un aspetto nuovo e diverso da quella, che basta ad eliminare in linea marxista la ridicola ipotesi che un corpo di servitori che vendono il proprio signore assuma la direzione della società e della sua vita economica. Lo «specializzato» è oggi l’animale da preda, e il burocrate il miserevole untorello.

L’organizzazione differisce dalla comune di lavoro (pura illusione libertaria di cui non vi ha esempio entro confini locali) perché non vi è parità di prestazione ad una comune opera, ma vi è una gerarchia di funzioni e di vantaggi, entro ciascuna azienda operatrice; né potrebbe essere altrimenti quando l’azienda ha un suo bilancio in chiave di profitto attivo ed un’autonomia nel campo del mercato. Lo Stato che ha avuto il coraggio di essere capitalista, manca di quello di essere operatore economico; esso è un ventre pieno di capitale denaro che consegna ad altri perché con esso operino economicamente, e lo rovescia fuori al più lieve invito vellicante. Le organizzazioni operatrici economiche sono le piovre del plusvalore e le disfattiste del rendimento sociale; e sono l’ambiente più adatto alla corruzione della classe dei salariati, ed alla alimentazione con pochi lecchi di una sciagurata aristocrazia proletaria, nel vecchio senso di Lenin.

Il senso di recenti notizie di Russia sul decentramento regionale e una ancor maggiore autonomia aziendale[288] è che si va verso una travolgente estensione del sistema dei contratti, con cui lo Stato si affitta ad organizzazioni che sono vere bande di affari, di composizione umana mutevole ed inafferrabile, in tutti i settori dell’economia, lungo una strada che in tutti i sistemi capitalistici moderni è segnata dalle forme esose che ha assunto l’industria edilizia, e a sede volante.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. «Dialogato coi Morti (Il XX Congresso del P.C. russo)», Edizioni «Il Programma Comunista», Milano, pagg. 58–63 e passim. [⤒]

  2. K. Marx, «Il Capitale», Libro I, Prefazione alla I edizione:
    «Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone solo in quanto personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classe. Il mio punto di vista, che concepisce Io sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile dei rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al disopra di essi». (Editori Riuniti, Roma 1964, pag. 34). [⤒]

  3. Cfr. l’«Appendice» al presente testo, più oltre. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 7, Marzo 1957

[top] [home] [mail] [search]