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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXXVII)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXVII)
109 [210] – Il sistema di imposte
110 [211] – Le forme dell’imposta
111 [212] – Lo Stato ammucchia denaro
112 [213] – L’atroce contraddizione
113 [214] – La vecchia infamia: un «nuovo corso»
114 [215] – Comunismo e «centralismo»
115 [216] – Impotenza alla dialettica
116 [217] – I falsari del leninismo
117 [218] – Liquidazione gigante
118 [219] – Il toro nella cristalleria
119 [220] – Gaudio degli antiburocratici
120 [221] – Lo scontrino di Marx
121 [222] – Riforma e rivoluzione
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXVII)

109 – Il sistema di imposte

È del tutto naturale che il sistema fiscale dello Stato sovietico sia sorto come un sistema misto e si sia andato via via sviluppando per adattarsi ad un’economia che si andava sempre più industrializzando. Poiché tuttavia fino agli anni della NEP fu chiaro che parallelamente si sarebbe sviluppato un immenso mercato monetario interno, e da quelli della falsa «collettivizzazione» agraria si rese evidente che le forme private cooperative ed anche individuali avrebbero parimenti progredito enormemente, fu inevitabile che il sistema di imposte si poggiasse su tre settori: quello «socializzato», e per dire esatto della gestione statale – quello cooperativo – quello privato.

Ad evitare confusione di idee diremo subito che nell’economia socialista non può essere questione di imposte pagate in moneta: essendo in un dato momento l’amministrazione sociale dispositrice di ogni prodotto, nel ripartirlo trattiene la parte che risponde ai servizi generali e lascia il resto ai consumi individuali quotidiani; questo lo schema marxista.

Ma anche un’economia totalmente statizzata pur restando monetaria, potrebbe funzionare senza imposte. Dato che il centro statale conduce nel suo bilancio e nella sua cassa ogni «profitto» delle aziende statizzate, e se queste fossero praticamente tutte anche nell’agricoltura, da questo movimento si possono ricavare le spese per i servizi generali pubblici.

Se l’imposta in moneta vive e si amplia, ciò vuol dire che anche la statizzazione totale (che è per Marx una «fase non stabile» da tempo rivoluzionario) non solo non è raggiunta ma si va allentando. Tutte le notizie dal 1953 sono in questo senso, anche le ultime. Questo processo, per una stranezza della storia o per una coincidenza pura, segue la morte di Stalin che ne ha facilitato la confessione. Non abbiamo solo in Russia capitalismo di Stato ma capitalismo di Stato misto al privato, in una miscela che si svolge diminuendo la dose del primo: non solo non è il risultato di un processo di rivoluzione socialista, ma non migliora nemmeno le condizioni per questa rivoluzione.

Il concetto di Lenin di «imposta in natura» a carico del contadino familiare e cooperativo, come chiara misura borghese, è abbandonato. Lo Stato preleva derrate, ma contro moneta, e con una via che va sempre a vantaggio della popolazione agraria e a danno di quella industriale.

Nel 1945 l’attento studioso Bettelheim scriveva:
«La parte più importante dell’imposta sulla cifra di affari è fornita dai prodotti bianchi, dal pane, ciò che è reso possibile dal fatto che lo Stato compra a basso prezzo e con misure d’imperio i cereali che rivende molto cari alla popolazione sotto forma di farine e pane. Nel 1937 su 77 miliardi di rubli dell’imposta totale 24 furono dati dai prodotti agricoli e 20 dall’industria alimentare; solo 9 dall’industria pesante»[299].

In questi giorni del 1957, dopo che a grandi passi segue la marcia intrapresa nel 1953, il cui senso è di usare la maggiore resa della produzione e della tecnica associata al solo scopo di fondare una società statica di consumatori-possessori ad ambito familiare autonomo, «l’Unità» si fa così scrivere da Mosca:
«Gli errori [quale barba!] scoperti e denunciati furono due: un eccessivo gravame finanziario imposto ai contadini attraverso esazioni fiscali, i prezzi troppo bassi per la loro produzione e le forti quote di ammasso; un insufficiente rispetto [!] della natura cooperativa dei colcos che giunse sino a tutto imporre dall’alto, ecc.» (numero del 26 maggio).

La presente regionalizzazione, e peggio, della stessa macchina industriale è altro passo che va nello stesso tempo in senso contrario alla tradizione di Stalin e alla rivoluzione. Essa prelude secondo ormai chiare parole di Chruščëv all’ideale di un’industria frammentata, cooperativa e colcosiana, ideale che è lo stesso della controrivoluzione borghese in America, e di cui il vicino futuro darà dimostrazioni clamorose.

110 – Le forme dell’imposta

Nel primo settore, l’economia socializzata, l’imposta in moneta «sulla cifra di affari» segue ogni prodotto nell’origine e in successive trasformazioni. Nessuno nega che si tratti di un’imposta «indiretta», ma vi è stata da molti anni una grande discussione, pretendendo gli economisti sovietici che non si avesse a che fare con una vera imposta «sul consumo», ma con un semplice prelievo, forfettario e «a priori», sui profitti delle imprese statali e cooperative.

In effetti, se tutto partisse ed arrivasse alla cassa unica di Stato, se ogni movimento di valore si riducesse ad entrata ed uscita di Stato, nel conto finale potrebbe essere indifferente che si lasci una impresa profittare cento per ritirarle quaranta e lasciarle sessanta, ovvero farle prima pagare venti di tassa sul beneficio e poi dirle di versare altri venti dal netto. Infatti se il prezzo finale al consumatore è il prezzo di Stato, lo stesso come tale resterebbe indifferente al fatto del prelievo in un tempo o in due tempi. Ma una tale imposta non si paga all’atto della produzione né a quello dell’incasso di un reddito, bensì ogni qualvolta avviene uno scambio monetario tra una ed un’altra azienda, ed in ragione della cifra di tale scambio.

Sono percepite tasse anche sulle imprese agrarie e non cooperative (colcos) e sulle aziende familiari dei colcosiani. Ma solo all’inizio la tassa era in ragione della superficie (seminata) con analogia alla comune imposta fondiaria; successivamente la si è applicata anche qui sui «benefici» dell’azienda, fermo restando che il godimento ha la stessa estensione di quello borghese fondiario.

Meno importanti sono le imposte a carico del settore «privato» che colpiscono le piccole aziende agrarie, industriali e commerciali ufficialmente ammesse. Ma la cosa che «sembra la più logica di tutte» è che tale imposta colpisca il salario operaio (oggi al di sopra di un certo minimo, come vedemmo) ripetendo il non senso di trattare il salario come un reddito monetario e non più come una «iniezione di alimento» destinata a conservare al proletariato il suo carattere di serbatoio di forza lavoro, nella generazione viva e nella sua fisiologica riproduzione. Il socialismo vorrebbe dire il sollevamento del salario da questo carattere: ma nel sistema di servitù salariale al capitale di Stato la pallida forma di «emancipazione», che si può esprimere in termini monetari, dà subito occasione all’incidere dell’imposta; e ad un saggio più alto per salvare il carattere «progressivo»! Questa imposta sul reddito è quella diretta, e non si può quindi dire che colpisca il proletario in quanto consumatore: fa di peggio, lo colpisce in quanto «produttore» di quello che non produce, ossia il reddito, egli che incassa solo quello che dovrebbe consumare. E ciò in tutto il sistema due volte, tre volte, sommando gli effetti di tutte le imposte.

111 – Lo Stato ammucchia denaro

La chiave di tutto il sistema è che lo Stato deve accumulare moneta perché il giro salario-merci-denaro possa non arrestarsi. Abbiamo visto come il flusso di miliardi di rubli arriva al bilancio. All’incirca metà sono le imposte, ossia denaro raccolto tra la popolazione. Il fisco dello Stato-capitalista economico è più tremendo di quello dello Stato-capitalista solo politico, o economico «prorata» come da noi. Lo Stato non ha il disturbo di esigere, gli basta non versare! Il piccolo produttore, il colcosiano, il cripto-redditiero, l’operatore mimetizzato, figure privilegiate nella società russa, devono, come il nostro volgare contribuente, essere snidate e fatte pagare: il dipendente dello Stato come operaio urbano e rurale a salario, ed anche l’impiegato a stipendio (speriamo si sia capito che al marxista interessa la struttura del rapporto di produzione, e non la banale questione: è pagato bene o è pagato male? Avete o no capito dalla vita della società borghese che chi più soldi maneggia, più si sente fregare quando li vede diminuire?) sono «à la merci» del padrone-Stato che, in una sconcia economia e in una oscena letteratura, sono essi stessi!

Metà dunque dei miliardi di cui ha bisogno il suo ventre orrendo, lo Stato li ha dalle imposte, solo il 16 per cento dal prelievo sui profitti delle aziende, e il resto gli viene da fonti «varie».

Ma altri due fenomeni – classici tra quelli con cui Marx definì l’accumulazione capitalistica primitiva, che scrisse la sua epopea in occidente dal XVI al XIX secolo, e oggi imperversa in Russia – gonfiano d’oro lo Stato: il sistema del credito bancario e del risparmio, e quello del debito pubblico.

Lo Stato maneggia il risparmio che i cittadini sono in un modo o nell’altro condotti a versare nelle banche, che egli detiene – lo Stato, con un metodo una volta ancora dieci volte più sicuro di quello degli Stati capitalisti nell’aggettivo storico e non ancora nell’apposizione economica, fa rubli con prestiti del «pubblico» a cui promette interessi. E l’operaio che nel paese borghese può agevolmente «cracher» ossia vigorosamente scaracchiare sul cartellone che gli punta il dito con lo slogan: oro alla Patria!, paga su ritenuta e non se ne accorge. Sì, perché Creso ed Arpagone si accorgono dei pagamenti che fa la loro cassa ipertrofica; il lavoratore nullatenente ride sul vuoto del suo borsellino, e, se è cosciente, vorrebbe solo prima di crepare vedere il falò di tutte le banconote e di tutti i titoli di carta: non ve n’è uno di essi in cui il credito non sia per la canaglia borghese, e il debito non sia per lui: Carlo Marx seppe (e credemmo per tutti i secoli) spiegarlo al ministro Gladstone e svergognare la Ricchezza della Nazione, che coi descritti afflussi, che sono di umano sudore e sangue, oggi si costruisce in Russia, e non per un solo, ma per tutti gli Stati del mondiale impero del Capitale.

Del gettito dei prelevamenti sui profitti delle sue aziende, e molto più timidamente fino a ieri, e nulla domani, lo Stato non fa solo investimenti in nuovi mezzi di produzione (accumulazione capitalistica squisita), poiché le cifre tra le quali lungamente noi ci indugiammo mostrano che l’investimento è meno del prelevamento. Infatti, mentre possiamo ammettere che la pesante imposta vada ai servizi di Stato generali, sociali e culturali – come ogni Stato fa, ma non appena esce dal settore dei servizi strettamente fisici (nessuno è apolitico, forse i vigili del fuoco e il D.D.T.), con intenti sociali e di cultura sinistri e deformi, che in Russia come altrove non riscalda la lotta per la società di domani – i prelevamenti di benefici vanno in gran parte a sostenere il passivo di aziende deficitarie che lo Stato deve finanziare perché non si chiudano, ed un settore della popolazione non cada dal tenore di vita ultracompresso all’inedia completa.

Lo Stato capitalista integrale ha una macchina che più delle altre è adatta a comprimere la distribuzione del minimo vitale; ma vi riesce in pieno in quel raggio in cui l’economia è tutta nella sua amministrazione, mentre gli sfugge ben più che negli Stati capitalistici che si definiscono «liberi» il controllo sulle risorse delle classi medie. Queste sono fragili di per sé, anche quando lo Stato vigliaccamente le «rispetta» ed ha interesse a salvarle.

112 – L’atroce contraddizione

Il dramma della società russa è giunto al suo penultimo, se non ultimo atto, dalle svolte del 1953; il suo inno è l’epicedio a Giuseppe Stalin che tragicamente ondeggia fra l’apoteosi e la maledizione.

La macchina che fa passare rubli dall’operaio all’erario è sempre lì pronta a funzionare; e ulteriori spandimenti di fumogeni possono ben celare l’impotenza di tale macchina verso le economie che sfuggono al rapporto salariato-amministrazione centrale.

D’altra parte la «politica» dello Stato russo attuale è attratta da forze irresistibili verso la moderna zattera di salvezza del capitalismo universale: la tutela di una società che bene abbiamo definito «colcosiana», e di cui è ben chiaro che non facciamo una «scoperta», una pretesa nuova forma che si inserisca assurdamente tra capitalismo e socialismo, un neoplasmo che sarebbe un pleonasma nella serie storica dei modi di produzione stabilita dalla nostra cardinale dottrina.

La società «colcosiana» – definita dall’estensione di questo aggettivo fuori del campo originario della produzione agraria parcellare a quello di ogni struttura che voglia far perno, attorno all’individuo, sulla famiglia, la casa di abitazione, l’arredamento, un domestico peculio – non è una forma che esiste né esisterà nella storia, ma solo uno strato di ibrida incrostazione sovrapposto alle forme di influsso economico ed imperio di potenza del capitale. La sua generalizzazione non è un dato della storia che passa, ma soltanto un’illusione di classe, una forma e formula agitativa per la manovra di classe della conservazione del classico e storico modo di produzione borghese, i cui connotati essenziali ci sono noti senza dubbio né incertezza alcuni da circa un secolo.

Le forme labili ed invertebrate del colcosianismo sociale si succedono sullo sfondo della lotta di primo piano fra capitale e proletariato; esse sono in grande evidenza in tutte le fasi storiche di scomposizione e degenerazione del movimento operaio; sono l’atmosfera vitale dell’infezione batterica chiamata nei nostri testi fondamentali opportunismo; è quando il proletariato rincula e si smarrisce che esse sembrano con tutte le loro manifestazioni disgustose e filistee venire avanti sul proscenio della storia.

I ceti sociali che si affondano in quel dubbio melmoso tramezzo delle vere classi sono facili ad apparire e scomparire; quando la tempesta rugge quelle grigie folle si disperdono e annebbiano. È facile prevedere che le forme economiche e sociali corruttrici, con cui il grande capitale le porta innanzi, si mostreranno al venire della crisi straordinariamente precarie. Così ad esempio il prestito popolare forzato allo Stato russo ha per lunghi anni esaltato la psicologia piccolo-borghese del minimo proprietario che accarezzava nella sua borsa i titoli e le ridicole cedole di interessi: è già venuto un giorno in cui questa debole impalcatura è stata fatta crollare cancellando il valore della piccola cedola, o coupon, alla scadenza, preludio alla confisca di quel cellulare e anemico microcapitale distribuito nelle mani delle vittime del capitalismo. Fine non diversa farà anche, in Russia, il microrisparmio personale e familiare presso le diramazioni delle banche maneggiate dallo Stato: un giorno tremerà la piattaforma artificiosa di tanto tarlata impalcatura, il mostro-Stato dal ventre foderato di lamina d’oro incorporerà quel povero briciolame di una trangugiata sola.

In Russia, ma anche in America, come altrove, questi noduli familiari, di accumulazione di piccole doti e godimenti per i nove decimi inconsistenti e da mania drogata, se non per requisizione dello Stato centrale, per forza della necessità economica, avanzandosi le nubi nere della disoccupazione e delle insolvenze, fuggiranno dalle mani illuse dei colcosianizzati, per «libera» alienazione: alla scala storica la grande accumulazione e la concentrazione più mostruosa riprenderanno il loro sinistro rimbombante cammino, mentre dal lato opposto ricomincerà a risuonare quello non meno terribile della Rivoluzione.

Siamo ora nella fase in cui si tratta di mandare indietro lo spettro della proletarizzazione fulminante dei piccoli goditori, e seguitare la pioggia ad innaffiamenti di piccole offe che alimentino pallidi focolari domestico-aziendali nei loro tenacissimi e ciechi appetiti. Quindi la consegna è di proclamare a tutti la santità, l’utilità e il rispetto di questi piccoli accantonamenti di ricchezza, chiedendo di meno con l’apparato fiscale e prelevatore di prodotti e profitti, offrendo di più coi mille lenocini assistenziali e «culturali». Non è che un’edizione mezzo novecento delle ineffabili Festa Farina e Forca che si offre agli strati delle micro-cristallizzazioni colcosiane.

Poiché tuttavia l’imperativo categorico di accumulare ed investire in grandi masse di valore non dà tregua, bisogna che seguiti la pressione, mal mascherata dalle forme urbane di incoraggiamento sterile ad un minimo di agi nella casa e nella famiglia, sulle masse dei salariati delle grandi aziende industriali di cui non si può nemmeno lontanamente simulare una molecolarizzazione. A carico quindi degli operai industriali delle città, lo Stato-pompa di rubli seguita ad ansare nella sua tesaurizzazione elefantesca.

E tuttavia le saldature di bilanci monetari si scollano, la montagna d’oro frana e si sfalda, la risorsa della super-accumulazione centrale letta nella sua espressione in denaro minaccia tremendamente di venir meno, e il gigantesco macchinone così fondato, che ha per motore la corsa centripeta di tutti i rubli nella cassa centrale dello Stato, minaccia seriamente di incepparsi; appare immensa menzogna che il socialismo sia centralizzazione di moneta.

113 – La vecchia infamia: un «nuovo corso»

Lo scritto finale di Stalin, sui problemi economici del socialismo, aveva il doppio scopo di mantenere la definizione di socialista all’economia russa, e di giustificare, in relazione a tanto, il gioco nella produzione e distribuzione russa della legge dei valori scambiati come equivalenti, quindi il carattere di merce dei prodotti e della forza di lavoro, e l’espressione monetaria della dinamica delle imprese di produzione, fossero esse private, cooperative o statali[300].

Morto Stalin nel 1953, e dopo le note voci di rettifiche di tiro al tempo di Malenkov che, soppresso l’ultrastaliniano Beria, mostrava operare uno svolto sul terreno economico con la formula: «meno produzione di strumenti, più di oggetti di consumo», scoppiò la bomba del XX congresso del febbraio 1956, etichettato al solito con grossi nomi: Chruščëv e Bulganin. La bomba era la revisione dello stalinismo e del giudizio su Stalin, ma solo gli ingenui si attesero che si correggessero anche di poco le bestemmie antimarxiste dei Problemi e l’«arrangiatura» mercantile monetaria ed aziendale del socialismo (anche di stadio inferiore). Si parlò di tornare al puro marxismo-leninismo correggendo Stalin che lo aveva abbandonato, ma nulla si condannò di Stalin economista (o meglio apologeta dell’economia capitalista). L’idolo di ieri fu processato come capo politico e uomo di Stato, quale generalissimo in guerra e diplomatico in pace, deplorato come dittatore troppo crudele e falsario della storia e come provocatore di una terza guerra (quasi che si possa essere marxisti e dire che le guerre v'ha uno che le provoca).

In una parola si compì il sensazionale passo di buttare giù Stalin dagli altari, ma i falli che gli si imputarono non furono le bestemmie economiche né i crimini tattici nel puttaneggiare per il mondo coi ceti medi e i loro partiti opportunisti e con gli Stati dell’imperialismo capitalista: furono invece falli e crimini di cattivo democratico, di cattivo pacifista, di cattivo filantropo sociale. Fu chiaro che si abbandonava Stalin per andare più sfacciatamente di lui nella direzione opposta a Marx e a Lenin; e vi fu per questo a iosa di dichiarazioni in materia politica, quanto a rapporto tra gli Stati e tra le classi, quanto a violazione dei principi di base su dittatura, forza e violenza, e di quelli tattici sull’annientamento dei partiti piccolo-borghesi e riformisti; ma in maniera economica non fu chiaro e provato che si era anti-marxisti molto più di Stalin: fu solo ammesso che si pensava come lui circa i lati aziendali mercantili e finanziari dell’economia russa, e si era dunque antimarxisti almeno quanto lui.

Col nuovo svolto di oggi, che si lega alla sessione del Soviet Supremo del febbraio 1957, si compie altra tappa di quel fatto storico che fin dal 1953 noi chiamammo la «Grande Confessione». Si entra decisamente nella materia economica; e come era logico si ribadiscono gli svolti politici nella medesima decisa direzione, verso posizioni borghesi capitalistiche, e altri più clamorosi se ne fanno prevedere[301].

Le formule hanno valore di simbolo. A tutto quel che in Russia si svolge, questa si applica per noi: rimpianto di Stalin.

La sessione di febbraio del Soviet Supremo dette incarico al governo ed al partito di preparare una relazione e un testo di tesi sulla «riorganizzazione dell’industria sovietica». Queste tesi dovute a Chruščëv sono state rese pubbliche il 30 marzo e in questi giorni di maggio il Soviet Supremo le ha fatte proprie.

Non si nasconde che si tratta di uno sconvolgimento dalle fondamenta, di una vera e propria rivoluzione dall’interno. La sintesi della «svolta» per le stesse definizioni che ne danno i suoi fautori è l’abbandono del «centralismo». Essa si applica alla costituzione dello Stato, in quanto molte funzioni del governo centrale dell’Unione passano alle repubbliche federate, di cui si proclama una nuova autonomia. E si applica all’economia, in quanto si sopprime la direzione dal centro a favore di consigli locali di repubblica e anzi per le grandi repubbliche di regione e di provincia. E vi è di più: la gestione e la pianificazione per grandi settori d’industria, dal centro per tutta l’Unione, cede il passo ad una gestione e pianificazione di tutti i settori in un sistema di ristretto territorio. Alla struttura verticale se ne sostituisce una orizzontale.

114 – Comunismo e «centralismo»

Naturalmente, con totale sfacciataggine, questa ondata di dispersione centrifuga delle energie, che è ben facile definire come «popolare», «democratica» e – aggiungiamo noi – «liberale», viene anch’essa presentata come conforme alle dottrine di Marx e di Lenin e alle tradizioni del bolscevismo russo.

Come si inventò da Stalin il «principio leninista dell’edificazione del socialismo nella sola Russia» che era l’opposto della storica lotta che ebbe a capo Lenin in tutto il corso della sua vita; così oggi dai liquidatori di Stalin se ne inventa destramente – e con trattazioni storiche derivative! – un altro non meno bugiardo:
«il principio leninista del centralismo democratico nello sviluppo economico».

Si enuncia la cosa in non pochi passi in maniera ancor più crassamente antimarxista: «democratizzazione dell’economia»! Fatto questo, altro non occorre per navigare in pieno capitalismo e liberalismo borghese.

Noi marxisti radicali ci colleghiamo alla definizione della linea marxista che fu data contro di noi nelle polemiche della Prima Internazionale intorno al 1870. Accettiamo l’accusa e confessiamo la colpa: come siamo gli autoritari contro i libertari, siamo parimenti i centralisti contro i federalisti.

Al tempo di Marx, di Lenin e all’odierno, si imposta nello stesso modo la battaglia dei rivoluzionari contro gli opportunisti.

La formula del «centralismo democratico» fu – è vero – data da Lenin nella ricostruzione dei partiti marxisti e dell’Internazionale comunista. Essa però si riferiva all’organizzazione interna dei partiti e dell’Internazionale, e non alla società economica; né quale programma integrale del comunismo, né quale programma di politica economica nella Russia, società in moto tra feudalismo e capitalismo, nell’attesa della rivoluzione proletaria occidentale.

Anticentralisti erano sempre stati i socialisti di destra, riformisti e collaborazionisti di prima della prima guerra mondiale, e social-patrioti durante questa. Tale gentaglia con la quale ci davamo a coltello mezzo secolo fa era per tutte le «autonomie» e soprattutto per le «locali». La tesi di questi traditori del proletariato era che un’organizzazione locale, cittadina o provinciale, poniamo, del partito, poteva decidere tutto da sola, e anche contro il parere prevalente del partito, sull’azione locale, sulla tattica, sugli accordi con altri partiti. Negando questa autonomia nel 1870 ai libertari e nel 1900 ai revisionisti, i difensori dell’integrale tradizione di Marx ed Engels difendevano da attentati passati, contemporanei e futuri la priorità della questione del potere centrale. Centralizzato sempre più il potere della classe borghese, centralizzato nell’azione oltre che nella dottrina il partito proletario rivoluzionario.

Su identico piano era la lotta contro i social-sciovinisti, in cui sta la piattaforma vitale del «leninismo». I traditori vollero ogni partito autonomo nell’atteggiamento rispetto alla guerra, fino ad ammettere che mentre il partito (poniamo) serbo sabotava la guerra (e lo fece sebbene «difensiva»!), quello austriaco conservasse il diritto di votare i crediti di guerra a Francesco Giuseppe e appoggiare il suo governo (benché, a dir popolaresco, «aggressore»). Noi con Lenin pretendemmo che valesse l’impegno internazionale che legava ogni partito nazionale, e che questo non avesse mai il diritto di decidere con una sua consultazione «democratica» interna il rispetto o la violazione del patto centrale e di classe.

Sviluppata dai classici di Lenin e dei suoi la dottrina del potere rivoluzionario con due soli personaggi centrali: Stato capitalista e Rivoluzione proletaria, e rivendicato il programma marxista della stretta dittatura centralizzata come potere post-rivoluzionario, che distrutto lo Stato borghese e resolo in pezzi monta la macchina unitaria del potere comunista, fu ancora una volta dispersa ogni concezione che facesse posto a poteri locali e a intese federali di organi autonomi, che potessero decidere ognuno per suo conto.

A una tale dottrina per lo Stato, che spinse al massimo l’indignazione dei social-traditori ex marxisti da un lato, e quella degli anarchici e sindacalisti alla Sorel dall’altro, varietà tutte della peste «autonomista» ed «iniziativista» (concetti che per noi valgono: borghese), corrisponde analoga dottrina per la vita del partito di classe rivoluzionario.

La centralità della direzione del partito – e quindi dell’Internazionale, che è considerata in Lenin come il partito per eccellenza – fu da tutti accettata, e qualche elemento a tendenza piccolo-borghese autonomista, anche se di atteggiamenti estremisti, fu messo fuori, alla pari di quelli destri egualmente restii alla ferma mano della direzione centrale, che storicamente non poteva avere altra sede che a Mosca.

Fu allora che, ai fini della vita interna dell’Internazionale, Lenin pose nelle sue storiche tesi l’espressione di «centralismo democratico». Noi della sinistra italiana proponemmo – ancora una volta i fatti ci hanno dato ragione – di sostituire questa formula, che giudicavamo pericolosa, con quella di «centralismo organico». Ci spieghiamo subito, ma fateci scrivere d’urgenza che chi si dà a fracassare il centralismo, senza aggettivi, oltraggia Marx, Lenin e la causa della rivoluzione: è un manutengolo di più della conservazione borghese.

115 – Impotenza alla dialettica

Nella possente marxista dialettica di Lenin l’aggettivo di democratico, applicato qui alla nozione di centralismo nel fine preciso di definire la dinamica interna del partito di classe, non era affatto in contrasto con lo sterminio della superstizione democratica, che è il contenuto essenziale del marxismo, come Lenin rivendicò respingendo l’ondata opportunista del suo tempo, avente gli stessi caratteri della contemporanea, trionfante ed ululante dal Cremlino.

Il concetto di Lenin è sul piano organizzativo e si riferisce alla regolazione della vita del partito. Nella fase storica che precede e accompagna subito la rivoluzione non vi può essere partito senza statuto, senza carta costituzionale. Noi marxisti ridiamo di una costituzione della società comunista, perché se così non fosse non avremmo tra i nostri canoni la scomparsa dello Stato. Ridiamo di una costituzione e di una democrazia entro la classe operaia, in quanto se la ammettessimo dovremmo cancellare tutto il nostro programma storico, che è la scomparsa della classe (la parola classe non ha singolare; quando sparisce la divisione della società in classi, non ne è superstite nessuna).

La democrazia costituzionale operaia sotto il capitale vale la costituzione per cui gli schiavi hanno diritto a far parte del loro consorzio in base al marchio di ferro rovente che possono mostrare sulla spalla. Ad essa si riduce la nefasta illusione di laburisti sindacalisti e ordinovisti.

Lenin trattava del funzionare tecnico del partito, e la sua impostazione della questione era dialetticamente cristallina. Noi lo capivamo al mille per mille, ma venivamo di sotto la pressione bestiale del capitalismo parlamentare e democratico, che lui non aveva mai subita, avendole col suo partito dato gloriosamente di ferro alla gola prima che cominciasse gli atti respiratori. Tememmo che la formula potesse – ed oggi avviene – essere predata dai futuri traditori, cosa possibile fino a che il funerale mondiale della democrazia borghese, della democrazia nella società, della democrazia in generale, non sarà stato celebrato: era lontano nel 1920 e lo è ancora oggi, dopo tanti anni, e non abbiamo fatto a tempo a mandargli dietro colossali corone rosse con la scritta: da Carlo Marx – da Vladimiro Lenin – dai minimi ma gaudiosi affossatori.

Era ben evidente che le decisioni del partito, dalla sua «base» in su, tecnicamente non si potevano prendere che col sistema ingenuo della conta dei voti. Ciò ammesso, si trattava di ribadire la categoria primaria del marxismo, ossia la centralità, la unità omogenea, la garanzia contro i nefasti delle velleità individuali, di gruppo, di località, di nazionalità.

Il partito nella sua vita interna, una volta storicamente ricondotto alla dottrina di origine, risanato nell’organizzazione con l’eliminazione degli strati corrotti, rinsaldato nell’azione con decisioni tattiche dal respiro mondiale e rivoluzionario, e per ciò stesso assicurata la sua dinamica centralista, è in un certo senso una anticipazione della società comunista in cui il dilemma tra decisione del centro e decisione della base perderà di senso e non si porrà più. Ma esso vive ed opera nell’interno della società di classe e subisce le determinazioni e le reazioni dei suoi urti contro il nemico di classe e dei controurti di questo. Più volte mostrammo che nei momenti decisivi l’indirizzo non è cercato da consultazioni e congressi e nemmeno dai voti di istanze ristrette e comitati centrali; l’esempio tante volte ripetuto è Lenin stesso.

Lasciamo negli statuti questo banale ingranaggio della conta dei voti e dei pareri individui, noi proponevamo; ma consideriamo che l’unità del partito non è quella di un cumulo di sabbia o altra sostanza granulare, di una colonia di esseri simili, quale la primitiva madrepora nel banco di corallo o il singolo uomo (capolavoro della natura!) nella banalità dell’anagrafe e della statistica.

Il partito è un organo nel senso integrale che si applica a quelli viventi. È un complesso di cellule, ma non tutte sono identiche, né uguali, né della stessa funzione, né dello stesso peso. Non tutte le cellule né tutti i loro sistemi condizionano l’energetica o al più la vita di tutto l’organismo. Tale nell’insegnamento di Marx e Lenin, nel materialismo dialettico, è la valutazione delle società umane e dei complessi sociali, contrapposti alla sciocca filosofia borghese che proietta tutta la società nell’individuo e non ammette che nella società sono le potenze e capacità di sviluppo all’individuo contese e negate, e che esse non risiedono in un individuo speciale e di eccezione, ma nella ricchezza delle relazioni fra uomini, gruppi di uomini, classi di uomini.

116 – I falsari del leninismo

Caduti nella più crassa impotenza al maneggio della dialettica, che è di un partito tenuto salvo dalla lue quanto a teoria, organizzazione e strategia, gli attuali capi del PCUS con l’ennesimo dei loro trucchi da fiera fanno un balzo dal «centralismo democratico» chiesto da Lenin per il partito, ma che, a parte il termine, conteneva piena l’organica unità inscindibile di esso, applicandolo a ciò a cui Lenin allora non si riferiva – e a cui mai si è riferito quanto al concreto compito dello Stato russo e del partito russo vittorioso – ossia alla «edificazione dell’economia socialista».

Da decenni il «marxismo-leninismo» consiste nell’attribuire a Marx e a Lenin volgarissime castronerie. Avete ancora visto una edificazione democratica? Sarebbe quella in cui ogni pietra si muove da sé e si va a mettere dove le pare, sotto gli occhi sbalorditi dei maestri muratori e dell’ingegnere. Una maniera di decidere può essere democratica – e soprattutto una maniera di frodare le decisioni! – ma non una maniera di costruire.

Questa gentaglia poi si mette a riscrivere con parole e frasi diverse la storia di quello che Lenin disse. Non fa con questo che ripercorrere la via dei bollatissimi «crimini di Stalin», e solo con improntitudine più spinta.

L’edificazione cui Lenin chiamò il partito russo non era quella del socialismo, che per lui sorge dalla rivoluzione politica internazionale, e tanto in lui quanto in Marx non vale una «costruzione», ma una distruzione di ostacoli che ritardano un processo naturale. Era la realizzazione delle condizioni economiche per il socialismo, ossia della forma capitalistica in Russia; in cui nella sua concezione genialmente dialettica il partito proletario fa coscientemente ciò che hanno altrove fatto inconsapevolmente i membri della classe borghese.

Essi sono costretti a stabilire, pure avendo chiamata questa formidabile svolta della lotta di un partito marxista in paese arretrato col nome falso di edificazione di un’economia socialista, e a ricordare, che Lenin fissò questo compito in quello della pianificazione centrale dell’attività industriale. Ricordano che Lenin mise in prima linea l’elettrificazione della Russia. Ma forse non avevano capito da che si costruisce dialetticamente questa consegna di azione e di agitazione rivoluzionaria, alla fine. L’accumulazione capitalistica classica poté sorgere da impianti isolati e controllabili da privati, e anche la macchina a vapore che edificò il capitalismo dell’ottocento poteva essere controllata localmente e in modo autonomo. Ma la rete delle centrali che producono energia elettrica per migliaia di macchine motrici-operatrici su un territorio immenso non può – se soprattutto si voleva riguadagnare l’arretratezza rispetto al capitalismo estero – che sorgere con una progettazione centrale: questo fu il primo nocciolo del piano tecnico-economico di Lenin. L’energia termica è locale, autonoma, degna della democrazia filosofica e dell’anarchia economica del piccolo borghese. L’elettricità è unitaria, centralista, organica: questo Lenin morì sicuro che aveste appreso, quando vi dettò di pianificare!

Oggi sperate invano, coi benesseristi dell’occidente, che l’energia nucleare ridia vita all’autonomismo e al localismo produttivo, perché essa allo stato non fa che scimmiottare la funzione millenaria del combustibile, e sperate di contenerla nel volume di una scatola di fiammiferi.

Ma intanto vi permettete di richiamarvi alla pianificazione centrare di Lenin, mentre la frammentate, la provincializzate, la localizzate, la incafonite, le imprimete lo stampo della vostra ideologia colcosiana-bottegaia, la schiacciate alla misura del campanile e del domestico focolare, alla cui superstizione siete riprostituiti.

Per voi sarebbe uno scherzo fare malgoverno delle parole. Ma per la rivoluzione le parole sono armi, e capovolgerle vale capovolgere la bocca dei cannoni, come cento volte avete fatto contro il proletariato e i suoi schieramenti, come Stalin vi ha insegnato a fare verso alleati e nemici.

Avete quindi scordato, nell’annunziare l’ultima beffa dei cento piani circondariali, avete scordato, squisiti cialtroni, che come la parola classe non ha singolare, così la parola Piano, che Lenin pronunziò, non ha plurale.

Stalin non avrebbe osato mettersi sotto i piedi fino ad un tale punto la consegna rivoluzionaria di Lenin.

117 – Liquidazione gigante

La scritta può essere apposta sotto la grande torre dell’orologio del Cremlino, che segnò il tempo con le note dell’Internazionale. Possono accorrere le carovane di mercanti da Jakutsk, da Tiflis, da Alma Ata, o da Riga o da Odessa; si svende tutto. Ritiro dagli affari.

Il cumulo di oro, il tumore monetario è scoppiato tra le mani dello Stato Capitalista più pianificato del mondo, come scoppiò tra le mani delle classi e degli Stati di tutti i modi di produzione mercantili, derivando da questa rovina economica quella dei grandi imperi politici e militari. I miliardi sui miliardi hanno ucciso quelli che con essi hanno orgiasticamente fornicato.

Questa riproduzione di una antichissima tragedia non travolge con sé (ma i gerenti della liquidazione fallimentare hanno fatto di tutto perché ciò avvenisse) il socialismo e il comunismo, che non c’entrano, e nemmeno il marxismo e il leninismo, per abuso che se ne sia fatto nei torchi per etichette false.

Essa è un nuovo passo verso un difficile lontano traguardo: la riconquista, da parte di un’avanguardia della classe lavoratrice, dell’impostazione teorica dell’antitesi tra economia capitalista e socialismo.

La decentralizzazione si annunzia per l’economia industriale. Ogni altra economia la si è decentralizzata senza dirlo, perché non era accentrata che ai fini di un malsicuro controllo statale. Da anni si è andato svincolando da ogni impegno che vincolasse la sua pratica gestione sia il colcosiano singolo sia il colcos territoriale, reso autonomo nel suo cerchio piccolo o anche grandissimo. Il piano di produzione, e la decisione sull’uso del prodotto e del profitto (che sussiste in corretto termine per l’azienda familiare colcosiana come per quella collettiva del colcos), quanto a sua destinazione al consumo ovvero a nuovo investimento, erano sottratti a decisioni concrete dei centri amministrativi dello Stato. Gli stessi poi sono divenuti sempre più larghi nello stabilire sia la quantità delle derrate da consegnare sia i prezzi di ammasso da parte dello Stato, in modo che una aliquota sempre più alta veniva lasciata all’amministrazione libera. È già un fatto compiuto che il colcos si pianifica da sé. Naturalmente è un’altra bella invenzione che questa forma duplice di gestione agraria, e la sua triplice struttura di istituti: colcos, sovcos e stazioni di motorizzazione, sia stata progettata di suo pugno da Lenin. In quanto precede abbiamo mostrato che Lenin ammise soltanto che alla forma, contenuta nel Piano Unico, dell’azienda salariale di Stato e della stazione di macchine si aggiungesse la Comune Agricola, intesa nel senso che ogni suo membro ricevesse il suo consumo come associato della Comune stessa e non anche sotto il secondo aspetto di raccolta dei frutti nel campo da lui lavorato. Questa la possiamo chiamare a piacere un’eredità della vecchia agricoltura russa degenerante nei secoli da collettivismo di villaggio a privatismo, o una scoperta tutta di Stalin. Che potrebbesi definire padre del colcosianismo integrale. Ma doveva venire dopo di lui chi su questo squallido altare avrebbe sacrificata l’industria.

118 – Il toro nella cristalleria

La sola cosa che può spiegare come sia possibile, senza fermare tutto per mesi e anni addirittura, attuare una trasformazione amministrativa così radicale, è il fatto che in sostanza è rimasto al di sopra di tutto il carattere di autonomia aziendale; che l’impresa è la cellula base della produzione, e quindi tutto il movimento si fa nel riflesso cartaceo e registrativo dei fatti reali.

Questa è una riprova che statizzando con la formula monetaria e mercantile, di prodotti che escono e materie prime che entrano e di forza lavoro che si acquista, il capitale resta la forza vitale del tutto e l’impresa la sua normale estrinsecazione; questa è la costante tra ieri, oggi e domani, tra un capitalismo organizzato dallo zar, condotto dallo Stato sovietico, e domani reso fotograficamente identico a quello occidentale; è in questo la riprova sperimentale di quanto abbiamo dedotto e calcolato fin qui partendo dalle leggi scientifiche della nostra dottrina.

Non si parla di tempi per attuare il movimento, di successione degli arroccamenti, di manovre di uffici e di personale, di pause che nel fare tanto si stabiliscono nel lavoro produttivo e nella resa in prodotti e servizi. Sotto l’esercizio, come si dice tecnicamente, si può sostituire una rotaia, e perfino alcuni deviatori, ma non si può passare da una ad un’altra diversa rete ferroviaria. Per questo, che è ancora un esempio semplice, va progettato un tempo di sospensione di tutto il servizio. E qui si tratta di ben altro.

Il mondo della produzione industriale cambia faccia come amministrazione, ossia come dirigenza della gestione corrente; come pianificazione e programmazione delle operazioni lavorative e della quantità impiegata di materie e di uomini; come origine e sbocco del mezzo finanziario per le provviste e remunerazioni.

I settori d’industria avevano una gerarchia che si chiama in linguaggio capitalista da cartelli verticali. Vi ricordiamo le lunghe esposizioni circa i programmi di Lenin dopo la rivoluzione e la sua difesa della trustificazione. Ora si dichiara di punto in bianco scandaloso che esistessero 33 di questi cartelli verticali di settori industriali sotto forma di ministeri; essi sono di colpo esautorati e soppressi al tempo stesso, e i ministeri si riducono a 8; ma di essi due soli hanno il carattere industriale diretto: quello che dirige le industrie della difesa militare e quello delle centrali elettriche. Questo fatto collima con la nostra giustificazione teorica della statizzazione rivoluzionaria voluta da Lenin, che non cessò di chiamarla capitalista in linea di scienza economica: la necessità politica che lo Stato avesse in pugno la macchina militare della guerra civile, e il testé ricordato imperativo della elettrificazione. Per il resto, disse Lenin mille volte, anche il capitalismo privato è per noi un progresso, sebbene preceda il pieno capitalismo di Stato. Ben diversa suonava per lui la parola socialismo, che era la mira di tutto il tiro, ma non una struttura presente, immediata.

Spezzati nelle altre industrie, i suoi trust verticali sono sostituiti da innumeri centrali orizzontali della produzione industriale, che controllano in un piccolo territorio le aziende di tutti i settori, e sono sovrastate dal sovnarcos o consiglio regionale dell’economia, dal quale partiranno gli ordini di esercizio a tutte le industrie del piccolo territorio, senza che il centro di Mosca ne sappia più nulla, se non a posteriori, come ufficio statistico. Questi sinedri locali dell’economia sono ben 92 (quanti gli elementi chimici fino a… Mendeleev), di cui uno per ogni piccola repubblica, 11 nell’Ucraina e 68 nella Russia.

Ogni consiglio farà nel suo distretto la pioggia e il bel tempo, e al centro non resterà che un ufficio del piano, il quale però non diramerà prescrizioni e ordini di produzione, ma timidamente coordinerà sulla carta (adesso davvero inutile) i piani fatto ormai dal basso.
«I progetti dei piani locali verranno elaborati da ogni singola impresa, poi dagli organismi locali»,
consigli dell’economia ed uffici del piano delle repubbliche federate; infine inviati pro-forma al Gosplan centrale lasciato per lustro in piedi.

I cartelli tedeschi e i trust americani (proibiti dalla legge) furono passi più audaci contro l’anarchia borghese della produzione, e Lenin li elevò a modelli.

L’unità e centralità della produzione è quindi saltata in aria. Se le ruote seguitano a girare, è perché quella che ne esisteva era una parodia da agitazione.

È facile dedurre che sarà dal lato monetario finanziario. Lo sfondato bilancio dell’Unione sarà minimizzato: come i borghesacci dicono, un «ridimensionamento». Cresceranno i bilanci delle repubbliche federate cui con analoga rivoluzione della struttura costituzionale si sono attribuite nuove vaste autonomie.

Parte della circolazione di moneta e di capitale denaro sarà chiusa nelle cerchie dei distretti economici, di autarchico sapore. È infatti detto che oltre ai criteri storici ed etnici giocheranno quelli economico-produttivi nel delimitare distretti produttivamente omogenei e abbastanza piccoli per essere tenuti d’occhio da un posto di comando locale.

Vecchio Bakunin, stai per guadagnare la partita, e le ombre di Plechanov e dell’allievo Lenin si convellono di disperazione per la sconfitta del marxismo in lingua russa!

La stessa Banca di Stato, vecchia rivendicazione ultrasecolare, può essere smontata e divisa in cento rivoletti provinciali.

L’affarismo mercantile giocherà libero tra distretto e distretto, consiglio e consiglio economico. Ma è troppo poco tutto quel che diciamo! Come nella vera sostanza mai hanno cessato di fare, e per il solo fatto di far volare via migliaia di cartacee foglie di fico, le imprese singole trafficheranno quando, dove e come vorranno tra di loro. Lo dicono le tesi di Chruščëv, che per un momento personifica il toro che si è gettato dentro il negozio di cristalleria. Se non ha la gran testa ha le grandi corna, questo signore venuto di moda:
«Verso legami contrattuali diretti tra aziende produttrici e aziende consumatrici».
La tesi spiega che questi contratti comporteranno rigorose responsabilità per il rispetto delle condizioni, scadenze, ecc. Ma se l’azienda fosse di Pantalone, chi risponderebbe, mondo ladro, se non Pantalone?[302]

Il superuomo Chruščëv è l’antesignano di questa marcia. Egli non è che all’inizio. Lo ha annunciato il 23 maggio nel lanciare agli Stati Uniti la grande sfida per la produzione alimentare.
«Il primo segretario del PCUS ha lasciato intravvedere«l’Unità» che parla, e non l’organo di un duce da appendere per i piedi], per subito dopo la riorganizzazione dell’industria, una riforma di tutti gli apparati, quelli di partito innanzi tutto, poi quelli dei sindacati e dei soviet».

Allora ci citeranno testi per provare che Lenin aveva stabilito che, un giorno, partito e sindacati e soviet sarebbero stati mandati a farsi fottere!

Ed allora, a questo capolavoro mondiale dell’emulazione, noi lanceremo al grande Chruščëv l’omaggio che gli spetta: salute, salute a voi, o Primo Presidente degli Stati Uniti di Russia!

Con le corna o con l’utero, costui ha deciso di generarli alla storia.

119 – Gaudio degli antiburocratici

Possono dunque rallegrarsi, e riallearsi al sovietismo ufficiale, i deprecatori della tirannide burocratica e i teorizzatori della nuova classe dominante da cui vorrebbero liberare il proletariato russo, caduto in questa nuova barbarie, antitetica al socialismo, che si salva scassando Stato di classe, partito, sindacati e altri impacci! Chruščëv ha prevenuto tutti questi signori, sbarazzando di una sola cornata venticinque ministeri centrali, alcune centinaia di quelli «repubblicani», tagliando, nuovo Alessandro, il nodo gordiano di milioni di collegamenti gerarchici, abolendo con un colpo solo miliardi di lettere da scrivere all’anno per disporre da Mosca un movimento tra aziende che distano tre chilometri, come si è vantato.

Questa classe dominante di nuovo genere, che dominava col sedere, era dunque tanto facile da sgominare, e tanto vile da intraprendere alcuni milioni di viaggi di trasferimento e incassare più che altrettanti licenziamenti in tronco?

Noi non riusciamo ad intenderlo e attendiamo luce da un «libero dibattito» fra gli antistalinisti di mille sfumature, ma che hanno in comune l’insofferenza degli apparati di Stato e di partito cui attribuiscono origine diabolica contaminatrice, quali che siano, e quali che siano i rapporti storici che li producono, e il nuovo grande campione dell’autonomia, del decentramento, della consultazione delle masse spontanee, che può vantare 40 milioni di discutenti, 514 mila riunioni, 68 mila discorsi, 854 mila resoconti. Noi abbiamo visto abbastanza come con questa stucchevolissima ricetta non si faccia che affondare sempre più nelle sabbie mobili del bigottismo borghese e della controrivoluzione.

Fra la burocrazia di un apparato statale capitalistico e quella che alligna sul verminaio delle micro-aziende locali, non si tratta di una scelta storica e di principio. La bancarotta, che non esigerà conflitto violento dell’una o dell’altra, sta sempre sul conto del capitalismo, e l’economia socialista uccide la burocrazia non in quanto la si prende dalla base o dal centro, ma in quanto è la prima che supera la melma della contabilità monetaria e del bilanciamento mercantile.

Da questo limbo pre-dottrinario non può salire né chi vuole impiegare il piano centrale né chi si illude sulla spontaneità della base, quando non vede con gli occhi di Marx e di Lenin che l’ostacolo è la registrazione degli scambi e la contabilità in partita doppia dell’azienda-soggetto universale; che alla scala statale e a quella molecolare parimenti è pestifera.

120 – Lo scontrino di Marx

Il male, questi recenti avvenimenti dimostrano, non è nello Stato o nel contro-Stato, nel partito o nel contro-partito. Il male è nell’avere smarrita la chiave dialettica che contrappone il modo capitalista al modo socialista.

La società socialista esce dal grembo di quella capitalista ma non risolve in un atto solo la metamorfosi. Marx distinse i due stadi, che furono chiamati inferiore e superiore. Su ciò si è troppo speculato.

Nello stadio che cronologicamente deve precedere,
«abbiamo a che fare con una società comunista quale emerge dalla società capitalistica»,
Marx dice nel commento critico al programma di Gotha. Ma già in queste obbligate condizioni inferiori il mercantilismo è finito. In una certa forma, il principio dello scambio delle merci domina in un solo rapporto: tra la forza lavoro data dal lavoratore e quello che riceve per il suo consumo. La società infatti stabilisce una equivalenza tra consumo spettante e lavoro fornito (previa la detrazione a fini sociali che Marx stabilisce per demolire la lassalliana formula deforme del «frutto indiminuito, o integrale, del lavoro»). Ma al di fuori di tale rapporto il contenuto della legge di equivalenza è già divenuto caduco.

Il testo dice:
«Contenuto e forma sono mutati, perché, in mutate condizioni, nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché, d’altra parte, niente può passare in proprietà del singolo all’infuori dei mezzi di consumo individuali».

Come Marx vede questo concretamente realizzato? La concessione non è trascendente. In questa prima fase inferiore (in cui come ricordate vige un diritto «borghese», ossia costituito da un limite, che poi sparirà quando la società scriverà sulla sua bandiera: Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno)
«il lavoratore riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che ha prestato tanto lavoro (previa detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente»[303].
Ed è questa la sola equivalenza che resta ancora in gioco. Quanto dura lo scontrino? La sua grande caratteristica è questa: esso non è, come la moneta, equivalente generale; è solo consumabile, non è accumulabile, e nemmeno tesaurizzabile. Dura quanto il pane ad ammuffire o il burro a irrancidire; poniamo, per restare a questo schema simbolico, che gli si dia la validità di una settimana.

Per un anno abbiamo studiato la Russia incontrando le proclamazioni che vi è il socialismo, che resta solo da passare alla fase superiore. Siatemi testimoni che non abbiamo mai incontrato il semplice innocente scontrino del Padre Marx; il buono del retto socialismo di due o più generazioni addietro. Tutto, fuori di lui, abbiamo incontrato, e tutto ha proclamato fetore di accumulabilità e di forma capitalistica piena. Il Denaro, il Risparmio, il Deposito in banca, l’Interesse, il Titolo di credito… tutto fuorché la proprietà, sola superstite, sul consumo personale (che una volta volemmo chiamare disponibilità o disposizione). Abbiamo trovato il Campo, la Casa, anche la Villa, la Mobilia primordiale fino a quella di lusso e alle Collezioni d’Arte.

Mai lo Scontrino, e mai il Socialismo economico.

A dispetto del fatto che nella stessa società a potere borghese si è costretti ad ammettere forme senza mercato e moneta, di socialismo superiore, in circoscritti settori!

Adesso, oltre a tutto questo, abbiamo l’azienda proprietaria, responsabile contrattuale, in quanto vende al consumatore e compra dal produttore, dall’altra azienda, e se ne frega del marxista fondo sociale. Ha il fondo aziendale, lo amministra in bilancio di partita doppia, e non si dibatte che per aumentarlo. Evviva te, Bentham!

Al di sopra dei sorrisi che hanno valicato l’Atlantico sugli schermi del video, e che si invocano ricambiati da Eisenhower alla popolazione russa, una formula sacra lega i due condottieri di Stati in emulazione. Nessuna riforma intacchi l’industria pesante! Chruščëv ha bandito che questa nel nuovo schema conserva il primo posto – e il primissimo ministero centrale – zittendo ancora una volta ogni malenkovismo, e quest’altra versione castrata del socialismo che è il «consumismo».

In America i capi del mondo del business attribuiscono felici la salvezza del ritmo economico alle generose ordinazioni del governo per le forniture militari, che tengono su l’indice della produzione e del giro degli affari, minaccianti crollo.

Essi hanno imparato il marxismo di Chruščëv, e tra i suoi sorrisi «combattono le concezioni errate sull’industria pesante e leggera»; hanno imparato «la leninista linea dello sviluppo prioritario dell’industria pesante»!

Viva i due presidenti marxisti-leninisti della pace universale! E che industria pesante e guerra imperialista pensino a fare giustizia di ambo le presidenze, tra qualche altro paio di settennati!

121 – Riforma e rivoluzione

Nel presentare quest’ultima decisa rettifica della rotta verso il capitalismo non più mascherato, è stato proclamato che più che di una riforma sì tratta di una vera rivoluzione. Anzi: una riforma che vale una rivoluzione.

Mezzo secolo fa, Lenin e gli altri risposero (e, se avessero potuto, col lancio di vetriolo sui sozzi grugni dei revisionisti) che le riforme non potevano valere una rivoluzione.

Sappiamo la risposta; questa polemica l’abbiamo negli interstizi delle cellule sensorie: Quelle erano le riforme fatte legalmente e pacificamente dagli Stati della borghesia!

Con Marx e Lenin spiegammo che noi sapevamo bene che il mutamento della struttura produttiva non sarebbe stato istantaneo, ma raggiunto da una serie di modificazioni gradate; all’inizio di esse ponemmo la rivoluzione politica. E su questa scientifica visione gravita in Marx e Lenin la dottrina dell’inevitabile dittatura di classe.

Noi quindi non negheremo che lo Stato della Rivoluzione violenta politica dovrà attuare profonde riforme. Sarà con queste che distruggerà ogni vestigia della forma capitalistica. Dopo averla constatata presente.

Esso conserverà la forza armata, lo Stato, la legge, per non dover ogni volta ricombattere la battaglia armata. È l’anarchismo che non lo intende.

Quando sarà finito di uccidere il capitalismo la società non procederà per rivoluzioni, ma nemmeno per riforme, legalitariamente coattive.

L’antitesi rivoluzione-riforma è propria della storia dell’economia privata mercantile, capitalistica.

Chi invoca una riforma, con ciò ammette di vivere ancora nella preistoria mercantile della società, nel senso di Marx.

Dire di avere già costruito socialismo e prospettare grandi riforme di Stato non ha senso storico alcuno. E se non si vuole ammettere che le riforme sono imposte dal fatto che l’economia è tuttora totalmente capitalista, ciò nella lingua di Marx e di Lenin trova un’espressione sola: La forza che agisce e che maneggia il potere non ha la funzione né di rivoluzionare né di riformare il capitalismo; ma quella di difenderlo, servirlo e tentare di eternarlo.

L’orrore che bisogna riservarle è più fiero di quello che ispirarono i riformisti dell’ottocento. Essi promisero di cambiare con empiastri la faccia losca della società borghese, ma non tentarono nemmeno di raccontarci che la avessero già cambiata. Non ci invitarono a sorriderle!

La posizione a cui sono giunti, dopo così lungo dramma della storia, i dirigenti dello Stato russo, finché non sarà svergognata, è più nefasta che se essi dichiarassero al mondo: Verificato che l’economia socialista secondo Marx e Lenin è un assurdo storico, proclamiamo di avere adottato in Russia la forma economica capitalistica, cui abbiamo applicato speciali riforme.

Molto tempo non passerà. E la Rivoluzione riprenderà il suo cammino, contro le Confederazioni di Occidente e di Oriente.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Ch. Bettelheim, «La pianificazione sovietica», trad. it., Milano 1949, pag. 220. [⤒]

  2. Stalin, «Problemi economici del socialismo nell’URSS» (1952), Roma, 1953. Contro il quale scritto si dirige il più volte cit. «Dialogato con Stalin». [⤒]

  3. Cfr. per gli sviluppi ulteriori della critica al post-stalinismo, fra gli studi più vicini nel tempo alla «Struttura», le due serie «Spregio e bestemmia dei principi comunisti nella rivelatrice diatriba tra i partiti dei rinnegati», nei nr. 12. 15 del 1958 e «La teoria della funzione primaria del partito politico, sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato», nei nr. 18–22/1958 de «Il Programma Comunista», oltre a quelle citate nel «Collegamento» fra i paragrafi 47 e 48, più sopra. [⤒]

  4. Da allora, la marcia verso l’autonomia delle aziende, «cellule fondamentali dell’economia sovietica», ha fatto passi da gigante. Si veda, per alcune delle sue tappe basilari lungo una strada irreversibile, oltre alla già citata «Appendice», più oltre, «Il nuovo statuto delle aziende di Stato in Russia», nel nr. 3–4/1966 de «Il Programma Comunista», in cui si commenta il nuovo «regolamento dell’azienda produttiva di Stato» del 4 ottobre 1965, già annunziato da Kossygin ma reso noto in tutti i suoi particolari solo più tardi. [⤒]

  5. «Glosse marginali al programma del Partito operaio tedesco», 1875, in «Il Partito e l’internazionale», Roma, 1948, pagg. 230–232. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 12, Giugno 1957

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