LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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FIORITE PRIMAVERE DEL CAPITALE
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Fiorite primavere del Capitale
Ieri
Motori delle rivoluzioni
Attori delle rivoluzioni
Militi delle rivoluzioni
Stili delle rivoluzioni
Oggi
La saga russa d'ottobre
Due eruzioni del pensiero
Regia e scenografia rossa
Lingua che batte e dente che duole
Source


Sul filo del tempo

Fiorite primavere del Capitale
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Rapporto fondamentale di tutto il ciclo russo - ed internazionale - dal 1914 ad oggi è quello della saldatura tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria. Abbiamo fermata la tesi marxista che tale saldatura è possibile in un dato paese - giusta l'aspettativa delusa del 1848 per la Germania - come scontro insurrezionale e politico, e in questo senso come rivoluzione permanente, ma è impossibile la saldatura della rivoluzione capitalista colla rivoluzione socialista, se l'episodio insurrezionale e politico, acceso in «un paese» ancora feudale, non si «salda spazialmente», e non più temporalmente, colla rivoluzione del proletariato contro la borghesia «in vari paesi».

Abbiamo quindi dovuto assistere - bestemmiando - ad altro spettacolo storico: la rivoluzione proletaria russa che, nella sconfitta delle rivoluzioni extrarusse, non può divenire rivoluzione socialista,. Resta allora in atto una possente rivoluzione sociale capitalista, di cui assistiamo alle gesta economiche sociali, poliziesche e militari di grande calibro. Ma la rivoluzione proletaria è così liquidata e rientrata, non sui campi di battaglia della guerra di classe, pure lasciando sangue e cadaveri sotto i colpi spietati della repressione. Poiché la storia non possiede polmoni d'acciaio di brevetto stalinista o trotzkysta, la rivoluzione proletaria di Ottobre è morta per estinzione di calore, per difetto di ossigeno. Più che di Stalin la colpa è nostra, di noi comunisti di Occidente, ammesso per un momento solo che vi sia colpa in queste cose - o in qualunque cosa.

Il materialismo marxista toglie di mezzo i concetti di colpa e anche di pena. La dittatura rossa abolirà la pena di morte, nel senso che per storica determinazione resterà la morte, ma non vi sarà la pena. Anche con ciò farà cadere due figure romantiche: il boja e Cesare Beccaria.

Come degne di esame sono state le sottostrutture economiche di questo grande trapasso, così lo sono le sue soprastrutture, fino a quelle letterarie, in cui con dramma che va dal tragico al grottesco, hanno danzato insieme le figurazioni proprie di una vera rivoluzione borghese e di una falsificata rivoluzione proletaria.

Ieri

Motori delle rivoluzioni
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Entrambe le indagini sono possibili senza sciogliere il catenaccio dei pregiudizi, dei luoghi comuni e delle tesi retoriche mediante la nostra preziosa chiave filotempista. Nostra si dice non per rivendicare brevetti alla ditta qui editrice, che non ha ragioni sociali trascritte alla Camera di Commercio, ma in riferimento al ben stabilito, monolitico e invariante metodo marxista. Per ben giudicare a caldo un procedimento che è in pieno corso sotto i nostri occhi, bisogna fissare i punti di partenza sui risultati di procedimenti già tutti conclusi nel passato e fissati sulla pellicola sensibile, osservabile a freddo, da chi non è in caldo per fregole soggettive. Quindi per ben definire i caratteri di distinzione dei modi di produzione capitalista e socialista, è stato sempre indispensabile, e lo abbiamo saggiato ancora una volta per il caso dell'economia russa presente, avere chiari i dati del passaggio dal modo di produzione feudale a quello borghese, dalla prima produzione comunista alla privata proprietà di uomini e cose di terre e merci.

Dopo aver ben chiarito qual è, nella sostanza, il divario dell'ingranaggio produttivo e distributivo da saltare tra capitalismo e comunismo, a sufficienza per dire che in Russia non è stato fatto il salto in parola, ma invece quello precedente tra feudalismo-asiatismo e capitalismo, mostrando che si tratta di un altro salto, ma vi è sempre stato salto in avanti, non all'indietro; ve ne è abbastanza per capire che non si tratta di cospargersi il capo di cenere, stracciarsi le vesti e maledire fino alla settima generazione. Ma quando ci si comincia a scocciare col fatto che riduciamo tutto all'economia e non vediamo altro, e ci si racconta come cosa nuova che sono non cifre e schemi ma vivi uomini che saltano, e ci si oppone che tutto lo svolto non è possibile né concepibile se non si mettono questi esseri umani al loro posto e con il loro «ruolo» (parolaccia di occasione), in quanto masse, popoli, classi, organizzazioni, reti dirigenti e infine Capi, applicando al sommo della banale piramide l'iniziale maiuscola agli Uomini - ultima versione della vecchia fiaba della bestia che diventa Spirito - allora è il caso, per soppesare questi interventi, meriti e colpe di uomini ed Uomini nella rivoluzione che è stata fatta e disfatta, sognata doppia e attuata mezza, di studiare la faccenda nella ben nota - e da nessuno condannata - rivoluzione borghese.

Si tratta di dimostrare che alla mala prova non si rimedia cambiando Capi, Uomini e Direzioni; ma il diverso sviluppo storico risponderà a mutamento di ben altre cause e condizioni, cui quelle auto-esibizioni provvedono tanto poco, quanto il metodo di rimediare alla sterilità cambiandosi le brache. Allora tanta generosa volontà non può a nulla essere utilizzata? Entro savii limiti sì, nel preferire di essere discepoli con la sufficienza anziché maestri da operetta, nel progettare non più lo scatenamento dell'Apocalisse, ma un sennato piano di sottoproduzione delle fesserie.

Se con frase abbreviata, l'economia è la causa motrice della storia, ci basta rammentare che la base economica del grande trapasso dall'antico regime feudale al moderno capitalismo è stata dal marxismo indiscutibilmente definita nei vari aspetti: produzione dei manufatti non più da lavoratori autonomi ed isolati ma da gruppi di lavoratori cooperanti. Materie prime, attrezzi e prodotti che passano dal lavoratore autonomo al capitalista industriale, in esclusiva disposizione e proprietà. Prodotti agrari non più consumati sul luogo dai contadini e dai loro signori, ma liberamente prodotti e venduti dai proprietari e dagli imprenditori dell'azienda agricola. Produzione non più individuale ma sociale, distribuzione totale secondo il costruito mercato nazionale; al vertice: concentrazione del capitale in unità sempre meno numerose, formazione del mercato internazionale. Quando il trapasso incombe la forma politica cambia: era una signoria dichiarata dell'ordine nobiliare sulle altre classi - è divenuta una signoria più effettiva ancora della classe capitalistica e proprietaria, dichiarata come un libero autogoverno di tutti i cittadini. Da onesta aristocrazia a truffatrice democrazia.

Il motore di questo formidabile cambiamento di scena è stato dunque la necessità di produrre e distribuire i prodotti in forme tutte diverse, manifestatasi come contrasto delle forze produttive colla forma vecchia, e non un ansito, premente ab aeterno sugli uomini, per la libertà, la fraternità e l'uguaglianza, che abbia finalmente trovato in magnifici Individui i suoi profeti, i suoi capitani, i suoi realizzatori.

Tuttavia nel film giratoci sullo schermo di scuola e nelle politiche concioni abbiamo ben visto agitarsi in primo piano folle tumultuanti, ardenti tribuni, combattenti votati alla morte, sapienti, oratori, cospiratori, agitatori, legislatori e capi di Stati...

Attori delle rivoluzioni
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Come ogni altra rivoluzione, quella borghese fu preceduta da un lungo periodo di critica dei vecchi istituti feudali autocratici, clericali che lentamente raggiunse il pubblico e le folle e fu svolta da studiosi e scrittori i cui nomi sono divenuti illustri e le cui opere contennero il nocciolo delle proclamazioni filosofiche, giuridiche, politiche che la nuova società dichiarò suo patrimonio ufficiale. Il processo fu in Francia specialmente completo, ed ecco perché si fa più spesso riferimento al movimento dottrinale prerivoluzionario francese: l'Enciclopedia, l'illuminismo, Voltaire, Rousseau, D'Alembert, Diderot, e gli altri minori. Lo stesso movimento si svolse in tutti i paesi, e le differenze tre le filosofie moderne, che sembrano tanto grandi, agli effetti della disposizione sulla scacchiera dei tanti «sistemi», degli enti e categorie del pensiero, sono ridotte da Marx a rapporto storico: La Francia pensò la rivoluzione prima di attuarla, e la attuò poderosamente; L'Inghilterra l'attuò molto prima, ma la pensò dopo averla attuata; la Germania la pensò poderosamente, e non la seppe attuare con forza propria. E l'Italia? Marx non ignorava i Vico, i Bruno, i Campanella ed altre menti potenti, ma è un fatto che l'Italia si fece prestar di fuori le armi ed il pensiero della sua rivoluzione, e non produsse che copie. Fatto, per questo speciale caso, tanto di cappello ai profeti, e fatte le fiche agli epigoni (soprattutto ai contraffattori del secolo XX!), i primi tre grandi episodi storici si riferiscono, nel dir della comune cultura, al materialismo francese (da Cartesio ai grandi nomi sopraddetti); all'empirismo inglese (da Bacone a Hobbes, Hume, ecc.); all'idealismo critico tedesco (da Kant a Hegel).

Quanto grande sia la distanza tra il marxismo e la filosofia della borghesia morente, di cui è buon esponente Croce, si rileva dal fatto che mentre il primo, che conosce la derivazione del proletariato dall'avvenuto capitalista, dà giusta valutazione e utilizzazione ai tre fattori nazionali, e dialetticamente svolge la nuova teoria internazionale del proletariato; Croce all'opposto elimina senza riguardi l'empirismo inglese semplicemente in quanto non filosofia ma pura statistica di fatti e di eventi, il sensismo francese in quanto pretesa pura posizione «teologica», e si inchina solo al valore storicistico del pensiero tedesco. Ciò avviene appunto perché in questa terza forma lo storicismo è rimasto innocuo e non ha preso forme demolitrici, ed è vuoto sia di prospettiva che di tradizione rivoluzionaria, ben attagliandosi ad una classe ormai solo conservatrice.

L'eterno Spirito nella sua Libertà, repellente dai nostri schemi e binari storici, si è quindi allogato presso il popolo tedesco, e presso questo solo, con aspetti e forme altrove mancanti? E allora come mai nelle sue manifestazioni sia pure «empiriche» come uomo politico, Croce si schierava dalla parte delle due crociate che nel corso della sua vita hanno gridato alla distruzione del tedesco per reato di innata bestialità?

Noi dunque ammettiamo volentieri che vi siano pensatori e scrittori che funzionano da detector, da rivelatori del fatto storico, e lo fissano in linee ed immagini più o meno distorte (le stesse antiche ed antichissime religioni e superstizioni non nascevano senza motivo ma erano le prime descrizioni informi del fatto sociale). La chiarezza e potenza dell'urto delle classi in Francia fece sì che il detector registrasse i segnali in arrivo con anticipo.

I sanculotti trovarono così un programma pronto, e soprattutto chiarito l'obiettivo contro cui gettarsi. Se la rivoluzione inglese, squisitamente capitalista, poté apparire come una lotta di dinastia contro dinastia, di nobili contro nobili, di ecclesiastici contro ecclesiastici, la francese si mostrò fin dal primo momento come la fine di tutti i re, di tutti gli aristocratici, di tutti i preti. Quanto alla tedesca, secondo l'enfatica espressione di Carducci, ce la fece a decapitare Iddio, forma impalpabile, ma non riuscì a dare un mal di testa ai re e signorotti prussiani e ai vescovi luterani. E Croce ne rispettò fino al sepolcro l'ateismo in guanti gialli.

Militi delle rivoluzioni
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Quando l'ora fu giunta, chi dunque furono gli assalitori che mossero contro le Bastiglie, i Louvre, le Tuileries e gli Hotel de Ville? è qui che ci aspettano i «marxisti» dell'attivismo, i fattori di storia in incubazione, che per voler essere galli non saranno nemmeno pulcini. Il marxismo di costoro vale quello del gran pubblico borghesemente educato nelle sale dei cinema, che ammutolirebbe se richiesto di notizie sulle storie dell'antico Egitto o la poesia dell'età elisabettiana, ma che ha ritenuto fortemente e come fatto decisivo che Claudette Colbert si faceva mordere una poppa dal serpe, e sir Lawrence Olivier parlava colla capa di morto (non siamo sicuri di non sbagliare qualche nome di divo).

Ebbene furono molti e bravi, ma non erano i borghesi. è ovvio che Rousseau e Voltaire non c'erano, perché erano morti: anche costoro erano stati i filosofi della rivoluzione borghese, ma borghesi non erano. A quel tempo i borghesi erano i detentori di capitale monetario, mercanti, banchieri, strozzini e pochi ancora i veri e propri fabricant, come dicevano gli inglesi, e maître come dicevano i francesi, ossia proprietari di aziende manifatturiere con termine preso dall'artigianato corporativo, dato che significa sia maestro (d'arte) che padrone (d'industria). Questa gente, anzitutto, non sapeva di filosofia; in secondo luogo in generale non si occupava di politica ma dei propri affari e speculazioni, e questi conduceva innanzi coi mezzi più adatti di strisciare e servire le vecchie potenze in modo più umiliante dei cortigiani qualificati. Se questo Terzo Stato levò ben presto la testa e sfogò il rancore delle frustate, dei sarcasmi, e dei colpi di bastone della servitù dei creditori aristocratici quando si osava esibire fatture, certo esso non salì le barricate, e nemmeno la tribuna in piazza: lo fece ben più tardi nei parlamenti.

Chi dunque brandì la picca classica e qualche vecchio archibugio? Tutti quelli che dall'avvento capitalistico non avevano nulla da aspettarsi di buono. Non pochi nobili, la sola gente abile all'uso delle armi e che poteva capitanare le azioni, la cui diserzione dalla propria classe è indicata nel «Manifesto» come vero sintomo dei tempi maturi. E la Rivoluzione prese dall'aristocrazia molti dei suoi grandi capi, uno anche di sangue reale. Vi era poi il «popolo» delle città, ossia garzoni di bottega, lavoratori delle prime manifatture, modesti artigiani, soldati senza ingaggio - poi gli intellettuali: studenti, giovani medici, avvocati, funzionari e così via che nobili non erano, ma capitalisti certo nemmeno; tutta gente senza proprietà o quasi e che sulla ricchezza dei nobili non avrebbe messo le mani. Nelle campagne poi, a parte i gruppi analoghi ma poco numerosi rispetto alle città maggiori, i contadini che dovevano essere liberati dalla servitù feudale raramente insorsero, sebbene non nuovi alle rivolte locali, e molte volte, soprattutto per l'influenza del clero, difesero la reazione, e furono irriducibili in regioni agrarie come la Bretagna e la Vandea.

Tutto questo, di cui è inutile sciorinare esempi ed episodi famosi, sta a far intendere che una cosa è definire quali sono le classi sociali che hanno interesse alla rivoluzione e alle quali la stessa porterà il potere politico oltre che il privilegio economico, altro è individuare quali strati sociali hanno dato all'episodio rivoluzionario la milizia combattente e le onde di assalto.

Contraddice ciò alla descrizione di una rivoluzione come lotta di classi e come azione delle classi dominate ed oppresse? No, se si è capito che il marxismo non mette tra la determinante economia e lo scoppio delle azioni collettive il fatto di coscienza e di volontà. Questo non è escluso o addirittura capovolto, ma solamente collocato al suo posto. I veri borghesi e capitalisti, giunti al potere e viste sviluppare fantasticamente le proprie imprese col potenziamento della produzione e del consumo, dopo gli anni di crisi e di alternative politiche, difenderanno la vittoria rivoluzionaria con consapevolezza ed iniziativa per non ricadere nella posizione di soggetti. Daranno anzi con volontà e coscienza parte del proprio denaro per quelli che continueranno a combattere a mano armata, e per l'organizzazione dei nuovi eserciti stanziali raccolti colla coscrizione obbligatoria. Ma tutti gli altri rivoluzionari avranno combattuto in gran parte con una volontà ed una coscienza sbagliate e fuori della realtà. Gli intellettuali credevano sul serio alle rivendicazioni ugualitarie e filantropiche e alla difesa della nuova civiltà; la massa del popolo, fino agli strati più ignoranti e perfino torbidi, reagiva fisicamente al malcontento e alle miserie senza aver nozione della loro causa e della via per eliminarli.

Secondo il determinismo marxista sono le vecchie forme di produzione che ricevono l'urto delle nuove prorompenti forze di produzione. Vi è miseria e fame, ma il potere costituito non vuole rimediarvi coi mezzi delle nuove risorse: commercio interno e di oltremare, produzione associata, buon mercato della manodopera impedito dai regolamenti corporativi in città e dalla servitù delle compagne; e non vuole perché tali mutamenti feriscono l'interesse delle classi al governo e minacciano di far cadere il loro privilegio. Ma il vecchio organamento ha ormai reso cronico lo squilibrio tra produzione e consumo, la pressione demografica fa la sua parte, e la fanno le notizie da città a città, nazione a nazione, campagna a campagna. La disorganizzazione sociale e la scarsezza di prodotti, che per popolazioni rade non erano causa di miseria e di inedia salvo che in particolari periodi e luoghi nella società medioevale, raggiungono un livello intollerabile che leva l'onda del malcontento contro il governo al potere e i suoi istituti ed uffici, e questi sono travolti.

Le forme del dominio feudale che erano tollerabili con altri rapporti tra popolazione, produzione e bisogni, e talvolta determinavano un compenso plausibile tra vantaggi del centro e della massa, non potranno risorgere più. Aperta la breccia, vi passeranno le forze produttive, fino allora compresse, in modo irresistibile. La nuova organizzazione sarà stata resa possibile dalla critica dei precursori e dalla battaglia degli insorti, ma non corrisponderà alle descrizioni dei primi né alle illusioni dei secondi, bensì obbedirà alle leggi economiche corrispondenti allo stadio di sviluppo tecnico che - in generale - non erano conosciute che in parte ridotta dagli uomini di cultura e non potevano esserlo dalle classi di lavoratori manuali del tempo.

Stili delle rivoluzioni
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Le soprastrutture postrivoluzionarie sono quelle che qui maggiormente ci interessano, e ci troveranno meno simpatizzanti che quelle prerivoluzionarie. Lo sfondo dell'ideologia, dello stile, dell'arte, della letteratura della borghesia da quando è vittoriosa e non più attaccata dal lato del passato, esprime il contrasto tra la difesa di un privilegio esoso e la proclamazione di rappresentare l'umanità in emancipazione dalle tenebre barbare. Questo contenuto di fermo interesse, e questa forma di estremo disinteresse, coincidenti o meno con «coscienza» - elemento per noi secondario - negli stessi soggetti, si possono prendere come marxista definizione dell'ottocentesco romanticismo. Per ragioni che hanno derivazione limpida dal tipo e dai modi e produzione, la manifestazione, in quanto borghese, ha precisi aspetti nazionali. In Inghilterra, ove la solidità di impianto del grande industrialismo non temeva attacchi né interni né esterni, né commerciali né militari, si fu dai teorici della classe al potere meno proclivi alle romantiche mozioni degli effetti umanitari, e si badò a giustificare il fatto descrivendo l'economia capitalistica e il suo modo realista di vedere le sue cose e i suoi affari, come suscettibili di stabile equilibrio e fonte di pratico benessere per tutti. Tanto è ivi classico il capitalismo, e pretenzioso di restar tale lasciando piena libertà di produrre scambiare e guadagnare, tanto è romantico e presto svuotato di rivoluzionaria forza il socialismo, colle smancerie fabiane prolungate all'autosfottente Shaw e ai lavativeggianti Webb, acido il primo e untuosi i secondi, ma parimenti cocciuti controrivoluzionari - non a caso semiammiratori della Russia di oggi. Uno stile analogo dell'opinione domina oggi in America, ove si risparmiano filosofici imbarazzi.

In Francia si ha il completo andar di passo nell'arte politica, nella retorica di tutti i partiti della Terza Repubblica: affarismo e opportunismo a josa, ma altrettanta cura della posa e dello stile di sviscerati «amis du peuple», umanitarismo sgonfione e boria sciovinista a tonnellate.

In Germania infine, con tanta indigestione di pensiero critico e di digiuno di azione politica, il famoso «romanticismo patologico», una specie di intossicazione da sperma: disperati, nullisti, anarchici individualisti, nazionalisti fanatici fino alle aberrazioni del razzismo.

Se in questo cenno non parliamo della scienza della natura è perché essa non è mai nazionale, od in un certo senso non è borghese, sebbene la borghesia sviluppata e conservatrice sappia presto ridurla in edizioni di classe. La scienza non è che la costruzione spontanea dei risultati della tecnica del lavoro nei suoi procedimenti più vantaggiosi, che è irreversibile in quanto nessuno riuscirà a rinunziarvi per motivi di principio e puramente ideologici. Come il lavoro associato è risorsa che passa oltre ogni frontiera, così lo è la registrazione e descrizione dei processi naturali, una volta rimossi gli ostacoli delle vecchie scuole e cenacoli teologici e non teologici per l'opera della demolizione critica, divenuta abbattimento di poteri statali.

Già nel moderno mondo, irretito di menzogna ideologica assai più di quello medievale, la tecnica e la scienza della natura non hanno più patria. Non per nulla Croce le pone fuori della filosofia, e vuole che questa si tenga la umana storia. Quando anche questa sfuggirà alle tenebre del transumanato spirito, anche la scienza di essa storia non avrà più patria - e alla fine non avrà più classe.

Oggi

La saga russa d'ottobre
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Assunto che in Russia lo stato delle forme di produzione è quello di capitalismo nascente e giovane; ed assunto che si intenda per romanticismo l'efflorescenza intellettuale che corrisponde appunto alla «postrivoluzione» capitalista, occorre vedere se i due assunti trovano collimazione in un ripetersi nell'ambiente russo di analogie a quegli atteggiamenti, a quelle mode e a quegli stili; e se una simile collimazione spiega la permeabilità dimostrata dai partiti filorussi a tutta una gamma di ideologismi e di motivi puramente borghesi, coi «valori» stessi che potevano avere per l'intelligenza borghese del mezzo ottocento. Che il primo degli assunti in confronto non sia nostro peregrino trovato, lo provammo con testi decisivi di Marx e di Engels; che non sia nuovo il secondo, con parole e passi vari potremmo dire nientemeno che di Croce. Questi difende il romanticismo «teorico e speculativo» che nella sua lotta contro l'illuminismo razionalista (efflorescenza per noi precapitalista, ma rivoluzionaria, e quindi a Croce ostica quanto mai) «pose le premesse teoriche del liberalismo», e stigmatizza il romanticismo morale, il «male del secolo» (equivalente della delusione di quelli che credevano aver pugnato per l'umanità, e vedevano averlo fatto per gli strozzini). Ma mostra di condividere le «lodi che furono rivolte più tardi al romanticismo col definirlo il protestantesimo nella filosofia o il liberalismo nella letteratura». In queste pagine l'autore batte in breccia la visione del determinismo economico, ma non ha visto di aver fatto una concessione ammettendo questo susseguirsi di «piani», in verticale. Leggiamo dall'alto in basso. In letteratura: romanticismo; in filosofia e religione: protestantesimo; in politica: liberalismo. Noi non facciamo che constatare un piano ancora sottostante, o sottoterreno. In economia: capitalismo. Capitalismo, beninteso, giovanile.

Orbene, se la rivoluzione russa avesse potuto soffocare subito la sua prima faccia, quella antifeudale e perciò borghese, per essersi potuta poggiare solidamente su rivoluzioni occidentali e su un movimento marxista e comunista occidentale elevato alla pari e non sottoposto a quello del partito russo (questa rivendicazione non è postuma, e fu tante volte ribattuta nei congressi di Mosca fin da 33 anni or sono) essa avrebbe certo evitata una indiscutibile tendenza alla teatralità. Di questa era inevitabilmente «assetato» un popolo, che non aveva potuto passare per uno stadio conosciuto solo dall'esterno, non solo culturalmente, ma per altre, irresistibili e ribelli ai freni del dispotismo, forme di materiale scambio: per mille riflessi sui fremiti, sia pure non di una borghesia vigorosa sul piano sociale, ma di una bollente intellighentsia - sono i russi che hanno messo il termine di moda - che viaggiava, leggeva e soffriva di dover leccare i piatti della nobiltà e subire le villanate della polizia.

Con questo stato di attesa, passata attraverso le stesse guerre perdute sulle frontiere e l'umiliazione nazionale di aver veduto mussulmani e gialli più avanti nel maneggio della capitalistica tecnica di guerra, vi erano tutte le predisposizioni al compito «romantico» del proletario; ossia di sciogliere il rebus storico per dare il potere politico non a sé stesso, ma ai suoi sfruttatori sociali. Tutta una letteratura aveva lavorato in questo senso: il romanzo della rivoluzione era scritto prima della sua storia, e da una serie di colossi, a partire forse da Gogol, mentre i grandissimi Tolstoi, Dostojevski e Gorki in vario modo e misura avevano assorbiti i postulati sociali di Occidente, proprio pensati romanticamente e non marxisticamente.

Contro la scabrosa situazione di una borghesia autoctona di poco peso storico, e di un proletariato «condannato a fare la sua parte» lottava sì un movimento potente che aveva solidamente assorbita la teoria rivoluzionaria di Marx, ma che non poteva, anche in coerenza a questa, denegare che gli operai dovessero nella lotta antizarista anzitutto affiancare l'intellettualità borghese. Abbiamo già trattato questo come problema sociale e politico. Vediamolo come riflesso ideologico e «letterario».

Due eruzioni del pensiero
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Vorremmo abbozzare un parallelo. Nella Germania prima del 1848 anche si contava sullo «integrale di due rivoluzioni». Allora fallirono entrambe. La borghesia anche in quel caso non era sollecitata, come classe economica, da velleità di protagonista. Ma intorno ad essa gli studiosi e i pensatori avevano eretto un armamentario di dottrina formidabile, al vaglio del quale il vecchio ordinamento germanico, austriaco, prussiano, coi suoi istituti terrieri, burocratici, cortigiani, militareschi, era corroso e almeno attaccato fin nelle fondamenta. Ma la immaturità dello sviluppo del moderno modo di produzione fece fallire perfino la prima rivoluzione, quella borghese. E ciò malgrado che nei paesi vicini avesse vinto nelle forme sociali e politiche, e da Napoleone in poi le sue bandiere avessero più volte rotta le «cortina di acqua» del Reno. Lo svolgimento nelle forme del potere fu poi lento, deforme e secondo Marx ed Engels sempre bastardo. Vi giunse ma non vi nacque il gran capitalismo industriale; non scaturì, ma filtrò.

Nel quadro nazionale si dovrebbe dunque dire che lo sforzo gigante del pensiero critico, anche per quelli che non riconoscono alla costellazione degli idealisti tedeschi il primato su ogni filosofia passata e futura (se con Kant ha preteso scrivere i prolegomeni ad ogni metafisica avvenire e con Hegel quelli ad ogni dialettica) non ha prodotto nulla, non potendosi chiamare rivoluzioni i colpi di palazzo succeduti alle vittorie militari del 1849, 1866, 1871.

Un collegamento tra quel ciclo vulcanico di lavoro teoretico e le forme naziste nemmeno potrebbe invocarsi: non lo fecero che molto relativamente i nazionalsocialisti medesimi che risalirono oltre Lutero fino ad Arminio e al dio Thor della guerra, e quanto ad Adolfo Hitler sapeva di filosofia quanto un salumiere tedesco, che chiama le salsicce delicatessen. Comunque questo lontano prodotto di azione di un lavoro di pensiero, sarebbe a sua volta finito nella catastrofe.

Fu dunque tutto perduto? Marx, che capovolse Hegel, che distrusse «ogni metafisica futura» che saldò, superandoli, dialettica tedesca, sensismo francese ed empirismo positivo inglese, fondando sui loro materiali storici la teoria internazionale unica del proletariato, avvertì che quella eredità lasciata cadere dalla borghesia fu raccolta dagli operai rivoluzionari, e recata all'altezza storica di una visione del mondo e della società cui le classi precedenti non potevano giungere.

E su due rivoluzioni fallite si costruì l'Internazionale del proletariato con indirizzo teoretico materialista e deterministico, per difficile e tormentosa che sia stata e sia, in Germania e dovunque, la lotta contro i travisatori.

In Russia non abbiamo avuto un parallelo bagaglio di critica antifeudale di marca schiettamente borghese, ma una critica eclettica, con un bagaglio ibrido di filosofia «popolare» in cui mille apporti di Occidente si sono incrociati, appunto, in una romantica invocazione alla fratellanza, alla uguaglianza, alla rivolta, contro il dispotico giogo, di raffinati cerebrali e analfabeti mugik. Ma, con Plekhanov poi fallito alla prova, e Lenin alla testa, è stato svolto un lavoro formidabile di dottrina rigidamente classista, esclusivamente proletaria, con utilizzazione di tutti i risultati della possente visione di Marx e dell'esperienza capitalistica di tutto il mondo, saggiata dall'urto dei proletari più maturi.

Se dunque lo sforzo di battaglia nelle piazze e sui campi di guerra civile non è mancato, come in Germania allora, ma ha condotto ad una trasformazione formidabile di un mondo precapitalista in uno di acceso industrialismo, all'altezza dei più possenti cui dette le premesse la borghesia nel pensiero, nell'organizzazione e nell'azione; il lavoro colossale in dottrina del bolscevismo dal 1900 al 1920 ha avuto una decisiva ripercussione storica, poiché il colosso zarista è crollato ed ha lasciato una potente eredità, poiché sulla base il proletariato ha riordinato le sue «armi critiche», e malgrado l'attuale buia parentesi, quando ve ne saranno le condizioni storiche, le ritroverà per tornare alla lotta e dare i primi esempi della rivoluzione soltanto proletaria e anticapitalistica pura. Tale fu la Comune di Parigi, ma fu battuta e, se come lei, fosse stata battuta la Comune di Leningrado - salvata dalla antiromantica decisione di Brest-Litowsk imposta da Lenin e dal crollo della Germania militare - non si sarebbero viste le forme popolaresche e scenografiche che si concessero alle folle di Mosca. I comunardi, massa di lavoratori anonimi, oscuri e modesti, caddero senza tremare e senza abbandonare il fronte, ma, se nella teoria della rivoluzione non erano ad alto grado di sviluppo, seppero preservarne le forme da ogni retorica e da ogni culto del gesto, e il pugno di refrattari collocati al muro del Père Lachaise ha lasciato una tradizione di classe, non nomi da leggenda.

I compagni bolscevichi hanno concesso troppo all'espressione di «rivoluzione veramente popolare». Lenin aveva detto che il proletariato deve fare la rivoluzione per sé, e per la «sua» forma di società che è il comunismo, e non più servire per qualunque rivoluzione, come finora la storia ha voluto.

Se si vuol dire che la rivoluzione sarà matura quando notevoli masse del proletariato saranno in campo sulla via tracciata dalla teoria e dalla organizzazione e agitazione del loro partito, la frase è giusta. Ma la vera rivoluzione operaia non sarà popolare, in quanto popolo significa commistione di classi diverse, compresa la borghesia, bensì classista, anche se libererà altre classi povere incapaci di autonoma azione come i piccoli proprietari ed artigiani superstiti. Bensì, come ad esempio in Italia, classe operaia vuol dire salariati della città e della campagna, e comprende i braccianti rurali, che forse hanno qualcosa da insegnare agli operai delle città, troppo facili ad essere bloccati dalla «aziendofilia» antimarxista, e hanno lasciato pagine di vera e non esteriore gloria rivoluzionaria.

Il parallelo Russia-Germania si conchiude dunque così: caddero nel 1848 due rivoluzioni tedesche, ma la loro preparazione nella teoria ribadì per tutto il mondo le forme irrevocabili del capitalismo nella produzione e nell'economia e la sua ideologia di classe, valida per tutti i paesi fino alle sue derivazioni giuridiche ed estetiche, che fondano oggi ogni dichiarazione politiche dei grandi poteri su un neo-idealismo, e sui valori dell'individuo e dello spirito. Vinse nel 1917 una, ma una sola, delle due rivoluzioni russe; ma rimase fondata, ribadendola sulla base marxista, la teoria e la forma rivoluzionaria propria del proletariato e della società comunista, quali sorgeranno sulla dispersione delle ultime scorie borghesi e capitaliste, che invece in Russia oggi formano, per ineluttabili cause economiche, la massa della ganga portata alla fusione nel crogiuolo sociale.

Più in breve: la filosofia classica tedesca, sterile di rivoluzione nazionale, dette al mondo la trama sociale capitalista e le parole della sua conservazione. La teoria marxista sovrastò e incalzò la tardiva rivoluzione nazionale di Russia; non dette la trama sociale alla Russia di oggi, ma lasciò la sua intatta potenza alla rivoluzione internazionale proletaria del futuro.

Regia e scenografia rossa
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Troppo lungo sarebbe dare il quadro delle efflorescenze che presto circondarono le manifestazioni della nuova Russia. La potente letteratura della rivoluzione francese dominava, anche non espressa, le attese di tutti, capi e gregari, e quasi se ne attendeva la riproduzione di tutte le fasi, dalla Convenzione al Terrore, al Termidoro, al bonapartismo. Questa pericolosa analogia sarebbe stata dispersa con ulteriori colpi a fondo come lo scioglimento nel ridicolo della assemblea costituente - Lenin siede annoiato a sentire le chiacchiere a vuoto della destra che traccia costituzioni, poi si leva e se ne va seguito dal solo Sverdlov; trova nell'indossare la pelliccia al guardaroba che gli hanno fregata la pistola dalla tasca e dice al compagno con un sorriso: che razza di ordine vi è qui? sei pure stato nominato capo della polizia! La logorrea continua molte ore, poi un marinaio bolscevico si avvicina al presidente che pare fosse Cernov e gli dice: abbiamo sonno e faccio togliere la luce, levatevi dai piedi. Quelli se ne vanno. Fatto storico immenso, posa drammatica nessuna.

Ma poi la retorica prende la mano un poco a tutti. Mentre Lenin indossa un qualunque abituccio borghese e la impareggiabile sua compagna, marxista e rivoluzionaria di valore immenso, è nel vestire più incolore delle monache degli ordini più umili, una serie di fessilli si comincia a pavoneggiare in uniformi tirate a lustro e si atteggia da dittatore, con grinta simile a quelle che conoscemmo bene in Italia (questi uomini politici e personaggi storiciin pectore non ridono mai) anche in centri ove una massa di straccioni incassa i terribili colpi della carestia.

Comincia la norma degli alti stipendi: altro che il salario operaio stabilito per i suoi componenti dalla Comune, norma cui Marx e Lenin danno nei loro scritti valore primario delle ville arredate di oggetti d'arte rarissimi, e così via. Ma lasciamo questo punto, perché qualche imbecille sarebbe capace di dire che romanticismo sarebbe il rinunziare a mangiare di grasso sulle spalle della rivoluzione. Le manifestazioni politiche sono inscenate tra drappi, bandiere, musiche interminabili, festoni, ritratti; un vero carnevale rosso ed una parata coi passi cadenzati e le file per quattro senza nessuno scopo militare.

Trotzky, uomo indubbiamente decorativo, ma che aveva in questa l'ultima delle sue immense qualità, ebbe qualche peccato di esibizione coi famosi quadri in divise lampeggianti e attitudine da Valhalla. Dicono che quando Napoleone vide Goethe esclamò: ecco un uomo! Ma si seppe che non alludeva all'intelletto dell'Olimpico, ma al suo fisico: avrebbe dato probabilmente una fetta di impero per avere come Volfango una diecina di centimetri di statura e un milione di capelli in più!

Trotzky stesso fremette di sdegno e parlò di faraonismo quando si esibì il cadavere di Lenin nella tomba della piazza rossa e si indissero sfilamenti di tipo mistico. Ma se gli imbalsamati potessero assestare calci nel sedere i celebranti di quel rito starebbero ancora adesso in precipitosa fuga.

Se quasi tutti i giorni la stampa sovietica riprende a dritta e a mancina giornalisti, scrittori e letterati per avere deviato del materialismo marxista, dottrina prescritta, come direbbero gli sportivi, per pure «ragioni di scuderia», questa non è che la prova che malgrado ogni pressione le fioriture cerebrali prendono per forza di cose atteggiamenti borghesi e piccolo borghesi.

Non ricordiamo tante altre forme, che colla borghesia sono nate e con essa dovranno sparire nella vergogna: le onorificenze, sia civili che militari, guiderdone solo dei primati di adulazione cortigiana ai grandi capi e sottocapi. In Italia Starace, uno dei più notevoli fessi della storia, fece fortuna con una trovata tanto semplice quanto triviale; al suo apparire i giannizzeri avevano ordine di non far urlare: viva Starace! ma viva il Duce! E in Russia non si fa discorso o barbosa conferenza (lì sono capaci di parlare ciascuno tre o quattro ore senza dire una sola frase non stereotipa e consacrata) o comizio, senza inneggiare a Stalin, al grande Stalin, dedicandogli i non so quanti epiteti ormai notati nella prammatica e nell'etichetta.

Lingua che batte e dente che duole
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Dato che il parere di Stalin stesso - crediamo sia ben vivo: chi dice che dopo il banchetto con Tito poneva lui stesso il disco e ballava alla russa, ossia accovacciato sui tacchi alternati, mentre gli altri gridavano a coro battendo a ritmo le palme: Josif Vissarionovitch sei forte come un toro! chi narra che all'augurio di vivere cent'anni scocciato rispondesse (da marxista una volta): le leggi fisiologiche fanno il loro corso, piantatela! - è il solo che fa da pietra di paragone, è sicuro che egli ha approvato e promosso le mille manifestazioni di militarismo, patriottismo, nazionalismo, esaltazione di quanto fu «russo» assai prima della rivoluzione, e perfino nella guerra coi giapponesi del 1905 e fino alle conquiste di Pietro il Grande! Josif Vissarionovich, sei romantico quanto un goliardo di Heidelberga!

Stalin, che una volta Lenin dovette strapazzare come nazionalista georgiano in un famoso comitato centrale prima di Ottobre in cui sosteneva doversi continuare la guerra «democratica» (da, sì, egli rispose, colla abitudinale nettezza vigorosa, in una certa commissione, ad una esitante traduttrice della domanda) prima di darci lo scritto, prezioso, sulla struttura capitalista dell'economia russa, pubblicò altro lavoro originale sulla linguistica, rivendicando la continuità dell'idioma russo come forma inseparabile dalla rivoluzione.

Ogni romanticismo della nascente borghesia ha cantato le questioni universali strettamente attaccato all'angolo visuale del suo linguaggio nazionale, e questo ne è un inseparabile connotato.

Dinanzi a questo, poco era sembrato a lui, evidentemente, che giungendo da tutte le direzioni dell'orizzonte a Mosca i rivoluzionari degli altri paesi, anche non essendosi mai visti potessero parlare la stessa lingua della dottrina e del metodo marxista della rivoluzione non romanzata, ma vivente.

Source: «Il programma comunista» n. 4 del 1953

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