LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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MISERANDA SCHIAVITÙ DELLA SCHIAPPA


Content:

Miseranda schiavitù della schiappa
Scomposizione in fattori
Nomade e colono
La parcellare corona
Dietro il paravento
Agricoltura minima
E noi votiamo per l’industria
Extensiv oder intensiv?
Schiavo, un passo avanti
Source


Sul filo del tempo

Miseranda schiavitù della schiappa

Scomposizione in fattori

Passando, finalmente, all’esame dei ceti secondari dell’economia agraria, abbiamo trattato del colono parziario (mezzadro) e del particolare rapporto sociale in cui esso si trova col proprietario terriero: resta a questo la rendita fondiaria e talvolta una quota di profitto di capitale se gli appartiene del capitale mobile (macchine, bestie, ecc.) – va al colono quello che sarebbe il montante del salario del lavoro personale e in aggiunta una parte di profitto di capitale. Questo in due sensi: se si tratta di minimo colono che lavora tutta la terra avuta in fitto da solo e col solo aiuto di familiari, in quanto egli pur possiede alcuni attrezzi ed acquista con proprio modesto capitale di esercizio sementi, concimi o altro; e se poi si tratta del grosso mezzadro o colono parziario, anche per il secondo motivo che egli, dovendo ingaggiare braccianti, possiede ed anticipa capitale salari.

Tutta l’analisi dei rapporti sociali agricoli, nella trattazione di Marx cui ci atteniamo fedelmente dimostrando ad ogni tappa che nulla vi è da mutare, si fa per confronto col caso puro dell’economia capitalistica terriera, con le tre figure: proprietario che riceve sola rendita – fittavolo che riceve solo profitto anticipando ogni capitale – giornaliero che riceve solo salario. Le tre grandezze economiche pure, introdotte, si sovrappongono nei casi della pratica in vario modo, ma noi consideriamo le grandezze come uniformi e omogenee, le persone e meglio i ceti come ibridati.

Non vi è altra via di impostazione di problemi scientifici che si abbordino con metodo quantitativo e non… chiacchierativo. Se taluno sostiene che dei fatti sociali non è possibile scienza e teoria quantitativa, ma solo descrizione narrativa, bene! costui è chiaramente collocato e non vi è che da dirgli: signore, uno di noi è di troppo.

Ma quando si pretende di impiegare metodo marxista e si trattano questi argomenti con le mosse lacrimifere, sentimentose ed ipocritamente affettiformi, ingiuriando i borghesi non perché agiscono e filosofano da borghesi, ma perché si comportano da immorali, crudeli, anticristiani, antinazionali, antipopolari, allora a questa bassa specie di contraddittori va rivolta una apostrofe meno cavalleresca: voi fetete col cuore!

Il metodo scientifico che svolge la teoria dei «processi puri» senza bisogno di esibirne un campione «concreto», e mediante le scoperte relazioni riesce a rappresentare, spiegare, anticipare il decorso dei processi composti, che solo si danno nella realtà (e che a marcio dispetto di Hegel dice tranquillamente che quello che è razionale non è reale e quello che è reale non è razionale) non è niente di misterioso e se ne possono dare mille esempi.

Supponiamo di porci il problema tutt’altro che «teoretico» del tempo in cui un veicolo a motore raggiunge una data velocità; e soprattutto di quello in cui si ferma… prima di averci schiaffato sotto. Su tale tempo influisce, oltre si intende la potenza motrice e la massa del veicolo, sia la levigatezza della strada, che la sua pendenza (salita o discesa), che la resistenza del mezzo (aria nel nostro caso e vento). Si arriva a dare la risposta quando si sono «scritte» le leggi del moto su una strada piana che non abbia attrito di rotolamento e fuori dell’aria (strada che poderosamente non esiste), poi del moto su un piano inclinato nei due sensi, poi dell’attrito volvente, poi della resistenza dei mezzi. Dalla combinazione delle leggi dei vari detti processi nel caso pratico, si deduce la conclusione specifica; e in relazione a tutto questo il guidatore preme l’acceleratore, frena, muta rapporto, spinge in salita senza esitare, scende con prudenza, prevede l’effetto di un vento turbinoso, delle curve e così via. Si capisce bene, anche senza sapere le leggi formali singole. Ben deve saperle però chi vuol stabilire perché il fattaccio è successo e costruire la macchina e la via in modo da vedere di evitarlo. È reale subire l’investimento, ma è più razionale scansarlo.

Quindi invece di corteggiare il contadino proprietario lavoratore, e peggio levarlo a modello ideale dell’uomo libero e autonomo, noi dovremo disarticolarlo senza esitazioni e mettere in luce gli organi del salariato, quelli dell’impresario e quelli del padrone. Due anime, ahimè, sono in lui, ed anzi tre: qui la tragedia.

Nomade e colono

Il colono ha una fisiologia sociale più semplice del contadino proprietario: non ha nessun sapore, nessuna tinta di proprietario immobiliare. Fatto il relativo saggio chimico o clinico si trova zero: un tale saggio si fa aprendo i registri del catasto: il suo nome non vi figura come ditta intestataria di nessuna particella annotata nelle mappe, nemmeno di un metro quadro.

Il colono non è legato alla terra: è un libero, come lo era nella stessa antichità. Egli possiede sì una scorta, un bagaglio, che può tutto caricare su qualche carretto e possiede la bestia che lo tira: può sloggiare, andarsene a coltivare, colla stessa figura sociale di lavoratore-gestore, un altro lembo di terra.

In genere il piccolo colono detesta il mutare: come nel caso del grande fittavolo egli anela al lungo fitto e alla riconferma del fitto alla scadenza, mentre il proprietario preferisce non rinnovare e fare brevi fitti: egli ben sa che in tal modo lascia nella terra una quota di capitale-lavoro divenuto miglioramento fondiario e suscettibile di elevare la rendita meritevole.

Grandi furono nell’Italia dell’anteguerra le lotte contro gli escomii, ossia le espulsioni del colono per volere del proprietario, con la forza della legge e non prive di sanguinosi episodi. Oggi sembra una grande conquista sociale il «blocco» degli affitti agrari che proroga la scadenza dei contratti e impedisce in date misure l’aumento dei canoni di fitto anche se dovuto non a maggiorata resa produttiva, ma a svilimento della moneta. Quando si tratta di canone in natura e non in denaro si frena la quota di derrate che rappresenta il periodico versamento al proprietario, a soddisfazione della rendita padronale.

Questo meccanismo è particolarmente balordo in Italia, ove sulle fondamenta mussoliniane lo hanno sviluppato cattolici, liberali, socialistoidi e comunistoidi (vedi i primi numeri di «Prometeo» nella serie «Proprietà e Capitale»). La inconsistenza di tutto questo si vede a chiara luce nell’applicazione a vanvera ai canoni fissati per le grandi proprietà, sia in denaro, sia (a solo titolo fittizio e di compenso alle oscillazioni valutarie) in grano. Forti somme passarono così dai proprietari terrieri ai capitalisti della terra, mettendo in chiaro come tutte queste misure non favoriscano in realtà il lavoro agricolo, ma il capitale agricolo e se demagogicamente solleticano il contadino mezzadro e colono, lo fanno solo per la sua bastarda struttura di imprenditore, che nella sostanza è quella che lo frega. Ma il confusionismo e la sporca lega tra interessi di lavoro ed interessi di capitale di impresa chiude in sé, come la formula fascista, il succo della formula economico-sociale dei fu «Ciellenne», della stagione (assai più fessa del ventennio) che tutti schifiamo, nelle vicende mutevoli della politica italiana.

Il colono dunque si distacca dal piccolo proprietario perché questo è fisso alla sua terra (salvo il caso di vendita e compera pienamente facoltato dall’ingranaggio borghese) mentre quello può spostarsi ovunque in principio. In entrambi i casi si ha prevalenza del consumo entro l’azienda delle derrate prodotte, e quindi sottrazione al circolo mercantile. Piccola proprietà e colonia hanno effetti opposti alla moderna circolazione dei prodotti-merci, ma più della colonia è fossile la proprietà parcellare, dato che ostacola anche la circolazione degli uomini lavoratori.

Una classe dominante, e sopra tutte quella capitalistica, tanto meglio detiene il potere e soffoca ogni rivoluzione, quanto meno è sensibile, oltre frontiera e entro frontiere, il movimento dei prodotti del lavoro e il movimento della gente del lavoro.

Noi usiamo la parola colono in doppio senso: in quello attuale di un piccolo fittavolo o mezzadro che in una terra di antica coltura surroga un altro, e in quello storico di primo coltivatore e dissodatore di una terra vergine o addirittura sconosciuta. Questo colono di oltre mare nasce colla forza dell’occupazione e piano piano l’organizzazione politica ne fa un pagatore di canone allo Stato e un pieno proprietario.

Prima ancora del colono, antico o moderno, preceduto o meno da flotte ed eserciti conquistatori, abbiamo il nomade, che anche porta in giro, cercando terra, la sua forza muscolare e i suoi pochi attrezzi. Ma nei popoli nomadi erano le comunità che colonizzavano, spostandosi su grossi carri che erano arnesi di guerra e di opera e il lavoro e il consumo erano immediati, naturali, non fissi, ma collettivi.

Il moderno piccolo fittavolo o mezzadro, in giro alla caccia di terra, fonda un’azienda individuale, non espelle il vecchio proprietario né le bestie feroci per aver luogo a seminare, ma paga per questo una indennità.

Una tale forma sociale di esercizio dell’agricoltura, adunque, ha dal punto di vista tecnico e produttivo, da quello del miglioramento della terra e dell’agricoltura, tutti i difetti e lati negativi della prima barbarie, incapace di ancorare il suo nutrimento ad un’organizzazione stabile e permanente; ha dal punto di vista economico e sociale – e quindi agli effetti della possibile maturità di azione storica dei ceti corrispondenti – i lati negativi nel senso moderno che dipendono dal consumo locale immediato entro la azienda coi suoi poveri orizzonti, dalla scarsezza dei rapporti, anche mercantili, col circolo generale. Non solo come lavoratore il mezzadro minimo mangia ciò che fa colle sue mani, ma come imprenditore paga la rendita con una materiale aliquota dello stesso fisico raccolto.

Di quanto più moderno il contadino proprietario, che rendite non paga essendo il rentier di se stesso, ma solo imposte o interessi di debiti e deve farlo in denaro, mentre d’altro lato è legato alla sua sede di lavoro e di norma non la muta per intere generazioni? Non certo di molto. La tendenza ultima è di contendergli anche la sola via di salire a salariato giramondo: la emigrazione; e l’altra di schiodarsi dalla natìa schiappa di terra: la guerra delle fanterie.

La parcellare corona

Il lavoratore della terra che la rivoluzione borghese ha reso proprietario esclusivo dello spazio che le sue braccia arrivano, a costo di spezzarsi e pendere inerti dalla contorta spina dorsale, a frugare spasmodicamente per tutta una insonne vita, non ha padrone. Non ne ha davanti alla legge, alla letteratura e alla filosofia: questo è tutto per il liberalismo capitalista, ed è quindi quasi tutto per l’anarchismo libertario. Quasi, in quanto volendo arrivare alla formula ampollosa: né Dio né padrone, occorrerebbe fare i conti col parroco che sui piccoli contadini (anche se non ci sono più decime) esercita una dittatura sociale e politica vera e propria.

I partiti già marxisti che hanno tra i contadini parcellari un seguito forte non hanno solo dovuto barattare il marxismo, ma anche venite a patti coi preti, sia questo alla scala statale in Russia che a quella elettorale in Italia.

La rivoluzione borghese ha da una parte distrutto gli obblighi feudali e reso libero il contadino servo, dall’altra ha creata la «privata sicurezza» della proprietà personale anche immobiliare, che giuridicamente è la stessa senza riguardo all’estensione e senza rilievo alla differenza tra proprietà in cui lavora il titolare e proprietà in cui lavorano altri.

Stava già scritto prima del «Manifesto», da un Marx che aveva forse appena vent’anni, che il comunismo è la distruzione della sicurezza privata fin qui esistita. Ma questa sicurezza privata, integra sul piano concettuale, quanto costa al privilegiato fondiario in quarantottesimo, se la sottoponiamo alle misure economiche, il modulo delle quali abbiamo predisposto? Ecco il punto.

Il piccolo contadino che sta nella sua terra e nella sua casa gode della certezza di non doversi attendere da un’alba all’altra – come il salariato – o da una stagione all’altra – come il piccolo colono – l’ordine di sgombero. Uscirà solo se vorrà e al prezzo che vorrà: nulla potrà costringerlo se non un contratto di scambio, liberamente accettato e fedele alla legge degli equivalenti. Tutto questo è diritto; in economia marxista abbiamo ben stabilito che la terra non essendo un prodotto del lavoro e in un ambiente mercantile una merce, ha un prezzo in senso improprio, ma non ha «valore» e non soggiace, nei suoi trapassi, alla legge del valore, seppure la legge (gerarchicamente tanto inferiore) della concorrenza fa gioco (equivoco) anche in questi trapassi. Nessuno può infatti dire: stanzio tanto denaro-capitale e mi fabbrico tanta terra. La terra si trova e non si produce: può essere gratuita, può pagarsi con la vita. Ribattiamo, anche a costo di noia, questi abbici del marxismo.

Ma questo diritto alla sicura immobilità legale, per tutta la vita e di padre in figlio, quanto costa al contadino (se vediamo di calcolare anche con aritmetica mercantile) in denaro, in tempo, in lavoro? La immobilità si protende sulle generazioni; essa sembra avere qualcosa di comune coi «diritti dei non lavoratori» ossia dei signori, dei fondiari, degli industriali imprenditori, in quanto resta attaccata alla persona del capo famiglia, da cui andrà ereditata «solo a morte sua», seppure l’età lo abbia allontanato ormai dalla zolla e ridottolo a una povera larva vegetante nella squallida casa, ove al mattino lo lasciano gli adulti con distratto sguardo e ove i bambini trasformano l’analogo temporaneo diritto ad oziare in frastuono e ludibrio.

Spesso abbiamo ricordato le terribili pagine zoliane sulla «Terra», assistendo innanzi a notai di provincia alle spartizioni fra gli eredi fatte da genitore ancora vivente, che si riserva un miserabile «usufrutto», in quella che i legulei chiamano divisione «inter liberos».

Nello Zola la scena è michelangiolesca. I due vecchi seggono inebetiti, ed i figli inveleniti tra loro e contro i «danti causa» fanno e rifanno il conto di quanto va riservato loro, resecando l’ultimo etto di pane, l’ultima zolletta di zucchero per il caffè di erbe, calcolando spietatamente il minimo che basta a tenere in piedi una vacillante scheletrica carcassa. Alla fine i vecchi si alzano tremando e appongono alla odiata cartoffia una firma con facce da giustiziati: la bella, la sacra proprietà, protetta da dio e dal governo, è passata in mani altrui!

Orbene il notaio, che non vuole rischiare nullità, durante la pesante seduta apostrofa il vegliardo sulle sue volontà e gli rispiega per la centesima volta (la fretta è esclusa in queste cose dalla millenaria prassi) gli articoli del codice sulle facoltà del testatore donatore in vita. Tu, gli grida solenne, tu, hai capito, tu solo sei Signore e Re; Signore e Re! La legge ti fa tale!

I rivoluzionari del novecento sono più pedestri e sbiaditi dei notai dell’ottocento. Oggi fanno le festicciole in tricolore e rosso sporco per la consegna in proprietà delle terre alle famigliole rurali; inneggiano anch’essi a questa corbellatrice signoria degli stenti, a questa corona degli straccioni.

Nella presente società tre sono i bersagli su cui l’artiglieria rivoluzionaria è puntata (e non l’avete inchiodata per sempre, o parcellaristi!): famiglia, eredità, proprietà. Sono bersagli da abbattere non solo quando sono in mano ai pochi, ma soprattutto se distribuiti tra i molti.

Dietro il paravento

Si tratta ora di definire la realtà sociale che sta dietro questa parata di sovranità fasulla pesando i fattori economici e a tal fine è bene riattingere alle pagine di Marx.

Abbiamo detto di voler calcolare quanto il piccolo proprietario paga per la conquistata «sicurezza» dopo il convenzionale «affrancamento». Quando i barbari si spinsero nell’Europa di Occidente e fondarono sulle rovine dello stato romano le prime organizzazioni nazionali, sia pure poco accentrate, essi si chiamarono per questo Franchi: Engels lo illustra largamente in quella «Origine della famiglia della proprietà e dello Stato» cui tanto attingemmo in varie occasioni e nel rapporto a Trieste sulla questione razziale e nazionale. Orbene il contadino franco, ex membro di orda ed ex soldato imperiale, pagava poco per mantenere la sobria corte di Carlo e l’agile scheletro dello Stato: a parte questo, Carlo andò oltre le prospettive di una agricoltura frazionata, sebbene con densità ridottissima di popolazioni e sperimentò le grandi aziende di Stato o conventuali.

Forme molto più torbide rimasero nell’Oriente d’Europa, anche per la minore influenza di una società tecnologicamente differenziata ed evoluta in tutti i sensi come quella della Roma classica e anche cristiana. Vedete come Marx ne descrive una, trattando di questo cireneo della produzione che è il «libero» contadino.

«Un residuo dell’antica proprietà comune della terra, che si era conservato dopo il trapasso all’economia contadina autonoma, ad es. in Polonia e in Romania, è servito là come pretesto per passare alle forme inferiori della rendita fondiaria. Una parte della terra appartiene ai singoli contadini che la coltivano autonomamente. Un’altra parte viene coltivata collettivamente e crea un plusprodotto, che serve per il pagamento delle spese della comunità e costituisce una riserva in previsione di cattivi raccolti e così via. Entrambe queste parti del plusprodotto, e infine tutto il plusprodotto insieme con la terra, su cui è sorto, vengono gradualmente usurpate da funzionari statali e da privati, e quelli che originariamente erano dei liberi proprietari contadini, il cui obbligo di lavorare questa terra collettivamente è mantenuto, diventano tributari di una corvée o di una rendita in prodotti, mentre gli usurpatori delle terre collettive si trasformano in proprietari, non soltanto della terra usurpata della comunità, ma anche delle stesse aziende contadine».

Questo passo fa pensare al lato vizioso del colcos russo: il consentire a ciascun membro dell’azienda di lavoro collettivo (che dovrebbe poi essere una azienda capitalistica di Stato che versa prodotto al mercato, paga spese e salari) di tenere a parte il campicello individuale su cui lavora e raccoglie per il suo consumo di famiglia: economia dunque mezza mercantile, mezza premercantile addittura.

Marx si libera con pochi cenni dei sistemi di produzione collettiva in cui rimane un margine al proprietario non distinto dall’imprenditore. In tali forme non trinitarie ma dualistiche, da un lato sta il bracciante della terra non proprietario nemmeno di attrezzi, che riceve gli alimenti o salario in natura, dall’altro (indistinto) tutto il sopralavoro che in teoria distinguiamo tra profitto e rendita. Una forma è la produzione schiavista del mondo classico, in cui tutto appare come rendita, una più moderna quella delle «piantagioni» di America e di altri continenti, ove con manodopera locale semischiava si produce riso o caffè per lontani mercati. Forma poi attuale è quella del proprietario che gestisce, come suol dirsi, in economia, ossia senza fittavolo ma a mezzo di lavoratori salariati direttamente.

Abbiamo visto dunque la trinità diventare dualità nella piccola colonia (colono e proprietario: binomio lavoro + capitale, contro monomio proprietà) e nella gestione diretta (lavoratore e proprietario: monomio lavoro, contro binomio capitale + proprietà). Resta la sintesi dei tre nell’uno: lavoro, capitale e proprietà.
«Inoltre, la proprietà parcellare. Il contadino è qui in pari tempo libero proprietario della sua terra che appare il suo strumento principale di produzione, l’indispensabile campo di applicazione del suo lavoro e del suo capitale. Nel quadro di questa forma non si paga affitto; la rendita non compare quindi quale forma peculiare del plusvalore, sebbene, in paesi nei quali per il resto il modo di produzione capitalistico è sviluppato, essa si presenti come plusprofitto attraverso il confronto con altri rami di produzione [si capisca questo riflettendo che il catasto fiscale anche per la particella appartenente al lavoratore diretto affibbia, senza arrestarsi, oltre al «reddito agrario» dell’impresa il «reddito dominicale» del proprietario], come plusprofitto, però, che appartiene al contadino, come in generale tutto il provento del suo lavoro».

Agricoltura minima

Quanto disti il marxismo da ogni stima per il sistema parcellare lo si può dedurre da questi passi.
«Questa forma della proprietà fondiaria, come le sue forme più antiche, presuppone che la popolazione rurale sia molto più numerosa di quella urbana, così che il modo di produzione capitalistico, anche se in generale dominante, sia relativamente poco sviluppato, e quindi anche negli altri rami di produzione la concentrazione del capitale sia contenuta in limiti ristretti, prevalendo il frazionamento del capitale».

Ognuno vede come sono tutte condizioni di fatto negative per lo sviluppo della lotta di classe moderna e per il socialismo.
«(…) Una parte preponderante del prodotto agricolo deve essere qui consumata come mezzo diretto di sussistenza dai suoi produttori, dagli stessi contadini, e solo l’eccedenza entrerà sotto forma di merce nel commercio con le città».

Qui il punto è sottile, il passaggio molto delicato. Siamo in una situazione notevolmente distante da quella in cui si presenta possibile il trapasso da capitalismo a socialismo, siamo in una fase storicamente arretrata, di capitalismo troppo poco avanzato e allo stato ancora infantile, se non embrionale. Ma intanto va spiegato come il prezzo del grano (del pane, dell’alimento in generale) sia inferiore a quello di un regime capitalistico in pieno sviluppo, con grandi aziende terriere condotte da imprenditori industriali e operai salariati.

Poiché poca parte del prodotto è venduta su mercati, è difficile parlare di prezzo generale corrente. Ma è certo che la rendita differenziale esiste, seppure non si manifesta in cifre economiche di transazioni. Il contadino che occupa una terra più fertile a parità di sforzo produce più grano, che evidentemente vende, per l’eccedente, al prezzo stesso di vicini che ne ricavano meno. Fruisce dunque della rendita differenziale, anche se la trasformasse in parte in un maggiore tempo di riposo. In questa forma della piccola proprietà, Marx avverte, emerge il prezzo della terra, che
«entra per il contadino come un elemento nell’effettivo costo di produzione».

Quindi tale prezzo in denaro figura,
«nel caso di una divisione ereditaria, quale corrispondente di un determinato valore monetario, oppure (…), la terra viene acquistata dal coltivatore stesso, soprattutto con prestiti di denaro su ipoteca».

Sembra quindi che la rendita sia in ragione del prezzo della terra e non della diversa fertilità di terre che vendono il prodotto a pari prezzo, ma è sempre vero che si determina prima la rendita e da questa «portata a capitale» si deduce, al saggio di interesse corrente, quello che si chiama prezzo della terra. Quindi la rendita differenziale esiste nell’agricoltura parcellare: ma è qui, a capitalismo agrario non diffuso
«(…) che si deve ammettere, come regola, che non esiste una rendita assoluta».

Sappiamo infatti che questa quota di rendita sorge dal fatto che il prezzo di vendita, oltre a raggiungere il prezzo di produzione del terreno peggiore, lo supera di un tanto che dipende dall’esistenza di un prezzo-monopolio superiore al «valore» del prodotto, ossia che, oltre alle spese e al profitto calcolato al saggio generale industriale, contiene un ulteriore eccedente.

Tutto ciò avverrà quando vi sarà produzione industriale generalizzata, mercato generale, stabilizzazione del medio saggio di profitto delle imprese. Allora sarà possibile fissare il valore dei prodotti e verificare che, in forza del monopolio fondiario e della assoluta necessità del consumo elementare, il grano ha come prezzo generale di mercato una cifra superiore al suo valore. Il quale valore dipende dal prezzo di produzione singolo del peggiore terreno, ripetiamo, formato da salario, spese di capitale costante, profitto medio.

Ma con la piccola produzione non soltanto questo ulteriore salto del prezzo che dà sopraprofitto (ergo rendita) anche sul terreno peggiore non si verifica, bensì può accadere che, dato che il lavoratore stesso incassa, nel vendere il prodotto, il rimborso spese, quello che crede sia il suo «salario», il profitto e la rendita, gli convenga lavorare e produrre anche tagliando non solo tutta la rendita, bensì parte o tutto il profitto. In altri termini: in economia tutta capitalista il limite inferiore del prezzo dell’alimento base deve coprire: salario, capitale spese, profitto medio, rendita assoluta.

In economia precapitalista il limite inferiore del prezzo scende molto più sotto: è puramente spese, più salario. Appena passato tale basso limite può avvenire che il coltivatore gestisca la sua terra o compri terra da gestire.
«Non è quindi necessario che il prezzo di mercato aumenti, né al suo valore, né al prezzo di produzione del suo prodotto. È questa una delle cause per cui il prezzo del grano è minore in paesi in cui predomina la proprietà parcellare che in paesi con un modo di produzione capitalistico. Una parte del pluslavoro dei contadini che lavorano nelle condizioni più sfavorevoli, viene regalata alla società senza compenso e non entra nella regolazione dei prezzi di produzione o nella formazione del valore in generale. Questo basso prezzo è quindi un risultato della povertà dei produttori, e niente affatto della produttività del loro lavoro».

E noi votiamo per l’industria

Possiamo noi considerare come avvicinamento alla società comunista ogni forma che tenga di questo strano rapporto? Si produce con sciupìo di forza lavoro e con metodi inchiodati ad esigere molto lavoro per poco prodotto, ma il consumatore da mercato (minoranza, per definizione, nel detto stadio) paga poco l’alimento in quanto la classe dei produttori minimi si contenta di regalare il suo sopralavoro? Indubbiamente nella società comunista tutti regaleranno alla società tutto il loro sopralavoro, ma, al limite, avendo incoraggiato non solo nella sfera del manufatto ma in quella dell’alimento il raggiungimento della massima produttività del lavoro, la società «libererà tutti dal lavoro necessario» (non è citazione, ma quando la troveremo lo diremo).

Questa società dell’agricoltura parcellare di cui Marx disegna la scrittura in tratti decisi, è una società di oppressori; e autorizza un nostro vecchio titolo che (nel parallelo tra questione agraria e questione nazionale) assimila il piccolo contadiname ad un popolo soggiogato; ridotto al livello degli Iloti della Grecia antica.

Il prezzo del manufatto nello sviluppo capitalista non è disceso, invece, perché si sia estorto ulteriore sopralavoro all’operaio manifatturante, ma perché il passaggio dalla piccola azienda alla grande, consentendo di utilizzare gli apporti nuovi della tecnica e della scienza, ha fatto corrispondere sempre più massa prodotta a sempre meno tempo di lavoro.

Togliendo, con la rivoluzione proletaria, l’opposizione diametrale tra questo processo di aumento di produttività nel campo industriale e quello di immobilizzazione e rinculo della produttività nel campo agricolo e soltanto in tal modo, sarà possibile ad una sufficiente massa sociale di alimento e di prodotti manufatti far corrispondere poco tempo di lavoro medio generale dato alla società e ad essa sola, in quanto società senza classi, senza redditi compartibili in tipi trinitari basali e in tipi misti derivati e affibbiati dalla legge alle persone-ditte.

E il testo anche qui verrà a definire la società comunista, messa in contrapposto agli assurdi della piccola e grande produzione borghese:
«La proprietà parcellare esclude per la sua stessa natura: lo sviluppo delle forze sociali di produzione del lavoro, le forme sociali del lavoro, la concentrazione sociale dei capitali, l’allevamento del bestiame su larga scala ed una applicazione progressiva della scienza».
«L’usura ed il sistema fiscale devono portare dovunque al suo impoverimento. L’esborso del capitale per l’acquisto della terra sottrae questo capitale alla coltivazione. Una illimitata dispersione dei mezzi di produzione e l’isolamento dei produttori stessi. Enorme sperpero di energia umana. Progressivo peggioramento delle condizioni di produzione e rincaro dei prezzi dei mezzi di produzione sono una legge necessaria della proprietà parcellare. Annate fertili sono un flagello per questo modo di produzione».

Qui per mantenere la parola posponiamo una dimostrazione suggestiva sulla natura di non-capitale del prezzo della terra: come di ogni acquisto di «diritti fruttiferi»; chiodo che battiamo, perché tutto il marxismo è lì.

«Qui, nel caso della piccola coltura, il prezzo della terra, forma e risultato della proprietà privata della terra, agisce come limite della produzione stessa. Nella grande agricoltura e nella grande proprietà fondiaria gestita in modo capitalistico, la proprietà agisce parimenti come limite, poiché limita gli investimenti produttivi di capitale dell’affittuario [questo sì, è capitale perché non compra la terra, che resta al proprietario, ma si spende per ricomparire in maggiorato prodotto], investimenti che in ultima istanza vanno a vantaggio non suo, ma del proprietario fondiario.
In ambedue le forme [proprietà contadina, agricoltura capitalistica; tutte le attenzioni! prima di calare la mannaia sul modo di produzione che ne infesta, il fascio improvviso di luce su quello di domani!] il trattamento consapevole e razionale della terra come eterna proprietà comune, come condizione inalienabile di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane che si avvicendano, viene rimpiazzato dallo sfruttamento, dallo sperpero delle energie della terra (…). Nella piccola proprietà ciò avviene per mancanza di mezzi e di conoscenze scientifiche necessari all’impiego della forza produttiva sociale del lavoro. Nella grande proprietà ciò avviene per lo sfruttamento di questi mezzi ai fini dell’arricchimento più rapido possibile dell’affittuario e del proprietario«
.

Fermatevi! Non vale creare o sopprimere piccoli o grandi proprietari nella personale titolarità. Bisogna, per la centesima volta, colpire più a fondo.
«In ambedue [piccola e grande proprietà!] per la dipendenza dal prezzo di mercato».

Non vi era contraddizione con l’altra formula luminosa che «nemmeno la società è proprietaria della terra». Anche nel linguaggio dei comuni giuristi, una proprietà che diventa perpetua e inalienabile, non dà luogo a un diritto sicut dominus, da padrone, ma solo a quel tale usufrutto (vedi il passo nel numero precedente, terzo capitoletto). Ma, ancora una volta, ben sappiamo dov’è il Pentagono che bisogna far saltare per distruggere la doppia barriera contro il comunismo: è nel sistema mercantile, nella legge del prezzo di mercato. Troviamo uno di questi Pentagoni ovunque troviamo una Banca di Stato. Ma pensiamo pure a quello atlantico.

Extensiv oder intensiv?

Questo curioso titolo tedesco-latino, che vuol dire: estensione o intensità? appartiene all’opuscolo di un Maron, che Marx cita su cui Engels si rammarica di non avere indicazioni maggiori.

Al solito questo Maron, che Marx giustifica per essere tedesco e non economista di professione (voi allora, don Carlo?), formula bene quello che è il contrario della verità e fa comodo. Questo non è lusso dialettico, ma solido metodo di ricerca.

Il Maron opina che il capitale speso nell’acquistare suolo è un capitale di investimento e discute in seguito
«le rispettive definizioni del capitale di investimento e del capitale di esercizio, vale a dire del capitale fisso e del capitale circolante».

Il parere di Marx gli è subito piantato davanti; il capitale speso per la terra NON è capitale di investimento né capitale di esercizio e non lo è nemmeno, a dispetto dello stesso Maron,
«il capitale che qualcuno può investire in Borsa nell’acquisto di azioni o di titoli di Stato». Questo capitale «non viene investito in nessun ramo di produzione».

Veniamo all’importante tesi che: ciò che assicura al titolare il godimento di una rendita non è capitale. È capitale quanto speso per ottenere un prodotto e per godere di un profitto.

Siamo in presenza dei due modi diversi di vedere la dinamica capitalista dell’economia borghese (e di quei suoi leccatori di piedi che sono gli aggiuntori al marxismo di teorie sui fatti «ignoti a Marx») e dell’economia marxista una ed indivisibile.

Abbiamo già definito quei termini, al modo di Marx, nelle precedenti esposizioni, quando abbiamo mostrato che quei tali socialbarbarici non ci hanno capito niente. Capitale fisso per i borghesi significa il valore di acquisto di tutto l’impianto produttivo, come macchine, fabbricati ecc. Capitale circolante è invece il valore delle materie prime da acquistare e dei salari da pagare. Per noi marxisti invece il capitale si divide nella parte variabile, che va in salari e nella parte costante che comprende tutte le altre anticipazioni occorrenti in un ciclo produttivo. La distinzione tra circolante e fisso è per noi questa: la spesa per le materie prime ad esempio è capitale circolante in quanto serve tutta integralmente ad ottenere il dato prodotto. La spesa per una macchina entra nella parte fissa del capitale costante, ma non per tutto il costo della macchina, che dopo il ciclo produttivo è ancora lì, bensì per la sola quota di logorìo, di ammortamento: quindi la spesa va in conto capitale in tante quote per tanti distinti e successivi cicli di lavorazione.

Nel caso agrario tutte queste spese, siano salari, siano sementi, siano concimi, siano quote di logorìo di macchine ed altro, formano capitale anticipato, che si porta nel valore del grano prodotto, maggiorandosi di profitto normale e di rendita. Nel conto fatto a nostro modo il valore della terra non entra mai, come non entrerebbero il valore di costruzione o di stima della fabbrica e installazioni meccaniche della Fiat.

Sentiamo battere un’altra volta questo chiodo essenziale a colpi di maglio. Consumeremo un poco la testa del maglio, è possibile: bene, solo questi pochi grammi d’acciaio andranno nel conto del capitale costante e non il costo del bestione. Per dure che siano le teste e assordante il rimbombar del maglio, non sarà cifra grossa.
«Il prezzo della terra non è altro che la rendita capitalizzata, e quindi anticipata. Se l’agricoltura è esercitata su base capitalistica, cosicché il proprietario fondiario riceve soltanto la rendita e l’affittuario non paga nulla per la terra oltre questa rendita annuale, è evidente che il capitale investito dallo stesso proprietario fondiario nell’acquisto della terra costituisce per lui un investimento di capitale produttivo di interesse, ma non ha nulla a che vedere con il capitale investito nell’agricoltura stessa [collocato, impiegato, piazzato, ma sempre dal solo fittavolo]. Non costituisce né una parte del capitale fisso qui impiegato, né del capitale circolante; procura [il capitale consacrato a comprar la terra] semplicemente al compratore un titolo alla riscossione della rendita annuale, ma non ha assolutamente nulla a che vedere con la produzione della rendita stessa».

Schiavo, un passo avanti

L’esempio storico rende la cosa comprensibile.

«Prendiamo, ad es., l’economia schiavistica. Il prezzo che viene qui pagato per lo schiavo non è altro che l’anticipo e la capitalizzazione del plusvalore o profitto, che lo schiavo deve fruttare. Ma il capitale pagato nell’acquisto di uno schiavo non fa parte del capitale con cui viene estorto il profitto, il pluslavoro allo schiavo«.

Per lo schiavo la cosa è più evidente: il capitale che permetterà di ottenere dal lavoro di esso la plusvalenza sarà una macina, un arcolaio, del grano, della canapa e inoltre del cibo che si somministrerà allo schiavo. Ma non il suo prezzo di acquisto, che resta lo stesso se muore dopo 15 giorni di mallatìa o di infortunio e che sarebbe follia vedere compromesso tutto nel poco filato o farina prodotti nel breve lasso di tempo.

Non si vorrà prendere per un paradosso la frase seguente:
«È un capitale che chi possiede lo schiavo ha alienato e che rappresenta una detrazione dal capitale di cui egli dispone per la produzione effettiva».
Infatti morto lo schiavo il padrone rimpiange di non poter più comprare altre macine, telai, materie prime, cibi e magari lo rimpiange anche a schiavo vivo, se ha speso tutto il suo liquido.

Così avviene del misero gestore della disgraziata schiappa di terra. Gli occorre lavoro: e ne ha; lo ha anche nella sua famiglia: sia malato o ubriaco e venga una notte la tempesta che potrebbe disperdere il vivaio o il pollaio, egli caccerà dal letto a colpi di cinta dei pantaloni la giovane figlia perché corra seminuda all’aperto e provveda. Il re, il signore del poetico campicello, non dorme nessuna notte della vita, dai primissimi anni, con tutti e due gli occhi e orecchi chiusi… Gli occorre un poco di vero e proprio capitale e lo ha talvolta, o anche per questo si indebita al tempo del seme o del concime. Ma non basta. La schiappa paterna divisa a sei o sette famiglie dei figli non può bastare a campare e in genere si dovrà comprare un poco di altra terra. Altro debito, altra ipoteca, altra vendita di forza, non dissimile da quella di schiavo (il capitalismo della prospera America riserba un simile trattamento anche al salariato, sotto forma di generi venduti a rateazione).

«L’esborso di capitale monetario per l’acquisto del terreno, non costituisce quindi un investimento di capitale agricolo. Esso è pertanto una diminuzione del capitale di cui i piccoli contadini possono disporre nella loro propria sfera di produzione. Esso diminuisce pro tanto la quantità dei loro mezzi di produzione e restringe quindi la base economica della riproduzione. Esso assoggetta il piccolo contadino all’usuraio, perché in questa sfera il credito, nel senso effettivo della parola, in generale si presenta solo raramente. Esso è un ostacolo all’agricoltura anche in quei casi in cui l’acquisto riguarda grandi proprietà. Esso si trova di fatto in contraddizione con il modo di produzione capitalistico, che è nell’insieme indifferente alla questione se il proprietario è indebitato, abbia egli ereditato o acquistato la sua proprietà«.

«Gli svantaggi del modo di produzione capitalistico, che fa dipendere il produttore dal prezzo in denaro del suo prodotto, coincidono qui dunque con gli svantaggi derivanti dall’imperfetto sviluppo del modo di produzione capitalistico… poiché [questo imperfetto sviluppo] si fonda appunto sul fatto che l’agricoltura non è più, oppure non è ancora, soggetta al modo di produzione capitalistico, ma a un modo di produzione tramandato da forme sociali scomparse«.

Il prezzo in moneta della terra aggioga il capitalismo a forme rancide di precapitalismo, che infatti in nessun paese industriale per quanto avanzato si sono potute cancellare. Ma il solo prezzo in moneta dei prodotti (ove anche la cumulata moneta non potesse convertirsi, alla luce del sole, in strumenti produttivi o in diritto sulla terra) basta a stabilire che l’economia che lo comporta è inchiodata nei limiti del capitalismo.

L’agricoltura del presente sistema sovietico, ibridata tra una proprietà nazionale a rendita nazionale, un sistema di grandi aziende a capitalismo di stato, un sistema parallelo a di proprietà statali a conduzione cooperativa ed una rete di piccoli godimenti (anche se non fossero alienabili) in uso familiare, fatica ancora molto per camminare verso la forma capitalista.

È totalmente invischiata, non meno che in Occidente, nella famiglia, nel diritto ereditario e nella collegata benedizione del pope.


Source: «Il Programma Comunista» n. 11 – 1954

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