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IL TESTO DI LENIN SU «L’ESTREMISMO, MALATTÌA D’INFANZIA DEL COMUNISMO», CONDANNA DEI FUTURI RINNEGATI (II)


Il testo più sfruttato e falsato da oltre cento anni da tutte le carogne opportuniste, e la cui impudente invocazione caratterizza e definisce la carogna


Content:

Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati
Premessa
I. La scena del dramma storico del 1920

II. Storia della Russia o dell’umanità?
Rivoluzione russa e mondiale
Caratteri di tutte le rivoluzioni
Che cosa la Russia insegnò
La dittatura e i filistei
La diffamazione è sempre quella
Source

III. Cardini del bolscevismo: centralizzazione e disciplina
IV. Corsa storica (concentrata nel tempo) del bolscevismo
V. Lotta contro i due campi antibolscevichi: riformista e anarchico
VI. Chiave della «autorizzazione ai compromessi» che Lenin avrebbe data
VII. Appendice sulle questioni italiane


Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati

II. Storia della Russia o dell’umanità?

Rivoluzione russa e mondiale

Nell’intraprendere l’esposizione ordinata del lavoro di Lenin – che preludeva per ragioni di «urgenza» alla sistemazione teorica nelle tesi del II congresso mondiale cui Lenin largamente collaborò di persona, e in attesa delle quali l’attuale opuscolo ebbe da lui nella seconda edizione il sottotitolo: Saggio di conversazione popolare sulla strategia e la tattica marxista (lo stesso classico «Imperialismo» nella modestia dell’autore ha il sottotitolo di saggio popolare) – ci domanderemo se tutti quelli che lo citano, secondo la moda, contro la sinistra comunista, ossia contro la sola corrente fedele al marxismo, ne abbiano mai letta la prima pagina.

La prima pagina basta a distruggere il capolavoro della infamia stalinista che nei suoi effetti controrivoluzionari batté di gran lunga i nefasti di ogni social-patriota del 1914, ossia la ignobile «teoria» del socialismo in un solo paese. Intanto ancora oggi i giornali Stalin-kruscioviani e il «rettificato» «Breve corso di storia del partito comunista bolscevico» insistono nel dire che quella pretesa teoria fu fondata da Lenin!

Quale socialista destrissimo della II Internazionale è arrivato a scrivere mai falsi di tale forza come quello che prendiamo dalla «Unità» del 31 agosto 1960?
«Dal falso presupposto che le conquiste della rivoluzione socialista in Russia potessero essere difese soltanto con l’aiuto di una rivoluzione socialista mondiale, i ‹sinistri› traevano la conclusione che compito del potere sovietico fosse in primo luogo quello di stimolare la rivoluzione negli altri paesi attraverso una guerra contro l’imperialismo mondiale».

Qui è un primo falso a carico dei sinistri che volevano stimolare la rivoluzione fuori di Russia con l’azione della Internazionale dei partiti comunisti e non con una guerra dello stato russo, idea che piuttosto definisce lo «stalinismo» prima maniera, in quanto distinto dal moderno e assai più vile krusciovismo.

Ma il falso gigante è a danno di Lenin:
«Lenin dimostrò» sottolinea il nuovo manuale «come questa teoria di ‹stimolare› la rivoluzione internazionale non avesse nulla in comune con il marxismo, per il quale lo sviluppo della rivoluzione dipende dal maturare della lotta di classe all’interno dei paesi capitalistici. È questo di fatto uno dei presupposti della concezione Leninista della coesistenza pacifica»!

Dunque per i compilatori del nuovo manuale (che si vanta liberato da certi falsi del primo, come il complotto di Trotsky per uccidere Lenin al tempo di Brest-Litowsk, seguitando però a mentire che Trotsky non seguì la politica di Lenin) marxismo-Leninismo deve essere la teoria per «addormentare» la rivoluzione!

Abbiamo ricordato che il primo capitolo tratta della importanza internazionale della rivoluzione russa. Chi rilegge la esplicita definizione di Lenin sui caratteri della rivoluzione russa che hanno valore generale internazionale, non voglia dimenticare la tesi ufficiale degli odierni Leninisti del calibro dei Chruščëv e dei Togliatti. Dal tempo del XX congresso russo questi signori hanno proclamato che ogni paese ha una sua «via nazionale» al socialismo, e che quindi caso per caso essa sarà diversa dalla via russa. Ma quali sono secondo questa manipolazione i caratteri della rivoluzione russa che non sarebbero, per usare un termine di Lenin, obbligatori in tutte le altre rivoluzioni? Essi non ne fanno mistero. Sarebbero stati caratteri puramente accidentali e fortuitamente russi la stessa dittatura del proletariato, il sistema dei soviet, il terrorismo rivoluzionario, e anche, perché no? la violenza insurrezionale. La stessa distruzione del parlamento (assemblea costituente) sarebbe stata una peculiarità della rivoluzione russa, non come noi gridammo allora, entusiasti e solidali in principio col vero Lenin, la prima realizzazione della teoria marxista della rivoluzione proletaria, che attendevamo in tutti i paesi.

Leggiamo ora Lenin:
«Nei primi mesi dopo la conquista del potere politico per opera del proletariato in Russia (25 Ottobre – 7 novembre 1917), poté sembrare che le grandissime differenze esistenti tra la Russia arretrata e i paesi progrediti dell’Europa occidentale avrebbero reso la rivoluzione del proletariato in questi paesi assai poco simile alla nostra». (Pag. 550.)

Giova già fermarci, malgrado si tratti di un saggio popolare e non di un palinsesto. Anzitutto Lenin non pone in confronto rivoluzione russa e rivoluzione mondiale, ma parla dell’Europa occidentale. Nel 1920 infatti Lenin e noi con lui (a nessuno è vietato di proclamare fessi l’uno con gli altri, ma è vietato dirsi Leninista a chi pensa con indirizzo rovesciato su tutto il fronte) attendevamo la rivoluzione non in Asia e America, ma tra la Russia e l’Atlantico. Questa era la condizione perché la rivoluzione socialista in Russia non capitolasse storicamente, come ha dovuto capitolare.

Perché poteva sembrare che la rivoluzione nell’Europa ovest avrebbe avuto uno sviluppo poco simile alla russa, e in qual senso? La Russia era arretrata soprattutto nel senso politico, in quanto da pochi mesi era uscita dal dispotismo feudale, e quindi la sua rivoluzione poteva essere diversa da quella di un paese ove il dispotismo e la feudalità erano stati abbattuti da secoli, come Francia o Inghilterra. Questa e tutte le altre differenze di fatto avrebbero suggerita la previsione che la rivoluzione proletaria russa sarebbe stata più sbiadita, incerta, esitante, rispetto a quella dei paesi di pieno capitalismo, in cui la si poteva a buon diritto attendere più netta, decisa, travolgente. Basti pensare che la egemonia del proletariato e del suo partito sul «restante popolo lavoratore», postulato centrale in questa opera di Lenin, sarebbe stata nella industriale Europa di ovest assai più agevole e completa.

Solo alcuni filistei della II Internazionale, che dovevano poi essere superati solo da quelli schifosissimi sorti sul cadavere della III, potevano insinuare che terrore proletario, dittatura, dispersione dei parlamenti, fossero caratteri non europei ma «asiatici» – fin da allora questo risibile luogo comune fu coniato.

Gli opportunisti di allora lo facevano per svergognare la Russia rossa, quelli più infami di oggi lo ripetono; e pretendono che si creda che con ciò la esaltino.

Se la rivoluzione di Russia livragò un parlamento dopo pochi mesi dalla istituzione di un vero sistema elettorale, quale sarebbe stata la differenza presumibile per i paesi parlamentari da un secolo? Ci vuole la faccia cornea dei traditori odierni per insinuare che in questi paesi il parlamento divenga una possibile via al socialismo (che mai di peggio dissero i socialdemocratici del principio del secolo?), e quindi in Russia lo si sbaionettò via per sport, per distrazione, o perché il grande Vladimiro era sbronzo di vodka!

Caratteri di tutte le rivoluzioni

Lenin scrive per stabilire che, malgrado le radicali differenze nella situazione sociale e storica di partenza, i processi essenziali della rivoluzione bolscevica si presenteranno in tutti i paesi. Quali questi processi? Lo studio completo di quest’opera, e del complesso delle opere del marxismo-Leninismo non adulterato, consente di rispondere nettamente. Si capisce bene che chi pensa che gli eventi di quarant’anni abbiano dato alla storia un opposto indirizzo lo può fare, e passare ad abiurare il marxismo-Leninismo.

«Adesso [aprile del 1920] abbiamo già di fronte a noi una esperienza internazionale considerevole, la quale attesta nel modo più netto che alcuni tratti fondamentali della nostra rivoluzione non hanno una importanza locale e specificatamente nazionale, né esclusivamente russa, ma un’importanza internazionale». (Ivi.)

Qui lo scrittore teme di essere frainteso e vuole precisare.

«E non parlo qui di importanza internazionale nel senso lato della parola: non alcuni ma tutti i tratti fondamentali, e molti tratti secondari, della nostra rivoluzione hanno un’importanza internazionale, in quanto essa ha un’influenza su tutti i paesi. No: parlo qui nel senso più stretto della parola: se per importanza internazionale si intende la portata internazionale [forse sarebbe tradotto meglio il valore] o la inevitabilità storica della ripetizione su scala internazionale di ciò che accadde da noi, si deve attribuire tale importanza ad alcuni tratti fondamentali della nostra rivoluzione». (Ivi.)

Alcuni e non tutti? È esattamente la tesi della sinistra nei congressi internazionali Comunisti. Lenin lo spiega subito dopo. Ma val la pena di rilevare perché in senso lato tutti gli eventi sono di importanza mondiale, e in senso stretto solo alcuni, che passano, anzi si confermano, nel programma marxista della rivoluzione. La soppressione della famiglia imperiale ebbe importanza internazionale massima, e se ne schiamazza ancora. Ma in senso stretto non è un tratto di «inevitabile ripetizione dovunque». Nei paesi non dinastici non vi sarà tale esigenza. I figli dello zar furono uccisi per il principio ereditario dinastico; ove tale principio non esisterà, l’uccisione sarà inutile.

Dunque i tratti valevoli in senso stretto per tutte le rivoluzioni fuori Russia saranno alcuni e non tutti; alcuni saranno non valevoli. Quali e perché? Basta leggere con attenzione, e lo si apprende da un passo di peso grandissimo.

«Certo, sarebbe un grandissimo errore voler esagerare questa verità, estenderla a più di alcuni tratti fondamentali della nostra rivoluzione. Sarebbe altresì un errore trascurare il fatto che dopo la vittoria della rivoluzione proletaria, anche in uno solo dei paesi più progrediti, avverrà verosimilmente una brusca svolta, cioè la Russia cesserà in breve di essere il paese modello, e sarà di nuovo un paese arretrato (dal punto di vista ‹sovietico› e socialista)». (Ivi.)

Questa è un’idea centrale del Leninismo: la rivoluzione progredirà ben presto in Europa; dopo la sua vittoria, ad esempio in Germania, la Russia passerà in coda nel cammino sociale verso il socialismo economico, in quanto la struttura tedesca la distanzierà fortemente. L’idea di Lenin si completa col concetto che a lato di una Germania, e meglio di una Europa, sovietica la Russia sociale potrà abbreviare il cammino dalle sue vecchie economie al capitalismo e da questo, sia pure in forma statale, al socialismo.

Questa dottrina è la esatta negazione di quella insulsa del paese del socialismo, e del paese modello, del paese guida, che dopo Lenin oscenamente ha prevalso. Fra la teoria del modello da imitare, e quella del passaggio immediato della Russia in coda alla rivoluzione, corre la stessa contraddizione che tra la fognosa via nazionale al socialismo e la enunciazione possente testé riportata:
«inevitabilità storica della ripetizione su scala internazionale di ciò che accadde da noi».
La teoria del modello russo non era che la prima formulazione della odierna superstizione della coesistenza emulativa.

Tornati dalla Russia nel 1920, innanzi a folle di proletari che sembravano attendere la descrizione di una terra promessa, noi risolutamente combattemmo, da allievi umili del grande Lenin, la illusione che fossimo andati a vedere il socialismo come era fatto, come funzionava, quasi fosse un giocattolo da bambini, o una specie di sputnik, inventato, creato.

Sebbene il socialismo non fosse ancora esistito in terra, noi come marxisti sapevamo già come doveva essere fatto, e ne avevamo la certezza per il mondo e per la Russia, ove il luminoso meccanismo umano non giocava però ancora. Splendeva si la forza della rivoluzione in marcia, dura, dolorosa e accettata, verso la lontana gioia comunista, che tutti i proletari europei dovevano, e soli potevano, dare a se stessi e ai russi, qualora avessero potuto abbattere tutti gli stati borghesi del continente.

Sta nella teoria del modello la posizione antimarxista e antiLeninista, viva oggi nella nefanda teoria della coesistenza. Era Gramsci che poteva impersonare in Italia quel marchiano errore, quando commentava l’Ottobre scrivendo: «La Rivoluzione contro ‹Il Capitale›». Secondo il materialismo storico la rivoluzione proletaria in Russia, ove il capitalismo non era sviluppato abbastanza, era impossibile; se aveva vinto, la conclusione era facile: sbagliato il determinismo economico e il materialismo; vero e luminoso l’idealismo volontarista, eroe del mito Lenin, che aveva saputo violentare la storia e creare dalle condizioni più avverse il Modello, la tanto sognata Utopia. Non vi era che andare pellegrini a baciare il sacro lembo della clamide del Profeta: contemplare il modello e riportarne il racconto e il segreto alle masse aspettanti di occidente che lo dovevano copiare.

Ma Lenin è li; senza pose di messia, e perciò tanto più semplice e grande. Egli si richiama in tutto al materialismo di Marx, illumina della dialettica di quegli la storia che vive, e deride il modello; come tale esso è povera cosa e non tarderà a essere sorpassato; egli vede e anela che sia sorpassato.

Chi lo aveva creduto giustiziere del Capitale chinerà il capo e aprirà gli occhi alla luce: Gramsci infatti lo fece, fino a che la poca forza fisica sorresse l’acutezza dello sguardo.

Oggi anche la luce azzurra degli occhi di Vladimiro è spenta, ma abbiamo fra tanto di lui la svalutazione della ubbia del modello da imitare, che per tutti i tempi basta a confondere, con la potenza polemica spietata che era sua, la balorda costruzione del mondo che si fa comunista per imitazione miracolata.

Che cosa la Russia insegnò

La rivoluzione russa non aveva dunque, nella visione Leniniana, la funzione di presentare al mondo una struttura socialista, ma diversa e ben più grande funzione internazionale, cioè di insegnare i mezzi e le armi con le quali sole, dovunque il potere del capitale con tutti i suoi associati poteva essere rovesciato.

Questo insegnamento esisteva già nelle linee dorsali della dottrina, ma per la prima volta lo si poteva verificare nel fatto, nella storia.

Non si doveva andare a prendere delle fotografie dell’ordinamento russo – se pure allora assai meno di oggi infetto da stimmate autentiche di capitalismo mercantile, ed emulativo di questo maledetto occidente – ma, se è consentita l’immagine, riuscire ad avere il film cinematografico dell’evento rivoluzionario, e da questo trarre quelle che si potrebbero dire le sequenze decisive, valide in modo universale per tutta l’Europa.

In questo senso si offriva, ai nostri travolgenti entusiasmi di quel tempo glorioso, un modello non statico, ma dinamico; non una stucchevole ricetta, ma il fiammeggiare eruttivo della palingenesi sociale.

Lenin dice questo cosi:
«Ma nel presente momento le cose stanno proprio cosi: il modello russo indica a tutti [sottolinea lui, o signore carogne] i paesi alcunché di oltremodo essenziale del loro inevitabile e non lontano avvenire».

Noi lo abbiamo detto forse in modo troppo prolisso, ma la dimostrazione ci preme. Il nostro modello non è un «progetto» presente per una riproduzione presente, ma è il costrutto di una lezione del passato che deve servire per un inevitabile avvenire.

Benché l’uomo sia un animale ingenuamente imitativo, e l’umanità del 1960 ne vada dando prove pietose, nel 1920 sentimmo evidente in quella consegna la potenza del lancio dal passato al futuro, e la fede di immense moltitudini nella infallibilità della grande teoria rivoluzionaria.

Si viveva un’epoca fervida e feconda. Lenin scrisse:
«In tutti i paesi, gli operai progrediti hanno compreso ciò da molto tempo, e ancor più spesso lo hanno non tanto compreso, quanto intuito, presentito con l’istinto proprio della classe rivoluzionaria».

Istinto non cultura, emulante le scuole borghesi!

Nel corso del suo luminoso studio Lenin ci segnerà i diversi tratti essenziali della linea rivoluzionaria universale.

«Da ciò deriva l’«importanza» internazionale (nel senso stretto della parola) del potere sovietico e dei principi della teoria e della tattica del bolscevismo».
A questo punto il capitolo introduttivo dell’«Estremismo» devia in certo modo, per esigenze della polemica che come vedremo sono della più grande importanza e comportano commento attuale. Ma le parole ora scritte ci danno modo di annotare quanto Lenin promette di specificare come contenuto dei tratti fondamentali della rivoluzione russa che vorremmo dire onnivalenti.

Si tratta dei «principali» e Lenin ammette che ve ne sono di due sorta: della teoria e della tattica del bolscevismo.

Ciò che con ripercussione internazionale caratterizzò dunque il glorioso partito comunista bolscevico è un sistema di principi nella sua dottrina. Ma nessuno ha il diritto di dire che la teoria è legata a un sistema di principi mentre la tattica è libera, è spregiudicata. Quello che in vari congressi di Mosca la nostra sinistra sostenne, si basa su questa formulazione di Lenin stesso: anche per la tattica, e non solo per la teoria, occorre stabilire un sistema di principi; di più essi devono essere validi per tutti i paesi e i partiti dell’Internazionale. Le «Tesi di Roma» 1922 ne furono un saggio.

Il testo accusa i capi traditori della II Internazionale ed i capi centristi come Kautsky, Bauer, Adler che – pur non essendo dei triviali social-patrioti – col non capire la validità generale del sistema di principi teorici e tattici che avevano condotto alla vittoria il partito bolscevico «si rivelarono reazionari» e traditori. Lenin qui schiaffeggia la pedanteria, la bassezza e l’ignominia di un opuscolo (che era di Bauer) intitolato «La Rivoluzione mondiale», che ipocritamente contrappone gli immaginari caratteri democratici, pacifici e incruenti (oggi abbiamo il diritto di aggiungere «emulativi») della rivoluzione mondiale a quelli della rivoluzione russa, anzi a quei caratteri di essa che devono essere di tutte le rivoluzioni e sulla linea dei quali nel 1920 si conduceva – sapendo bene che si giocava il tutto per tutto – la battaglia della rivoluzione nell’Europa occidentale.

Dopo questa staffilata ai centristi, Lenin, avendo nominato Kautsky, tiene a mostrare che quando questi era un marxista, nel lontano 1902, aveva scritto un articolo dal titolo «Gli slavi e la rivoluzione», in cui ammetteva che il timone della rivoluzione europea poteva passare nelle mani dei proletari russi; dopo che il centro rivoluzionario aveva mostrato di essere in Francia nella prima metà del secolo decimonono e talvolta in Inghilterra, e nella seconda metà in Germania. Kautsky, che nel 1920 trivialmente insultava la Russia rivoluzionaria, e contestava in modo truffaldino il principio della dittatura, aveva trent’anni prima liricamente concluso che forse era riserbato agli slavi, che nel '48 furono il rigido gelo che spezzò i fiori della primavera dei popoli, di essere l’uragano che, travolgendo lo zar e il suo alleato, il capitale europeo, avrebbe infranto il ghiaccio della controrivoluzione.

Scriveva bene Kautsky diciotto anni fa, Lenin, esclama, quel Lenin che fino alla non lontana morte scrisse sempre nello stesso modo. Oggi noi possiamo fare eco: scriveva bene Kautsky cinquant’otto anni fa!

La crosta ghiacciata si è richiusa sulla impresa ultra memorabile dei proletari slavi, e sulla lastra tombale di questo ghiaccio è scritto: pacifismo, coesistenza, distensione, via democratica e parlamentare al socialismo!

Mentre Lenin disonorò la infame Lega delle Nazioni come fortezza del capitale, la Russia di oggi, che lo ha abiurato, scrive quelle epigrafi funerarie sui non meno luridi tavoli verdi della Organizzazione delle Nazioni Unite.

I rivoluzionari marxisti non conducono certo una Olimpiade del tempo moderno, che si passi la fiamma della rivoluzione comunista. Ma se Marx ed Engels, un non ancora spento Kautsky, e un sempre luminoso Lenin, videro questa consegna da Inghilterra a Francia a Germania e a Russia, oggi che la Russia è caduta dopo essersi coperta di gloria, oggi noi, sicuri che la grande fiamma divamperà ancora, pensiamo all’Europa occidentale che Lenin vaticinò all’inizio dell’«Estremismo», sola che possa levarsi contro la emulativa oppressione della turpe America e della degenerata Russia, e fare forse leva, mentre i sinistri diplomatici delle due sponde manovrano lubrici la questione della calpestata Germania, su questo paese che (sia pure con lungo processo) può intravedere nella storia una rivoluzione del proletariato che si levi contro America e Russia, nemiche o amiche che siano.

Forse mezzo secolo, che noi bianchi abbiamo perduto, potrà essere riguadagnato nella marcia, che fragorosamente accelera, dei fratelli gialli e neri!

La dittatura e i filistei

Non lasceremo questo capitolo introduttivo del testo di Lenin senza svolgere alcune deduzioni dal suo attacco sterminatore ai nominati Karl Kautsky, Otto Bauer e Friedrich Adler, perché per noi è storicamente di significato immenso che Lenin abbia sempre diretto i suoi colpi più acerbi contro questi tipi, detti in quegli anni centristi, indipendenti, internazionalisti due e mezzo, che stavano a mezz'acqua tra la II e la III. Lenin li considera più pericolosi dei destri, socialdemocratici, o social-patrioti, aperti alleati e scherani della borghesia, i cui nomi potevano essere Scheidemann, Noske, Vandervelde, MacDonald, ecc., con le loro turpi gesta di guerra e di dopoguerra.

Infatti in Germania Kautsky fu uno dei primi a costituire l’opposizione contro la maggioranza parlamentare social-patriottarda (non va dimenticato a proposito del bilancio del parlamentarismo di cui diremo a suo luogo, che lo stesso Karl Liebknecht il 4 agosto 1914, curvandosi davanti alla disciplina di partito, che era poi la disciplina del gruppo parlamentare, votò purtroppo silente a favore dei crediti di guerra al governo del Kaiser). In Austria poi Bauer e Fritz Adler, figlio del vecchio marxista Victor, erano i capi di quello che si chiama austro-marxismo (come se ci potessero essere marxismi nazionali!): e si ricorderà che a Vienna Fritz fu processato per la sua coraggiosa opposizione alla guerra.

Ma tipi simili, come teorici – e ne sfruttavano la fama di più decenni – pretesero che vi fosse incompatibilità tra marxismo e dittatura, e diffamarono acidamente il bolscevismo e il Leninismo come una violazione del sano so-cialismo. Secondo quella gente i marxisti avrebbero il dovere di non violare le norme del libero consenso democratico, delle adesioni dal basso, del parere liberal-democratico della maggioranza dei «cittadini», e furono essi a costruire la più vergognosa delle falsificazioni di Marx.

Contro di essi si getta Lenin a ferro e fuoco, e questo è un insegnamento storico che noi, testimoni e militi di quella storica battaglia all’ultimo sangue, non abbiamo mai dimenticato. Questa posizione reale, pratica, materiale, che i nostri eterni contraddittori chiamerebbero con l’aggettivo borghesoide di «concreta», noi oseremo oggi dirla più eloquente, come dettato e insegnamento, della stessa insuperata forma scritta della polemica di Lenin. Nelle sue colossali responsabilità davanti alla storia, questo sommamente antiscolastico guidatore di masse non doveva prestare il fianco al facile successo dei rinnegati, davanti alla immaturità dei proletari appena usciti da una rivoluzione antidispotica, come sarebbe avvenuto se avesse scritto apertamente: Della consultazione e del consenso numericamente manifestato non solo ce ne freghiamo, ma siamo certi che quando si va in senso contrario a questi avanzi patologici della servitù e del servilismo dell’epoca borghese allora si è sulla diritta via.

Ma quelli che allora erano giovani, e non hanno subita corruzione, non potevano dimenticare la norma (anche se non si trovasse scritta in tesi e in libri di teoria): Picchiate feroci sul vicino, l’affine, il cugino; e non sbaglierete mai!

Da un lato abbiamo l’esempio di Lenin, ossia della vita rivoluzionaria di quegli anni nella realtà degli scontri tra milioni di uomini, dall’altra la fine miseranda e infame degli stolti, che con largo impiego della spudorata falsificazione di quello che Lenin scrisse, e di quello che compì, hanno seguita la norma opposta, che consiste nel blocco, nel fronte, nell’isolamento a destra di un fittizio nemico, nel ché non sta che la ripetizione di quello che fecero i traditori della prima guerra mondiale. I campioni della terza ondata storica della peste opportunistica non si sono fermati al blocco con i socialisti di centro e di destra, ma sono passati ben oltre – non in tempo di guerra ma anche in tempo di pace – fino al blocco con democratici e liberali borghesi e con cattolici, e socialmente non solo con proletari traviati ma con piccoli borghesi, e infine dichiaratamente con una media borghesia imprenditrice.

Le questioni di teoria non si distinguono da quelle pratiche. Lenin non si dilettava puramente a confondere quei professori sulla falsa esegesi di Marx; si trattava di ben altro: quelle canaglie, nel momento in cui eserciti sorretti dalle borghesie occidentali si lanciavano a spegnere nel sangue il potere bolscevico e la rivoluzione tutta, solidarizzavano con i bianchi, ne auspicavano la vittoria come punizione del reato di «dittatura» e di «terrorismo» consumato dalla gloriosa avanguardia Leninista. Noi abbiamo allora appreso che sempre, quando la vittoria del proletariato starà per essere colta sulla sola via storica «inevitabilmente prevedibile», quella canaglia cuginastra e frontastra agirà cosi, e il proletariato, se non lo avrà saputo, cadrà tradito.

Non per niente quando Kautsky, il più truculento antibolscevico, scriverà così, mentre in Russia si risponde a cannonate, Lenin stenderà «La dittatura proletaria e il rinnegato Kautsky», e Trotsky il formidabile testo «Terrorismo e comunismo».

In che da Kautsky e mala compagnia differiscono quelli che oggi proclamano che dittatura e terrore furono metodi «peculiari della Russia 1917» e che ora vanno risparmiati agli altri paesi? Non sono anche essi, come Lenin pronunziò in una condanna senza appello, marxisti-liberali, marxisti passati armi e bagagli al liberalismo e alla borghesia?

La diffamazione è sempre quella

Ancor oggi si possono scrivere i nomi dei signori Bauer e Adler (vedi «Messaggero» di Roma del 2 settembre 1960) per ricordare la loro critica del bolscevismo e nello stesso tempo per cercar di dichiarare battuta la loro teoria di un movimento di successo proletario e socialista «senza dittatura e terrore»; il che nella sostanza è giusto (siamo sempre lì, dall’estremo opposto si vede meglio che dalle panche prossime a noi, se è lecito usare questa immagine da baraccone parlamentare).

Un polacco, Deutscher, dopo la morte di Stalin ha scritto un libro dal titolo «La Russia dopo Stalin». La tesi di questo recente scrittore è che la Russia moderna evolve verso una forma liberale o socialdemocratica che dir si voglia. Ma un altro «russologo» americano, il Croan, ha contestato al Deutscher che la sua tesi non era nuova, ma era la stessa del famoso Otto Bauer in un suo libro del 1931: «Capitalismo e socialismo verso la guerra mondiale».

Se dopo quarant’anni ci troviamo ancora tra i piedi un Otto Bauer che Lenin aveva fatto fuori per sempre, di chi mai è la colpa se non dei pretesi allievi e fetidissimi falsificatoti del Leninismo?



Source: Tratto da «La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin», ediz. «Il Programma Comunista», 1964

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