LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


IL TESTO DI LENIN SU «L’ESTREMISMO, MALATTÌA D’INFANZIA DEL COMUNISMO», CONDANNA DEI FUTURI RINNEGATI (III)


Il testo più sfruttato e falsato da oltre cento anni da tutte le carogne opportuniste, e la cui impudente invocazione caratterizza e definisce la carogna


Content:

Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati
Premessa
I. La scena del dramma storico del 1920
II. Storia della Russia o dell’ umanità?

III. Cardini del bolscevismo: centralizzazione e disciplina
Condizioni universali
La dittatura è una guerra
Solidarietà delle borghesie
Il pericolo sociale
Storia del bolscevismo
La teoria, base primaria del partito
Sorgere della teoria rivoluzionaria
La teoria e l’azione
La costruzione di Lenin
Le tattiche e la storia
«Ultime parole» da occident
La sinistra in Italia
Notes
Source

IV. Corsa storica (concentrata nel tempo) del bolscevismo
V. Lotta contro i due campi antibolscevichi: riformista e anarchico
VI. Chiave della «autorizzazione ai compromessi» che Lenin avrebbe data
VII. Appendice sulle questioni italiane


Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati

III. Cardini del bolscevismo: centralizzazione e disciplina

Sono essi che dal XX congresso recitano la bassa commedia di essersi pentiti della dittatura e del terrore, sviluppi non propri della rivoluzione anticapitalistica ovunque scoppi, ma solo per ragioni «locali» dell’Ottobre russo. Naturalmente per la cricca del Cremlino la dittatura non deve essere un mezzo di lotta del proletariato rivoluzionario mondiale; questo deve usare la cultura, la civiltà e la emulazione al posto del terrore, ma la dittatura il terrore e mezzi anche più truculenti vanno benissimo ancora quando è in gioco il loro potere!

Quale la dottrina «marxista» di Bauer-Deutscher? Stalin aveva ripreso e fatto suo il motto di Lenin, che cioè la rivoluzione russa erano i soviet più la elettrificazione. Aveva Stalin secondo costoro cancellato i soviet, pretesa rappresentanza democratica autentica di popolo nelle assemblee politiche (sono invece una struttura di classe per la dittatura, che, come Lenin nel testo in esame dimostra, falliscono se non vi è la dittatura del partito rivoluzionano, e non sono una nuova risibile arena per il danzare del pluripartitismo) ma aveva, Stalin, fatta la elettrificazione. Non solo, ma con questa la educazione scolastica e tecnologica del popolo russo. Tali sono le premesse di ogni ammirevole sistema democratico, atmosfera in cui secondo questi signori respira il socialismo, e Stalin senza volerlo né saperlo aveva gettato le basi della nuova Russia parlamentare, liberale, e pluripartitica, con libere elezioni, ecc.

Contro questa vecchia tesi di Bauer si era scagliato lo stesso Kautsky, il cui velenoso temperamento lo aveva fin da allora condotto a dire che il delitto della dittatura non poteva essere sanato che da una repressione armata dall’esterno, cui egli oscenamente plaudiva.

Kautsky ingiuriò il «sozio» Bauer per il suo ottimismo su una «sana» evoluzione della Russia, mentre il terzo nostro uomo, Adler, prese le difese di Bauer. Non è errato dire che Adler era mosso non da fiducia nel democratizzarsi di Stalin, ma da timore del totalitarismo fascista che invadeva l’Europa, e dalla speranza, poi realizzata (Adler allora parlava come segretario della II Internazionale, che ha potuto sopravvivere alla III, o vergogna delle vergogne), della salvezza della democrazia borghese dal pericolo fascista ottenuta con l’alleanza russa (infamia e svergognamento supremo della tradizione bolscevica).

Ma gli ondeggiamenti di questi professionisti dell’opportunismo non hanno tale importanza da oscurare il significato fondamentale della loro tesi.

Questa era cosi formulabile: La rivoluzione proletaria e socialista nei paesi «evoluti» e «civili» si svolgerà in forme che escludono la dittatura e il terrore. In Russia hanno giocato cause che la distinguevano radicalmente dai moderni paesi progrediti. Tali cause erano non solo lo zarismo ma soprattutto la pretesa spaventevole ignoranza del popolo russo. Se questo non fosse stato tanto incolto, non avrebbe tollerato i metodi di quel despota asiatico che, per quei buffoni, era Lenin.

Noi vedemmo all’opposto in quel metodo glorioso l’incontro tra il formidabile istinto rivoluzionario del geniale proletariato russo con la formidabile conquista della visione della storia attinta dal suo grande partito marxista, che possedeva la scienza dell’avvenire quando i vili professori dell’ovest razzolavano nella spregevole cultura del passato.

L’istinto è in ragion contraria della cultura diffusa dalla classe dominante con le sue innumeri spregevoli scuolette. Noi ammiriamo un proletariato che non ha titoli di studio neanche elementari, ma ha il titolo supremo di possedere, perché la vive, la verità rivoluzionaria da cui la scienza borghese dista ancora secoli e secoli.

Vana quindi la storiella che Stalin si mise sulla via della culturetta scolastica e con questa portò il popolo russo all’altezza del socialismo. In tal modo il popolo russo non fu che portato all’altezza dell’imbecillità borghese, irta di tecnologie e di collegi accademici, di ipocrite preterie di auguri moderni della cosiddetta «scienza che avanza», in un mondo che vilmente rincula.

Se da questo corbellamento culturale del popolo russo non è uscito il liberalismo parlamentare, ciò non prova che la spiegazione deterministica non vi sia. Dialetticamente la borghesia vive un’epoca di progresso libero, illuministico, che nella prima fase non è di classe soltanto, ma anche umano. Marx descrisse che nella seconda fase, nelle sottostrutture come nelle sovrastrutture, avrebbe seguitato a salire come classe e forma di classe (e sale il capitalismo in America e in Russia) ma avrebbe affondato paurosamente in un’organizzazione sociale disumana e oscurantista.

La dittatura urge, perché in questo mondo degenera asfissiandoci la società capitalistica e diviene più fetente per l’effetto tra le masse della sua scuola, dei suoi mezzi pubblicitari, e del suo strombazzare conquiste.

Tanto non potevano capire i Bauer e gli Adler, tanto non possono capire tutti i moderni pennaioli, e ogni sciaguratello che di quando in quando cade con essi nel liquame da fogna.

Condizioni universali

Nel secondo paragrafo il lavoro di Lenin tratta delle principali condizioni che assicurarono ai bolscevichi russi il successo nella rivoluzione di Ottobre, ossia di quelle condizioni che dovranno realizzarsi in tutti i paesi d’Europa perché il proletariato conquisti il potere. Diciamo di Europa perché la prospettiva probabile del 1920 si stendeva sull’Europa occidentale; ma può ben riferirsi a qualunque paese del mondo in cui il proletariato aspiri alla vittoria.

Lenin, mentre scrive, ha dinanzi a sé due realizzazioni storiche: conquista del potere in Ottobre 1917 e vittoriosa difesa di esso da tremendi assalti per due anni e mezzo. Le sue parole sono queste:
«È certo che ormai tutti vedono come i bolscevichi non si sarebbero mantenuti al potere, non dico due anni e mezzo, ma nemmeno due mesi e mezzo, se non fosse esistita una disciplina severissima, veramente ferrea, nel nostro partito, e se il partito non avesse avuto l’appoggio totale e pieno di tutta la classe operaia, cioè di tutto quanto vi è in essa di pensante, di onesto, di devoto fino all’abnegazione, di influente e capace di condurre dietro a sé o attirare gli strati arretrati». (Pag. 552.)

Prima che Lenin spieghi la vitale necessità del fattore disciplina, da tante parti sospettato e contestato, e definisca da suo pari il senso della disciplina nel partito e nella classe, citiamo un periodo che verrà poco oltre e che al concetto-base comunista della disciplina mette in parallelo l’altro non meno essenziale della centralizzazione, chiave di volta di ogni costruzione marxista.
«Ripeto: l’esperienza della vittoriosa dittatura del proletariato in Russia ha mostrato all’evidenza, a coloro che non sanno pensare o non hanno mai dovuto meditare su questo problema, che una centralizzazione assoluta e la più severa disciplina del proletariato sono condizioni essenziali per la vittoria sulla borghesia». (Ivi.)

Lenin sa che in quell’epoca, anche in elementi che si autodefinivano di sinistra, vi erano esitazioni su queste due formule che sempre hanno avuto sapor di forte agrume: «centralizzazione assoluta» e «disciplina ferrea».

La resistenza a queste formule deriva dalla ideologia borghese diffusa nella piccola borghesia e da questa pericolosamente tracimante nel proletariato, vero pericolo contro il quale questo scritto classico è stato levato.

La borghesia ha idealizzato il suo compito nella storia con la maledizione al dispotismo delle monarchie assolute, a cui contrapponeva la libertà del singolo cittadino nei suoi moti economici svincolati dal controllo dello stato centrale, e alla oppressione delle coscienze da parte dei poteri religiosi che esigevano cieca obbedienza.

Il radicalismo borghese aveva educato alla retorica del libero pensiero, e ogni richiamo a una disciplina delle idee veniva accolto come un ritorno all’oscurantismo clericale. L’organizzazione economica capitalista, il cui vero passo in avanti storico era stato il concentrarsi di disperse forze produttive e un reale concentrarsi di potere nello Stato contro lo sparpagliamento feudale centrifugo, si truccava sotto la letteratura della autonomia delle private iniziative e il liberalismo economico. Il parlare di centralizzazione veniva respinto come un rinculo nel cammino verso la libertà e un tradimento del liberalismo la cui esasperazione era il libertarismo, che pur seduceva fin dal secolo decimonono alcuni strati proletari.

Una delle false ragioni per cui la diffidenza verso la forma partito era pericolosamente alimentata, era che il partito, obbligando tutti a pensare allo stesso modo, era una chiesa, e facendo partire tutte le decisioni da un centro era una caserma. In buaggini di questa natura, che da decenni e decenni hanno disturbato il nostro lavoro, sta il vero infantilismo contro cui Lenin muove senza debolezze; ma contro il quale con pari energia ha sempre lottato la sinistra marxista e in ispecie quella italiana. Sì, – dicemmo sempre ai compagni, forse in modo più imprudente del sommo Lenin, e quindi più azzannabile da generazioni di scagnozzi filistei, non oggi ancor spente, – se io sono nel partito la mia testa personale e i suoi pruriti critici dovranno tacere sette volte al giorno, e le mie azioni non verranno dalla mia volontà individuale ma da quella impersonale del partito, come la manifesta e detta la storia a mezzo dell’organismo di esso.

Da quale microfono detta ordini questa forza collettiva? Contestammo sempre che vi fosse una regola meccanica e formalistica: non è la metà più uno che ha il diritto di parlare, anche se in molti trapassi servirà questo metodo borghese; e non accettiamo come regola metafisica la «conta delle teste» entro il partito, il sindacato, i consigli, o la classe: alcune volte la voce decisiva verrà dalla massa in sommovimento, altre da un gruppo nella struttura di partito (Lenin non ha paura, come vedemmo, di dire: oligarchia), altre volte da uno solo, da un Lenin, come nell’aprile del 1917 e nello stesso Ottobre, contro il parere di «tutti».

La dittatura è una guerra

Il nostro è soprattutto materialismo sperimentale, ed è la lezione della storia che ci guida, dice qui Lenin. Se in Russia abbiamo vinto è certo che l’evento è seguito all’accettazione della disciplina, all’impiego della centralizzazione: due condizioni della vittoria della dittatura del proletariato. Accettazione totale della disciplina e della centralizzazione può condurre al caso estremo che pochi o uno parlano e decidono, gli altri, non convinti, o decisi del tutto, obbediscono ed eseguono. E passa la storia rivoluzionaria.

Vediamo ora in un passo formidabile il contrasto atroce tra disciplina e uzzo stupido di «voglio pensarla colla mia testa personale», proprio dell’individualista anarchico; tra centralizzazione e dispersione, autonomia, frammentazione molecolare della produzione economica e delle forme sociali.
«La dittatura del proletariato è la guerra più eroica e più implacabile della classe nuova contro un nemico più potente, contro la borghesia, la cui resistenza è decuplicata dal fatto di essere stata rovesciata (sia pure in un solo paese) e la cui potenza non consiste soltanto nella forza del capitale internazionale, nella forza e nella solidità dei legami internazionali della borghesia, ma anche nella forza dell’abitudine, nella forza della piccola produzione; poiché, per disgrazia, la piccola produzione esiste tuttora in misura molto, molto grande, e la piccola produzione genera il capitalismo e la borghesia, ogni giorno, ogni ora, in modo spontaneo e in vaste proporzioni. Per tutte queste ragioni la dittatura del proletariato è necessaria, e la vittoria sulla borghesia è impossibile, senza una guerra lunga, tenace, disperata, per la vita e per la morte, una guerra che richiede padronanza di sé, disciplina, fermezza, inflessibilità e unità di volere». (Pag. 552.)

In queste parole, in cui abbiamo lasciate le sottolineature che Lenin stesso vi pose, ricorrono una serie di concetti su tutti i quali, a costo di essere giudicati pedanti, si ha il dovere di fermarsi con riflessione profonda.

L’atto rivoluzionario che l’anarchico e il rivoluzionario infantile vedono istantaneo, o quanto meno ridotto alle proporzioni di una battaglia, che per il borghese era una giornata, è invece solo l’apertura di un periodo di guerra sociale che è la dittatura rivoluzionaria. Le ragioni sono di diverso ordine, prima interno, nazionale – diremo – poi internazionale, poi «sociale».

Anzitutto togliere il potere alla grande borghesia (magari fosse già tutta monopolista, perché la vittoria iniziale sarebbe più facile e la guerra più breve) non vuole dire averla sradicata dalla società economica. Il senso della dittatura è che da quel momento i partiti borghesi sono dispersi, e nessuna rappresentanza hanno più i borghesi come classe e come persone nel nuovo Stato. Il senso del terrore di classe è che si fa loro intendere che ogni tentativo di riprendere voce politica avrà per risposta lo sterminio delle persone. Ma ciò non vuol dire che la minoranza borghese sarà da quel giorno soppressa o esiliata. In non poche aziende, come nei primi anni russi dopo il 1917, il padrone resterà sottoposto solo al controllo, non tanto dei suoi operai, quanto dello stato proletario. Periodo estremamente pericoloso, ma meno del totale arresto della produzione fisica, che nella illusione libertaria, da quella «giornata», andrebbe avanti per il famoso associazionismo spontaneo dei produttori!

Dunque la debellata (in sede politica) borghesia è ancora più potente (Lenin è cristallino ma sfida l’accusa di paradosso!) e, per le varie ragioni che seguiamo, con ordine paziente, dieci volte più di prima! Per ora può bloccare una fabbrica di munizioni e determinare la sconfitta al fronte ove agiscono eserciti delle altre borghesie nazionali. Un plotone di esecuzione di fabbrica sarà pronto; ma se per esso bastano otto pallottole, lo sparo lascerà senza armi un intero reparto rivoluzionario.

Ragioni dunque di produzione, non solo di alimenti ma anche di armi, rendono la borghesia pericolosa anche dopo che le si è tolto il potere ma non le si può ancora togliere ogni funzione produttiva e direttiva, tecnica.

Solidarietà delle borghesie

Vi è poi la difficile questione internazionale. Noi non facevamo e non facciamo per il futuro l’ipotesi che la borghesia nello stesso giorno perda il potere politico in diversi stati capitalistici. Se cadessimo in questo insidioso inganno saremmo vittime del tranello dei socialdemocratici che pretendono che si rinunzi a prendere il potere «in un solo paese». Questo lo si dovrà sempre fare, e sarà solo così che la rivoluzione mondiale potrà storicamente incominciare. Sarà sempre il più debole degli stati borghesi che faremo cadere, e nel 1917 era il giovanissimo stato russo, proprio perché appena uscito dalla caduta del regime feudale.

La parentesi che avete letto in Lenin significa che per noi, dal punto di vista della «vittoriosa dittatura proletaria» il caso meno favorevole è quello in cui gli altri stati sono ancora nelle mani della borghesia. Se in un certo periodo storico cadessero alcuni altri stati prossimi, la situazione della dittatura comunista prima vittoriosa sarebbe notevolmente migliorata. Queste ipotesi sembrano oggi astratte, ma allora erano state prossime a realizzarsi. Nel gennaio 1919 in Germania la rivoluzione spartachista, gloriosamente tentata, avevamo tutti sperato di vederla vittoriosa. Nel 1919 cademmo dopo avere vinto, e cademmo per errori che si potevano evitare (esitazioni di tipo demo-libertario nell’applicare la dittatura), in Ungheria. Poco dopo avvenne lo stesso o quasi in Baviera. Lenin parla perché questi momenti tremendi erano allora davanti agli occhi di tutti gli europei del tempo, e teme ulteriori insuccessi se vi saranno manchevolezze nel colpire e nell’agire. Non va dimenticato che nel 1920, durante le stesse settimane del II congresso, si combatteva la guerra russo-polacca e si era a pochi chilometri da Varsavia. La interposizione degli stati rapidamente formati dopo la vittoria sulla Germania e l’Austria aveva formato un cuscinetto tra la Russia rossa e le cittadelle di Berlino, Budapest e Monaco, cadute senza poter ricevere aiuto. Se Varsavia fosse stata presa, sia pure in un’operazione puramente militare, dato il forte proletariato e partito comunista polacchi, il programma di conquistare l’Europa centro-occidentale si sarebbe ravvivato nella storia. Ma la occhiuta borghesia di Francia sostenne con i suoi mezzi e i suoi «eroici» generali la vacillante sorella di Polonia, e l’onda rivoluzionaria fu fermata. (Sono note le polemiche fra Trotsky e Stalin sulla sciagurata deviazione delle puntate russe dall’obiettivo vitale di Varsavia. Un telegramma sbagliato può cambiare la storia di decenni e decenni).

Ciò che Lenin dice in questo testo è che nessun alleggerimento venne alla prima dittatura di Mosca che sola aveva rovesciata una borghesia statale, e che la sua lotta continuò nelle peggiori condizioni, perché il fattore internazionale giocò nella forza del capitale e nella solidità dei legami internazionali borghesi, come abbiamo letto.

Prima quindi di passare all’importantissimo punto sociale, che esige il vigore della dittatura dato da centralismo e disciplina, è bene notare come per Lenin non si trattasse mai della frase fognosa: disinteresse per gli affari interni dei paesi stranieri a diverso regime!

Tutta la preoccupazione di Lenin e di tutti i rivoluzionari comunisti del tempo in cui si formò la III Internazionale era di fare leva sul potere proletario in Russia, e in primo luogo sui formidabili insegnamenti che aveva dato la sua esperienza, confermando luminosamente la «giustezza della teoria rivoluzionaria marxista» (che subito incontreremo), per influire sull’equilibrio interno degli «altri paesi», per farlo saltare, per travolgere la loro struttura costituzionale. Lenin qui discute e sceglie i mezzi; e ci vuole insegnare che sarebbe apriorismo metafisico e non marxismo scartarne qualcuno perché non bello, non elegante, o non simpatico, o non pulito, come scioccamente facevano molti infantili di sinistra. Ma prima bisogna capire lo scopo. Secondo Lenin, in date circostanze, lavorando nel parlamento si può dare opera a turbare l’equilibrio nazionale e a far saltare la costituzione borghese. Non vi sono ragioni «a priori» per rifiutarsi di discutere questa possibilità su basi positive, e diremo di più non si può escludere che si possano dare situazioni storiche in cui si giunga alla risposta affermativa. Ma quando si va nel parlamento per rispettare e difendere la struttura costituzionale e incitare le masse a eternarla, allora il problema di Lenin non si pone più: sono i suoi scopi che sono stati capovolti e rinnegati.

Non stiamo ora ancora trattando il parlamentarismo, ma avremo agio di mostrare come Lenin pone il problema: Per far crepare al più presto il parlamento è utile agire di fuori o di dentro? Noi eravamo perplessi sulla sua soluzione, e lui sulla nostra, ma di fronte a quelli che «rispettano il regime interno e la costituzione parlamentare» d’Italia, o di Pincopallinia che sia, avremmo, lui e noi minimi, tirato a gara a palle infuocate contro simile carogname.

Il concetto che la borghesia dopo la vittoria della dittatura è ancora un nemico potente, Lenin lo ripete tal quale in altro passo, dove tratterà dei «compromessi». Sono quasi le stesse parole:
«Dopo la prima rivoluzione socialista del proletariato, dopo l’abbattimento della borghesia in un paese, il proletariato di questo paese resta per molto tempo più debole della borghesia, anche semplicemente in forza dei formidabili legami internazionali della borghesia, poi in forza della ricostruzione, della rinascita, spontanea e continua, del capitalismo e della borghesia per opera dei piccoli produttori di merci nel paese stesso che ha abbattuto il dominio borghese». (Pag. 586.)

Quando quindi il modernissimo carogname dice che Lenin fondò la teoria che il paese della vittoria socialista isolata deve guardarsi dallo stimolare la rivoluzione negli altri paesi, invitandoli a «esistere» pacificamente con piena struttura capitalista, occorre ancora rispondere? Lenin aveva già risposto da quarant’anni, con due prospettive esatte di cui si è verificata quella a noi contraria. La prospettiva buona è quella che il paese della vittoria politica socialista riesca a far esplodere la rivoluzione in molti paesi esteri, e così il suo proletariato da debole diventi forte contro le resistenze interne. Ovvero, come secondo Stalin, esso rinunzia alla stimolazione della rivoluzione internazionale, e allora il mercantilismo interno, i piccoli produttori di merci, generano spontaneamente il capitalismo sociale interno e la danno vinta alla borghesia internazionale – convivano dunque pure sconciamente con essa, e presto con essa connubino!? – oltraggiando turpemente la tradizione di Ottobre e la dottrina di Lenin.

Noi comunisti rivoluzionari abbiamo perduta la guerra di classe, ma, se non la nostra organizzazione di partito mondiale, – giusta il timore che la sinistra espresse invano a Lenin stesso – si è salvata la «giustezza della nostra teoria». Quelli che si vantano oggi di leninismo sono nel fondo del pantano stercorario; Lenin come teorico della storia resta altissimo e intatto.

Il pericolo sociale

Il proletariato comunista ha vinto e il suo partito tiene nel saldo pugno la dittatura; e a parte il pericolo che viene d’oltre frontiera anche dopo che è stata vinta la guerra civile delle bande bianche, resta un pericolo interno sulla cui definizione Lenin non dà formule dubbie: la piccola produzione.

Nel senso marxista la piccola produzione è più pericolosa della grande, dopo la dittatura e prima; e il processo per cui le schiere dei ceri piccoli produttori soccombono può dai comunisti essere denunziato alla illusa piccola borghesia, ma non può essere contrastato e scongiurato.

In innumeri occasioni abbiamo mostrato la potenza di questa tesi non in alcune frasi ma in tutte le pagine di Marx e di Engels.

In Lenin la dialettica marxista attinge il suo vertice, ed è arduo il seguirlo; tuttavia i rinnegati non hanno peccato per ignoranza ma per aperta carogneria. La parola italiana carogna indica in senso proprio il cadavere di un animale che non ha colpa del proprio fetore, a cui l’animale-uomo provvede col rito e il mito più labile, quello dell’interramento. Ma noi la parola la usiamo in senso figurato, da buoni ospiti delle patrie galere. In galera il delinquente non spregia l’altro delinquente, come lui sventurato, in cui d’istinto vede la vittima, e non fa graduatorie di nefandezze. Una categoria è esclusa: la carogna, ossia la spia, il delatore all’organismo carcerario che tutti opprime, colui che per una vile moneta rende più amara la sorte dei suoi compagni.

Tornando al passo di Lenin, si noti che la espressione piccolo produttore di merci ha lo stesso valore di quella di componente delle masse lavoratrici non proletarie. Quando parla di questa collettività sociale (che comprende contadini piccoli proprietari e artigiani cittadini, e forme affini), Lenin sostiene che il proletariato rivoluzionario deve farne dei suoi alleati, e lo sostiene non solo per la fase della lotta contro lo zarismo ma anche per quella successiva della lotta contro la borghesia capitalista industriale e agraria. Ma quando Lenin parla di questo tipo economico e sociale, di questa forma spuria presente non solo in Russia ma in molti altri paesi d’Europa in varia misura, ma sempre con rilevanza numerica quantitativa, allora Lenin indica in questa forma il maggiore pericolo per la affermata dittatura proletaria. Fino a quando questo tipo economico della piccola produzione di merci, agricole e manufatte, sarà tollerato nella società in trasformazione, vi sarà una base da cui inevitabilmente, usando le stesse parole di Lenin, si genererà, ogni giorno e ogni ora, con rinascita spontanea e continua, il capitalismo, la borghesia.

Come la dittatura comunista eviterà questo rigenerarsi? Non certo sterminando i ceti contadini e artigiani o piccoli produttori in genere, che possono essere statisticamente più numerosi dello stesso proletariato. Se la stessa borghesia industriale la dittatura non può fisicamente sterminarla, né esiliarla o incarcerarla, per un certo tempo in cui sarà ancora indispensabile alla produzione, si tratterà di un tempo molto più lungo per quelle classi. Mentre con una certa rapidità si potrà abolire la proprietà privata di grandi imprese, si dovrà lungamente tollerarla in queste imprese minime (e non solo minime). Sulla durata di queste fasi e l’errore che Stalin le abbia abbreviate nel 1928 con la pretesa collettivizzazione e sterminio dei kulaki o contadini ricchi, abbiamo detto tutto nei tanti nostri studi sulla struttura russa, in quello ancora oggi in pubblicazione (in «Il Programma Comunista», estate-autunno 1960), nel «Dialogato coi Morti» (1956) e in «L’économie russe de la révolution d’Octobre a nos jours» (1963).

Quale allora il rimedio voluto e proposto da Lenin a questo gravissimo pericolo, nel tempo che il proletariato deve «coesistere» (qui purtroppo la parola calza) con le classi della piccola produzione mercantile? Esso è per il momento un rimedio solo politico e di partito; ed è esplicitamente indicato nella disciplina e nella centralizzazione. Questo era ciò che tempestivamente i bolscevichi avevano capito, e che permise loro la vittoria nella colossale «manovra» di utilizzare l’odio dei contadini e di alcuni strati di piccola borghesia lavoratrice contro lo zarismo e la borghesia russa fino a poco prima sua alleata, assicurando però la direzione egemonica del proletariato su quelle classi ibride e la prevalenza del partito comunista che a poco a poco travolse e distrusse le organizzazioni politiche che da quei ceti si esprimevano: partito socialdemocratico menscevico, e partito populista socialrivoluzionario, fautori di una formula non marxista e non proletaria della rivoluzione russa.

È indubitabile che in termini non eufemistici centralizzazione e disciplina si risolvono in una chiara subordinazione. Le classi piccoloproduttrici sono sottoposte al proletariato, classe egemonica nella rivoluzione; e quando Lenin parla di disciplina nel partito ma anche nel proletariato, intende che tutta la classe proletaria si subordini alla stretta direzione della sua avanguardia, organizzata nel partito politico comunista.

Era questa posizione del partito alla sommità che infastidiva i pregiudizi infantili che Lenin qui prese a combattere. Secondo questi «immediatisti», da noi combattuti in Italia e fuori, allora e oggi, in questo dopoguerra e sempre, un sistema di consultazione del proletariato deve dare al partito la sua direttiva, e determinarne, con un meccanismo più o meno elettorale, la ubbidienza; mentre noi sosteniamo che il partito la deve esigere dalla classe e dalle masse, in quanto solo il partito sintetizza tutta l’esperienza storica rivoluzionaria di tutte le epoche e di tutti i paesi. Lenin qui dimostra che tanto seppe fare il partito bolscevico, e per questo vinse, e indica tale via a tutti i paesi.

Storia del bolscevismo

Gli eventi non consentivano a Lenin nell’incandescente anno 1920 di scrivere la completa storia del partito bolscevico, che egli indica come fonte indispensabile per intendere come si poté formare la disciplina necessaria al proletariato rivoluzionario. Ma gli spunti che egli dà sono più che sufficienti a intendere la questione.

La base della disciplina risale in primo luogo alla «coscienza dell’avanguardia proletaria», ossia di quella minoranza del proletariato che si riunisce negli strati avanzati del partito, e subito dopo Lenin indica le qualità di questa avanguardia con parole che hanno un carattere più «passionale» che razionale, rilevando che, come da tanti altri suoi scritti («Che fare?») è messo in evidenza, il proletario comunista aderisce al partito con un fatto di intuito e non di razionalismo. Questa tesi fin dal 1912 nella gioventù socialista italiana fu sostenuta contro gli «immediatisti» – che sono sempre, al pari degli anarchici, «educazionisti» – nella lotta tra culturisti e anticulturisti, come si disse allora, ove ben si intenda che i secondi, invocando un fatto di fede e di sentimento e non di grado scolastico nella adesione del giovane rivoluzionario, provavano di stare sul terreno di uno stretto materialismo e di rigore della teoria di partito[2]. Lenin, che apre arruolamenti e non accademie, parla qui di doti di «devozione, fermezza, abnegazione, eroismo». Noi, lontani allievi, abbiamo recentemente con dialettica decisione osato parlare apertamente di fatto «mistico» nella adesione al partito.

Questo in primo luogo. In secondo luogo, Lenin richiede per questa avanguardia:
«La capacità di collegarsi, di avvicinarsi, e se volete di fondersi con le grandi masse dei lavoratori, dei proletari innanzi tutto, ma anche con le masse lavoratrici non proletarie».

Ma collegarsi non vuol dire che se la «temperatura» delle masse è fredda, pacifista, conciliativa, il partito debba scendere a tale livello, come i tartufi dell’opportunismo ostentano qui di leggere. Il senso del collegarsi è che la saldatura delle masse col partito eleva la temperatura rivoluzionaria, anzi, – come molte volte noi abbiamo espresso, ma non con formula di nostra invenzione, – solo «organizzandosi in partito politico» la informe massa lavoratrice (infetta di piccola produzione) si seleziona in classe proletaria. Prima del partito rivoluzionario non vi è vera classe, soggetto di storia e domani di dittatura rivoluzionaria.

È infatti il terzo luogo che molto ci interessa, a chiarimento dei due primi da cui è inseparabile:
«In terzo luogo, mediante la giustezza della sua strategia e della sua tattica politica, e a condizione che le grandi masse si convincano per propria esperienza di questa giustezza».

Troviamo fondamentale questo passo, collegato a molti altri, che stabilisce quella che chiameremmo «teoria della giustezza». Se le masse devono colla propria esperienza nella reale lotta storica verificare la giustezza della strategia del partito proletario rivoluzionario, ciò significa che il partito, sulla via della storia, precede le masse.

Il partito in virtù della sua teoria interpretativa della storia decorsa si è messo in grado di prevedere in una data misura gli sviluppi della storia ulteriore, delle lotte di classe che succederanno a quelle del passato nell’avvicendarsi delle forme sociali. Il partito ha previsto, e in un certo senso proprio annunciato, quali saranno in una fase cruciale gli impulsi che trascineranno le masse, e quale classe, appunto dotata di una teoria e di un partito, prenderà la parte di protagonista nella lotta. Quando questo avverrà anche le masse dal contorno meno definito vedranno come si è formata la parte più decisa nella lotta, entrerà nella loro esperienza di fatto che quel partito aveva giustamente previsto gli eventi, lo schieramento delle forze in un conflitto generale. Nel seguito Lenin mostra come i contadini russi videro fin dal 1905 che erano i proletari dell’industria a prendere la testa della lotta. Egli, quando passa a discutere il tramontare dei vari partiti che avevano tentato un teorizzamento della rivoluzione prefiggendosi di tentare poi di capitanarla, mostra come cadde nel nulla la costruzione secondo cui i contadini e in genere i piccoli produttori avrebbero in Russia impersonata la rivoluzione formandone la classe egemonica. Era il populismo, il cui atteggiamento e le cui aberrazioni teoriche risalgono da un lato al vecchio Proudhon, e dall’altro purtroppo si ripresentano oggi sfrontate nella ondata ultima dell’opportunismo odierno, filorusso, filocremlinista. Gli stessi contadini videro che avrebbero persa la partita della stessa liberazione dal feudalismo se non fossero stati davanti a loro, assai più agguerriti, gli operai col loro partito bolscevico; in quanto le stesse vicende avevano liquidato il menscevico, scoprendosi agli occhi dei piccoli produttori che tali partiti, non in insinuazioni polemiche dei comunisti, ma nel fatto, agivano da alleati della grande produzione, e della stessa controrivoluzione.

Ecco in senso pratico un esempio di quello che è la verifica, nella esperienza delle grandi masse, della giustezza della strategia politica del partito rivoluzionario di classe.

Perché questo glorioso concorso di circostanze favorevoli fosse possibile, il partito doveva avere parlato prima, senza restare come i partiti della piccola borghesia in attesa di vedere che vento tirava, o quali pose potevano destare il favore delle masse. La teoria del partito non deve essere solo una spiegazione scientifica dei fatti passati ma deve essere una coraggiosa anticipazione dei fatti futuri. Le masse ne devono fare l’esperienza, ma è lecito dire che il partito la possedeva in anticipo.

A questo punto si tenta di giustificare l’immonda palinodia di Stalin, e oggi dei suoi successori, contro «i dogmatici, i talmudici», con un passo di Lenin, che avrebbe in queste pagine scritto che la teoria non è un dogma, il che si prende nel senso scempio che il partito debba sempre essere pronto e proclive a cambiarla per fabbricarsene una nuova.

La teoria, base primaria del partito

Nella quasi totale citazione del testo di Lenin è bene ripetere che ci serviamo della edizione in lingua italiana delle «Opere scelte», edita a Mosca 1948 (vol. II, pagg. 550–612). Le vicende di questi quarant’anni fanno sì che non sia agevole disporre di una delle edizioni originali del tempo in varie lingue; e crediamo che nemmeno i lettori ne siano in possesso[3].

Il testo nella citata traduzione, dopo aver detto delle condizioni che assicurarono al partito bolscevico russo il successo nello stabilire la vera disciplina e centralizzazione, che abbiamo largamente illustrato, dice:
«Queste condizioni non possono sorgere di colpo»
(ci si fermi un istante su questa tesi di passaggio per pensare a quegli spiriti errabondi, illusi di essere marxisti, che propongono: facciamo dunque un convegno e fondiamo il partito perfetto, disciplinato e centralizzato! Anche il partito è un prodotto della storia; tale la osservazione centrale della sinistra in tutte le discussioni di Mosca sul compito e la tattica del partito):
«Esse sono il risultato di un lungo lavoro, di una dura esperienza [anche di quella delle gesta carognifere]; la loro elaborazione viene facilitata da una teoria rivoluzionaria giusta, e questa, a sua volta, non è un dogma, ma si forma in modo definitivo solo in stretto legame con la pratica di un movimento veramente di massa e veramente rivoluzionario». (Pag. 553.)

Gli opportunisti che nulla hanno capito di Lenin, o che forse hanno capito ma in molti casi fanno il mestiere di non aver capito, chiosano questo passo nel modo ben noto. La teoria non è mai completa, è sempre in trasformazione e solo dopo che sarà completata la serie delle rivoluzioni proletarie sarà in modo scientifico possibile scrivere la dottrina della rivoluzione anticapitalistica. Questa interpretazione non solo non è giusta, ma serve proprio a raggiungere il risultato e lo scopo diametralmente opposti a quelli che Lenin si prefigge quando si mette a scrivere questo famoso «Estremismo». Infatti codesti signori vogliono stabilire: In Russia e nella rivoluzione di Lenin e dei bolscevichi vi sono stati certi caratteri; ma la storia mostrerà che in altre rivoluzioni «nazionali» essi potranno scomparire, e non esservi insurrezione violenta, non esservi dittatura, non esservi terrorismo, non esservi dispersione da parte del potere dei soviet e del partito comunista del parlamento democratico e costituente. Lenin ha voluto dimostrare invece che la rivoluzione russa ha per sempre distrutta la versione socialdemocratica del trapasso da capitalismo a socialismo, e mostrato che quei caratteri russi sono obbligatori per tutti i paesi. I traditori «di destra» della prima guerra mondiale erano – lo credevamo tutti – per sempre fuori combattimento; ma Lenin si preoccupò degli infantili di sinistra che dicevano: Non potremmo fare le altre rivoluzioni evitando, risparmiando, non la lotta armata e cruenta per rovesciare il vecchio potere (a tanto non ci arrivavano; ma le carogne moderne sì) ma almeno l’impiego di un partito che dispoticamente fa tacere i dissensi, centralizza tutto, mette sotto i piedi il responso uscito da libere elezioni?

Lenin è partito nella sua analisi storica della via bolscevica alla rivoluzione da due fatti importanti: la disciplina e la centralizzazione. Ha poi cercato quali caratteristiche ne abbiano assicurata la conquista, e ha indicato il legame con le masse poste storicamente in movimento rivoluzionario, la appassionata dedizione dell’avanguardia partito, la giustezza della strategia e della tattica. Senza tutto questo egli dice che non si ha vera disciplina e centralizzazione, e il potere rivoluzionario, anche se conquistato, va in seguito perduto. Adesso enuncia le condizioni delle condizioni favorevoli, e indica un lungo tempo di sviluppo e la elaborazione della lunga esperienza, facilitata (il verbo può sembrare debole, ma il senso è: resa solo possibile) dalla teoria rivoluzionaria giusta.

Lenin qui non afferma ma dimostra, e dimostra non filosofando ma esponendo fatti, e quindi spiegherà subito dopo come e perché il partito bolscevico, solo in Russia, pervenne a possedere la teoria rivoluzionaria giusta, e quindi la disciplina e centralizzazione indispensabili. Non vuole scrivere: La teoria io la ho enunciata trent’anni prima e per questo «ho fatto la rivoluzione», in quanto sono riuscito a far convergere su di essa la fede di tanti altri, e alla fine delle masse aspettanti. In questo senso, la teoria non è un dogma, e noi accettiamo la formula, né pretendiamo nemmeno per idea di sostituirla con l’altra: La teoria del partito è un dogma. Ma se la formula dovesse divenire l’altra che la teoria del partito domani sarà quella che farà comodo, dopo sentite le lezioni dei fatti di domani oggi ancora ignoti, allora noi diremmo che tale è il costrutto dell’opportunismo e non del leninismo, e che a una simile formula puttana preferiremmo certo quella che dice: La teoria del partito va accettata come un dogma.

Che cosa significa dogma? Nel senso proprio significa verità rivelata da una entità sovrannaturale a un uomo eletto da Dio, il Profeta, e che gli altri non possono vedere se non accettando di ripetere e rispettare quelle parole rivelate. In questo senso noi siamo agli antipodi di ogni dogmatismo e questo è perfino inutile enunciarlo. Gli stessi borghesi, nella fase storica in cui erano rivoluzionari e le chiese sostenevano i regimi feudali, vantarono di aver superato ogni dogmatismo. Ma l’antidogmatismo dei marxisti è radicalmente diverso dal loro. Alla accettazione del dogma religioso la filosofia borghese oppone il principio della libertà individuale di critica per cui il soggetto, tipicamente piccolo borghese, vanta che, invece di accettare dal prete il suo pensiero bello e fatto e scritto nella dottrinetta di chiesa, se lo fabbrica lui con la sola sua testa di classico «libero pensatore». Noi invece, come non abbiamo atteso la verità dalla rivelazione divina, noi marxisti, contrapponiamo una verità di classe a una opposta verità di classe, e prima che come filosofemi o ideologismi le vediamo come armi della pratica e storica lotta delle classi.

Dalla parte della lotta proletaria sta un partito di classe, ed esso agita una verità di classe. Appunto perché non crediamo alla scienza borghese, che si pretende eterna e definitiva come vittoria sul «dogma», diciamo che, sola, la nostra verità classista è «scientifica». Ciò esprime che la borghesia è incapace di pervenire alla scienza sociale, e che solo la rivoluzione proletaria e il partito di essa possono pervenirvi, per la rottura con ogni pensiero borghese. È nostra tesi, ma verrà tempo che la faremo leggere in Marx e in Lenin, che questa impotenza della «civiltà» e «cultura» capitalistica di possedere la scienza sociale e storica vale impotenza alla scienza in generale, alla conoscenza della natura e del cosmo anche in campo fisico. Non esiste dunque un comune metro della «scienza» a cui si possano misurare le nostre conclusioni e quelle del mondo borghese. Chi questo crede è un vero kruscioviano, un fautore della emulazione, della gara a chi ha più capitale e più tecnica, vilmente sostituita alla guerra civile.

Perciò la borghesia in materia sociale e politica si è rifugiata nel diffamato dogma, e soprattutto in quanto si presenta democratica e pacifista, ha rimesso in questo dogma l’ingrediente Dio, e la morale «a priori».

Sorgere della teoria rivoluzionaria

La teoria marxista, che come vedremo il partito bolscevico non inventò, ma prese proprio dall’Europa d’occidente, è la sola che spiega la futura rivoluzione proletaria, ma è anche la sola che spiega la rivoluzione borghese, anzi tutte le rivoluzioni, e in modo particolare le rivoluzioni doppie, ossia le rivoluzioni ravvicinate della storia contemporanea, di cui la Russia ha dato il solo esempio vittorioso – ma non il solo esempio combattuto. Anzi la Russia ne dette prima un esempio combattuto, e non vittorioso nemmeno nel senso borghese, nelle colossali lotte del 1905, in cui già il proletariato era protagonista.

Questa fu una circostanza per cui l’arretratezza della Russia, da condizione contraria, divenne condizione favorevole.

Se non si tiene ben presente questo quadro di fatti storici è inutile cercare di leggere Lenin. Si può capire l’esatto rovescio. Chi poi legge da falsificatore affittato, vada pure all’inferno.
«Se il bolscevismo, negli anni 1917–1920, in circostanze difficili quanto altre mai, poté creare e attuare con pieno successo la più severa centralizzazione e una ferrea disciplina [la catena dialettica non si interrompe] ciò è dovuto semplicemente a un complesso di particolari caratteristiche storiche della Russia». (Ivi.)

Il lettore-carogna a questo punto, simulando di dimenticare che Lenin è qui intento a mettere in evidenza i caratteri «internazionali in senso stretto» della rivoluzione russa, prenderà queste frasi, e dirà: Ecco che fuori di Russia è lecito giocarsi disciplina e centralizzazione!

Ma le particolari caratteristiche della Russia furono proprio che per la presenza dello zarismo i rivoluzionari emigrati acquisirono il marxismo, formatosi in occidente non sui libri, ma nella pratica lotta delle masse. Queste fasi di pratica lotta sociale sono date dalle rivoluzioni del secolo decimonono, Lenin lo sta per dire; quindi la «teoria» marxista della rivoluzione è completa non solo nel 1920 quando Lenin scrive, ma lo era già nel 1871, anzi nel 1850, quando la tracciò Marx.
«Da un lato, il bolscevismo sorse nell’anno 1903 sulla base più salda; sulla base della teoria marxista. E la giustezza di questa teoria rivoluzionaria – e unicamente di questa – fu provata non soltanto dalla esperienza mondiale di tutto il secolo decimonono, ma anche e specialmente dalla esperienza dei brancolamenti, dei tentennamenti, degli errori e delle delusioni del pensiero rivoluzionario in Russia. Nel corso di circa mezzo secolo, a un dipresso dal 1840 al 1900, il pensiero d’avanguardia nella Russia, sotto il giogo inaudito, brutale e reazionario dello zarismo, cercò avidamente una giusta teoria rivoluzionaria e seguì con zelo e accuratezza sorprendente ogni «ultima parola» dell’Europa e dell’America in questo campo. La Russia, in verità, è pervenuta al marxismo, come all’unica teoria rivoluzionaria giusta, attraverso il travaglio di un mezzo secolo di una storia di tormenti e di sacrifici inauditi, di un eroismo rivoluzionario mai visto, di incredibile energia e di instancabili ricerche, studi, esperimenti di applicazioni pratiche, delusioni, verifiche, confronti con le esperienze dell’Europa. Grazie alla emigrazione imposta dallo zarismo, la Russia rivoluzionaria, nella seconda metà del secolo decimonono, dispose, come nessun altro paese al mondo, di una grande ricchezza di legami interrazionali, di una ottima conoscenza delle forme e delle teorie mondiali del movimento rivoluzionario». (Pagg. 553–554.)

Abbiamo resistito alla tentazione di sottolineare le formule decisive di questo passo. Il lettore ne intenda che la esperienza bastevole a consolidare per sempre la teoria della rivoluzione ha bisogno di una grande lotta di masse, ma questa è già data dalle rivoluzioni del secolo decimonono, ed è già definitiva alla fine dell’ottocento. Dieci passi di Lenin e di Marx potremmo citare per stabilire che già la rivoluzione francese del secolo decimottavo fu uno scontro di masse di popolo alla unità dei milioni, e bastò per costruire di getto la dottrina che dichiariamo immutabile dal 1848.

Inoltre le condizioni particolari favorevoli della Russia furono, anzitutto, che per la rivoluzione antifeudale e antidispotica le masse si dovevano mettere in moto irresistibile; furono poi gli stessi errori di partiti non marxisti che le condussero a enormi delusioni (la sinistra italiana in vari passi, e in ispecie nel 1918 prima di leggere Lenin, si dedicò alla «critica delle altre scuole» con particolare riguardo ad anarchismo, sindacalismo e anche aziendismo), e le stesse sconfitte nella lotta proletaria; in terzo luogo non circostanze asiatiche, mongoliche, cosacche, come fin da allora i luridi avversari blateravano, ma circostanze di pretto internazionalismo, ossia la constatazione che la scuola, la palestra, e meglio ancora il campo di sanguinosa battaglia della rivoluzione non sono nazionali, non sono russi o tampoco tedeschi, inglesi, francesi o italiani, ma sono europei, e con parola che qui Lenin, impeccabile anche nella foga, non usa a caso, mondiali.

Tutta quest’opera tende a elevare la grandezza della rivoluzione russa non come formazione di un «paese socialista» – formula miserabile – ma come prova tipica, insuperata ancora, della dinamica universale della rivoluzione comunista.

La teoria e l’azione

Il testo di Lenin ha qui mostrato come la dottrina su cui il partito bolscevico si fondò avesse origine non russa e locale, ma europea e mondiale, e come la diffusione in Russia di tale teoria, che era il marxismo, sola teoria giusta alla scala mondiale, fu favorita dalla «emigrazione» dei rivoluzionari, effetto delle persecuzioni zariste. Intorno al 1900 in ogni città dell’Europa occidentale – e di altri continenti – vi erano vere colonie di profughi russi espulsi o emigrati per le loro posizioni politiche, che si tenevano in stretto contatto coi partiti avanzati dell’estero e che tuttavia dettero a essi ampio contributo; per l’Italia basterebbe pensare a Kuliscioff, Balabanoff e altri.

Lo scontro delle ideologie dottrinali era in queste colonie incessante e vivissimo, e ne seguiva un continuo confronto con le lotte di tendenza politica nei paesi ospitanti.

Quindi Lenin passa a descrivere un fenomeno complementare e integrativo del primo, ma potremmo dire di direzione contraria. La Russia ha pompato la teoria dall’occidente, ma nella applicazione di essa ai fatti, nella famosa «tattica», ha rapidamente sorpassato i maestri e ha avuto una propria esperienza tattica di cui invece, al suo tempo, avevano bisogno di far tesoro i paesi rimasti sotto il dominio borghese.

Senza voler fare del semplicismo o dello schematismo seguiamo un poco questi due flussi opposti, che mancarono nella storia di fecondarsi al punto di dare alla rivoluzione la vittoria mondiale.

Le peculiari condizioni del movimento russo, che gli permisero di abbeverarsi rapidamente e poderosamente al pensiero rivoluzionario occidentale, furono il sopravvivere del dispotismo, la sua resistenza agli assalti interni, e il riflusso delle avanguardie rivoluzionarie fuori di Russia.

La peculiare condizione che permise di accumulare con rapidità non minore le esperienze strategiche e tattiche risale in sostanza alla stessa causa: ultimo paese in Europa, la Russia non aveva ancora compiuta la grande rivoluzione liberale, che più chiaramente si dice antifeudale e anti-assolutistica. Aveva comune tale situazione storica in Europa con la sola Turchia, ma questa, pure avendo allora la sua capitale in Europa, era uno stato asiatico.

Era quindi una generale previsione che in Russia sarebbe presto scoppiata una rivoluzione politica «democratica» e che questa non avrebbe potuto essere contenuta nelle forme incomplete della concessione da parte della dinastia tradizionale di una semplice costituzione a tipo parlamentare.

Da tempo tutti i socialisti avevano considerato che una tale rivoluzione si sarebbe svolta con la presenza di un movimento proletario ben più sviluppato di quello che avevano avuto i paesi di Europa nelle rivoluzioni dell’ottocento, e si poteva prevedere un rapido «innesto» di due rivoluzioni successive in pochi anni, quella borghese e quella proletaria. Marx ed Engels lo avevano detto apertamente; anzi avevano ritenuto che il potere zarista in Russia era una vera polizia europea contro il proletariato, e che la rivoluzione liberale russa poteva scatenare la rivoluzione proletaria non solo in Russia, ma in tutta Europa.

Senza (per un momento) pensare a quello che accadde dopo, notiamo tuttavia che una tale previsione dell’innesto di due rivoluzioni di classe in una non era fatta per la prima volta dai marxisti. Per la Germania era stata compiutamente teorizzata nel 1848.

Un altro rilievo è importante. Lenin qui sta per porre in evidenza che un tale «piano» di strategia storica non solo è ricco di lezioni quando ha successo (ed egli sta illustrando l’unico esempio storico favorevole) ma anche quando il suo sbocco è una sconfitta: egli lo dice per il 1905 russo, ma è evidente che lo stesso vale per tutte le disfatte proletarie, non solo quelle del 1848 in quasi tutta l’Europa centro-occidentale, ma anche quella della Comune di Parigi nel 1871, da cui sempre Marx e Lenin hanno preso grandiosi apporti non solo alla dottrina della rivoluzione operaia ma anche ai principi della sua strategia e della sua tattica. Anche nel 1871 il proletariato di Parigi tentò quello che aveva tentato nel 1830 e nel 1848, di giungere sullo slancio di una rivoluzione democratica, e della caduta di un potere dinastico, alla propria vittoria di classe.

Con la premessa di questi richiami, utili sempre per quanto spesso ripetuti e universalmente noti, possiamo leggere il passo di Lenin che chiude il secondo capitolo, sulle condizioni che consentirono il successo dei bolscevichi.

La costruzione di Lenin

«Dall’altro lato il bolscevismo, sorto su questa granitica base teorica [abbiamo visto che è quella marxista, che il testo definisce granitica, ossia consolidata in forma immutabile e non più suscettibile di alcuna plasticità o elasticità, secondo un vocabolo di moda per gli opportunisti, e per la diffamazione di Lenin], ha svolto una storia pratica di quindici anni (1903–1917), che non ha eguali al mondo per ricchezza di esperienze. Perché non vi è paese che in questi quindici anni (anzi in generale in un tempo di quindici anni) abbia anche solo approssimativamente fatto tanto quanto la Russia nel senso della esperienza rivoluzionaria, della rapidità e varietà di successione delle diverse forme del movimento, legale e cospirativo, pacifico e tempestoso, clandestino e aperto, di piccoli circoli e di grandi masse, parlamentare e terroristico. In nessun paese fu concentrata in cosi breve spazio di tempo una tale ricchezza di forme, gradazioni e metodi di lotta di tutte le classi della società moderna, e inoltre di una lotta che, in conseguenza dello stato arretrato del paese e del duro giogo dello zarismo, andava maturando con una celerità particolare e si appropriava, con speciale avidità e buon successo, la corrispondente ‹ultima parola› dell’esperienza politica europea e americana». (Pag. 554.)

La costruzione di Lenin alla data del 1920 si incardina su queste due contribuzioni: l’occidente che fornisce la teoria ai russi, e la Russia che fornisce la «prova sperimentale» che conferma giusta e granitica la teoria, attraverso quindici anni di convulsioni sociali a cui partecipano masse immense di uomini di tutte le classi e che per la prima volta nella storia conducono al risultato che la classe operaia istituisce la propria dittatura.

Il contributo della Russia non è solo quello di un campo di prova che consente di dire: la nostra teoria marxista era la giusta; ma anche quello di una campagna di guerra sociale e classista che, avendo per la prima volta condotto alla vittoria e confermando gli insegnamenti dialettici delle campagne seguite da sconfitte, permette di stabilire le regole universali della nostra strategia e della nostra tattica di partito.

Non si ha il diritto di dire che la teoria si stabilisce solo dopo la vittoria, e quelle a essa precedenti erano, tutte, incerte e suscettibili di trasformazione. Anzitutto, se questo fosse vero, resterebbe sempre da domandare ai tralignatori da Lenin perché hanno abbandonata la teoria che insurrezione in armi, dittatura, terrore, dispersione degli organi parlamentari e democratici, fossero non espedienti tattici locali, ma cardini della dottrina e del programma valevoli, obbligatori, per tutti i paesi.

Quando Lenin ha scritto la famosa frase che la teoria non è un dogma, non ha voluto dire che la teoria prima dell’Ottobre 1917 fosse ancora una pagina bianca, e tanto meno che tale sia diventata a disposizione degli Stalin e dei Chruščëv dopo di allora. Lenin ha solo inteso dire che la teoria non è sorta (come il dogma che si basa su un testo rivelato dalla divinità a un uomo di eccezione e di elezione) dalla scoperta di un autore o di un condottiero geniale, ma non avrebbe nemmeno potuto sorgere se non dopo e per effetto e con le lezioni, apprese fuori dei vecchissimi pregiudizi di classe e di scuola, di grandi movimenti storici di masse immense.

Ora, in un certo senso per la prima volta nella storia umana, le rivoluzioni che ha scatenato la borghesia capitalistica hanno preso la forma di movimenti e di spinte non passive ma attive di immense masse. La rivoluzione francese è stata combattuta da tutti, meno forse che dai banchieri e dagli industriali, dagli «operatori economici» del tempo. Contadini, servi della gleba, artigiani, borghigiani, studenti, intellettuali, poeti, operai delle prime manifatture, formarono le schiere della guerra rivoluzionaria: non solo il proletariato era già nato nell’industria e nell’agricoltura, ma non si imbevve solo della ideologia borghese, bensì esperì le prime invettive contro la nuova nascente classe dominante, e sia pure in gruppi di avanguardia estrema seguì il rozzo ma grandissimo comunismo dei Babeuf e dei Buonarroti.

La scoperta di Marx è condizionata dalla esperienza storica della lotta delle grandissime masse nella rivoluzione borghese, e dalla affermazione, possibile solo dopo quella ondata di fatti storici, che la rivoluzione non si doveva teorizzare come da se stessa si era teorizzata, ma in un modo nuovo. La dottrina della rivoluzione proletaria si costruisce dialetticamente quando si costruisce quella della rivoluzione borghese, opposta a quella propria; dottrina bandita dai suoi precursori illuministi, che affermarono o credettero (non importa) che fosse la liberazione di tutta l’umanità, e non ne videro la struttura di classe.

Non resterebbe nulla della nostra secolare costruzione della storia, o essa conserverebbe solo un incomparabile valore «artistico» per la sua armonia e completezza coerente, se non fosse vero che la prima classe che possiede la chiave della storia è il proletariato moderno, e che questo non la afferra quando vince la sua lotta titanica e mondiale, ma fin da quando nasce e si prova nelle prime lotte, che conduce, per necessità storica, non per sé ma per la classe dei suoi sfruttatori, che come testa di urto gli aprirà la luminosa strada.

Chi vuole, diciamo e diremo innumeri volte, può fare gettito di Marx e di Lenin, subordinando le loro pagine splendenti alla superstizione idiota del senno di poi; ma non è che carogna, e non contraddittore, nemmeno di classe, chi nega che in Lenin e per Lenin la teoria fosse scolpita in una massa di granito da quando la nascente I Internazionale del proletariato la costruì sulle lezioni degli scontri di ondate di umani di cui fu teatro l’Europa del primo mezzo ottocento. E grazie a questa lezione poté, Lenin e il suo partito, descrivere prima che accadesse l’atto più glorioso del dramma sociale dell’uomo, la rivoluzione russa di Ottobre.

Le tattiche e la storia

La dottrina di partito, il programma, stabiliscono il fine a cui tende la nostra lotta, e fissano le tappe fondamentali che essa dovrà percorrere nel suo sviluppo. Sono pertanto capisaldi dottrinali e programmatici l’insurrezione armata contro lo stato costituito borghese, la distruzione del suo apparato di potere e di amministrazione, la dispersione dei parlamenti democratici, la dittatura del proletariato, la funzione quindi egemonica della classe operaia nella società sopra e contro tutte le altre, la primaria funzione del partito politico in tutti questi svolti del grande corso; come fanno parte di tale insieme di capisaldi i caratteri sociali della struttura comunista e i caratteri di quella borghese che in un tempo adeguato la rivoluzione sradicherà, fino alla società senza classi e senza stato.

Per percorrere questa serie di tappe il partito e il proletariato devono avvalersi di adatti mezzi. Prima della fase rivoluzionaria è del tutto ammesso e previsto che la propaganda pacifica e una agitazione non ancora armata, e anche in adatti periodi l’intervento negli organi della società borghese come i parlamenti e simili, siano tutti mezzi e metodi di largo impiego. Naturalmente il loro impiego non può e non deve contraddire le tappe del programma.

La incessante contesa tra partiti, correnti, tendenze, spesso nel seno dello stesso partito, che si è svolta a cavallo degli ultimi due secoli, è quasi sempre caduta nell’equivoco di far risiedere la scelta in una graduazione dei mezzi e non in quella degli scopi da raggiungere. In questo sta tutto il revisionismo e l’opportunismo.

Bernstein, contro il quale qui e ovunque Lenin si scaglia, dettò la formula che il fine è nulla, il movimento è tutto. A prima vista tale formula sembra solo cinica, machiavellica; sembra voler dire che i mezzi sono tutti buoni, ma quanto ai punti di arrivo non ne sappiamo nulla e ce li mostrerà l’avvenire. Ma presto l’opportunismo si smascherò e si svergognò maggiormente. Esso, agnostico sempre sugli scopi e le finalità massime, graduò gli scopi e scelse tra essi: questi buoni, quelli cattivi. La questione di principio, che non valutava nulla nel programma, la introdusse nelle scelte tattiche. Lenin non fu colui che disse: È lecito scegliere come si vuole. Lenin fu invece quel grandissimo che svergognò il carognume per sempre, e mostrò che i traditori sceglievano i mezzi in modo da servire i principi che interessavano alla controrivoluzione. Fino a Lenin il revisionista, il riformista, fu quello che voleva procedere adagio, più piano. Da lui, e da noi suoi ultimi allievi, tal gente fu chiamata reazionaria, ossia conservatrice e ripristinatrice del potere borghese.

La distinzione fra le tattiche fu quella che oggi fanno apertamente i partiti di tutti i paesi accodati a Mosca: propaganda pacifica sì, lotta armata no, né oggi né mai. Democrazia sì, dittatura no, né oggi né mai (a Lenin e a Ottobre, un perdono; quell’ometto, quell’incidente!). Elezioni e costituzioni sì, scioglimento dei parlamenti no, e (sempre) né oggi né domani né mai.

Lenin qui dice nel suo lungo elenco di contrapposti che in quei quindici anni, e con dieci partiti e molti più sottopartiti come nello scorcio storico del quarto capitolo, tutti i «mezzi» furono in gioco e subirono una prova, dal pietismo fabiano (mettiamolo per un’ultima parola di occidente) all’attentato alla dinamite. Dice certo anche di più; che, se non tutti, quasi tutti quei mezzi in gioco elencati per contrapposizione furono esperiti dallo stesso partito bolscevico, ma lo furono in quanto in quei quindici anni quel partito ne traversò centottanta di storia (poco oltre: «un mese contava allora quanto un anno»).

Il senso del lavoro di Lenin, alla vigilia dello studio sull’arsenale tattico del comunismo internazionale, era questo: vi sono tappe storiche che si scartano per principio, ma non vi sono mezzi tattici che si scartano per principio. Possiamo dire che solo la nostra sinistra ha dimostrato, dopo quarant’anni, di avere assimilata e fatta propria questa opposizione.

«Ultime parole» da occidente

Per due volte, in due capoversi successivi, Lenin ha usato la espressione che in Russia si era al corrente, per i descritti flussi e riflussi, delle ultime parole della esperienza europea, e anche americana.

Non dimentichiamo in Lenin il polemista e anche l’ironista di primissima forza. L’ondata polemica che si abbatteva contro di lui – e che in quegli anni grandi giudicammo di avere ributtata e disonorata per sempre – faceva leva sul solito argomento principe: in Russia eravate arretrati, quello che oggi si dice eravate un’area depressa, e quindi dovevate stare quieti, umili e buoni buoni, tutt’al più padroni di imitare e riprodurre le nostre passate grandi rivoluzioni democratiche e liberali; ma quanto a movimento proletario e socialista non avevate il permesso di muovervi; dovevate prima attendere la nostra esperienza di paesi progrediti, sviluppati, avanzati (tutte espressioni imbecilli che allora e oggi abbiamo disprezzato come stupide pose di ammirazione per un capitalismo che mezzo secolo fa aveva largamente fatto tutto quello che poteva di utile per la economia, la società, la tecnica e la scienza; e per tutto il resto, dove si diffondeva, portava solo soffocazione e ignominia) e dopo avreste imparato come si andava al socialismo nei paesi maturi (per noi schifosi e fradici di decomposizione) per inchinarvi e imitare, al vostro turno una tale via.

La sfrontatezza dei nostri avversari era che essi adoperavano il marxismo come dimostrazione di questa pretesa gerarchia e cronologia delle rivoluzioni, mentre erano volgari immediatisti, e appartenevano alla genia dei commercianti di principi che Marx ed Engels avevano da decenni staffilata a sangue.

A questo si ricollegava l’ingenuità del Gramsci giovane che da buon idealista gioiva perché Lenin aveva saputo violare la regola del marxismo, che anche lui sprovvedutamente vi leggeva.

Quando Lenin dice che le «ultime parole» di occidente erano già state trasferite e utilizzate e vagliate in Russia, egli risponde che non vi era bisogno «culturista» di andare ulteriormente a scuola in Europa o in America per avere i titoli che consentissero in Russia di passare all’avanguardia, salvo la giusta posizione materialista e dialettica della questione del modello, da cui, sulla sua guida, abbiamo in queste pagine preso le mosse.

Non è dunque una concessione al concetto dell’aggiornamento ai risultati moderni e recenti, moda stupida del pensiero piccolo borghese immediatista, che qui fa Lenin, ma è una coraggiosa dichiarazione che tutto quello che vi era da imparare di buono i bolscevichi lo sapevano da un pezzo, ed erano essi ben maturi, coi loro seguaci di tutti i paesi, i marxisti di sinistra, e in grado di salire in cattedra e dettare le norme.

L’infezione immediatista del pensiero piccolo borghese (la stessa cosa dell’infantilismo di Lenin) consiste proprio nella mania dell’ultima moda, del più recente brevetto, della più fresca trovata.

Negli anni che precedevano l’epoca storica che trattiamo si atteggiavano a depositari dell’ultima moda i sindacalisti rivoluzionari della scuola di Sorel, largamente rappresentati nell’Europa latina (in Italia dagli Arturo Labriola, Orano, Olivetti, Leone, De Ambris ecc. ecc.) e anche in America del Nord nel movimento sindacale degli IWW che si opponevano alla confederazione sindacale del lavoro, riformista e borghese. Questa pareva essere al momento l’ultima parola. Ma i bolscevichi non erano caduti in un simile abbaglio, per quanto seducenti fossero gli slogan di tale scuola di fronte a quelli dei socialisti revisionisti. I bolscevichi si tennero al modello che era costituito dall’ala sinistra della socialdemocrazia tedesca (nome poi, come suggerito da Marx ed Engels, abbandonato dal partito di classe rivoluzionario) e prima degli eventi della grande guerra (in cui quasi tutti i soreliani naufragarono) erano vicini a Kautsky come esponente del marxismo allo svolto del secolo.

Come ragionavano quelli dell’ultima parola? Secondo la forma mentis dell’immediatista, dell’infantile; ossia ponevano i mezzi tattici al posto dei capisaldi programmatici.

Essendo in fondo, come tutti i borghesi radicali, dei veri progressisti ed evoluzionisti, elencavano i «nuovi corsi» che si erano a loro credere succeduti nella storia. Lo schema era di questo tipo; dalla rivoluzione francese si è cominciato col club politico, che ha dato poi origine ai partiti. Il movimento proletario è passato dai piccoli club di cospiratori ai grandi partiti parlamentari elettorali e si è vantato, sul tipo tedesco (accusavano di questo il coerentissimo rivoluzionario Engels!), di arrivare alla conquista pacifica del potere. Ma le masse hanno visto che la forma partito degenera inevitabilmente verso destra, e si sono portate a una forma di organizzazione solamente economica, il sindacato. Alle elezioni hanno sostituito lo sciopero generale e l’azione diretta, ossia la lotta senza l’intermediario del partito che accoglie, giusta la formula genialissima di Marx, uomini di tutte le classi. Da allora i partiti politici, a sentire costoro, non sarebbero più serviti al proletariato.

Da questo cumulo di enormi errori storici e di falsissimo rivoluzionarismo i bolscevichi russi si erano salvati per quel doppio effetto: il legame con il marxismo originario classico, che i soreliani e simili attaccavano nella sua dottrina-base, e l’esperienza russa che aveva già mostrato in nichilisti, anarchici, bakuniniani e populisti, la inconsistenza di queste attitudini piccolo borghesi. Come Lenin qui ricorda, nella preliminare lotta ideologica (nella sua costruzione tale contrasto fotografa in anticipo lo scontro futuro delle masse attive), i marxisti bolscevichi avevano già avuto a che fare con «economisti», «marxisti legali» e «liquidatori», i quali, incanalandosi in un errore non nuovo perché in certo senso il suo esempio tedesco era in Lassalle, da Marx denunziato molto per tempo, sostenevano che conveniva liquidare la lotta politica e il partito che veniva a cozzare con la tremenda armatura statale dello zarismo, e impostare una lotta economica degli operai di industria con i capitalisti, disinteressandosi della rivoluzione antizarista.

Come dal passo di Lenin, la dottrina e la storia avevano insegnato ai bolscevichi la via rivoluzionaria utile. La loro ideologia e la loro attività seppero prendere e riempire tutte le forme, il piccolo cenacolo e le grandi masse, il lavoro sindacale e quello parlamentare anche nelle Dume reazionarie, la cospirazione segreta e lo sciopero generale insurrezionale, ma salvarono le posizioni di principio: mai mettere da parte la questione dello stato; sia esso ancora feudale, o già borghese; mai togliere il posto primario alla forma partito; intendete che lo sciopero generale è rivoluzionario in quanto cessa di essere economico e diviene politico, cessa di essere impersonato dai sindacati, ma con questi stessi lo è dal partito rivoluzionario; e la stessa lotta sociale delle masse non condurrebbe a porre la questione storica del potere se le masse e la stessa classe operaia industriale non avessero a protagonista il partito politico.

La sinistra in Italia

L’effetto delle circostanze storiche condusse l’ala sinistra del partito socialista italiano a posizioni che presentano con quelle ora descritte per i russi una larga analogia, e spiegano come, non certo per solo effetto della buona lettura dei testi o il rinvenimento di efficaci lettori, si costruì una difesa contro le influenze dell’immediatismo – infantilismo, che sono quelle che preoccupavano Lenin[4].

Verso il 1905 in Italia il campo delle tendenze nel seno del movimento socialista, a parte gruppi minori o che presto scomparvero dalla lotta senza lasciare grande traccia di sé, sembrava diviso nettamente in due, tra riformisti e sindacalisti rivoluzionari. Questi, del resto coerenti in certo senso colla loro ideologia, finirono con lo scindersi dal partito concentrando la loro azione nell’Unione Sindacale Italiana e organizzandosi senza una vera e propria rete nazionale in «gruppi sindacalisti», che ibridamente dissimulavano la loro natura politica in quanto sostenevano di essere non solo aparlamentari e aelezionisti, ma anche apartitici. Questo agnosticismo non doveva impedire in certe località esperienze elettorali che furono abbastanza strane, giungendo fino a blocchi popolari nelle elezioni amministrative.

Dalla banda opposta il partito cadde sempre più a destra, e fu diretto da aperti riformisti che tendevano a quello che allora si diceva «possibilismo», ossia partecipazione ai ministeri borghesi, come se ne era avuto esempio in Francia. Tanto non avvenne in Italia, ma i capi riformisti dominavano nel gruppo parlamentare del partito e nella Confederazione Generale del Lavoro, che riuniva in sé la maggioranza delle organizzazioni economiche, con tattica più che minimalista e aborrente dalle lotte aperte e dagli scioperi.

Orbene in Italia fu in tempo chiaro, a una corrente ortodossa marxista del partito, che queste due tendenze in apparenza decisamente opposte e in fierissima ingiuriosa polemica, i sindacalisti e i riformisti, avevano invece molti lati comuni, ed erano i lati negativi che toglievano efficienza alla lotta di classe di un proletariato, nella industria e nella campagna, fieramente sfruttato dalla sinistreggiante borghesia nazionale.

Come i marxisti russi, quelli italiani sfuggirono alla sbagliata antitesi partito e collaborazione di classe contro sindacato e lotta di classe. La forma organizzativa sindacato era non meno, bensì più di ogni altra accessibile alla deviazione dalla lotta di classe e dalla azione rivoluzionaria; anzi il riformismo parlamentare si nutriva della rete sindacale la quale aveva bisogno di avvocati politici entro la rete burocratica dei ministeri borghesi.

Il sindacalismo non è affatto salvo dalla mallatìa della transazione fra le classi, che dalla sua rete va ad allignare in quella del partito. La soluzione non sta nello scegliere l’una o l’altra delle tessiture organizzative, e quindi la vittoria sul riformismo non poteva essere attesa dai sindacalisti soreliani e anarchici della Unione Sindacale. In Italia prima della guerra una persona cui intelligenza e cultura non facevano certo difetto, la stessa che in tempo successivo non ebbe paura della formula della dittatura, Antonio Graziadei, teorizzò quello che allora sembrava e non era una contraddizione in termini: il sindacalismo riformista. Del resto la formula era nata nel movimento inglese con il Labour Party, cui aderiscono come sezioni di base le unioni sindacali e che al loro servizio svolge l’azione parlamentare e non ha mai esitato a svolgere quella ministeriale.

Ogni operaismo puro nella forma di organizzazione è suscettibile di degenerare nella collaborazione fra le classi; e un altro punto che non fu ben chiaro se non alla migliore corrente marxista in Italia è che la salvezza non sta nell’escogitare una altra forma immediata: il consiglio di fabbrica.

La prospettiva dell’ordinovismo, che duttilmente si mimetizzò come seguace del Leninismo e della rivoluzione di Ottobre, fu in origine di tessere in tutta Italia il sistema dei consigli, aderente «immediatamente» alla struttura delle aziende di produzione capitalistiche e sostituirlo alla Confederazione del lavoro riformista. La critica al partito socialista per la parte negativa fu giusta, ma ne mancava l’idea di fondare il partito rivoluzionario, perché in sostanza il sistema, il movimento dei consigli era un altro surrogato del partito, al solito una nuova ricetta per un nuovo corso. Vecchia, ma immortale illusione!

Alle prime notizie di Ottobre, da chi era solo a orecchio informato di Marx e solo giornalisticamente di Lenin, si vide la stessa «invenzione brevettata» nei soviet.

Ma se seguiamo le pagine dello scritto di Lenin – ossia non parole e non pagine, che sarebbe poco, ma la vera lezione dei fatti storici della rivoluzione di Ottobre, – allora ne trarremo quelle tesi, che la sinistra italiana da mezzo secolo tiene per sue. Forma fondamentale per la rivoluzione della classe è il partito politico, politica essendo la lotta insurrezionale per il potere. Il boicottaggio dei sindacati tradizionali capitanati da riformisti è un errore, come di fatto lo aveva mostrato la «esperienza di occidente» nel fallimento dei sindacalisti «estremi» in Francia e Italia che rifiutavano la forma partito. Errore analogo sarebbe abbandonare la forma sindacato per la nuova forma del consiglio di azienda. Più oltre Lenin spiega come altro errore sarebbe il prendere il soviet (organo apertamente politico, quando si capì che cosa fosse, e non sistema aderente alla produzione, come per gli immediatisti) quale un rimpiazzo del partito politico. Poco più oltre ci dirà Lenin che i bolscevichi dettero con graduata prudenza la formula tutto il potere ai soviet, in quanto un governo dei soviet in cui la maggioranza sia menscevica o populista sarebbe formula non rivoluzionaria; anzi fatto non rivoluzionario, poiché «nessuna formula organizzativa o costituzionale è di per se stessa rivoluzionaria». I bolscevichi attesero prima di avere il soviet nelle mani e poi scatenarono la insurrezione, perché il contenuto della loro agitazione, formule verbali a parte, fu in realtà: tutto il potere al partito comunista. Non si tratta di tattica a doppia faccia, ma di una linea continua concepita prima dell’evento con una chiarezza unica nella storia: a luglio 1917 i soviet sono in maggioranza opportunisti, e Lenin (pompiere, forse?!) frena la insurrezione. A Ottobre i tempi sono maturi, i soviet sono a sinistra, allora si potrà sulla loro piattaforma annientare l’assemblea costituente eletta, e Lenin invoca lo scatenamento dell’azione, contro lo stesso comitato centrale del partito (e ogni filisteo formulista sarebbe pronto a dire: contro il partito e la sua legale gerarchia); e staffila di traditore chi voglia indugiare una sola ora!

Per chiudere questa parentesi italiana, prima della guerra la sinistra marxista aveva intuito che le due vie dei riformisti e dei sindacalisti erano entrambe teoricamente sbagliate e aveva presa la posizione giusta per il partito rivoluzionario. Prima della guerra questa formula ebbe una espressione non sufficiente nella sola intransigenza elettorale, ma alla vigilia della guerra e durante essa (1914–18) valse a evitare al partito italiano la fine ignobile dei grandi partiti dell’Europa occidentale.

Fino dai congressi di anteguerra la sinistra in Italia non si limitò a negare la collaborazione di classe nella politica parlamentare, ma seppe chiaramente impostare la questione dello stato. Si era contro i riformisti perché ritenevano possibile la conquista pacifica dello stato democratico, e si era contro gli anarco-soreliani perché, pure avendo veduto giusto nel rivendicare la distruzione dell’apparato di stato borghese, negavano la funzione di uno stato proletario uscito dalla insurrezione. Se questo non fu allora problema posto nella attualità storica e nella tattica, era posto, come per i bolscevichi del 1903, nella teoria, come retta applicazione del determinismo economico alla previsione corretta del passaggio da capitalismo a comunismo; diretto, e «istantaneo» nel senso militare, in quanto politico; complesso nello sviluppo sociale quanto a trasformazioni economiche, funzione di tutto lo svolgimento, arretratissimo in Russia, semimoderno in Italia, modernissimo ad esempio in Inghilterra.

In questo la sostanza dell’«Estremismo».



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Cfr. la già citata «Storia della Sinistra Comunista», vol. I, pp. 183–88. [⤒]

  2. Si veda quanto è detto nella «Premessa» circa la nostra utilizzazione in punti controversi di testi francesi e tedeschi del 1920. [⤒]

  3. Si veda per tutto questo capitolo la nostra pubblicazione «Storia della Sinistra Comunista», 1964, cit. [⤒]


Source: Tratto da «La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin», ediz. «Il Programma Comunista», 1964

[top] [home] [mail] [search]