LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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IL TESTO DI LENIN SU «L’ESTREMISMO, MALATTÌA D’INFANZIA DEL COMUNISMO», CONDANNA DEI FUTURI RINNEGATI (IV)


Il testo più sfruttato e falsato da oltre cento anni da tutte le carogne opportuniste, e la cui impudente invocazione caratterizza e definisce la carogna


Content:

Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati
Premessa
I. La scena del dramma storico del 1920
II. Storia della Russia o dell’ umanità?
III. Cardini del bolscevismo: centralizzazione e disciplina

IV. Corsa storica (concentrata nel tempo) del bolscevismo
La formazione rivoluzionaria
Preparazione e prima rivoluzione
La prima «verifica»
Organi politici della rivoluzione
Forma e contenuto
La «manovra agile»
La conferenza di aprile
Natura dell’opportunismo
Ripresa e ricapitolazione
Notes
Source

V. Lotta contro i due campi antibolscevichi: riformista e anarchico
VI. Chiave della «autorizzazione ai compromessi» che Lenin avrebbe data
VII. Appendice sulle questioni italiane


Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati

IV. Corsa storica (concentrata nel tempo) del bolscevismo

La formazione rivoluzionaria

Lenin nel suo terzo capitolo dà una rapida storia degli sviluppi che consentirono al partito bolscevico di indirizzare la sua azione sulla via delle energie rivoluzionarie. Uno sguardo altrettanto rapido a questo scorcio permette di smentire la solita leggenda, che cioè gli avvenimenti e la febbre delle masse avessero svelata al partito una strada inattesa, e fornito per la prima volta una chiave della storia rivoluzionaria che prima era ignorata, e dal momento della vittoria in poi potesse essere impugnata in tutti gli altri paesi. Disgraziatamente l’opportunismo militante ha già disertata questa posizione per assumerne una ben più vile, e cioè che si debba considerare come idoletti il nome di Lenin e del bolscevismo e la tradizione di Ottobre, ma che non si debba più annunziare agli altri paesi lo stesso verbo, che in Russia si sarebbe allora per la prima volta rivelato.

Il lavorò di Lenin sembra scritto per rispondere a una simile contraffazione. La vera ragione per cui le linee essenziali dello sviluppo che condusse al vittorioso Ottobre del 1917 saranno proprie della lotta del proletariato di tutti i paesi, sta nel fatto che non apparvero come per miracolo imprevedibile in Russia, ma confermarono strettamente le previsioni di una dottrina universale della rivoluzione proletaria, a cui dopo già mezzo secolo dalla sua formazione storica i rivoluzionari russi avevano felicemente attinto. Vi furono particolari condizioni della Russia, talune favorevoli, talune, come il decorso successivo rivelò, purtroppo avverse, ma è per porre in evidenza i tratti conformi della rivoluzione russa e di tutte le rivoluzioni operaie, che Lenin qui scrive e che in tutta la sua vita lottò fieramente.

Lenin parte dal 1903 perché in quell’anno il partito bolscevico si distaccò dalla socialdemocrazia menscevica, che si accodava al revisionismo europeo di quei marxisti che vollero mutare le basi rivoluzionarie della dottrina e dell’azione del partito proletario internazionale; e da quell’anno essendo del tutto distinto da tutti gli altri partiti della opposizione allo zarismo – che erano pure partiti rivoluzionari nel senso antifeudale – influì sulla situazione reale e ne risentì le influenze in modo del tutto originale, e con conclusioni ben diverse sulla efficienza della posizione di tutti gli altri partiti. Per il bolscevismo, Ottobre significò conferma e vittoria, per tutti gli altri smentita e disfatta.

Quando adunque mancavano alla rivoluzione 14 anni, il partito di Lenin aveva già appreso le direttive che conducevano alla vittoria storica, e non fu questa che gliele apprese e gli fabbricò una teoria, poiché si trattò solo di una verifica, grandiosa e gloriosa, ma verifica di una preesistente dottrina, disastrosa e mortale per le dottrine di tutti gli avversari.

Preparazione e prima rivoluzione

Tutti presentono che è prossima la rivoluzione contro il potere dispotico degli zar e della nobiltà feudale. La situazione è rivoluzionaria per tutte le classi della società russa e per i loro «portavoce»: partiti politici e gruppi di essi che lavorano nella emigrazione all’estero.

La lotta ideologica tra le varie classi in contesa precede dunque la lotta armata che si svolgerà negli anni 1905–1907 e anche in quelli 1917–20, come testualmente Lenin stabilisce. Le armi teoriche si formano dunque prima dello scontro delle forze sociali, questo è il senso generale della teoria del materialismo storico e della lotta di classe, come si applica a tutte le rivoluzioni di classe e non solo a quella anticapitalista.

Capovolge il marxismo chi crede che dallo svolgersi delle guerre tra classi sorga la possibilità di stenderne l’espressione teorica e ideologica. Ogni classe ha una ideologia rivoluzionaria assai prima di battersi per la conquista del potere, la classe proletaria anche comincia la sua lotta prima nel campo della contesa politica e dell’agitazione, e poi nel conflitto insurrezionale; il suo privilegio rispetto alle classi rivoluzionarie precedenti è di possedere, nel suo partito politico, la giusta dottrina del corso storico e la giusta spiegazione delle lotte delle altre classi, che le interpretavano falsamente. La borghesia prima della sua rivoluzione aveva già una fioritura critica e culturale che disegnava la fine delle monarchie feudali e clericali, ma in questa prospettiva del futuro era falsa la visione che con l’avvento della libertà democratica sarebbero cessate le lotte di classe e la disparità sociale; la stessa rivoluzione francese, che fu una rivoluzione «semplice» e non «duplice», come la russa, fornì, quando mobilitò masse immense, la possibilità al partito della nuova classe proletaria, del quarto stato, di impiantare la nuova dottrina, ossia la nuova previsione dello sviluppo del futuro storico.

Lenin descrive le varie classi russe: borghesia liberale, piccola borghesia di città e campagna (coperta dall’insegna delle tendenze «socialdemocratica» e «social-rivoluzionaria», come Lenin dice), e proletaria rivoluzionaria rappresentata dal partito bolscevico, a parte le «innumerevoli forme intermedie».

Il dimenarsi polemico di queste tendenze offre in anticipo come una immagine fotografica dell’aperta lotta futura tra esse; e non erano dunque le lotte e le loro forme che avrebbero dato a ciascun gruppo la formula storica da agitare. Si dubita che in tal modo pensi Lenin?

Leggiamo:
«All’estero la stampa dell’emigrazione solleva in linea teorica tutte [corsivo dell’originale] le questioni fondamentali della rivoluzione».
Le tendenze che abbiamo citate
«annunziano e preparano, con l’asperrima lotta delle loro opinioni tattiche e programmatiche, la prossima lotta di classe aperta».

E ancora:
«Tutti i problemi attorno ai quali si svolse la lotta armata delle masse negli anni 1905–1907 e 1917–20, si possono (e si devono) esaminare nella loro forma embrionale sulla stampa di allora».

L’autore insiste su questo concetto:
«Più esattamente: è nella lotta tra gli organi di stampa, i partiti, le frazioni, i gruppi, che si cristallizzano le dottrine politiche che realmente caratterizzano le tendenze delle classi; queste si forgiano così le armi dottrinali occorrenti per le future battaglie».

Utilizziamo qui i già citati testi editi nel 1920, uno francese e uno tedesco, che compagni che hanno risposto al nostro appello ci hanno fatto pervenire[5]. Ad esempio, nel passo citato prima, dopo le parole: la prossima lotta di classe aperta; manca nella traduzione recente staliniana l’altra frase: e ne danno una rappresentazione anticipata. Lenin dunque pensa che come le polemiche di tendenza negli anni precedenti le lotte mettessero in scena una prova generale della rivoluzione.

Ecco il rovescio del «concretismo», che ammonisce: Vedi prima che succede, e poi ti spingi a parlare. Un passo di più e avanza il ben noto in Italia doppiogiochismo: Potrai vedere chi è più forte, e giurare che hai sempre parlato come lui in precedenza, quando badavi a… tacere.

La posizione di Lenin è dunque l’opposto della vecchia banalità che contrappone l’azione alla polemica delle dottrine opposte: Non perdete tempo a scrivere, a polemizzare e a dividervi in gruppetti; scendiamo in piazza, e sapremo tutto!

La conclusione di Lenin e nostra si può così formulare: L’opportunista è quello per cui la teoria segue l’azione, il rivoluzionario quello per cui la teoria precede l’azione.

La prima «verifica»

«Gli anni della rivoluzione (1905–1907). Tutte le classi entrano francamente nella mischia».
Ecco in che cosa è necessaria la lezione dell’azione delle masse:
«Tutti i programmi e tutte le concezioni tattiche vengono verificati dall’azione delle masse».

Quale il senso di questa verificazione? Che le masse, in una situazione oggettivamente matura (come era squisitamente quella di un regime che in Europa era scomparso da oltre mezzo secolo ovunque, e di più uscente da una guerra disastrosissima col Giappone e quindi in piena crisi economica e politica) scelgono la direzione di quel partito le cui previsioni meglio si attagliano alla spinta che le muove.

Lenin indica subito uno dei fenomeni originali di una rivoluzione antidispotica in cui, per lo sviluppo già inoltrato della produzione capitalistica, è presente specie nelle grandi città un vero proletariato. Per la prima volta non è la lotta sulle barricate di un popolo informe, ma si ricorre allo sciopero. («L’arma dello sciopero prende un’ampiezza e una acutezza senza esempio nel mondo».) Lo sciopero era la lezione data dai lavoratori dell’Europa di occidente; ma è qui in Russia che la lezione ritorna più che potenziata. Fine dello sciopero non è più la contesa economica nella fabbrica; la nuova formula che i marxisti di sinistra da tempo propugnavano trionfa:
«Trasformazione dello sciopero economico in sciopero politico; dello sciopero politico in insurrezione».

Alla data del 1905 erano in Europa i sindacalisti rivoluzionari alla Sorel, di cui abbiamo già parlato, che propugnavano lo sciopero generale come forma massima della lotta proletaria, come espressione rivoluzionaria dell’«azione diretta» di classe, in cui i lavoratori agivano essi stessi senza valersi di rappresentanti o intermediari. Questi sarebbero stati i deputati socialisti, non solo, ma gli stessi partiti politici socialisti. Una tale attitudine sarebbe stata estremamente disfattista, ma era in certo senso giustificata dalla attitudine dei partiti socialisti del tempo che avversavano gli scioperi, deprecavano lo sciopero generale e si opponevano al suo impiego.

Quanto superiore la posizione del proletariato russo che non solo aveva appreso dall’esempio delle masse operaie di paesi ove l’industria era ben più sviluppata e con meno recenti origini, ma seguiva fin da allora un partito politico rivoluzionario il quale si seppe porre al centro e alla testa dei colossali scioperi di Mosca, Pietroburgo, Odessa, Varsavia, ecc.! È chiaro che allora nessuno poteva negare il contenuto politico dello sciopero e di tutta la lotta, che aveva di contro la polizia zarista coi suoi massacri sterminatori. Sciopero politico; sciopero insurrezionale; sciopero alla testa del quale sia un partito rivoluzionario: ecco la verifica non solo di una polemica tra russi, ma di una polemica che ha la sua sede in tutta l’Europa.

Naturalmente l’interpretazione dialettica della situazione russa doveva essere tanto possente da superare la difficoltà che la natura rivoluzionaria e di guerra di classe della politica proletaria andava messa in funzione non solo dell’abbattimento di un regime autocratico, ma anche di quello borghese liberale di tipo occidentale.

Tanto sostenevano i marxisti di sinistra in Europa, e tanto fu chiaro dopo la grande vittoria di Ottobre in Russia.

Il nostro testo segue nel mostrare la portata della immensa, storica, «verifica». Procede per tappe grandiose.
«Verifica pratica dei rapporti tra il proletariato dirigente, e i contadini guidati [da lui], oscillanti, instabili».

Un’altra grande lezione della rivoluzione russa è la parte dominante delle città di alta popolazione che si mettono alla testa della rivoluzione, perché vive in esse il grande proletariato industriale. Era la lezione del ’48 europeo, quando Parigi, Berlino, Vienna, Milano e così via sorsero in armi. Ma allora nelle città partecipavano alla lotta, con gli operai ancora non così compatti e maturi come nella seconda metà del secolo, gli intellettuali, studenti ecc. e la dottrina del proletariato classe egemonica non era ancora completa. La provincia e i contadini seguivano lentamente, quando non ospitavano addirittura le Vandee. Tuttavia nella teoria della questione agraria e nella tattica agraria l’esempio italiano fu presente a Lenin, che in Russia poggiava ansiosamente sui contadini proletari prima ancora che su quelli «poveri», come molto si è stentato a capire.

Nelle tesi di Lenin il contadino povero non è tanto il possessore di poca tetra che gli consenta una condizione di vita assai peggiore – allora – di quella del salariato urbano, quanto e in primo luogo il salariato rurale, che in Russia era relativamente poco numeroso. Vi erano paesi, tra cui in questo senso classico l’Italia, ove non solo il salariato senza terra, il puro bracciante, statisticamente prevaleva sugli altri strati della popolazione agraria, ma aveva una tradizione di lotta di classe di primo ordine e non inferiore a quella dei salariati urbani. L’Italia aveva già dato l’esempio di grandi scioperi generali politici in cui le campagne avevano avuto una parte non secondaria rispetto alle città, e in cui i braccianti agrari si erano battuti con spirito rivoluzionario di gloriosa memoria e di prima grandezza. Il fascismo fu un movimento della piccola borghesia agricola assoldata dallo stato borghese e dalla grande borghesia rurale e urbana per smantellare le organizzazioni dei salariati di campagna prima di quelle dei salariati di città. I primi erano non meno battaglieri certo dei secondi, ma ragioni di strategia della guerra di classe, in cui la borghesia prese l’iniziativa con l’impiego delle forze militari di stato, rendevano possibile attaccare i rossi rurali in masse minori che nelle città, concentrando squadre di giovani borghesi e piccolo borghesi spalleggiate da formazioni di stato contro una località di poca popolazione, i suoi proletari, le sue leghe e la sua camera del lavoro. La storia della difesa dei proletari rurali fu semplicemente eroica, date le condizioni di sfavore in cui era condotta, e se i proletari urbani caddero con minore resistenza fu a causa della mancata impostazione di una lotta nazionale, sabotata dai destri e centristi del movimento politico.

Non è questa una digressione fuori argomento, in quanto questo stesso testo sta per indicarci come si traggono lezioni dalla disfatta. Esse sono tratte al contrario dei dati storici, e al contrario della lezione di Lenin, quando le carogne dei partiti social-comunisti tendono a sproletarizzare i braccianti e pongono davanti ai loro interessi quelli dei piccoli proprietari coloni e mezzadri, non solo poveri e semipoveri ma anche medi e ricchi, ossia di quegli strati che forniscono effettivi allo squadrismo, anche se la grande borghesia li fregò allora attraverso il fascismo, e li fregherà oggi attraverso il tradimento social-comunista della rivoluzione.

Vogliamo chiarire che la formula classica di Lenin: proletariato dirigente, contadini guidati, oscillanti, instabili, pone i braccianti rurali dalla parte dell’avanguardia dirigente rivoluzionaria e non nel pantano della oscillazione e della instabilità. Se l’avanguardia ha un partito che non tradisce, la massa oscillante andrà dalla parte della rivoluzione; ma se il partito tradisce e manca, allora essa compirà la oscillazione opposta e cadrà sotto gli influssi fascisti o democratici, succube in ambo i casi della borghesia capitalistica controrivoluzionaria.

Organi politici della rivoluzione

Tutto il testo va letto tenendo presente che esso ha lo scopo di trasportare i contributi della verificazione russa al servizio della rivoluzione occidentale. Esso risponde al problema: I famosi soviet o consigli di operai e contadini, comparsi nella rivoluzione del 1905, e protagonisti della rivoluzione bolscevica del 1917, sono una forma propria della Russia, o ci danno un tipo applicabile in tutti i paesi? Il primo parere si potrebbe basare sul fatto che in Russia la situazione in quegli anni era quella di una minoranza di proletari dell’industria contro una grande maggioranza di contadini, ma la posizione di Lenin è del tutto dialettica. Se in quella situazione la funzione rivoluzionaria dei soviet fu assicurata dalla presenza del partito rivoluzionario di classe, che conquistò i soviet contro gli opportunisti, diresse la insurrezione e assunse la gestione del potere proletario, questo decorso si presenta a maggior ragione più favorevole in occidente, ove le classi contadine e di piccola borghesia hanno peso sociale minore (ma non trascurabile), alla chiara condizione che il partito marxista rivoluzionario sconfigga nelle organizzazioni e rappresentanze rivoluzionarie gli opportunisti, la cui funzione nella prima guerra fu di aggiogare gli strati semiproletari, svirilizzando lo stesso proletariato autentico, al carro nazionale borghese (e che altro fanno gli opportunisti che dilagano dopo la seconda guerra mondiale?).

La breve frase di Lenin è questa:
«Nello sviluppo spontaneo della lotta nasce la forma sovietica dell’organizzazione. Le discussioni di questo periodo sull’importanza dei soviet preannunciano la grande lotta degli anni 1917–20». (Pag. 555 della traduzione Mosca 1948).

Per renderci bene conto che non concludemmo e non concluderemo a una fede miracolistica nella «nuova forma», del tipo della consegna: Il soviet ha sempre ragione; citiamo prima della indispensabile illustrazione un altro passo, che viene nelle pagine seguenti:
«Lo storia si è permessa questo scherzo: nell’anno 1905 in Russia nacquero i soviet; dal febbraio all’Ottobre del 1917 essi furono falsificati dai menscevichi, i quali, a causa della loro incapacità di comprenderne la funzione e l’importanza, fecero bancarotta; e oggi l’idea del potere sovietico è nata in tutto il mondo [Lenin sottolinea] e si diffonde con inaudita rapidità fra il proletariato di tutti i paesi, mentre tutti i vecchi eroi della II Internazionale, in conseguenza di quella stessa incapacità a comprendere la funzione e l’importanza dei soviet, fanno dappertutto la stessa bancarotta dei nostri menscevichi». (Pag. 557.)

D’altra parte, appena Lenin ha trattato della seconda rivoluzione (da febbraio a Ottobre 1917), ha detto:
«I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari assimilarono mirabilmente in capo ad alcune settimane tutti i metodi e i modi, gli argomenti e i sofismi degli eroi europei della II Internazionale, dei ministerialisti e della rimanente genia opporninistica» (Ivi.)

Non devono dunque fare la stessa bancarotta gli eroi della presente zattera da naufragio della III Internazionale, che hanno relegata in Russia la funzione storica dei soviet, e adorano in occidente quella dei parlamenti, pronti a farsene nominare ministri, come già altre volte? Ciò è tanto evidente che il nostro commento sui soviet nel pensiero di Lenin appena occorre.

È noto che della prima frase riportata, sulla nascita del soviet dallo sviluppo spontaneo della lotta, si fa uso per descrivere Lenin come il teorico della «spontaneità», giusta la quale il partito comunista dovrebbe solo attendere che le masse scoprano o inventino esse le forme della rivoluzione, senza azzardarsi a prevederle prima.

Una simile banalità da una parte richiama il modo di pensare dei più fieri nemici di Lenin (che anche qui li flagella), i revisionisti, che non volevano si parlasse di fini ma solo di movimento fine a se stesso, o che si pone i suoi stessi fini in modo imprevedibile; dall’altra quello degli idealisti come Gramsci, che vedevano Lenin fare gettito del determinismo marxista e inventare forme nuove!

I soviet, si dirà, non erano stati profetizzati da nessun teorico; nei libri di Marx non ci sono, né Lenin ve li aveva indicati. Ma questo sofisma consiste appunto nella ignoranza della funzione e importanza «internazionale» dei soviet che Lenin attribuisce ai menscevichi e centristi (poco più oltre egli attaccherà gli idealisti, ravvisando in essi i sinistri infantili, e sarà il caso di notare che i sinistri italiani a ogni passo avevano difeso il materialismo e il determinismo).

Forma e contenuto

I soviet sono la forma di organizzazione del potere proletario, e si può anche dire la forma costituzionale dello stato proletario. La teoria della rivoluzione non solo è indispensabile, ma esisteva nei termini che proprio qui Lenin rivendica. Saremmo nella utopia se descrivessimo le forme di organizzazione della società futura, dello stato futuro; siamo nella teoria del comunismo scientifico quando descriviamo le forze della rivoluzione e i loro rapporti, che sono rapporti economici, sociali e politici tra le classi. Il tipo del consiglio operaio e contadino non si trova tra i principi della dottrina, per Marx e Lenin indispensabile al partito della rivoluzione; ma tra essi sono i caratteri non capitalistici della società rivoluzionaria, i caratteri dell’urto tra le classi: lotta di classe, insurrezione, dittatura, terrore.

Questo la teoria, come Lenin rivendicò massimamente, aveva scritto chiaramente; ma era la costituzione del nuovo stato che non aveva il compito di scrivere. Teoricamente e in principio lo stato costituito, nella nostra accezione, è un’arma indispensabile ma passeggera nella storia, come lo sono le classi e le forme organizzative di classe (sindacati, soviet), e solo il partito politico oggi organo di classe può considerarsi eterno come organo umano. Il partito è definito dal suo contenuto, che è proprio la dottrina storica e l’azione rivoluzionaria; le altre organizzazioni sono definite dalla forma, e possono riempirsi di contenuti diversi.

Quali infatti le tesi che qui Lenin riduce a sintesi mirabile?
1. La lotta russa rivelò nella storia la forma soviet nel 1905
2. I marxisti rivoluzionari videro nei soviet l’organo del potere proletario; mentre gli opportunisti cercarono di subordinarselo, e vi riuscirono in molti luoghi e tempi, per svuotarlo del contenuto, affermare che sarebbe sparito dopo la lotta, o che potesse coesistere in una repubblica democratica a fianco di un parlamento elettivo.
3. Non va data la formula del potere ai soviet se questi sono in mano ai menscevichi o simili, ma solo quando conduce al potere del partito comunista.
4. (II congresso). Nei paesi occidentali prima della fase di assalto al potere non si devono artificialmente formare i soviet, appunto perché nessuna forma è rivoluzionaria per automatismo.

I soviet esprimono la dittatura proletaria stabilita nella nostra dottrina prima che sorgesse nella storia (Marx per la Francia 1848 e 1871, in Lenin: «Stato e Rivoluzione») in quanto non vi accedono, nelle elezioni dalla periferia al centro, i borghesi e i proprietari terrieri. Se a fianco vi fosse una camera elettiva e questa formasse un ministero, i soviet sarebbero una maschera vuota. Ecco la discussione del 1905 che viene verificata dai fatti del 1917!

La lezione della storia dal secolo XIX al XX è questa. Prima della rivoluzione francese esiste già una teoria di essa, sebbene errata. Vi è chiaro il rapporto delle forze: distruzione del primo stato (nobiltà e monarchia) e del secondo stato (clero), ma il programma del nuovo potere è: Potere a tutti i cittadini, a tutto il popolo; e non (come scoprì il marxismo, dando ai fatti la loro vera «anima»: «Prefazione» alla «Critica dell’Economia Politica») potere al terzo stato, ossia alla borghesia. La teoria dei Voltaire e dei Rousseau nel XVIII secolo possiede il contenuto della rivoluzione, non ne può disegnare la forma costituzionale. Ammira la tradizione greco-romana, ma quelle democrazie avevano la piazza, ossia l’assemblea di tutti i liberi: democrazia diretta ma di una minoranza, perché vi era la maggioranza schiava. Dallo sviluppo spontaneo della lotta anche dopo il 1789 nacquero le varie forme, impreviste prima: assemblea nazionale, costituente, convenzione… matrici delle camere elettive dell’ottocento. Anche l’esempio storico inglese non fu seguito che dopo, con la doppia camera, e non fu teorizzato che post festum. A sua volta era nato dalla lotta tra due classi diverse: borghesia industriale e proprietari terrieri.

Il soviet dunque, possiamo dire, sta alla rivoluzione in cui cade il capitalismo, come il parlamento costituzionale sta alla rivoluzione in cui cade il feudalismo. Sono le strutture in cui si ordinano gli stati usciti dalla rivoluzione che ha distrutto l’antico regime. In questo chiarimento li chiamiamo forme di organizzazione dello stato, che è cosa diversa dalle forme sociali o modi successivi di produzione. Di questi le vecchie rivoluzioni non erano precoscienti, perché celavano a se stesse la nascita di una nuova classe dominante; ma la nostra rivoluzione con la teoria sua propria lo è, e conosce i veri caratteri per cui il modo sociale comunista si contrapporrà a quello capitalista, e sarà senza più classi e senza classe dominante, alla fine.

La visione menscevica e borghese della rivoluzione russa la voleva chiudere in una forma di ingranaggio statale non diversa da quella dei paesi capitalistici: la democrazia elettorale. La visione marxista e bolscevica prevedeva e sapeva che la rivoluzione non si sarebbe fermata che alla vittoria del proletariato, egemonico sulle altre classi povere, e quindi alla sua dittatura. Nei nostri studi sulla rivoluzione russa abbiamo ricordato come anche prima del 1903 Lenin proponesse la formula: Dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Nel 1917 egli arriva in Russia, e annunzia la formula completa, universale, internazionale, centro della dottrina marxista della rivoluzione: Dittatura del proletariato.

Tutta l’opera di Lenin tende a stabilire che la rivoluzione russa non si svolge secondo formule specifiche «locali», ma al contrario, pure essendo stata per lunghi anni attesa come una ritardata rivoluzione democratica, il fatto che in essa, e sin dalla fase 1905–7, lottano in prima linea le classi lavoratrici, sviluppando nella lotta una forma loro propria, il soviet, la trasferisce in una immediata rivoluzione di classe proletaria, che riempie di sé la nuova forma, e dunque ne fa forma non interclassista, non democratica, non popolare e non populista, ma classista, legata internazionalmente al proletariato di avanguardia, guidata internamente dal partito marxista, e quindi apparsa per riempirsi del contenuto che la teoria rivoluzionaria aveva sicuramente previsto: potere di classe, stato di classe, dittatura di classe, mete che la storia non raggiunge che quando la classe si è organizzata in partito, come scritto nel «Manifesto» del 1848. E può organizzarsi in classe dominante, per la distruzione della società divisa in classi, perché il potere, lo stato, la dittatura, sono funzioni del partito.

Abbiamo già visto che altra tesi di Lenin, che con lui sempre difendemmo contro i veri infantili, è che il soviet non esclude il partito, come molti in Europa credettero, ma ne esige la presenza e l’efficienza, perché è una semplice forma di organizzazione che va riempita del contenuto, e il partito è la forza della storia che sola può arrecarlo.

Il primo giornale della sinistra italiana fu «Il Soviet». Essa si oppose alla proposta di molti massimalisti di fondare i soviet in Italia nel 1919. Essa dichiarò necessario il partito rivoluzionario con una chiara teoria, e liberato dagli opportunisti. Essa sostenne, contro le visioni immediatiste, che i soviet non erano una rete di sindacati o di consigli di azienda, ma il tessuto territoriale e centralizzato del nuovo stato proletario, la cui ossatura doveva levarsi nella fase della insurrezione. Che erano quindi organi di natura politica, ma la loro struttura aveva bisogno della funzione attiva del partito rivoluzionario, perché la rivoluzione vincesse. E questi insegnamenti, con Lenin, si traevano dalle lezioni russe della storia, calzando in modo perfetto con il disegno classico della nostra dottrina.

La realtà apporta le forme, ma la teoria prevede il contenuto, ossia le forze e il loro rapporto e scontro. In questi passi lapidari, se crediamo alla versione tedesca in nostro possesso, Lenin ha adoperata la parola profetizzare.
«Le contrastanti discussioni del 1905–7 sulla importanza dei soviet profetizzano le grandi lotte del 1917–1920».

Segue il leninismo non chi sbanda e tentenna, ma chi non teme di impegnarsi a profetizzare il futuro.

La «manovra agile»

Pure avendo già detto che dedicheremo la parte finale di questo studio, da considerarsi come uno studio a sé, alla questione della tattica parlamentare, non possiamo non trattare subito un aspetto importante del confronto che fa Lenin tra la esperienza storica della lotta del partito bolscevico nelle due rivoluzioni, e quanto allora se ne deduceva circa la tattica che i rivoluzionari avrebbero dovuto seguire nei vari paesi. Base di tutta la questione era che si dovesse correttamente agire al fine di estendere negli anni successivi al 1920 la rivoluzione dalla Russia all’Europa, sola via per la vittoria del socialismo in Europa e in Russia. Nessun diritto dunque di invocare queste conclusioni del 1920, e questa stessa impostazione del problema storico che Lenin pone e affronta, per gli sciagurati che gli attribuiscono, col falso più gigante della storia, l’intenzione di abbandonare la rivoluzione d’Europa al suo destino e proseguire verso il socialismo nella sola Russia.

Nella situazione del 1920 si disegnavano enormi errori nel giudizio sugli eventi russi. Il partito e l’Internazionale si dovevano massimamente preoccupare non solo delle falsificazioni dei socialsciovinisti che infamavano la rivoluzione d’Ottobre negandole contenuto proletario e socialista, ma anche delle interpretazioni cosiddette di sinistra che cadevano in errori antimarxisti e controrivoluzionari come quelli di cui abbiamo già dato cenno, ossia negare la funzione del partito politico, assumere che la forma soviet lo avesse eliminato, o cadere in quella civetteria con l’anarchismo cui Lenin fa in molti passi allusione, dire che la rivoluzione russa aveva abolito lo stato, che i soviet non erano il tessuto dello stato proletario (transitorio ma con un periodo di vita storica almeno bastevole a estendere la rivoluzione in Europa) ma un effimero schieramento di folle insorte.

Quando sia ben chiaro che la forma parlamento, propria della rivoluzione antifeudale, deve in rapido ciclo essere distrutta per sostituirvi la forma sovietica di dittatura proletaria, e che questo è lo scopo, non ultimo e lontano, ma immediato, di tutta la lotta, diventa un problema di strategia e di tattica di partito quello di usare o non usare il mezzo parlamentare. L’astensionismo tradizionale dell’anarchico, sempre combattuto dalla sinistra marxista, e con vigore speciale in Italia, è una posizione individuale e non di classe. Dato che la lotta collettiva deve condurre a una società senza stato, al che noi con Lenin e in contrasto immenso con i social-traditori della destra aderiamo, che cosa vale dire: Io, che nella mia «coscienza» personale ho risolto il problema, boicotto lo stato, ossia, nel 1960 nel 1920 o nel 1870, boicotto lui stato non votando?

È chiaro che questa non è una soluzione storica ma una bambinata.

Su quali basi Lenin respinge un simile opportunismo piccolo borghese? Questo va inteso, anche se la posizione dialettica non è la più semplice.

Poiché tutto il mondo guarda alla Russia – con ammirazione o con orrore – Lenin è qui a testimoniare che cosa la Russia ha fatto, in specie il proletariato russo e il partito bolscevico che ne ha condotta la rivoluzione.

Vi sono due «tempi di prova» della tattica bolscevica, il 1905–1907 e il 1917–1920, separati da tempi di attesa, di cui a suo luogo va anche detto per uso nostro che viviamo oggi un tempo di ben più lunga attesa. Lenin mostra che si è vinto per essere stati lontani dai due pericoli: il socialdemocratismo che si fa un limite della forma liberale e quindi borghese dello stato, e l’anarchismo che crede di romperla con una negazione ideologica, pari all’atto dello struzzo che crede di essere scampato al nemico ficcando la testa nella sabbia per non vederlo.

I bolscevichi hanno avuto una vasta gamma di tattiche nei due periodi storici indicati. Ecco come Lenin sintetizza il primo:
«La successione alterna dei metodi di lotta, parlamentare e non parlamentare, della tattica del boicottaggio e della tattica di utilizzazione del parlamento, delle forme legali e illegali, le relazioni e i legami di queste diverse forme tra loro, tutto ciò si distingue per una enorme ricchezza di contenuto. Ogni mese di questo periodo (di tre anni) vale per l’apprendimento dei fondamenti della scienza politica, per le masse e per i capi, per le classi e per i partiti, un anno di sviluppo ‹pacifico e costituzionale›. Senza la prova generale del 1905 la vittoria della rivoluzione di Ottobre 1917 sarebbe stata impossibile».

Secondo periodo.
«La forza di inerzia inveterata e insieme la inverosimile decrepitezza dello zarismo, a cui si aggiungevano i colpi di una guerra infinitamente penosa, avevano suscitato contro di esso una straordinaria forza di distruzione. In alcuni giorni la Russia (febbraio 1917) si trovò cambiata in repubblica, in una democrazia borghese più libera, malgrado il pieno stato di guerra, che in qualunque altro paese del mondo».

Notiamo che questa è una idea centrale in Lenin, ma dialetticamente ne sorge l’opposto che la solidarietà con una tale forma.
«Il governo fu formato dai capi dei partiti di opposizione e dei partiti rivoluzionari, come nei paesi del più puro parlamentarismo, poiché il titolo di capo di un partito di opposizione al parlamento, anche nel parlamento più reazionario possibile, ha sempre facilitato il compito ulteriore di questo capo nella rivoluzione».

Nel 1920 noi chiedevamo a Lenin anzitutto se un tale vantaggio non era esclusivo del «parlamento più reazionario possibile»; e poi se di tutti quei capi parlamentari non avesse egli stesso schiaffeggiato l’ulteriore compito controrivoluzionario. Ma qui il nostro scopo è solo di presentate con tutta fedeltà la costruzione di Lenin. Poco più oltre:
«I bolscevichi hanno cominciata la loro campagna vittoriosa contro la repubblica parlamentare, borghese nel fatto, e contro i menscevichi, con una estrema prudenza, e avevano preparata questa campagna con infinita cura – contrariamente a quello che si crede oggi in Europa e in America. Noi non abbiamo fin dall’inizio di questo periodo spinto al rovesciamento del governo, noi abbiamo solo spiegata la impossibilità di rovesciarlo senza modificare preliminarmente la composizione e la mentalità dei soviet. Noi non abbiamo proclamato il boicottaggio del parlamento borghese, dell’assemblea costituente; noi, nella conferenza di aprile del nostro partito, ufficialmente, abbiamo solo detto che una repubblica borghese con una assemblea costituente è meglio della stessa repubblica senza assemblea costituente; ma che la repubblica sovietica operaia e contadina valeva meglio di ogni specie di repubblica parlamentare e di ogni democrazia borghese. Senza questa preparazione prudente, minuziosa, circospetta e prolungata, noi non avremmo mai potuto riportare la vittoria di Ottobre 1917, né conservare fino a oggi questa vittoria»[6].

La conferenza di aprile

È esatto che in aprile 1917, ossia appena tornato in Russia, quando egli dette all’azione bolscevica il noto colpo storico di acceleratore che sbalordì i compagni, Lenin trovò giusto difendersi contro un triviale attacco del menscevico Goldenberg che lo aveva trattato da pazzo delirante (altro che prudente circospezione!) e scrisse nella «Pravda»: E si pretende che io sia contro la rapida convocazione dell’assemblea costituente!!!

Ma oggi l’indagine storica ci permette di dare il senso giusto alle parole di Lenin: per giungere al brillante risultato di sciogliere con la forza l’assemblea costituente eletta, è occorsa un’azione ben più efficace che quella barbina di chi avesse esortato le masse in questo modo: lasciate eleggere tutte le assemblee del mondo, quello che necessita è non andare a votare e non porre piede nell’assemblea!

Questo va detto alle carogne che traggono dall’assemblea costituente italiana del 1946 (nata non dal moto delle masse ma dal veicolamento di un clan di degeneri capi politici a mezzo della flotta e dell’esercito americani e alleati) la concessione di un credito storico, per soddisfare le aspettazioni proletarie, di un tempo eterno in cui non contino i mesi per anni, come in Lenin, ma gli anni per mesi o settimane, di svenevoli conte di schede che sono sempre li dopo decine e ventine di ripetizioni.

Poiché Lenin ci ha riportati alla conferenza di aprile e alla sua formidabile piattaforma, che il partito ufficialmente fece proprie, ci sembra il caso di farvi ricorso.

Il governo provvisorio è definito governo borghese di classe, e gli è dichiarata l’opposizione.

La sua politica estera è definita imperialista e di aggiogamento alle potenze borghesi dell’Intesa.

L’intesa tra governo provvisorio e soviet e denunciata come prova della influenza dei partiri piccolo borghesi, specificamente elencati. La Russia di allora è definita il paese più piccolo borghese di tutta l’Europa, e tanto è dichiarato una contaminazione del proletariato.

La tattica del momento non è indicata come quella della insurrezione, ma come necessità
«di versare aceto e fiele nell’acqua inzuccherata delle frasi democratiche rivoluzionarie».
Le proposte possono sembrare di sola propaganda ma sono un «lavoro rivoluzionario pratico» anche senza la consegna di prendere le armi (che anche nel luglio Lenin dichiarerà sbagliata). Ecco la tattica di aprile: Lavoro di critica. Preparazione e raggruppamento degli elementi di un partito coscientemente proletario, comunista. Liberazione del proletariato dalla generale ebbrezza piccolo-borghese. Notare che la coscienza del partito è opposta alla «fiduciosa incoscienza delle masse».

Fermandoci un attimo, chiediamo se l’artificiosa pompata di antifascismo in Italia dopo 17 anni dalla caduta del fascismo, e il successo di una formula super-idiota quanto questa, non rispondano a uno stato di «fiduciosa incoscienza delle masse»; senza che il partito cosciente sia presente, e senza che lo si possa sostituire con un frasario infantile di falsa sinistra.

Il paragrafo seguente è contro il difesismo rivoluzionario ossia la situazione che ritornerà a Brest-Litowsk nel 1918. È vero che qui Lenin si esprime con molta pazienza per le masse, che credono dopo la caduta dello zar a una patria rivoluzionaria da difendere. Ma la tesi dice senza ambagi:
«La minima concessione al difesismo rivoluzionario è un tradimento del socialismo, è una rinuncia completa all’internazionalismo»[7].

Questione della fine della guerra. Il primo passo è la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. Il secondo deve essere il passaggio del potere statale al proletariato.

Questione della forma dello stato. La repubblica democratica parlamentare è il tipo più perfetto, progredito, di stato borghese. Il nuovo tipo apparve con la Comune di Parigi ed è oggi riprodotto dai soviet. Lo stato democratico col suo apparato che deve essere spezzato incombe dall’alto sulle masse, i soviet muovono dal basso.

L’Internazionale. Il testo di aprile 1917 non è da meno di quello di maggio 1920 nello stigmatizzare tanto la destra social-sciovinista quanto il centro di cui sono elencati i rappresentanti da Kautsky a Turati. Viene criticata la maggioranza di Zimmerwald per il suo «social-pacifismo» e annunziata la fondazione della III Internazionale. Oggi è di speciale interesse il giudizio sul pacifismo.
«Chi si accontenta di’‹esigere› dai governi borghesi che essi concludano la pace, o ‹esprimano la volontà dei popoli›, ecc., cade di fatto nel riformismo. Poiché, obiettivamente, il problema della guerra si pone soltanto in modo rivoluzionario»[8].

La pace e la liberazione dei popoli dalle conseguenze della guerra (debiti)… non sono possibili che mediante la rivoluzione proletaria. Non esiste altra via di uscita.

Come i moderni «ufficiali» Leninisti a parole conciliano con simili tesi: primo, la costruzione del socialismo in un solo paese; secondo, la evitabilità della guerra per volere dei popoli; terzo, la distensione e coesistenza pacifica, sia essa tra stati a diverso regime, sia tra stati ad analogo regime, è cosa che è inutile chiedere loro.

La parte finale della piattaforma di aprile verte sul cambiamento del nome del partito russo da socialdemocratico a comunista.

Gli argomenti sono classici e noti. Ma ne ricorderemo talune formulazioni, per concludere alla dimostrazione che la prudenza tattica di Lenin sta le mille miglia lontana dal travisamento e sottacimento dei principi, come hanno già dimostrato le frasi tratte dal documento pubblico di partito nel difficile aprile del 1917. Qui e ribadita la vera natura della pestilenza opportunista, problema vivo nel 1920 e più vivo ancora oggi.

Vi sono due argomenti scientifici contro il nome socialdemocrazia, sulla base dei continui moniti di Marx ed Engels. Il primo termine è errato perché il socialismo è un nostro fine transitorio, per giungere al comunismo. Il secondo termine lo è perché
«la democrazia è una delle forme dello stato, e invece noi marxisti siamo avversari di ogni stato».
Il nostro pieno programma è comunismo senza stato. Il che vale: comunismo senza democrazia.

Natura dell’opportunismo

Ci serviamo di questo passo, che molti dell’«Estremismo» richiamano e parafrasano quasi frase a frase:
«Noi siamo marxisti e prendiamo per base il Manifesto del Partito comunista, svisato e tradito dalla socialdemocrazia in due punti principali:
1) gli operai non hanno patria: la ‹difesa della patria› nella guerra imperialistica significa tradimento del socialismo;
2) la teoria marxista dello stato, svisata dalla II internazionale»
[9].

Il fenomeno storico dell’opportunismo, se ci è lecito ricostruire con nostre parole il contenuto di una battaglia polemica di mezzo secolo, consiste nel fare, a un grave svolto della situazione storica, e al fine di tenere in esso il comportamento inverso a quello che il partito aveva sempre annunziato, una sensazionale «scoperta».

La storia del tradimento è una storia ai «scoperte» propinate in momenti cruciali al proletariato, che rendono ai suoi dominatori il servigio di disorientarlo e debilitarlo.

A ognuna di tali «scoperte» una formula che sembrava sicura e definitiva, quando si tratta di applicarla, viene svuotata e fatta a pezzi.

Una di queste formule di cui ora ci serviremo come esempio evidente è quella del «Manifesto» che Lenin qui cita: i proletari non hanno patria. E poi: non si può toglier loro ciò che non hanno. È la classica risposta alle antiche «obiezioni» al comunismo.

In Russia la parte maggiore del movimento proletario allo scoppio della guerra 1914 non si era sentita di affermare che i lavoratori russi dovessero difendere una patria personificata nello zar. Solo pochi dei capi socialisti osarono giungere alla tesi «difesista» della pretesa aggressione tedesca, e purtroppo era tra essi Plekhanov, maestro di Lenin.

Ma dopo la caduta dello zar nel febbraio del 1917 il difesismo guadagnò terreno. Con la concessione di una democrazia parlamentare (che tuttavia si riduceva a un governo provvisorio di capi partito della vecchia Duma, come Lenin descrive) quasi tutti i capi politici annunziarono alle masse che avevano trovata una Patria e che era il caso di prendere le armi per difenderla, si intende con sommo gaudio della democrazia anglo-francese.

Lenin, come abbiamo testé visto, si dovette con tutte le forze opporre a questa esosa contraffazione.

Le cose non furono in Italia molto diverse. È noto che allo scoppio della prima guerra mondiale nel partito socialista solo pochissimi elementi giustificarono il social-difesismo di tedeschi, francesi, ecc. Ma alcuni ve ne furono, anche dai primi mesi e con anticipo sul lurido tradimento di Mussolini.

Un pover'uomo tra questi fu Paoloni, che ricordiamo solo per la strana coincidenza che era una specie di esperto della propaganda che allora si diceva spicciola. Dirigeva un giornaletto, «Il seme», che costava un centesimo (come chi dicesse, oggi, meno di cinque lire). Naturalmente si era fatta, per decenni, molta propaganda sul «Manifesto dei Comunisti». Quando rinfacciammo a questo signore la famosa frase che non poteva essere scordata, egli, che non si era mai sognato di dirlo o scriverlo prima, snocciolò la spudorata spiegazione: Sì, nel 1848 Marx disse che i proletari non avevano patria, perché si riferiva ai paesi ove non era stato conquistato il diritto all’elettorato democratico. Ma, da quando questo è un fatto, la frase non vale più, e i proletari di una repubblica parlamentare, e anche di una monarchia costituzionale, hanno acquistata una patria da difendere sui campi di battaglia.

Ecco la scoperta. Non scoperta perché si fosse trovata una verità, ma perché al contrario si era spacciata una spiegazione che in tanto tempo, dal 1848 al 1914, anno della guerra imperialistica, nessuno aveva pensato di dare.

Scoperta e sorpresa. Queste ondate di vergognosa trufferia possono però in pochi giorni distruggere sforzi di lavoro di decenni di tutto un partito o almeno della parte più sana di esso.

Non diversa cosa è per la questione della democrazia e dello stato. Per decenni si è diffusa senza nulla mutare la critica marxista, la formula che nella più democratica repubblica lo stato è una macchina per sfruttare il proletariato nell’interesse della borghesia – in pochi giorni dal l’agosto 1914 si «scopre» che questo non dice nulla quando lo stato è aggredito; quando si deve scegliere tra due stati diversamente democratici; quando si deve ricongiungere una provincia alla sua nazionalità e lingua; e per cento altri motivi.

Sono tutte questioni sviscerate dal marxismo con riguardo a tutte le zone geografiche e i periodi storici, e si tratta di problemi non facili a rinchiudere in formule; ma quando si credeva raggiunta una sistemazione fanno la fine dei celebri deliberati di Stoccarda e di Basilea e si dice che era giusto votarli, ma che la situazione ha avuto sviluppi diversi da quelli allora considerati, e si scopre come, nell’unico caso in cui si doveva applicarli, vi siano buone ragioni per violarli spudoratamente.

La lezione della lotta di Lenin e della III Internazionale contro l’opportunismo è che, se lo si vuole debellare, occorre rivendicare la possibilità di
«scrivere in anticipo le formule da rispettare strettamente nel momento supremo dello svolto storico»
– Il partito quindi prevede le situazioni a venire, e traccia i suoi piani di azione per esse.

Non si può venire ad altra conclusione dall’esame delle pagine di Lenin e di tutta la palpitante storia della sua vita e della sua battaglia. Egli volle costruire e ricostruire una teoria e una organizzazione che non potessero più essere travolte, come al principio di agosto del 1914 furono le dottrine del socialismo marxista «ufficiale» e l’organismo della II Internazionale.

Questo si legge a ogni pagina e a ogni rigo, e non con un lavoro pignolo di letterale esegesi, bensì con il confronto dei fatti storici e dei loro chiari e sicuri sviluppi.

Come Lenin svergognò chi disse che era falsa la norma che non si difende la patria, e che il socialismo preconizza uno stato democratico, cosi oggi la medesima vergogna deve cadere su chi afferma che gli interessi delle classi lavoratrici possono filtrare legalitariamente tra le maglie di una costituzione democratica, che una campagna pacifista può evitare la guerra e sostituirla con una incruenta gara di emulazione fra stati a diverso (ma diverso non è) regime, o che la frammistione delle rivendicazioni proletarie con quelle di ceti piccolo borghesi (e medio borghesi!) non è più contaminazione e ottundimento del vigore rivoluzionario, ma successo del proletariato.

Se chi oggi dice tutte queste cose (e se ne sentono anche di peggiori sul patriottismo, il legalitarismo, il moralismo, e via) ammettesse di tornare sulle posizioni dei Kerenski, degli Scheidemann, dei Turati, dei Renaudel, dei tanti che Lenin a sangue ha frustato, avremmo un opportunismo di oggi fratello siamese di quello di allora.

Ma se i portavoce di tante infamie pretendono di trovarne la giustificazione nelle pagine di Lenin, in quelle di Marx ed Engels, dopo che Lenin medesimo le aveva per sempre rimesse in abbagliante luce; allora va detto che l’opportunismo di oggi non ha perdono, che tre volte più di quello di allora va maledetto. E che i suoi risultati, come è dato d’ogni intorno vedere, sono di un disfattismo dieci volte maggiore; che di tanto più merita della controrivoluzione borghese.

Ripresa e ricapitolazione

Nelle pagine che precedono abbiamo voluto indicare quale sia il metodo giusto per fare impiego dei testi fondamentali della teoria rivoluzionaria. Si deve ricollocarli nel quadro del tempo in cui apparvero e delle lotte che in esso si svolgevano, e ritrovare in tutta la linea del loro sviluppo i moventi che ne provocarono la redazione e la divulgazione e i fini che con quelle gli esponenti del movimento si erano proposti. Abbiamo data un’idea di insieme dello scritto di Lenin e quindi sviluppata la presentazione e il commento dei suoi primi capitoli, che quando sarà condotta a un punto sufficiente consentirà a ogni militante e ai gruppi di compagni della nostra organizzazione di seguirne la intera lettura traendone le giuste deduzioni.

Un determinato testo di partito non diventa di generale nozione e citazione per la notorietà letteraria del suo aurore, ma perché il suo passare non tanto di lettore in lettore quanto di gruppo in gruppo e di sezione in sezione del partito e del movimento rispondeva e rispose a una reale necessità della lotta, e offri soluzioni feconde e possenti ai problemi di classe in dati svolti della storia, e, quando si tratta di tappe dell’unica linea rivoluzionaria, anche ai problemi del futuro.

Un simile metodo si contrappone diametralmente a quello sciaguratissimo di stralciare dal contesto citazioni isolate e usarle fuori del loro tempo, della loro origine e del loro obiettivo, a fine di falsificazione travisatrice, ossia nella maniera che i mortali nemici di Lenin usarono per le opere di Marx e di Engels, e per quelle che sono le «tavole» della dottrina del partito. Lenin stesso fu l’autore e il maestro del nostro metodo collettivo di trarre lezioni dalla storia, e di scegliere le presentazioni della storia che sono ossigeno vitale di ogni movimento di lotta, e del nostro su tutti.

Poiché il nostro scopo non è di stampare una edizione dell’«Estremismo» di Lenin con chiose a piè di pagina come un Dante commentato – non sarebbe lavoro disprezzabile qualora il personale di lavoro e i mezzi di divulgazione nostri in questa epoca fetente non fossero tanto ristretti; e quod differtur non aufertur, – ci pare di aver dato in quel che precede sufficienti saggi della applicazione del nostro metodo di lettura di Lenin, e di poter trarre le conclusioni sulle questioni generali e mondiali del metodo della lotta proletaria. Un breve riferimento alle questioni «italiane» varrà a stabilire che il dissenso tattico fra Lenin e noi, superato nella situazione del 1920 di cui si tratta qui, e anche il dissenso tattico negli anni successivi alla mallatìa e morte di Lenin, rappresentano differenze trascurabili per due ragioni. Una è che la sinistra marxista italiana, come Lenin intuì in questo testo, era dalla sua parte nella lotta contro l’infantilismo piccolo borghese libertario, che noi preferiamo chiamare immediatista e non di sinistra (la nostra scuola ha sempre negato che gli anarchici fossero a sinistra dei marxisti, ieri oggi e domani) e nel porre in parallelo questo opportunismo con quello di destra; e anzi in Italia la corrente impeciata di questo errore era quella gramsciana (ordinovismo, aziendismo) che noi lealmente procurammo di trarre nel campo marxista, con la più flessibile delle accettazioni di disciplina di partito anche nel campo della partecipazione parlamentare. L’altra ragione è che, come Lenin aveva sempre considerato come nemico più tremendo l’opportunismo socialdemocratico di destra, cosi la sinistra italiana fu la prima a vederne risorgere il pericolo nel seno della III Internazionale e lo combatté nei congressi ulteriori. Gli eventi recenti hanno dimostrato la esattezza di questa nostra violenta reazione, che sarebbe stata ingiustificata, a dire di Lenin stesso, se avesse coinciso con la ricaduta nell’infantilismo di sinistra; ma che fu condotta sul terreno puro del marxismo, tanto che previde esattamente le degenerazioni di oltre trent’anni.

Ciò può essere provato con un confronto tra questo testo, che leggemmo a Mosca suggendone ogni parola nel 1920, e quello ignobile che nel 1960 viene da Mosca dopo la riunione dei falsi partiti comunisti e operai, e che eleva a proclamazione di principio la rinnegazione di tutte le lezioni bolsceviche, leniniste, e dell’Ottobre 1917, per le quali qui, grandissimo anche se in talune cose non abbastanza pessimista sul possibile ritorno del «senilismo» pacifista e collaborazionista col capitale, Lenin si leva.

Lasciando quindi ai compagni lettori la cura del confronto di dettaglio dei testi, riassumeremo nei punti capitali le tesi dell’«Estremismo» di Lenin.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Si veda la «Premessa». [⤒]

  2. In tutto questo capitolo abbiamo preferito servirci dei testi tedesco e francese citati nella «Premessa». [⤒]

  3. Da «I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione», «Progetto di piattaforma del partito del proletariato», in Opere Scelte, cit., II, pag. 21. [⤒]

  4. Da «I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione», «Progetto di piattaforma del partito del proletariato», in Opere Scelte, cit., II, pag. 32. [⤒]

  5. Da «I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione», «Progetto di piattaforma del partito del proletariato», in Opere Scelte, cit., II, pag. 35. [⤒]


Source: Tratto da «La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin», ediz. «Il Programma Comunista», 1964

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