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IL TESTO DI LENIN SU «L’ESTREMISMO, MALATTÌA D’INFANZIA DEL COMUNISMO», CONDANNA DEI FUTURI RINNEGATI (VII)


Il testo più sfruttato e falsato da oltre cento anni da tutte le carogne opportuniste, e la cui impudente invocazione caratterizza e definisce la carogna


Content:

Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati
Premessa
I. La scena del dramma storico del 1920
II. Storia della Russia o dell’ umanità?
III. Cardini del bolscevismo: centralizzazione e disciplina
IV. Corsa storica (concentrata nel tempo) del bolscevismo
V. Lotta contro i due campi antibolscevichi: riformista e anarchico
VI. Chiave della «autorizzazione ai compromessi» che Lenin avrebbe data

VII. Appendice sulle questioni italiane
Oggetto di questa nota finale
Dall’unità borghese alla prima guerra
La guerra del 1914
Il congresso 1919 e le elezioni
Realtà del primo dopoguerra italico
Unità o scissione?
L’immediatismo ordinovista
Notes
Source


Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati

VII. Appendice sulle questioni italiane

Oggetto di questa nota finale

Se troviamo giusto dedicare un certo spazio alle cose italiane[10], che furono oggetto di dibattito nella Internazionale comunista nel primo dopoguerra, non è certo perché centro della divergenza che sempre più, dopo Lenin e dopo il 1920, ebbe ad approfondirsi, fossero le faccende del partito italiano e il modo in cui la Internazionale le decise. Il punto più importante allora e oggi era quello della tattica internazionale comunista e in un più ampio sfondo storico della strategia della rivoluzione europea ed extraeuropea; ed è questo il punto su cui dopo quarant’anni si possono e si devono tirare le somme. La totale bancarotta rivoluzionaria nei paesi capitalisti occidentali sta a provare come l’uso della consegna di Lenin circa la «flessibilità» degenerò in un abuso analogo a quello che Lenin imputò allora ai traditori come Kautsky e compagni. Abbiamo giustificato i motivi storici per cui a Lenin parve urgente in quello svolto battere più contro il pericolo del rigidismo che contro quello del troppo flessibilismo. Noi che ci permettemmo di sopravvalutare il pericolo di questo, e di troppe concessioni a esso, stavamo per la salvezza del partito; Lenin senti la salvezza della rivoluzione europea, senza la quale sapeva che la russa era perduta. Noi possiamo dire che la sua visione era grande, ma non possono osare di farlo quelli che blaterano di una Russia rivoluzionaria di oggi.

Misera cosa sarebbe farsi un merito della situazione storica disastrosa, per cui sono state immolate la rivoluzione d’Europa e quella di Russia, e con esse è stato distrutto il partito comunista mondiale. A tale salvezza non basta-vano le Cassandre.

Il nostro studio su Lenin tende a stabilire il difficile trapasso tra la flessibilità che egli proponeva – e che non esitiamo a definire troppo larga per i paesi della meretrice democrazia moderna – e la schifosa flessibilità dei traditori del 1920, superata solo da quelli della presente ondata carognesca, che gli fu riservata la fortuna di non conoscere.

Ecco difatti un’altra citazione dal testo:
«Per avviarci alla vittoria con maggiore sicurezza e fiducia non manca che una sola cosa [ecco il magnifico ottimismo di Lenin che ci spaventava!] ed è la coscienza profondamente meditata, che i comunisti di tutti i paesi devono conseguire, sulla necessità di arrivare al massimo di «souplesse» nella loro tattica. Una lezione utile potrebbe essere (e dovrebbe essere) la disavventura accaduta a marxisti tanto eruditi e a capi della II Internazionale tanto devoti al socialismo, quanto Kautsky, Bauer, e anche altri. Essi avevano perfetta coscienza della necessità di una tattica souple [elastica, ma il vocabolo italiano è peggiore], avevano appresa e insegnata agli altri la dialettica marxista… ma al momento di applicare questa dialettica, hanno commesso un tale errore, si sono nell’azione mostrati talmente estranei alla dialettica, tanto incapaci di valutare i rapidi cambiamenti di forme, e la rapida entrata nelle antiche forme di un nuovo contenuto, che la loro fine, paragonata a quella di Hyndman, di Guesde e di Plekhanov, non è affatto più invidiabile». (Dalla trad. francese; vedi anche trad. it. cit. pagg. 610–11.)

La sorte dei tre ultimi fu di passare alla difesa della patria, per Lenin pietra di paragone dell’ultima infamia; la sorte dei primi, dei centristi, fu non meno schifosa: il lettore può rileggere le pagine che precedono e seguono: fu quella di plaudire in nome di una pretesa ortodossia socialista, non solo alle ingiurie, ma alle spedizioni borghesi punitive di quel tempo contro i soviet russi.

È forse una sorte migliore quella degli estensori del recente manifesto di Mosca? Anche essi hanno la infinita spudoratezza di prendere le mosse dalla flessibilità di Lenin e dalla dialettica di Marx. Dove sono giunti?

Mentre Lenin volle insegnate che potevano essere utili audaci evoluzioni tattiche ove la salda dialettica non avesse fatto dimenticare i capisaldi, fuori dei quali il suo nome perde ogni significato (e questi, come in tutte le pagine del testo esaminato, sono, per tutti i paesi, la dittatura proletaria, il sistema dei soviet, e la distruzione del parlamento), ecco che oggi una adunata di ottantasette suini scrive, invocando lui:
«La classe operaia ha la possibilità di trasformare il parlamento, da strumento degli interessi di classe della borghesia, in strumento al servizio del popolo lavoratore».

Flessibilità di «nuovo contenuto che entra nelle antiche forme»? Flessibilità alla Lenin, dunque?! O triplicato contenuto putrescente che entra nella nuova carogneria?

Ecco i termini, non dottrinali ma storici della questione tattica quali da comunisti senza patria li poniamo.

E se l’Italia vuole un cenno, è per secondario motivo. Anzitutto perché Lenin ne parla, e poi perché interessa provare che, prima di conoscere la sua opera, e forse ogni sua opera, la linea maestra dei comunisti della sinistra italiana era già quella giusta, con la quale egli condannò il dottrinarismo di destra e quello di sinistra, ossia la carogneria di tutti i tempi e il balbettante immediatismo piccolo borghese che nel piccolo cerchio nazionale avevamo da tempo sgominati.

Partito di classe, centralizzazione, disciplina, sono i cardini della vittoria russa che Lenin pone come tema a tutti i paesi del mondo. Ciò vuol dire lotta senza quartiere contro le malattie (si presentino banalmente da destra o da sinistra), dell’economismo, laburismo, operaismo, sindacalismo, apoliticismo, localismo, autonomismo, individualismo e libertarismo. Fu facile dire che i sinistri italiani difendendo l’astensionismo elettorale nel 1919 deviavano da una tale linea marxista; la verità è il contrario; e la dimostrazione non è data solo in teoria ma nei fatti pratici non falsificati.

Dall’unità borghese alla prima guerra

Le storie del movimento proletario italiano non mancano sebbene la loro consultazione sia resa non sicura dalla posizione ideologica dei vari estensori, e i testi a base solo documentaria siano troppo ponderosi. I nostri qui non sono che appunti per giungere subito al 1920.

Agli anarchici, allora detti comunisti libertari e fino al 1871 uniti ai marxisti nella I Internazionale, non può negarsi il merito di avere per primi assunta la posizione storica che, finite le lotte per l’indipendenza nazionale, nessuna euforia doveva diffondersi tra i lavoratori italiani per la vittoria della borghesia nazionale liberale loro vero nemico sociale, e alleato di ieri. È chiaro che questa è posizione storica marxista; e che non meno marxiste erano le tesi che il nuovo urto sociale doveva essere non difensivo, ma aggressivo, e avere forme di lotta insurrezionale e guerra civile: si potrebbe dire che si trattava di un tentativo, insufficiente nella teoria quanto nella organizzazione, di passare subito dalla vittoria della borghesia ieri alleata alla lotta contro di essa per il potere, come Marx volle nel 1848, e Lenin attuò nel 1917.

Le lotte furono locali, regionali, condotte da bande che non giunsero al loro generoso intento di attaccare le questure dei grossi centri e furono prevenute nelle campagne dalla repressione spietata dello stato borghese di classe. La tradizione dei marxisti di sinistra non può collegarsi a questo estremismo di tipo cospirativo e in un certo senso blanquista. La posizione corretta risale alla lettera di Engels alla «Plebe» di Pavia («Della autorità», 1873). La rivoluzione non ha solo bisogno di uomini audaci e di armi, ma di una organizzazione di partito centralizzata nazionalmente, che tenda ad agire come un esercito disciplinato della guerra civile per fondare uno stato proletario dopo sconfitto quello borghese. Noi siamo, all’origine 1870, correttamente definiti come comunisti autoritari. Fu errore teorico (ed ecco che non il dottrinarismo, ma la correttezza anche terminologica e delle formule, sono ossigeno vitale per il movimento, sempre) passare dalla espressione di autoritari a quella di legalitari. La seconda nei decenni finali del XIX secolo scivolò alla prassi dei partiti socialisti che vedevano quello che oggi vedono i suini di cui poc’anzi: elezioni e parlamento come mezzi di classe per prendere il potere.

Nel 1892 i socialisti si dividono dagli anarchici al congresso di Genova: la formula di quel programma è la «conquista dei pubblici poteri». Quando nel 1919 al congresso di Bologna sostenemmo che per aderire alla III Internazionale di Mosca essa andava mutata, il vecchio Lazzari tentò di provare che essa non escludeva la presa insurrezionale del potere: Verdaro gli rispose che egli teneva a quel programma di cui era stato un estensore. Lazzari aveva lungamente lottato nella sua vita contro i riformisti; fu durante la guerra che lo accusammo, fin dal 1917 e prima, di centrismo, come quello che Lenin imputa a Kautsky; comunque, un Lazzari era più «a sinistra» dei cremlineschi di oggi!

A cavallo dei due secoli, mentre gli anarchici si riducono alla scuola individualista e al metodo dell’attentato, i socialisti come in tutta l’Europa si dividono sempre più nelle due ali dei riformisti e dei rivoluzionari. Non occorre ripetere che i primi sono degli evoluzionisti e rinnegano la dottrina della rivoluzione sociale come sola via al socialismo; i secondi non affermano chiaramente la parola della dittatura, ma vedono nella attività parlamentare solo un campo di agitazione sulla base della lotta di classe, escludendo non solo la possibilità di entrare nei governi parlamentari, ma anche quella di far blocco con opposizioni parlamentari di sinistra.

La questione della intransigenza elettorale era un modesto banco di prova in tempi che nell’epoca idilliaca non facevano sospettare la prossima tremenda esplosione della prima guerra mondiale. Tuttavia in Italia fino al 1914 si ebbe un progresso della sinistra marxista. Questa ebbe una più notevole affermazione nella lotta contro la partecipazione alla massoneria e nella liquidazione del banale anticlericalismo piccolo borghese del tempo. Ma conferma migliore della giustezza della teoria seguita, nel senso che a questa parola dà proprio Lenin, si ebbe nella posizione di fronte al sindacalismo rivoluzionario, passato in Italia dalla scuola francese di Sorel, e sul cui piano si erano portate le tendenze anarchiche.

Reazione «infantile di sinistra» alle degenerazioni parlamentari e collaborazioniste dei partiti socialisti di allora, i soreliani negavano il partito e le elezioni. Rivendicavano la violenza di classe e l’insurrezione, ma in essa vedevano la fine dello stato. Azione diretta per essi voleva dire urto tra il proletariato organizzato in sindacati e con l’arma dello sciopero generale, e lo stato borghese, che nella lotta doveva sparire, giusta l’idea anarchica, senza cedere il posto a uno Stato operaio qualificato.

La critica a questi errori immediatisti fu piena da parte della sinistra del partito socialista nel primo decennio di questo secolo, nel quale i sindacalisti uscirono sia dal partito che dalla Confederazione del Lavoro. La forma adatta a riempirsi nel senso di Lenin del contenuto rivoluzionario è il partito politico, e non il sindacato. In questo si sviluppa lo spirito di categoria (e peggio nel sindacalismo dei consigli di fabbrica, nato dopo, lo spirito ancora più angusto di azienda): solo nel partito si arriva all’unità della lotta non solo nazionale ma mondiale. È «infantilismo» trarre dalla degenerazione del partito e dei suoi parlamentari la conclusione apolitica e apartitica, che più di quella «aelezionista» conduce alla rinunzia alla dinamica rivoluzionaria, che è politica, perché fatto politico per eccellenza è la guerra armata tra le classi. Anche i sindacati avevano degenerato nel peggiore minimalismo delle piccole conquiste e provocato la degenerazione parlamentaristica, ma ciò non giustificava la scissione sindacale. Queste posizioni, assunte dopo la guerra nella III Internazionale, erano già prima chiare per noi in Italia.

La questione del partito era posta in pieno, e anche quella dello stato. I sindacalisti vantavano di essere antistatali; più volte fu loro risposto nei giornali del movimento giovanile che anche noi socialisti rivoluzionari eravamo contro lo stato, nel senso di rovesciare il potere attuale e di giungere alla fine dello stato dopo che in una nuova forma questo sarebbe storicamente servito al proletariato nel periodo di trasformazione sociale. Ad esempio si potrebbe trovare un discorso di Franco Ciarlantini al congresso di Ancona che svolse tale tema, se pure esso non si presentava allora come attuale.

La guerra del 1914

La storia è ben nota anche ai più giovani. Il comportamento del partito socialista in Italia fu ben diverso da quello che si ebbe in Francia, Germania, Austria, Inghilterra. Ciò fu dovuto al fatto che l’Italia non fu coinvolta che con nove mesi di ritardo, ma si ha bene il diritto di dire che, come per il partito bolscevico russo, ebbe utile effetto la precedente storica lotta dell’ala sinistra dei marxisti contro errori dottrinari di destra e di sinistra (riformisti e anarcoidi, che sempre definimmo come due aspetti dell’errore piccolo borghese). Un articolo di uno dei nostri sull’«Avanti!» del 13 luglio 1913 si batteva con questa impostazione contro gli astensionisti dalle elezioni politiche imminenti allora, proprio col titolo: «Contro l’astensionismo».

Il sorgere nello stesso partito, che nella enorme maggioranza fu contro la guerra, di una tendenza pericolosa e centrista fu subito avvertito; ne fanno fede articoli dell’«Avanti!», per quanto sotto censura, e contrasti nelle riunioni di Roma 1917, Firenze 1917, ecc. in cui l’ala estrema si differenziò nettamente. Chi leggesse tali articoli vedrebbe come anche prima della pubblicazione delle tesi di Lenin-Zinoviev e delle riunioni internazionali di Zimmerwald e Kienthal, fossero delineate le tesi della scissione internazionale dopo la guerra, e nello stesso «non traditore» partito italiano.

Non solo venne condannata la formula dei destri di subire dopo il maggio 1915 il fatto compiuto dell’intervento in guerra per darsi a un’opera di «croce rossa civile», e vennero duramente colpiti i destri nelle loro attitudini difesiste dopo la invasione austriaca a Caporetto, ma fu sconfessata la direzione nella sua formula dubbia «né aderire né sabotare», sostenendo il disfattismo rivoluzionario delle guerre prima che ne desse la parola Lenin stesso.

Già in un articolo del novembre 1914 parlavamo di «nuova internazionale col programma massimo comunista». Nel maggio 1917 la sinistra insorgeva contro un voto della direzione che vedeva mutata la situazione (solita mallatìa degli svolti!) per il messaggio di guerra di Wilson, subito seguito a quello di pace, e per la caduta dello zar in Russia, che ripuliva il contenuto «democratico» della parte imperialista occidentale. Serrati si preoccupò fin da allora che volessimo la «scissura», contro cui poi lottò nel 1919 e 1921, ossia al momento cruciale.

Qui non si tratta di sciorinare benemerenze, ma di mostrare come si svolse di fatto la situazione storica italiana.

Il congresso 1919 e le elezioni

Materiali assai interessanti a riprova di quanto diremo si trovano nel resoconto del congresso del P.S.I. a Bologna nell’Ottobre 1919, volume divenuto ormai rarissimo. In tutti i discorsi della frazione comunista astensionista – che raccolse una minoranza di fronte a quella massimalista, di gran lunga prevalente, e a quella riformista, che prendeva i soliti nomi di unità o di concentrazione – due punti sono trattati a fondo; quello della unità del partito, divenuta una palla al piede del proletariato impaziente di lotta, e quello delle imminenti elezioni generali, che come noi preavvertimmo deviarono nel canale legalitario tutte le energie della classe che un partito non ibrido avrebbe potuto condurre a immensi successi

Se la questione della scissione fu rifiutata dai massimalisti elezionisti, fu proprio per non rovinare il successo della campagna elettorale. È il caso di rendere pubblico un fatto importantissimo. Nella seduta pubblica noi demmo atto che la mozione della frazione massimalista (serratiana, a cui allora aderivano Bombacci, Gennari, Graziadei, Gramsci e tutti gli altri che poi a Livorno nel 1921 vennero con noi) era stata nella parte programmatica e teorica molto avvicinata alla nostra che rivendicava in pieno la piattaforma della III Internazionale, restando solo la divergenza sulla partecipazione alle elezioni e sulla esclusione dal partito di quelli che rifiutavano il nuovo programma. Senza ora riferirci alle decisioni del congresso del 1920 che sancirono questa scissione, pur pronunziandosi come è noto per la partecipazione ai parlamenti, vi è un fatto che nel resoconto pubblico naturalmente non figura. Prima del voto i dirigenti della frazione astensionista fecero un passo verso i massimalisti offrendo di votare tutti uniti a patto che si decidesse la scissione dalla destra turatiana. A tale patto noi avremmo rinunciato anche prima del congresso internazionale alla pregiudiziale astensionista. Ebbene questo passo trovò una ripulsa immediata: non solo si volevano fare le elezioni, ma si volevano farle con la massima vittoria e quindi in unione alle forze elettorali di Turati e C. Era evidente che il serratismo non vedeva l’azione parlamentare, come Lenin nel 1920, a scopo demolitore, ma con stile social-democratico, sognando dopo la guerra e la indignazione proletaria una vittoria maggioritaria a Montecitorio. O povera ombra del buon Serrati! Quante ne hai sentite prima di noi, allora, e poi da Gramsci e dai suoi, fino a che non ti cospargesti il capo di polvere a Mosca-Canossa! Chi avrebbe detto che nell’Internazionale dei suini 1960 avrebbe trionfato… il serratismo!?

La questione della scissione tra quelli che seguivano il programma comunista e quelli che seguivano il socialdemocratico era più importante di quella delle elezioni italiane e del parlamentarismo sebbene questa seconda abbia segnato il rovescio delle forze proletarie in Italia e quindi assicurata in sostanza la vittoria fascista della borghesia.

Noi ponemmo la questione della scissione invocando i tragici esempi delle rivoluzioni in Germania, Baviera, Ungheria. I testi dei discorsi di Verdaro, di Boero, e di tutti i nostri oratoti, stanno a mostrare che noi dicemmo come in quelle lotte – e del resto in quella vittoriosa di Russia – gli avversari del programma comunista della dittatura del proletariato, al momento dell’urto che si vedeva da tutti avvicinarsi in Italia, erano passati dalla parte della borghesia. Ricordammo il telegramma di Lenin perché si escludessero i socialdemocratici dal governo comunista ungherese di Béla Kun, che la stampa borghese aveva diffuso prima della fatale rovina dei soviet di Budapest. Non avevamo allora letto il testo 1920 dell’«Estremismo», che svolge lo stesso tragico esempio e la stessa diagnosi delle cause. Ma la nostra intonazione con esso era totale.

Noi dopo il voto di Bologna non uscimmo dal partito e facemmo le elezioni con disciplina, come del resto le facemmo dopo il congresso di Mosca 1920 e la costituzione su quella base del partito comunista d’Italia a Livorno, nel 1921. Tutto ciò dimostra che il nostro contegno, lungi da essere affetto da rigidismo dottrinale, fu invero molto «elastico». Ma appunto per non essere dottrinari ci possiamo oggi a buon diritto domandare quali furono i risultati finali della manovra del partito proletario. Ciò che noi sostenemmo a Bologna e poi a Mosca nel 1920 fu la impossibilità di una partecipazione parlamentare che non ci facesse ricadere nella concezione socialdemocratica della conquista parlamentare del potere, opposta a quella rivoluzionaria. I fatti reali non ci danno oggi la prova che la previsione era esatta?

È il caso di ritornare ora al testo di Lenin. La sua concezione della tattica ci mostra un partito che sa essere non rigido in due sensi: quando si tratta di accostarsi per un momento a una manovra la cui «forma» sia quella di un apparente compromesso con forze da noi distanti più o meno, e quando si tratta di eseguire il movimento strategico opposto, ritornando con ancora maggior decisione sulla posizione di attacco diretto a tutti i nemici. Potrebbe vantare di aver capito e attuato dialetticamente la consegna leninista chi avesse condotto con successo le due manovre. Ma a che cosa oggi assistiamo? Nessuno ha fatto una breve escursione nel metodo di azione parlamentare per poi tornare con raddoppiato vigore al metodo di assalto rivoluzionario. Il movimento invece si è immerso fino alla gola, invischiato totalmente, nell’idolatria democratica e nella pratica parlamentare. Lenin invece spiegava allora che la forza dei bolscevichi era di avere saputo applicare con pari vigore la tattica della presenza nella Duna e quella del suo boicottaggio. Fin da Bologna Verdaro toccò questa obiezione dicendo che appunto nella Duma reazionaria i cui deputati erano mandati in Siberia fu logica la partecipazione. In ogni modo, ecco il caso nel quale Lenin giustifica il «boicottaggio».

Quando nell’agosto del 1905 lo zar proclamò la convocazione di un parlamento consultivo, i bolscevichi, all’opposto di tutti i partiti di opposizione, e dei menscevichi, proclamarono il boicottaggio di un tale parlamento, e la rivoluzione di Ottobre 1905 lo spazzò via effettivamente. In quell’epoca, il boicottaggio fu giusto, non perché sia giusto in generale di non partecipare ai parlamenti reazionari (questo noi non lo abbiamo mai sostenuto, perché sono i parlamenti democratici che ci fanno orrore – e ad esempio, quando i deputati comunisti per il fatto Matteotti andarono «sull’Aventino» partecipando al boicottaggio del parlamento fascista, fummo noi della sinistra a esigere dalla direzione del partito comunista, già passata dalle nostre mani a quelle di Gramsci-Togliatti, di riparare al grosso errore facendo rientrare i deputati comunisti alla Camera, da cui i fascisti li defenestrarono fisicamente!). Ma perchè si era esattamente giudicata la situazione oggettiva, che era di natura tale da mutare rapidamente l’ondata di scioperi di categoria in sciopero generale politico, poi in sciopero rivoluzionario, e infine in insurrezione.

In base a queste parole di Lenin, il quale definisce poi errore il boicottaggio del 1906 e 1907 perché la situazione si era raffreddata, ci sentiamo di fare un preciso confronto con la situazione italiana del dopoguerra 1919.

Dunque non dottrinarismo, ma proprio esame delle situazioni, che ci hanno sempre accusato di non saper fare e non voler fare; laddove è nostra tesi che si valutano bene le situazioni solo quando si segue una non mutabile teoria.

Realtà del primo dopoguerra italico

La guerra finita nel 1918 era stata durissima per il proletariato, assai più di quella 1940–45, sebbene finita con la vittoria nazionale e non con la sconfitta. Dopo avere lasciato sul Carso in dodici folli battaglie seicentomila cadaveri, i soldati italiani avevano fatto lo sciopero militare a Caporetto, e solo eventi esteri, come è tradizione per le glorie della borghesia italiana avara e imbelle, avevano invertite le sorti finali della guerra. Il partito socialista che era stato fieramente contrario godeva tra le masse di una popolarità immensa, la quale era stata fra l’altro salvata quando noi della sinistra impedimmo ai parlamentari di infognarsi nel socialpatriottismo cui tendevano nel 1917.

Elettoralmente era sicuro che la consultazione elettorale sarebbe stata un rovescio per i fasci interventisti, accozzaglia lurida di nazionalisti ex austriacanti, massoni, repubblicani, mussolinisti e altri rifiuti del movimento sociclista. Non solo l’odio dei lavoratori pesava su costoro, ma la stessa borghesia che temeva le ire di classe tendeva a liberarsi dalle responsabilità della guerra, e vantava la opposizione a essa che avevano tenuta Giolitti, Nitti, gran regista delle elezioni indette per l’autunno 1919, e i popolari cattolici, oggi democristiani. Questo gettò le basi della riscossa fascista borghese, che fu condotta a farsi un programma di lotta extraparlamentare. Quanto dicemmo a Bologna mostra come questa dipintura della situazione italiana fu prospettata: il fascismo ebbe gioco facile e partita vinta perché noi proletari passammo con tutte le forze sul terreno legalitario, mentre su quello della piazza eravamo allora i più forti. Nitti, Giolitti, Bonomi fecero il resto, come la storia dice.

Eravamo i più forti non solo perché era cominciata magnificamente l’ondata di scioperi rivendicativi di categoria, ma perché le masse operaie sentivano che i risultati sarebbero stati magri e precari se non si scendeva sul terreno politico (serie di Lenin: sciopero generale politico, sciopero rivoluzionario, insurrezione per la presa del potere). Parlammo a Bologna già del nascente fascismo per porre il dilemma leninista: dittatura del proletariato o dittatura della borghesia; che era quello di tutta Europa. Ma gridammo che occorreva il partito rivoluzionario.

La situazione era allora questa: per le strade i fascisti, i già interventisti, scappavano e reagivano propagandisticamente col dire che i nostri, i rossi, fischiavano i combattenti e strappavano i nastrini dal petto dei mutilati di guerra. Tale era la misura della santa indignazione proletaria contro la guerra: oggi si pongono sugli altari i decorati di ogni guerra, sia della prima che della seconda (fascista) e della partigiana, con pari ipocrita smanceria. Alle eccitazioni e prime provocazioni fasciste tenevano chiaro bordone gli industriali e gli agrari scottati a fuoco dall’onda rivendicativa sindacale, e la polizia se anche obbediva a Nitti, che D’Annunzio a Fiume apostrofava come Cagoia, si preparava alla facile evoluzione con cui sbirraglia ed esercito fino a tutto l’agosto 1922 dettero partita vinta alle bande fasciste, a dispetto della democrazia padrona dell’imbecille suo parlamento.

Era allora che la decisione andava presa; quando le grandi ondate di movimenti di classe su scala nazionale, come la occupazione delle fabbriche nel 1920, dovevano ancora venire. Era subito dopo la fine della guerra che si doveva epurare il partito, finirla colle convocazioni nelle svolte decisive di Direzione, Gruppo parlamentare e Confederazione del Lavoro, da cui dieci volte gli scioperi venivano evirati.

Volere il grande saturnale schedaiolo nel 1919 significò togliere gli ostacoli sulla strada del fascismo; che, nella attesa stupefatta delle masse per la grande prova parlamentare, bruciò le sue tappe e si preparò a pagare della stessa moneta quelli che avevano per le piazze d’Italia fatta l’incanata ai pretesi eroi della guerra borghese.

La vittoria dei 150 deputati socialisti fu pagata con il rientro del moto insurrezionale, dello sciopero generale politico, delle stesse conquiste rivendicative, e la classe borghese tutta – inclusa la media e piccola borghesia che è il vero verminaio del fascismo, ieri e oggi, in Italia e altrove – vinse contro di noi la sua partita. A Livorno era tardi per la scissione, più tardi ancora fu, dopo la marcia su Roma, la speranza di ripescare con Serrati il partito socialista, l’«Avanti!» ecc. – ma tutto questo esce dal presente tema.

In un recente scritterello dell’«Unità», con una storia ad usum delphini del partito comunista d’Italia, si ricorda che a un certo momento (dopo Bologna ma prima di Livorno) e davanti a una delle tante stroncature di un lanciatissimo moto del proletariato torinese, cui tutta l’Italia avrebbe dovuto rispondere, la sezione di Torino della frazione astensionista (maggioranza locale) si rivolse al comitato centrale della frazione perché si decidesse la scissione immediata e la fondazione del partito comunista. Il gruppo Ordine Nuovo cominciava a capire forse l’errore enorme di aver votato a Bologna la unità per le elezioni.

Parecchie volte ci hanno chiesto perché non abbiamo fatta la scissione fin da Bologna.

Abbiamo accennato che lo stesso Lenin non si sarebbe stupito di una tale scissione. Nel suo scritto sull’«Estremismo», due volte, in una nota e nell’appendice, parla degli astensionisti italiani, e dice che hanno torto di non volere andare al parlamento, ma che sono i soli ad avere ragione quando esigono la separazione dai riformisti, dai kautskiani d’Italia, e lo ribadisce con immenso vigore[11]. Se diciamo che avrebbe gradita una nostra scissione anticipata, è in base a un passo che sta proprio all’inizio dell’«Appendice» col titolo: «La scissione dei comunisti tedeschi». Ecco il passo (qui tradotto da un testo del 1920) con brevi nostri rilievi.

Unità o scissione?

«La scissione del partito comunista in Germania è ora un fatto compiuto. I comunisti di sinistra, o opposizione di principio, hanno costituito un partito comunista operaio, distinto dal partito comunista. Anche in Italia sembra che andiamo verso una scissione. Io dico sembra, perché non posseggo che due numeri supplementari, il n. 7 e il n. 8, del giornale ‹Il Soviet›, ove è apertamente considerata la possibilità di tale scissione, e ove si parla anche di un congresso della frazione ‹astensionista›, cioè ostile alla partecipazione al parlamento, frazione che è finora restata nel partito socialista italiano».
La data di questa nota di Lenin è 12 maggio 1920, i detti numeri del «Soviet» sono del marzo. La conferenza che Lenin chiama congresso ebbe luogo a Firenze in primavera ma non decise l’uscita dal partito in attesa delle decisioni della Internazionale. Fu bene o male, non significa nulla; i fatti erano questi.

«Si può temere che la scissione dei ‹sinistri›, degli antiparlamentari (spesso anche antipolitici, avversari di ogni partito politico e della azione nei sindacati professionali) - [Lenin seppe dopo che noi sinistri italiani non eravamo per nulla contro l’azione politica e sindacale] - non divenga un fatto internazionale, come la scissione coi centristi, kautskisti, longuettisti, indipendenti, ecc. Ammettiamo che sia così. Una scissione vale sempre meglio che una situazione confusa, che intralcia lo sviluppo dottrinale, teorico e rivoluzionario del partito, come anche la sua crescita e il suo lavoro pratico veramente organizzato e armonioso, che realmente prepara la dittatura del proletariato».

Il testo continua proferizzando che a una tale scissione seguirebbe una fusione – a differenza della scissione verso destra – in un partito unico (la formula è ripetuta due volte negli stessi termini in fine del paragrafo) di tutti i partecipanti del movimento operaio partigiani del potere dei soviet e della dittatura del proletariato.

Che cosa oggi pensano della «scissione» i conferenti suini di Mosca, che vantano di avere seguita fedelmente la via del Leninismo?
«L’ostacolo maggiore che si oppone alla lotta della classe operaia per raggiungere i propri obbiettivi [tra cui la dittatura non è più, la violenza è sostituita dalla via pacifica, o senza guerra civile, e i soviet dalla conquista dei parlamenti] continua a essere la scissione nelle sue file». («Unità»; 6 dicembre 1960, pag. 8).

Segue un caldissimo appello all’alleanza, non con i centristi, ma con gli aperti socialdemocratici di destra. Ciò nel campo dei partiti; quanto alle classi, ormai l’appello anche internazionale va fino alla borghesia media.

Ecco l’impiego 1961 del classico Estremismo di Lenin!

L’immediatismo ordinovista

Quel pericolo che Lenin dovette nel 1920 dipingere colle frasi, poi divenute classiche, di infantilismo e di dottrinarismo di sinistra, culmina nel non riconoscere che il contenuto rivoluzionario deve riempire di sé due forme squisitamente politiche e centrali: il partito di classe e lo stato d classe. È appunto mitologia infantile e antistorica quella posizione che dal fatto che i partiti politici, non solo borghesi ma anche operai, avevano nel 1914 assunto un contenuto pratico antirivoluzionario, viene alla conclusione della rinunzia al partito; come gli estremisti di Germania. Analogo errore sarebbe quello di dedurre dalla funzione antirivoluzionaria dello stato borghese, la decisione di rinunziare alla forma stato (errore tradizionale dei libertari). Commetterebbe lo stesso errore chi dalla dimostrata degenerazione dello stato russo inducesse il torto di Lenin (e Marx) nell’avere difesa la forma autoritaria della rivoluzione.

Quella che è stata sempre detta la unità vera (qualitativa prima che quantitativa) della lotta proletaria «nello spazio e nel tempo» non può che essere attuata da un partito – il che non vuol dire un qualunque partito.

Solo sulla base politica si può andare oltre le differenze di situazioni e di interessi dei gruppi aziendali, di categoria, di industria, dei gruppi locali regionali e nazionali, se pure la loro somma statistica forma in una fredda registrazione la classe. Solo sulla base politica e del partito l’interesse momentaneo e transeunte dei gruppi proletari e anche del loro insieme nazionale, e internazionale, può essere subordinato al cammino storico generale del movimento, come nella classica definizione di Engels.

Il gruppo che si chiama dell’«Ordine Nuovo», che una organizzata propaganda vuole descrivere come genuina corrente nella direzione del marxismo e del leninismo, nella sua origine dalla prima guerra mondiale nacque appunto da questi fondamentali errori.

Il dettaglio di questa cronaca politica spiega perché fin dal 1920 la Internazionale comunista considerò ortodosso un tale gruppo. Data la polemica sulla azione parlamentare, al II congresso ci si dovette chiedere se vi fosse un indirizzo in Italia che fosse del parere della Internazionale e che avesse accettata la parola della scissione. Il gruppo di Torino (non aveva allora base nazionale) non era presente a Mosca, su di esso riferì obiettivamente lo stesso rappresentante degli astensionisti, che spiegò che cosa fosse il movimento dei consigli di fabbrica e la rivista «Ordine Nuovo». Le tesi che questa aveva pubblicate e che ne presero quindi il nome, erano state sostenute dall’accordo a Torino della maggioranza operaia astensionista col gruppo di giovani studenti intellettuali della rivista. Le questioni dei difetti del partito italiano e della necessità della sua divisione furono apporto degli astensionisti, che le avevano sostenute fin dal 1919.

Ma non è questo il momento della cronaca. Lo sviluppo di allora e tutto quello ulteriore permettono di vedere che lo schema, che diremo di Gramsci, aveva la natura immediatista di una posizione piccolo borghese di sinistra, e non marxista.

La prospettiva dell’«Ordine Nuovo» nasce da un orientamento di giovani intellettuali fino allora estranei ai partiti come al proletariato, che guarda nelle brillanti officine torinesi dal di fuori, e lungi dal sapervi vedere la galera che sono per Marx, vi scorge un modello al quale può essere riferita tutta l’Italia «arretrata» del tempo. È operaismo anche quello del salariato puro che vede l’officina dall’interno, ma pensa che la sua conquista e gestione sia il suo scopo di classe, senza saper scorgere l’intreccio delle connessioni con tutto il mondo esterno e ridurlo alla finale lotta tra la dittatura mondiale del capitale e la dittatura mondiale del proletariato. Quello di quei giovani intelligenti e studiosi era un operaismo «estroverso» veramente immediatista. Guardavano l’operaio come una specie sociale zoologica gravida di metamorfosi particolari; non pensavano ancora che nel partito di classe – quali che fossero state le sue deviazioni – il compagno, il militante, ha lo stesso peso senza che si vada a guardare la sua anagrafe sociale: e solo un tale partito divinato da Marx rappresenta la classe, e fa di essa una classe, e la conduce a governare per distruggere le classi, e se stessa.

Nel sistema di Gramsci – alle cui origini di partenza non sta affatto la scomunica della guerra imperialista, quale la dette Lenin e chi veramente con lui confluì, ma una posizione che ebbe le stesse caratteristiche di quella di Mussolini, ed era diretta alla adesione alla guerra democratica, – la via per eliminare i difetti della confederazione sindacale e del partito socialista non era quella di selezionare il secondo e poi lottare alla conquista della prima. Le due strutture dovevano essere svuotate e abbandonate per sostituire loro una nuova, l’ordine nuovo, il sistema dei consigli di fabbrica.

La gerarchia di questa elegante utopia è tutta tracciata: dall’operaio al reparto, al commissario di reparto, al comitato dei commissari di fabbrica, al consiglio locale delle fabbriche e via fino alla sommità. Questa nuova struttura prende, fabbrica per fabbrica, prima il diritto di controllo, poi quello di gestione; una specie di espropriazione del capitale per cellule base, una vecchia idea premarxista che nulla ha di storico e rivoluzionario.

Il partito non importa, e quindi non si da importanza alla sua evoluzione, epurazione, o traumatica rottura, nazionale e internazionale.

Lo stato neanche importa, perché manca la visione realistica della lotta centrale per il potere unico, e la trasformazione della società è immaginata come fatta pezzo per pezzo; e i pezzi sono le imprese produttive. Manca del tutto la visione dei caratteri della società comunista opposti a quelli del capitalismo. Resta un pallido «aziendismo».

Tutte le esigenze che presentò con inderogabile urgenza l’«Estremismo», che è qui stato il nostro tema, restavano da assolvere per il movimento dell’«Ordine Nuovo». Esso ha percorso una strana traiettoria storica, dal giorno che alla riunione clandestina di Firenze del novembre 1917 Gramsci bevve il dibattito senza intervenirvi che con l’espressione intensa dei suoi occhi, fino alla successiva involuzione del movimento russo e internazionale, che lo sorprese forse non meno negli ultimi anni di vita.

Questo ciclo, molto al di sopra della scala dei nomi e delle persone, si è chiuso come era facile prevedere, e fu preveduto; il falso classico operaismo è mancato in pieno – e peggio nelle confluenze dubbie del tempo del ventennio fascista e della seconda guerra mondiale nella idea di far fecondare dalla cultura di una intellighenzia borghesoide la forza proletaria, originale e non miscugliabile coi residui di un idealismo filosofico liberatore di spiriti; e il triste percorso è sfociato in una sottomissione funesta alle mode impotenti della classe media e ai più rancidi e antiquati feticismi piccolo borghesi, della grandiosa potenza di azione e di dottrina che or sono quarant’anni aveva a Mosca la sua avanguardia e la sua lucente bandiera.

I surrogati odierni delle grandi consegne di Marx e di Lenin non sono il risultato di una marcia in avanti di quarant’anni, ma il miserabile rimasticamento di superstizioni vecchie di due secoli; e anche di quelle un pappagallare scempio, rispetto alla loro vera grandezza nel momento storico che fu loro proprio

Pace, democrazia, nazionalità, un indefinibile demo-economismo! Noi saremmo restati fermi quarant’anni mentre costoro arricchivano e aggiornavano le tavole di Marx e di Lenin?! No, perdio, queste carogne di oggi sono gli spazzaturai del passato più retrivi e codini che mai la storia abbia visti. Essi sono il sintomo più evidente della fase degenerativa e rinculante che traversa questo infame mondo borghese; essi sono la forza principale che ne ha allungato sconciamente il tramonto.

Notes:
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  1. Per maggiori elementi si veda la già citata «Storia della Sinistra Comunista», vol. I. [⤒]

  2. È opportuno riportare dai testi originari del 1920 (nella cfr. traduzione italiana, pp. 585–4 e 616–17) i due passi in cui Lenin parla del movimento astensionista italiano, disapprovando la proposta di boicottare le elezioni e il parlamento, ma esprimendo la sua solidarietà col solo movimento che sosteneva la scissione nel seno del partito. Il primo passo è nella nota in fine del capitolo settimo: «Occorre partecipare ai parlamenti borghesi?». Il testo del capitolo si riferisce soprattutto alla Germania e alla posizione certamente falsa del partito scissionista operaista, degli olandesi di sinistra e di tutta la tendenza che nega anche il lavoro nei sindacati di destra, e in genere la funzione dei capi e perfino quella del partito; tutti punti che, come abbiamo mostrato, sono diametralmente opposti a quelli dell’estrema sinistra italiana.
    Il testo della nota di Lenin è il seguente:
    «Ho troppo poco avuto modo di familiarizzarmi col comunismo di ‹sinistra› d’Italia. Senza alcun dubbio la frazione dei comunisti ha torto quando preconizza la non partecipazione al parlamento. Ma vi è un punto nel quale ha ragione, mi sembra – per quanto ho potuto giudicare da due numeri del giornale ‹Il Soviet› (n. 3 e 4 del 18 gennaio e del 1° febbraio 1920), da quattro numeri della eccellente rivista di Serrati ‹Comunismo› (numeri 1/4 dal l° Ottobre al 30 novembre 1919), e da numeri spansi di giornali borghesi italiani, che ho potuto vedere. ‹Il Soviet› e la sua frazione hanno ragione quando attaccano Turati e i suoi partigiani che rimangono in un partito che riconosce il potere dei soviet e la dittatura del proletariato, che restano membri del parlamento e continuano la loro vecchia politica opportunistica così nociva. Evidentemente, tollerando questo, Serrati e tutto il partito socialista italiano commettono un errore altrettanto gravido di minacce e di pericoli che in Ungheria, allorché i Turati ungheresi sabotarono dall’interno il partito e il potere dei soviet. Sono degli errori simili, questa inconseguenza o questa mancanza di carattere riguardo ai parlamentari opportunisti, che da una parte fanno nascere il comunismo di sinistra, e dall’altra parte giustificano fino a un certo punto la sua esistenza. Serrati ha evidentemente torto nell’accusare di inconseguenza il deputato Turati (‹Comunismo› n. 3) allorché il solo inconseguente è precisamente il partito socialista italiano, che tollera opportunisti parlamentari come Turati e compagnia».
    L’altro passo è il terzo paragrafo dell’appendice che Lenin darà il 12 maggio 1920 nel licenziare le bozze del testo datato 27 aprile. Il titolo è: «Turati e consorti in Italia». Il testo comincia così:
    «I numeri indicati più sopra del giornale italiano «Il Soviet» confermano totalmente ciò che ho detto nel mio opuscolo circa l’errore che commette il partito socialista italiano tollerando nelle sue file dei simili membri e anche un simile gruppo di parlamentari. Ne trovo una ulteriore conferma presso un testimone disinteressato come il corrispondente da Roma del ‹Manchester Guardian›, giornale della borghesia liberale inglese in una intervista con Turati pubblicata nel numero del 12 marzo 1920».
    Segue la citazione dell’intervista, nella quale Turati esprime il giudizio che non vi è da aver paura del pericolo rivoluzionario, dato che i massimalisti giuocano col fuoco delle teorie soviettiste solo per mantenere le masse in uno stato di allarme e di eccitazione. Turati dice che gli stessi uomini che fanno chiasso sono costretti a sostenere una lotta per miserabili miglioramenti economici che suscitano scioperi tali da rendere penosa la difficile situazione del paese, il quale
    «è lungi dall’avere ancora coscienza della necessità di assimilare quella disciplina del lavoro che sola può restaurare l’ordine e la prosperità».
    Segue il vivacissimo commento di Lenin:
    «È chiaro come la luce del giorno che questo chiacchierone di corrispondente inglese si è lasciato sfuggire la verità che Turati stesso, senza dubbio, e i suoi difensori e ispiratori borghesi in Italia, nascondono e deformano: questa verità è che le idee e il lavoro politico dei signori Turati, Treves, Modigliani, Dugoni e compagnia sono proprio tali come il corrispondente inglese li dipinge. Ciò non è che social-tradimento. Che significa la difesa dell’ordine e della disciplina per gli operai che vivono nella schiavitù salariata, che sgobbano per ingrassare i capitalisti? E come noialtri russi non conosciamo che troppo tutte queste ciancie mensceviche! che penosa confessione che le masse sono per il potere dei soviet! Che incomprensione ottusa e bassamente borghese del compito rivoluzionario di questa ondata grandeggiante e irresistibile di scioperi! Sì, il corrispondente inglese del giornale liberale inglese ha reso un servizio da balordo ai signori Turati e compagnia, e ha eccellentemente confermato il buon fondamento dei compagni del ‹Soviet›, quando essi esigono dal partito socialista italiano, se vuole effettivamente essere per la III Internazionale, che scacci con vergogna dalle sue file i signori Turati e compagnia per divenire un partito comunista nello stesso tempo per il suo nome e per la sua opera».
    A questa vibrante nota, che viene di solito citata in modo parziale dagli attuali opportunisti che vogliono diffamare i gloriosi meriti della sinistra italiana, prima e sola a porsi sulla linea dei bolscevichi e di Lenin, segue il finale paragrafo IV dell’appendice intitolato: «False conclusioni da giuste premesse». In questo paragrafo Lenin sostiene che, se è giusto chiedere l’esclusione dei deputati riformisti, non lo è però proporre che il nuovo partito comunista non partecipi alle elezioni. Lenin non rileva che la proposta di Bologna, come il nostro testo di oggi ricorda e documenta, si riferiva a una elezione che avrebbe condotto al parlamento un’enorme maggioranza tra riformisti turatiani e massimalistoni serratiani, ben meritevoli del giudizio che ne dava Turati stesso nell’intervista inglese. Questo noto passo di Lenin svolge lo stesso argomento che sarà a base della polemica al II Congresso dell’Internazionale tra lui e gli astensionisti. L’errore sarebbe di scartare il metodo parlamentare per paura della difficoltà di conservare il carattere comunista e rivoluzionario ai delegati del proletariato nel parlamento borghese, ove dovrebbero operare per rovesciare parlamento e borghesia. Le difficoltà, dice Lenin, ci attendono dovunque, e con la sua tremenda forza di volontà chiede che non si tema di mettere il piede sulle sabbie mobili e infami del parlamentarismo. Della discussione al II congresso sarà riferito in altro testo del nostro movimento. Oggi Lenin è morto, ma la sua consegna di entrare nei parlamenti, dopo la scissione dagli elementi social-democratici, è stata applicata tra gli altri dal partito comunista che si formò a Livorno nel 1921. Se oggi Lenin fosse vivo, quale differenza troverebbe tra il linguaggio, che qui staffila a sangue, di Turati e compagni, e quello dei parlamentari che parlano ancora di marxismo e leninismo, se non una incoerenza e una indecenza che Turati non aveva ancora raggiunto? [⤒]


Source: Tratto da «La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin», ediz. «Il Programma Comunista», 1964

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