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IL «SOCIALISMO» DEL CODICE DEL LAVORO NELLA R.D.T.


Content:

Il «Socialismo» del Codice del Lavoro nella Repubblica Democratica Tedesca
La «categoria» maledizione capitalistica
Un’aristocrazia… socialista
Fregatura si, ma democratica
Il Salario a tempo, imperfezione «Socialista»
Il cottimo, incarnazione della «giustizia»
Marx e il cottimo
Source


Il «Socialismo» del Codice del Lavoro nella Repubblica Democratica Tedesca

Un cardine fondamentale della visione marxista dello sbocco finale della forma sociale capitalista, è che la società nata come scioglimento delle sue contraddizioni interne, quella comunista, non conoscerà le categorie economiche dello scambio mercantile e del lavoro salariato. Il marxismo è sempre stato (e in tanto è rivoluzionario) un’appassionata e nel contempo scientifica negazione della società mercantile che l’aveva suo malgrado prodotto, una negazione che è sempre valsa come l’affermazione più chiara dei principi opposti, quelli del comunismo. I marxisti non hanno avuto bisogno di descrivere utopisticamente, come in un bel sogno, le caratteristiche della futura società, ma ne hanno indicato le basi fondamentali negando all’iniziativa individuale, allo scambio mercantile, al lavoro salariato, insomma al capitale con tutti i suoi rapporti necessari, il diritto di ulteriore necessità storica. Essi, mentre ancora salutavano l’introduzione di questi rapporti nel mondo moderno e le sue rivoluzionarie conseguenze nei confronti degli assetti sociali precedenti, ne formulavano anche in modo implacabile il destino di divenire un freno allo sviluppo ulteriore dell’umanità.

In questa visione, noi leggiamo l’impossibilità di uscire dalla società del capitale senza uscire dalle forme «salario» e «scambio». La nuova società, appena nata, darà il massimo impulso alla cancellazione di queste categorie economiche. In tale prospettiva, sarebbe quindi apertamente controrivoluzionario mantenere i rapporti salariali (fin quando dovranno essere tollerati per l’impossibilità di abolirli di colpo e in modo integrale in un solo paese) con gli stessi mezzi del capitalismo, che agisce non per la soppressione, ma per l’eternamento del salariato. Immaginare un socialismo che ammetta ed anzi codifichi le differenziazioni salariali, i premi di rendimento, il lavoro a cottimo, il lavoro straordinario e simili glorie borghesi, equivale a proclamarsi apertamente nemici del passaggio al socialismo.

Che cos’è, allora, chi non solo immagina un tale socialismo, ma lo attua e lo sancisce in eleganti libretti «popolari»?

La «categoria» maledizione capitalistica

Sotto la benevola protezione di mamma Russia – «socialismo» modello – anche la Repubblica Democratica Tedesca ha provveduto a costruire il suo socialismo nazionale e brevettato, e a dar valore di legge alle proprie istituzioni «operaie»: ha quindi formulato e pubblicato un suo Codice del Lavoro, edito a cura della «Confederazione Sindacati Liberi Tedeschi» (FDGB), Berlino 1963, ediz. Tribüne, in diverse lingue, compreso l’italiano, e corredato da preziosi chiarimenti su ogni punto. La pretesa di questi signori è di… applicare le norme della società socialista, primo stadio della trasformazione sociale che ha per punto di arrivo il comunismo. Vediamole, dunque queste norme, nella teoria marxista e nella pratica demo-popolare.

Il principio della distribuzione dei prodotti nella società socialista (primo stadio), una volta eseguite le necessarie detrazioni, è, rispetto al lavoro prestato, egualitario. Sebbene, come dice Marx nella «Critica del programma di Gotha», in tale primo organizzarsi della società su base socialista esista il diritto egualitario dei produttori al prelevamento dei prodotti, quindi un diritto basato sulla disuguaglianza dei produttori individuali (chi è più forte, chi meno, chi più intelligente e chi meno, chi ammogliato e chi no, ecc.), un diritto che è ancora un retaggio borghese, è su questa base che si arriverà a sostituire, in un coerente sviluppo, l’egualitarismo stesso. Ma, come prima fase, esso è assolutamente necessario e va difeso contro ogni rinascita di individualismo.

È su tale base che ai produttori appare chiaro come il loro «cointeressamento» alla società non è mercantile, perché «non è più per via indiretta, ma direttamente, che i lavori dell’individuo divengono parte integrante del lavoro della comunità» («Critica del programma di Gotha»). Tutti gli sforzi della dittatura comunista saranno diretti a sviluppare nei laboratori la coscienza di questo fattore, cioè che essi non lavorano più egoisticamente legati dal loro interesse personale (oltre che da quello, invisibile ma implacabile, del capitale), ma fanno parte integrante della nuova società in embrione, che, se richiede sacrifici al singolo, non lo fa «interessandolo» come individuo alla produzione. Nel socialismo l’individuo è sempre «interessato», perché il suo lavoro lo ritrova e lo gode direttamente in quanto membro della società: Marx aggiunge che perde ogni senso l’espressione «reddito di lavoro».

In una delle spiegazioni «chiarificatrici» del contenuto «socialista» delle loro leggi sul lavoro, i Sindacati Liberi della R.D.T., ci spiegano invece (pag. 72; i corsivi sono nostri):

«Come sindacato appoggiamo il principio del cointeressamento materiale alla distribuzione del salario [badate: non solo sussiste il reddito di lavoro, ma si chiama apertamente salario]. Finora non abbiamo la società comunista nella quale ognuno può vivere secondo i suoi bisogni e agire secondo l’etica comunista. Fino a quando il lavoro continua ad essere il primo bisogno vitale degli uomini, un aumento rapido della produttività del lavoro dipende in larga misura dal modo come gli interessi sociali vengono in permanenza legati agli interessi personali di ogni lavoratore. Questo legame si realizza meglio ripartendo i fondi del consumo individuale secondo il rendimento di ogni lavoratore. In tal modo tutti vengono interessati ad aumentare, in modo qualitativo e quantitativo, la produzione nazionale dalla quale dipende la misura della loro parte individuale. Ogni egualitarismo nella retribuzione impedirebbe il nostro sviluppo e sarebbe incompatibile col principio del rendimento».

Ciò potrebbe far pensare che le differenziazioni di salario siano perlomeno dovute alle diverse quantità e qualità di lavoro fornito, fuori da considerazioni di categoria. Ma il paragrafo 4°, punto 3, pag. 73, toglie ogni dubbio:

«I livelli e le condizioni salariali sono da stabilire nei contratti collettivi di categoria in base alle disposizioni di legge».
Ne consegue, chiaramente, che a diverse categorie corrispondono diversi salari. Il lavoro viene quindi diviso in gradi di nobiltà a seconda dell’interesse che qualcuno (la classe dominante, rappresentata dal suo Stato-succhione) ne ricava, in modo che ai suoi diversi strati vengano gettati oboli più o meno sostanziosi a seconda che il capitale vi fa. Qui il lavoro non viene considerato come una massa indistinta astrattamente sociale, ma suddiviso in caste, quella dei proletari che lavorano normalmente, quella dei proletari che «meritano» di più, quella dei proletari che controllano i lavoratori, quella dei proletari che si specializzano e forniscono un lavoro d’un valore mercantile maggiore e così via. E il «socialismo» si fa in quattro per aumentare tutte queste differenziazioni in caste, introducendo il concetto di «cointeressamento»: tu sei un lavoratore specializzato, tu sei disposto a lavorare di più, quindi riceverai più danaro «socialista» e avrai un posto speciale in questa speciale società socialista che produce l’aristocrazia operaia. E certo questo operaio «nobile» sarà il fondamento dello Stato nel caso che la marmaglia degli operai volgari si rivolti, stufa d’essere calpestata in nome del… socialismo. Come i loro imbattuti maestri dei bei tempi – i fascisti – così i democratici tedeschi hanno riconosciuto l’importanza che bisogna concederti, oh aristocrazia del lavoro, baluardo dell’ordine borghese, emblema di schiavitù felice! Invece di portare la società fuori dalla maledizione del cointeressamento economico, si costruisce un mondo basato sulla sua esasperazione; invece di promuovere la coscienza collettiva del lavoro prestazione individuale necessaria nell’interesse non individuale ma sociale, si alimenta lo spirito egoistico del lavoratore-premio.

Trattando la questione della difesa e dell’offesa militare dello Stato socialista, Trotsky sottolineava che essa graverà tutta sulle spalle dei proletari. Sono essi che ne portano il peso, perché sono essi che generano, come classe, la nuova società, e lo portano serenamente e con orgoglio. Ciò è vero anche dal punto di vista economico, e a maggior ragione. Il laborioso e grandioso parto storico della società comunista richiede dei sacrifici; nessuno ha «diritto» a premi… Ma sono finiti i tempi in cui i militanti del partito di Lenin e i proletari più coscienti offrivano gratuitamente le ore di lavoro in più, per assicurare la produzione in giorni difficili. Fra l’altro, ora, gli «straordinari» e l’intensità di lavoro accresciuta servono solo ad ingrassare il capitale assetato di nuovi investimenti.

Che cosa stabilisce, nel socialismo – prima tappa del comunismo – il valore sociale del lavoro? Il fatto che esso sia più o meno difficile, che sia «intellettuale» o manuale? No di certo. Il primo passo che il socialismo compie consiste nell’appianare le differenziazioni, il che permette anche il trasferimento di gruppi di lavoro da un centro a un altro, di produttori da un genere di lavoro a un altro, senza premi, senza cointeressamenti, per la maggior consapevolezza d’essere membri d’una società che annulla le divisioni di classe ed i profitti, per la fine della schiavitù d’un lavoro perennemente idiota.

Un’aristocrazia… socialista

Marx scrive che nella prima fase della società comunista, cioè in una società che
«porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, intellettuale le stimmate della vecchia società dal cui seno essa è uscita»,
il produttore riceve esattamente, fatte le detrazioni per le istituzioni sociali e la riproduzione del lavoro, ciò che ha dato alla società.
«Ciò che egli ha dato alla società è il suo quantum individuale di lavoro».
Il suo quantum, la quantità di lavoro, non la sciocca qualità, invenzione capitalistica per arruffianarsi il lavoro. Il lavoro noi lo misuriamo a ore, non a denaro.
«Egli (il produttore)», prosegue Marx, «riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del lavoro effettuato per i fondi comuni) e, con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente».
Ha fornito non un genere di lavoro, ma un tanto di lavoro, indistintamente. Questa è solo la base d’una società che va verso il comunismo. Percepire la stessa «remunerazione» per la stessa quantità di lavoro è per il socialismo un luogo comune, è il primo balbettio di tale grandiosa attuazione.

Scrivere cose come le seguenti (pag. 74) significa quindi, per noi, bestemmiare:

«Rendere molto o poco, non si riferisce soltanto alla quantità del lavoro, ma soprattutto alla qualità, e al suo valore sociale. Perciò gli operai nei settori più importanti della economia nazionale hanno le tariffe più alte. I salari dell’industria mineraria sono per esempio più alti di quelli dell’industria tessile».
(Noi leggiamo: il capitale ritiene più opportuno arruffianarsi la branca mineraria e siderurgica, così utili per la costruzione d’una economia capitalistica «di ferro»).
«Questa differenziazione è giusta, perché in tal modo si fanno avanzare i fondamentali della produzione nazionale dirigendovi la manodopera».
Nel socialismo la manodopera verrebbe diretta da una branca all’altra col sistema della sete di un guadagno maggiore!? Sarebbe questa senza dubbio una «interessante novità» per i «vecchi e superati» maestri Marx, Engels, Lenin, usati pur sempre come etichette di garanzia da appiccicare a prodotti non ancora affermatisi sul mercato. È forse inutile osservare come l’incanalamento della manodopera, ovvero delle forze produttive, con l’offrire un plus in un posto anziché in un altro, è caratteristico dell’epoca capitalistica e crea non solo dislivelli economici e differenze di interessi nel seno della classe proletaria, ma è la causa dell’alterazione della base naturale della società, cioè della formazione di centri a concentrazione parossistica di fronte ad altri in cui le risorse non vengono utilizzate perché «non rendono»; in breve, la causa della divisione tra città e campagna, i cui monumenti sono le pile di grattacieli che fanno a chi è più alto e più fesso, mentre ai loro piedi si svolge una epilettico duello fra automobilisti, la nuova specie «umana» prodotta dall’accumulazione capitalistica.

Riprendendo il filo, il Codice del lavoro della R.D.T. afferma che la differenziazione è «giusta» per l’avanzamento dei rami industriali più importanti. Ora aggiunge (pag. 74):

«Nell’interno di questi rami dell’economia nazionale si fa un’altra differenziazione [finalmente una differenziazione!] in categorie di aziende (aziende principali e ausiliarie). Naturalmente il nostro [il vostro] sistema retributivo non si esaurisce con questa classificazione, altrimenti potrebbe darsi che all’interno d’una azienda tutti gli operai percepiscano lo stesso salario». (Che scandalo sarebbe!).
«Nelle aziende si fa una differenza tra il lavoro qualificato e quello non qualificato, tra il lavoro difficile e quello facile».

In queste paradossali «aziende socialiste» (come le definisce lo stesso testo) il fesso fa il lavoro facile e il «dritto» fa il lavoro «difficile», cioè controlla il fesso. Ma allora ha ragione quella buona donna che ripeteva: è stato sempre così e sempre sarà così, l’ignorante morirà ignorante e buono a nulla e chi sa usare i gomiti si farà strada. Questa credenza, spinta a un livello più elevato di quello della povera buona donna, è l’abituale fondamento sovrastrutturale con cui ogni sfruttamento di attività altrui cerca di giustificarsi, e il «socialismo tedesco» non si è voluto privare della utilizzazione di così utile puntello.

Spiacenti di aver fermato il testo nella sua appassionata «suspense» per quello che accade dopo, ci facciamo subito da parte;
«Gli operai e gli impiegati vengono aggruppati secondo varie categorie di salario o di stipendio. Questa ripartizione fissa concretamente [si aspettava qualcosa di concreto!] la tariffa di ognuno in relazione al valore sociale del suo lavoro».
È risaputo, no?: un impiegato «vale» più di un operaio, è «sempre» stato così e «sempre» sarà così. Anche il «comunismo superiore» cui mamma Russia quasi è arrivata, conoscerà, senza dubbio, secondo i Sindacati Liberi della Germania Orientale, degli impiegati, magari super-elettronizzati, di gran lunga superiori agli operai.

«La classificazione è inoltre un atto di grande responsabilità perché serve a collocare il giusto uomo nel suo giusto posto [nel buco di lavoro, nella cella di rigore in cui consuma la sua vita d’uomo]. Per realizzare migliori risultati e per giungere ad una classificazione veramente giusta [tutto dev'essere «giusto» per questi sciocchi, che non hanno ancora imparato come le cose giuste le sognino solo i borghesi di cattivo umore: nel comunismo niente sarà «giusto»], abbiamo adottato – con il Codice del Lavoro – una via nuova» (pag. 74).
Ma no, è la via stravecchia – quella capitalistica – la solita – quella dello sfruttamento del lavoro salariato…

Fregatura si, ma democratica

Ma la vera beffa di queste economie «pianificate» non è lo sfruttamento, cosa normale, anzi basilare, in ogni capitalismo. La beffa è la «democratizzazione» delle istituzioni, è la «partecipazione» dei lavoratori ad un sistema che li divora, è il loro «cointeressamento», la loro «consultazione», il loro democratico consenso a tutto questo schifo. La classificazione dell’operaio avviene, nella R.D.T., nel seguente modo; esistono dei cataloghi per molti rami economici, in cui ogni lavoratore trova la sua qualifica, le difficoltà del suo lavoro e la propria categoria salariale, stabilite secondo un esempio-modello, un esempio tipico. Nei diversi cataloghi sono contemplati esempi per diverse professioni: meccanici, tornitori, minatori, muratori, ecc. Entro queste suddivisioni, poi, si trovano esempi per i lavori di diversa difficoltà; quindi altri, diversi solari. Insomma proprio come a casa nostra, dal nostro padrone e col nostro Stato «reazionario».

La beffa è però la seguente:
«La redazione dei cataloghi è avvenuta con la partecipazione decisiva dei sindacati e dei lavoratori stessi. Si è giunti a una effettiva, giusta [ci voleva!] classificazione [l’abbiamo detto, se è giusta è perché è una fregatura, non c’è dubbio] e alla uniformità per i singoli rami e per l’insieme dell’economia nazionale». (Pag. 75).

Volete fregare le masse? Consultatele! Questa è una «via» ormai secolare, che ogni buon democratico conosce e spera di calcare. De Gaulle vuole l’approvazione? Consulta le masse. Vuol dare una pedata alle chiacchiere parlamentari? Consulta il «popolo». E il popolo risponde «sì, sì» (e che approvi la pedata al parlamento non glielo si può addebitare come torto). I comunisti hanno da sempre riso delle manie consultative e posto il mito della democrazia fuori dalla loro concezione, lasciandolo all’ideologia borghese per quel tanto o poco che è utilizzabile come strumento di lotta contro le forme sociali precedenti. Finito quest'«ufficio» di quel mito non resta nulla; solo una parola ipocrita nel cui nome tutto è i permesso; un mezzo ideale per comandare a bacchetta dando l’illusione dell’«autogoverno». I comunisti hanno lasciato questo termine dove esso è nato e non lo fanno rientrare tra le loro rivendicazioni, nemmeno tra quelle minime e microscopiche; né lo usano come principio per la loro organizzazione di classe.

Che gli operai della Germania Orientale, irretiti esattamente come quelli della Germania Occidentale e del «mondo libero» in genere, abbiano dato il loro sì ai fanfaroni «socialisti», non significa per chi non è miope e non vede oltre il fatterello immediato che con la loro azione anche incosciente essi non giungeranno a dire un enorme NO a tutta una forma sociale che ormai da troppo tempo li sfrutta e deride.

Nella seconda parte di questo articoletto verremo a sapere quali forme di «salario» esistano presso i «socialisti tedeschi», e faremo senza dubbio la conoscenza di forme di salario del tutto nuove, novità degne di una società «socialista tedesca» meritevole d’un brevetto che la preservi da pericolose imitazioni da parte sia di paesi capitalistici e «reazionari», sia di paesi «socialisti» fratelli e «nazionali».

Il Salario a tempo, imperfezione «Socialista»

Abbiamo visto come, anche in un paese ufficialmente ad economia collettiva come la Germania Est, i sindacati, che,
«in conformità al carattere del nostro ordinamento di democrazia popolare, non si trovano in opposizione allo Stato socialista, ma lavorano per raggiungere lo stesso obiettivo: la vittoria del socialismo» (pag. 21)
frammentino la classe operaia disperdendola nei rivoli di interessi personali diversi, aumentando la concorrenza fra lavoratore e lavoratore, spingendo l’uno a «fregare» l’altro nella corsa per una miseria di guadagno in più (tutto ciò, abbiamo visto, si chiama, con molta eleganza, «cointeressamento»), insomma la smontino pezzo per pezzo nella sua coesione, frantumandola in particelle individualistiche, non spinte ad agire dall’interesse collettivo di classe, esattamente come da noi la triade sindacale CGIL, UIL, CISL basa le lotte operaie sulla cosiddetta articolazione e sulle differenziazioni salariali di qualifica.

Ma, se l’opportunismo dei nostri sindacati ci fa ribrezzo, come meravigliarcene quando i maestri della «tecnica» della frantumazione classista sono proprio i sindacati dei paesi «socialisti», in cui essi non si trovano più «all’opposizione dello Stato» e quindi hanno tutte le più «concrete» possibilità di attuare fino in fondo le loro aspirazioni? In effetti, essi le attuano e contribuiscono fattivamente a «costruire» quel meraviglioso «socialismo» in cui, come vedremo, il famigerato salario a cottimo svolge la funzione di muro maestro.

Ben lontani dallo spiegare alla forza-lavoro che la strada che porta al socialismo, più o meno lunga a seconda delle condizioni di partenza, porta anche alla scomparsa completa del salario, i Sindacati Liberi Tedeschi hanno scoperto il «difetto» del salario ordinario, il salario a tempo, e provvedono a correggerlo. Molto «socialisticamente» essi ci spiegano (pagg. 76–77):

«Si conoscono da noi due forme principali di salario; il salario orario ed il salario a cottimo, che hanno a loro volta varie forme di attuazione. Il salario orario è la retribuzione del tempo di lavoro reale dell’operaio e del grado di difficoltà del lavoro. Ci si è accordati su di una categoria ed il salario si paga secondo il numero delle ore di lavoro. Al salario orario manca quindi quel particolare incentivo necessario per il raggiungimento di risultati di lavoro più elevati».

Il salario orario sarebbe quindi poco adatto al «socialismo» non perché è, molto semplicemente, un salario, e perciò un classico rapporto capitalistico, ma perché gli manca «quel particolare incentivo». Che cosa hanno pensato, allora, i Sindacati Liberi? Si sono riuniti e si sono chiesti: perché non istituire dei premi di produzione, proprio come usano i nostri colleghi «reazionari»? E, si sa, in un organismo profondamente democratico è presto fatto, tutti sono subito d’accordo, all’unanimità, e il par. 47, a pag. 80 del «Codice del Lavoro», edizione italiana, ha l’onore di conferire a tutto ciò forma legale. I premi di rendimento
«consentono di premiare, nel salario orario, le rese superiori alla media».
L’uomo normale, «medio», si affanni dunque, per guadagnare un qualcosina in più (m. poco, non dubitate), nell’emulazione con il tipo «extra», con il superuomo base di questo socialismo alla Nietzsche.

Il cottimo, incarnazione della «giustizia»

Se però il salario orario è imperfetto; altre forme ovvieranno ai suoi inconvenienti e la vera e più perfetta realizzazione di questi «incentivi» la si otterrà con l’altra forma salariale, il salario a cottimo, che è
«la principale forma di salario corrisposta nell’industria socialista» (Pag. 77).

Già, perché «qui esiste un legame immediato tra il rendimento del lavoro ed il salario. Con questo tipo di salario il rendimento individuale del lavoratore può essere correttamente riconosciuto».
Insomma, il salario a cottimo è «giusto». È la perfetta giustizia, perché con questo sistema si riconosce il rendimento individuale, poco importa se, proprio attraverso questa giustizia, ammazzi il lavoratore costringendolo a centuplicare la sua capacità produttiva media; l’importante è che sia «giusto».

Dopo di aver notato che specialmente nel cottimo individuale esiste quel meraviglioso legame immediato fra rendimento e salario, il Codice riflette, solo per un attimo (Pag. 77):
«Certamente questa forma di salario [il cottimo individuale] favorisce l’individualismo e produce talvolta anche reazioni egoistiche. Vi sono ancora da noi operai che considerano questo salario come il salario a cottimo capitalistico»
Eh, ci saranno sempre uomini di corte vedute, che in un salario a cottimo non riescono a vedere altro che un salario a cottimo!

«Essi, per esempio, non contano sinceramente tutte le ricevute salariali, ma ne tengono alcune in riserva «nel cassetto». È vero che sono casi isolati, ma provano che questa forma permette delle manipolazioni da parte di coloro la cui coscienza è ancora scarsamente sviluppata. È vero che i loro piedi stanno nell’azienda socialista, ma il loro cervello ne è ancora fuori».

Al salario a cottimo del nostro capitalismo di tutti i giorni, bisogna riconoscere – per quanto esso sia un capitalismo «medio», proprio niente di speciale malgrado il miracolo – che funziona molto meglio e provvede egregiamente a che la manodopera «poco cosciente» non freghi l’altra. Anche per il capitalismo, infatti, un operaio che sgarra sul tempo lavorativo è un «uomo senta coscienza».

L’esposizione continua imperterrita nel testo (pag. 77–78):
«Il salario a cottimo collettivo è un ulteriore sviluppo del salario a cottimo individuale. È applicato laddove gli operai nell’organizzazione della produzione possono essere favoriti dall’interesse materiale collettivo. Questo salario ha il vantaggio di influenzare positivamente lo sviluppo ed il consolidamento del collettivo».

Marx e il cottimo

Tutto questo sforzo per mostrare il carattere «buono» del salario a cottimo, imperfetto nella sua forma individuale e perfetto in quella collettiva, è veramente penoso. Basta una breve frase di Marx per far saltare in aria un simile castello di chiacchiere legalizzate. Nel «Capitale» (tomo I. vol. 2°, pag. 275, ed. Rinascita), si legge:
«Da quanto è stato esposto sin qui risulta che il salario a cottimo è la forma di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico»,
il che è piuttosto in contrasto con l’affermazione, riportata più sopra, che quella forma è invece
«la principale corrisposta nell’industria socialista».
Ma quale industria socialista? La vostra, che non è socialista proprio perché poggia sui pilastri del capitale!

Praticamente Marx dice che nel salario a cottimo c’è l’essenza del capitalismo, perché in esso traspare chiara e netta la necessità di una determinata società di produrre per produrre, di accumulare lavoro umano, di tiranneggiare il lavoro vivo con il lavoro morto, di decantare come progresso la pura mole di prodotti ottenuti col sangue ed il sudore dei suoi schiavi, non la soddisfazione dei bisogni umani.

In effetti, il salario a cottimo si è sviluppato proprio con lo sviluppo del sistema produttivo moderno, il capitalismo, ed è destinato a deperire e scomparire quando il capitalismo finalmente deperirà sotto i colpi antidemocratici del potere proletario. Poco dopo la frase citata, Marx continua:
«…il salario a cottimo acquista tuttavia un campo di azione maggiore soltanto durante il periodo della manifattura vera e propria».
(Cioè quando il capitalismo esce dalla sua infanzia e si trasforma nel moderno sistema produttivo).
«Negli anni di impeto e slancio della grande industria, specialmente dal 1797 al 1815, esso serve di leva per il prolungamento del tempo di lavoro e per la riduzione del salario».
Questi gli allori che il salario a cottimo ha riscosso.

Altre brevi citazioni: A pag. 273, Marx nota come con questa forma di salario
«si verificano grandi differenze nelle entrate reali degli operai a seconda della diversa abilità, forza, energia, perseveranza, ecc. degli operai individuali. Questo naturalmente non cambia nulla al rapporto generale fra capitale e lavoro salariato».
Il lavoro salariato è al servizio del capitale, qualunque forma esso abbia. A pag. 274:
«Ma il maggior campo d’azione che il salario a cottimo offre all’individualità, tende da un lato a sviluppare l’individualità e con ciò il sentimento della libertà, l’autonomia e l’autocontrollo degli operai, dall’altro a sviluppare la loro concorrenza fra di loro e degli unì contro gli altri [sottolineato da Marx]. Esso ha perciò la tendenza ad abbassare il livello medio dei salari mediante l’aumento dei salari individuali al di sopra del livello stesso».

Ecco altri allori conquistati da questo pilastro del «socialismo» tedesco-orientale, il quale, non contento d’usare il salario ordinario, sogna tutta una società basita sul cottimo. Il salario a tempo infatti non consentirebbe quell’abbassamento del livello medio dei salari tanto necessario all’economia «socialista» per sostenere la concorrenza dei paesi capitalistici.

Ma noi sappiamo benissimo che in realtà si tratta di «concorrenza» non fra paesi socialisti e paesi capitalisti, bensì tra le forme economiche che sole possono farsi concorrenza, quelle del capitalismo. La concorrenza, come il salario, è uno dei pilastri del capitalismo, la sua base è l’individualismo, elemento indispensabile della società del profitto anche quando è accentrata al massimo e lo supera con un’organizzazione economica basata su unità immense di lavoro associato. Ma entro queste unità un solo principio domina ed è la garanzia del loro buon funzionamento: quello individualistico della concorrenza tra gli operai, il famoso «incentivo» e, al di fuori, quello della concorrenza fra unità e unità. Questa concorrenza, o emulazione che dir si voglia, si trasferisce sul piano nazionale, ed ecco che le unità economiche di un paese (espresse politicamente nello Stato) lottano emulativamente con quelle di un altro, in santa pace in un primo tempo, poi con le armi. La differenza è che i «socialisti» la chiamano «emulazione socialista».

Riepilogando, il senso del salario a cottimo può essere uno solo: ottenere con questo strumento «emulativo» la massima produzione nello sfruttamento più intensivo possibile del lavoro umano. Questi democraticoni socialisteggianti non possono far altro che sognare la caratteristica del socialismo come quella dello sfruttamento fino al midollo della forza produttiva umana. Essi ragionano così: se il capitalismo con otto ore di lavoro giornaliere otteneva tanto, noi nello stesso tempo dovremo ottenere molto di più, perché siamo migliori, siamo «socialisti»; e a questo prezzo, con una ubriacatura patriottica da far impallidire i nazionalisti più accesi, mungono tutta l’energia della loro forza lavoro. E, così facendo, si pongono una volta di più sullo stesso piano del deprecato capitalismo e somministrano altre «vitamine» alla sua crescita smisurata, già così superiore al necessario.

Noi opponiamo che, se il capitalismo per produrre una massa enorme di merci ha bisogno di tante ore giornaliere, noi produrremo molto meno con molto meno ore, anzitutto perché faremo un taglio netto alla produzione eliminandone tutta la parte inutile, poi perché limiteremo la giornata lavorativa al lavoro necessario, non più produttore di merci.

Come sarà possibile tutto ciò? Chi stabilirà che cosa produrre e che cosa non produrre, se non è più il profitto che detta legge? È semplicemente una questione di potere e chi agisce come i Sindacati Liberi della R.D.T. o, meglio, come lo Stato della stessa democratica repubblica «capitalista», mostra di essere del tutto impotente. È il potere centrale che abolisce il profitto come molla della produzione sociale e quindi stabilisce che cosa è utile (nelle condizioni produttive date) produrre per la società. È il potere centrale che organizza il lavoro sociale uscendo dai limiti salariali, dai calcoli della convenienza commerciale e della redditività, e da quelli dell’incentivo e del cointeressamento. È a tali condizioni che la produzione potrà divenire produzione per la società e che i produttori troveranno i frutti della loro attività di fronte a sé, direttamente, senza la mediazione del salario e del mercato.

Il capitale viene colpito al cuore. Il salario viene colpito al cuore del suo principio, quello di dare al lavoratore un «reddito» (che gli consente di acquistare prodotti corrispondenti a poche delle molte ore di attività prestate, le ore di lavoro necessarie, mentre il plusvalore va all’accumulazione di altro capitale e ad ingrassare i «funzionari» o i servi del Capitale). Per il proletario, la fregatura è il salario stesso, che ha appunto la funzione di rendere il lavoro umano merce come tutte le altre esistenti sul mercato, e corrispondergli un valore inferiore a quanto esso con la sua esplicazione produce. Solo eliminando il salario, con tutti gli altri rapporti del capitale (che del resto gli sono indissolubilmente legati), i produttori svolgeranno unicamente il lavoro necessario, ovvero quella parte di lavoro che serve alla società, e non al capitale per la sua immonda riproduzione. Il salario è quindi, in tutte le sue forme, un ostacolo allo sviluppo in senso socialista e porta in sé la subordinazione del lavoro al capitale, riflette la subordinazione della classe lavoratrice alla classe borghese antagonistica.

Lasciarlo sussistere, e affibbiargli come unica misura «rivoluzionaria» la denominazione «socialista», è accettarlo con tutti i suoi misfatti, è tradire la rivoluzione mondiale, è inchinarsi allo sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Nella coscienza di tutto ciò, nel nome di questo immondo disfattismo, il Codice del Lavoro della R.D.T. proclama:
«Esso [il salario] contribuisce allo sviluppo della coscienza socialista e del lavoro collettivo socialista» (§ 39, pag. 73).

Non attendiamoci altro da, sindacalisti prezzolati dallo Stato capitalista. Essi, per erigere il «socialismo», osannano a tutte le più pure forme del capitalismo. Ma aspettiamoci dai salariati, dagli sfruttati con l’inganno di un socialismo fasullo, la ripresa di una lotta senza tregua contro le insulsaggini «democratiche», «progressive», «emulative», etichettate col marchio di fabbrica:
«Socialismo con salario a cottimo. Made in East-Germany»?


Vedi anche il testo «Sguardi alla Germania Est: il ‹diritto al lavoro›»

Source: «Il Programma Comunista», nn. 8, 9 – aprile 1963

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