LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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TESI SULLA QUESTIONE CINESE


Content:

Tesi sulla questione cinese[1]
Natura e prospettive delle rivoluzioni d’Oriente
Democrazia e proletariato: la questione nazionale
Dalla rivoluzione russa alla Comune di Canton: rivincita del menscevismo
«Socialismo» contadino e democrazia di tipo «nuovo»
«L’impotente riformismo piccolo-borghese»
Antagonismi dell’Oriente borghese
Notes
Source


Tesi sulla questione cinese

Dopo il 1960, anno in cui gli 81 partiti sedicenti comunisti (compreso quello di Mao) manifestarono la loro unanimità sul programma dell’opportunismo kruscioviano, una rottura di fatto si è prodotta fra Pechino e Mosca. In diversi testi che noi abbiamo analizzati, la Cina presenta la propria variante nazionale dello stalinismo: ma a differenza degli altri «socialismi nazionali» di marca araba, cubana o jugoslava, il «socialismo cinese» pretende di rivedere i conti alla Russia borghese, di erigersi in difensore del marxismo e di ricostruire sotto la propria egida i ranghi del proletariato mondiale. È questa pretesa, più che gli inevitabili antagonismi fra Stato russo e Stato cinese, che esige la nostra risposta. Perché, né la pratica sociale, né l’ideologia politica ufficiale dei dirigenti di Pechino sono dirette verso il trionfo del programma comunista.

Natura e prospettive delle rivoluzioni d’Oriente

1) In Cina, come negli altri paesi arretrati d’Africa e d’Asia, le due guerre mondiali hanno portato al loro punto di rottura le contraddizioni fra lo sviluppo delle forze produttive e i vecchi rapporti di produzione ereditati dal regime patriarcale.

Per un lungo periodo le insurrezioni nazionali e le rivolte agrarie vi si sono susseguite, a conferma dei pronostici formulati dal marxismo sin dagli inizi del secolo. Così, malgrado le ripetute disfatte del proletariato nelle metropoli europee, l’esplosione dei movimenti nazionali in Oriente ha reso testimonianza della forza rivoluzionaria degli antagonismi accumulati dal sistema capitalista. Ma, come oggi è provato dal ritardo crescente dei paesi arretrati rispetto allo sviluppo economico delle loro ex metropoli, queste contraddizioni non potevano essere risolte in un quadro nazionale e nella forma di un «progresso borghese». Esse sono il prodotto del capitalismo mondiale, del suo sviluppo ineguale, dell’accumulazione di tutte le ricchezze in un pugno di Stati super-industrializzati.

È appunto in questi termini che l’Internazionale Comunista, fin dal suo «Manifesto» del 1919 poneva la questione coloniale: «L’ultima guerra, che è stata anche una guerra contro le colonie, fu contemporaneamente una guerra con l’aiuto delle colonie… Il programma di Wilson «libertà dei mari», «società delle Nazioni», «internazionalizzazione delle colonie», non mira ad altro, nell’interpretazione più favorevole, che a cambiare l’etichetta della schiavitù coloniale. La liberazione delle colonie è possibile solo contemporaneamente alla liberazione della classe operaia delle metropoli». Questa è stata battuta, poi asservita all’ideologia borghese e pacifista; ma contro tutti i profeti di «pace sociale» e di «coesistenza pacifica», deve trarre dalle rivoluzioni di Oriente questa lezione e questa certezza: la violenza è sempre la sola levatrice della storia.

2) Quale che possa essere stata in Cina l’oppressione dell’imperialismo straniero, la natura degli antagonismi economici e sociali che questo vi ha scatenati non poteva fare della sua rivoluzione, di per sé, una rivoluzione «anti-capitalista». Il marxismo ha sempre denunciato questa illusione del «socialismo» piccolo-borghese, che fu pure quella dei populisti russi e che oggi è sfruttata dall’«estremismo» di Mao. Diceva Lenin dei populisti russi:
«Essi sciorinano volentieri delle frasi ‹socialiste›, ma nessun operaio cosciente può ingannarsi sul significato di queste frasi. In realtà nessun ‹diritto alla terra›, nessuna ‹ripartizione egualitaria del suolo›, nessuna ‹socializzazione›, non contengono una goccia di socialismo. Ciò deve essere compreso da tutti coloro che sanno che la produzione di merci, il dominio del mercato, del danaro e del capitale non sono infranti, ma al contrario più largamente sviluppati dall’abolizione della proprietà privata e da una nuova ripartizione del suolo, fosse anche la più ‹giusta›…» («I partiti politici in Russia», 1912).

La liberazione del contadino dai vincoli dell’economia naturale, lo sviluppo di un’industria «moderna», utilizzante le risorse in manodopera e in capitali fornite da un’agricoltura «moderna», la creazione di un mercato nazionale e, a coronamento di tutto ciò, l’esaltazione della «unità nazionale», di una «cultura nazionale» e di tutti gli attributi «moderni» della potenza statale, non sono mai stati e non possono essere altro che il programma dell’accumulazione del capitale.

3) Tuttavia, lungi dal limitarsi, in un movimento rivoluzionario borghese, alla rivendicazione formale dello Stato nazionale e della democrazia politica, il marxismo determina nel modo più rigoroso il ruolo delle classi sociali in ogni rivoluzione. La comparsa di un proletariato industriale in Cina, come nella Russia zarista o nell’Europa del 1848, significava per i comunisti la necessità di una organizzazione di classe che sfruttasse ai propri fini politici la crisi del regime pre-borghese. Tale è la linea del «Manifesto del Partito Comunista» e della Rivoluzione di Ottobre, linea che Marx ha definito col nome di «rivoluzione permanente». Nelle sue «Tesi complementari sulla questione coloniale», Roy sottolineava al II Congresso della III Internazionale l’importanza di questa prospettiva di lotta indipendente e continua per il proletariato dei paesi coloniali:
«La dominazione straniera ostacola costantemente il libero sviluppo della vita sociale; perciò il primo passo della rivoluzione (nelle colonie) deve essere l’abbattimento di questa dominazione. Appoggiare la lotta per l’abbattimento della dominazione straniera non significa sottoscrivere le aspirazioni nazionali della borghesia indigena, ma aprire al proletariato delle colonie la via della sua liberazione… Nel suo primo stadio, la rivoluzione nelle colonie non sarà una rivoluzione comunista, ma se fin dall’inizio un’avanguardia comunista ne prende la testa, le masse rivoluzionarie saranno avviate sul giusto cammino e raggiungeranno il fine ultimo attraverso una graduale conquista di esperienze rivoluzionarie».

Imprigionando il proletariato cinese, fin dall’inizio della rivoluzione, nel «blocco delle quattro classi» – formula politica dell’attuale «democrazia popolare» – il partito di Mao ha segnato la rottura di tutto l’Oriente arretrato con la tattica gloriosamente illustrata dal bolscevismo russo.

4) La permanenza del processo rivoluzionario che doveva dare il potere al proletariato dei paesi arretrati, aveva senso, per una vittoria definitiva del comunismo, soltanto se la rivoluzione proletaria riusciva ad estendersi alle metropoli del capitale. La Russia, diceva la seconda prefazione di Marx alla edizione russa del «Manifesto», potrà evitare la fase dolorosa dell’accumulazione capitalistica solo
«se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda».
L’Internazionale di Lenin non ha soltanto ripreso questa prospettiva per la Russia dei Soviet, ma l’ha estesa a tutta l’Asia.
«Solo – ricordavano le tesi del congresso di Bakù del 1920 – il trionfo completo della rivoluzione sociale e l’instaurazione di una economia comunista mondiale possono liberare i contadini di Oriente dalla rovina, dalla miseria e dallo sfruttamento. Perciò essi non hanno altra via per la propria emancipazione che di allearsi agli operai rivoluzionari di Occidente, alle loro repubbliche sovietiche, e di combattere nello stesso tempo i capitalisti stranieri e i loro propri despoti (i proprietari fondiari ed i borghesi) fino alla vittoria completa sulla borghesia mondiale e all’instaurazione definitiva del regime comunista».

È noto come lo stalinismo abbia capovolto questa tesi, facendo dei successi economici o diplomatici della Russia il criterio universale dei progressi del comunismo. Pechino va fino in fondo sulla via del rinnegamento: invece di indicare nella vittoria del proletariato occidentale la sola prospettiva di emancipazione sociale dell’Oriente, esso fa dipendere la causa del proletariato internazionale dall’esito dei moti nazionali borghesi d’Africa e d’Asia.

5) Contro la teoria staliniana della «edificazione del socialismo nell’URSS», e i prolungamenti tattici che l’Internazionale degenerata le diede in Cina, Trotzky ha avuto il merito storico di difendere la visione integrale del processo rivoluzionario scatenato dalla prima guerra mondiale e dalla rivoluzione di Ottobre. Così, nelle sue tesi del 1929 sulla rivoluzione permanente, egli dichiarava:
«La rivoluzione socialista non può giungere a compimento entro limiti nazionali. Una delle cause essenziali della crisi della società borghese deriva dal fatto che le forze produttive da essa create tendono a uscire dal quadro dello Stato nazionale. Di qui le guerre imperialiste da una parte e l’utopia degli Stati Uniti d’Europa dall’altra. La rivoluzione socialista comincia sul terreno nazionale, si sviluppa sulla arena internazionale e si compie sull’arena mondiale».

La teoria della rivoluzione permanente si applica quindi ad ogni Stato isolato di dittatura proletaria, tanto se le sue strutture economiche sono mature per certe trasformazioni socialiste quanto se sono ancora molto arretrate. Non più che la Germania di Hitler, la Russia staliniana non poteva aggiudicarsi il privilegio nazionale di «costruire il socialismo» entro le sue frontiere. Ma d’altra parte, insisteva Trotzky,
«lo schema di sviluppo della rivoluzione mondiale elimina la questione dei paesi ‹maturi› o ‹non maturi› per il socialismo, secondo la classificazione rigida e pedantesca che il programma attuale dell’Internazionale comunista ha stabilito. Nella misura in cui il capitalismo ha creato il mercato mondiale, la divisione mondiale del lavoro e le forze produttive mondiali, esso ha preparato l’insieme dell’economia mondiale alla ricostruzione socialista».

Democrazia e proletariato: la questione nazionale

6) Instaurando la dittatura del proletariato in un paese piccolo-borghese che non conosceva né il regime parlamentare né un capitalismo sviluppato, i bolscevichi russi diedero una smentita mortale al riformismo della II Internazionale che della democrazia e dei suoi «progressi» faceva una condizione assoluta del «passaggio» al socialismo.

Mezzo secolo più tardi, non ci si contenta di vedere nelle riforme costituzionali e nei metodi democratici la via maestra verso il socialismo; lo stesso socialismo è definito dai rinnegati in termini borghesi di «democrazia popolare» o di «Stato di tutto il popolo». Coloro che hanno distrutto l’Internazionale di Lenin non hanno più che una parola d’ordine ed una confessione: indipendenza dei diversi partiti «comunisti», non-ingerenza negli affari interni dei partiti «nazionali».

Spiegando il fallimento della II Internazionale, il «Manifesto» del 1919 dichiarava che
«in quel periodo il centro di gravità del movimento operaio poggiava interamente sul terreno nazionale, nel quadro degli Stati nazionali, sulla base dell’industria nazionale, nell’ambito del parlamentarismo nazionale».
Noi neghiamo che una fine simile sia stata inevitabile per la III Internazionale. Il capitalismo mondiale e le guerre imperialistiche avevano precisamente spostato questo «centro di gravità» sull’arena internazionale, non solo per i paesi di capitalismo avanzato, ma anche per i paesi oppressi in cui la questione nazionale e coloniale si poneva in tutta la sua ampiezza.

7) La questione nazionale non può porsi come questione specifica del movimento proletario che nella fase rivoluzionaria del capitalismo, quando la borghesia si lancia all’assalto del potere per condurre a termine la sua opera di trasformazione economica e sociale. In una fase di capitalismo già maturo, invece, ogni «programma nazionale» di un partito operaio che rivendichi il perfezionamento del sistema rappresentativo dello Stato borghese o della sua base economica, costituisce un programma di collaborazione di classe e di «difesa della patria». Appunto perciò il marxismo ha sempre strettamente delimitato per aree geografiche queste due fasi successive del capitalismo.
«Nell’Europa occidentale, l’epoca delle rivoluzioni democratiche borghesi abbraccia un intervallo di tempo abbastanza preciso che va suppergiù dal 1789 al 1871», diceva Lenin. «è questa l’epoca dei moti nazionali e della creazione di Stati nazionali. Chiuso questo periodo, l’Europa occidentale si era trasformata in un sistema costituito di Stati borghesi, di Stati nazionali generalmente omogenei. Cercare oggi il diritto di libera disposizione nei programmi dei socialisti di Europa occidentale, è non sapere l’abc del marxismo».
«Nell’Europa orientale e in Asia, l’epoca delle rivoluzioni democratiche borghesi è cominciata solo nel 1905. Le rivoluzioni in Russia, in Persia, in Turchia, in Cina, le guerre nei Balcani, questa la catena degli avvenimenti mondiali della nostra epoca nel nostro Oriente».

Oggi, questa fase si è egualmente conclusa per tutta l’area afro-asiatica Dovunque si sono costituiti, alla fine della II guerra mondiale, degli Stati nazionali più o meno «indipendenti», più o meno «popolari», che promuovono in modo più o meno «radicale» l’accumulazione del capitale. Per questo solo fatto, l’«estremismo» cinese non può più presentarsi come la teoria di un movimento nazionale rivoluzionario, ma come un’ideologia ufficiale di Stato borghese costituito, come un programma di collaborazione di classe con tutto ciò che questo comporta in frasi «socialiste».

8) Neanche nella fase delle rivoluzioni democratiche borghesi, i comunisti non possono erigere a feticcio la «questione nazionale» e non devono collocarne la soluzione al disopra degli interessi di classe e della propria lotta. Il proletariato rivoluzionario non deve dimenticare che il suo compito storico è di distruggere lo Stato borghese e i rapporti di produzione capitalistici per instaurare una società in cui le classi spariranno, e con esse spariranno le differenze fra Stati e le stesse nazioni.

Nel suo sviluppo il capitalismo abbatte le frontiere nazionali, superate dalle sue merci e dai suoi eserciti. Distruttore di rapporti di proprietà, esso infrange le entità nazionali e impone le sue forme di dominazione mondiale ai paesi più avanzati come ai popoli oppressi. I comunisti non possono quindi attendere dal capitale che esso crei un’armoniosa «società delle nazioni» in cui i rapporti fra Stati siano regolati conformemente al «diritto delle genti». Era invece loro permesso di sperare che l’abbattimento del capitalismo mondiale evitasse all’Oriente la fase dell’accumulazione capitalistica e della costituzione in Stati nazionali borghesi.
«Noi ignoriamo», diceva ancora Lenin, «se l’Asia giungerà prima della bancarotta del capitalismo a costituirsi in un sistema di Stati nazionali indipendenti sul modello dell’Europa. Ma una cosa è incontestabile, cioè che risvegliando l’Asia il capitalismo ha suscitato anche laggiù dei moti nazionali; che questi tendono a costituire degli Stati nazionali; che questi Stati assicurano appunto al capitalismo le condizioni migliori di sviluppo» («Del diritto dei popoli di disporre di se stessi»).

9) La III Internazionale aveva prospettato le diverse possibilità di sviluppo della rivoluzione mondiale:
- vittoria simultanea del proletariato in Occidente e in Oriente;
- vittoria del proletariato nelle metropoli e indipendenza delle colonie sotto un governo della borghesia nazionale;
- vittoria del proletariato nelle colonie e ritardo della rivoluzione comunista in Europa.

Ma non considerò la vittoria di un blocco di classi come una prospettiva rivoluzionaria duratura e alla quale il proletariato dei paesi arretrati potesse legare il suo destino. In tutti i casi le tesi del II Congresso che Roy aveva particolarmente consacrato alla Cina e all’India insistevano sulla necessita per il proletariato di separarsi dalla borghesia «nazionale».
«Esistono (nei paesi oppressi) due movimenti che ogni giorno più divergono. Il primo è il movimento nazionalista democratico-borghese, il cui programma è l’indipendenza politica nel quadro dell’ordine borghese; il secondo è quello dei contadini poveri e arretrati e degli operai che lottano per la propria liberazione da ogni specie di sfruttamento. Il primo movimento cerca, spesso con successo, di controllare il secondo; ma l’Internazionale Comunista deve combattere un tale controllo e promuovere lo sviluppo della coscienza di classe fra le masse operaie delle colonie».

10) La storia del movimento operaio in Cina e la tradizione politica del PCC sono la negazione di questa esigenza dell’Internazionale. Entrando nel Kuomintang, fin dal 1924, il giovane partito comunista cinese dava la sua adesione ai «tre principi del popolo», versione asiatica delle formule di Lincoln («un governo del popolo, mediante il popolo e per il popolo») e della rivoluzione borghese francese («libertà, eguaglianza, fraternità»). Come ha mostrato Trotzky, la fusione del PCC e del partito nazionalista non aveva nulla a che vedere con la tattica delle alleanze temporanee che Marx giudicava accettabile in una rivoluzione democratica borghese e che i bolscevichi avevano utilizzato in Russia. Si trattò di un’adesione di principio, rinnovata da Mao Tse-tung ad ogni «tappa» della rivoluzione cinese anche dopo la sconfitta e l’eliminazione del Kuomintang:
«Le nostre rivendicazioni coincidono interamente con le rivendicazioni rivoluzionarie di Sun Yat-sen (egli dichiarava nel 1945 nel suo rapporto «Sul governo di coalizione»): abbattere il giogo che gli stranieri facevano pesare sulla nostra nazione, liquidare l’oppressione feudale, liberare il popolo cinese dal destino tragico di una popolazione vivente in un paese coloniale, semicoloniale e semi-feudale, costruire una Cina indipendente, libera, democratica, unita, ricca e potente, uno Stato di nuova democrazia per il suo carattere, diretto dal proletariato, e la cui attività consista essenzialmente nel liberare i contadini: insomma, costruire lo Stato dei tre principi del popolo di Sun Yat-sen. È quello che facciamo».

Dalla rivoluzione russa alla Comune di Canton: rivincita del menscevismo

11) è nell’analisi degli avvenimenti del 1905 che il bolscevismo trovò la conferma della sua tattica e si separò definitivamente dalla corrente menscevica. In Russia, constatava Lenin,
«la rivoluzione borghese è impossibile come rivoluzione della borghesia».
Il proletariato non può dunque aspettare che la borghesia abbia realizzato la sua opera politica (abbattimento dello zarismo) o sociale (abolizione della proprietà feudale) per scendere in lotta. Prendere la testa del movimento sociale senza rinchiuderlo in forme giuridiche borghesi (Assemblea costituente), tale fu il senso delle parole d’ordine: «Dittatura democratica degli operai e dei contadini!» e «Tutto il potere ai Soviet!». Il risultato di questa tattica non fu l’instaurazione di una democrazia borghese, ma la dittatura aperta del proletariato.

Combattendo la teoria delle «tappe» della rivoluzione borghese che Stalin sosteneva già, Lenin ricordò nel marzo 1917 il contenuto delle divergenze fra bolscevichi e menscevichi:
«La nostra rivoluzione è borghese, ecco perché gli operai devono sostenere la borghesia – dicono i politici incapaci del campo dei liquidatori. La nostra rivoluzione è borghese – diciamo noi marxisti – ecco perché gli operai devono aprire gli occhi del popolo sulle menzogne dei politici borghesi, insegnargli a non credere alle belle frasi, ad avere unicamente fiducia nelle proprie forze, nella propria organizzazione, nella propria unità, nel proprio armamento».

12) Lo stalinismo si è sforzato di negare l’applicazione ai paesi coloniali dei principi e degli insegnamenti della rivoluzione di Ottobre e a questo scopo sostenne un’interpretazione tipicamente menscevica, secondo cui il giogo imperialista rendeva la borghesia «nazionale» dei paesi arretrati più rivoluzionaria che la borghesia antifeudale russa. A questa teoria di Bucharin, Trotzky rispose:
«Una politica che ignori la potente pressione esercitata dall’imperialismo sulla vita interna della Cina sarebbe radicalmente falsa. Ma non meno falsa sarebbe una politica che parta da un’idea astratta della oppressione nazionale, senza conoscere la sua rifrazione nelle classi… L’imperialismo è in Cina una forza di primaria importanza. La sorgente di questa forza non risiede nelle navi da guerra dello Yang-tse, ma nel legame economico e politico del capitale straniero con la borghesia indigena» («La rivoluzione cinese e le tesi di Stalin», 1927).

Senza fare l’analisi dei rapporti di classe in Cina, come negli altri paesi coloniali, era impossibile capire sia il contenuto della questione agraria, sia il fenomeno della borghesia compradora, sia infine il ruolo dei «signori della guerra» e altri generali nazionalisti, come Ciang Kai-scek e Wan Tin-wei, in cui l’Internazionale cercò degli alleati e in cui trovò dei carnefici.

13) «Le rivoluzioni d’Asia ci hanno mostrato la stessa mancanza di carattere e la stessa bassezza del liberalismo, la stessa importanza esclusiva di una indipendenza delle masse democratiche, la stessa delimitazione precisa fra il proletariato e ogni borghesia». (Lenin, «I destini storici della dottrina di K. Marx», 1913).

Tali gli insegnamenti che fin dal 1913 Lenin tirava dalla prima ondata delle rivoluzioni nazionali borghesi in Oriente: Russia (1905), Persia (1906), Turchia (1908), Cina (1911). Poco prima che la seconda ondata rivoluzionaria finisse nel massacro del proletariato cantonese, nel 1927, Trotzky riassunse l’amara lezione della tattica seguita dall’Internazionale:
«Dalle tesi di Stalin discende che il proletariato potrebbe separarsi dalla borghesia solo quando quest’ultima l’abbia già respinto, disarmato, decapitato e calpestato. Ma è appunto così che si è svolta la rivoluzione abortita del 1848. Si è visto il proletariato, senza bandiera propria, seguire la democrazia piccolo-borghese, che a sua volta si trascinava dietro la borghesia liberale e sacrificava gli operai alle sciabole dei Cavaignac. Per grande che sia l’originalità della situazione cinese, il carattere essenziale della evoluzione subita dalla rivoluzione del 1848 si ritrova nella rivoluzione cinese con una precisione così impressionante che si direbbero perdute le lezioni del 1848, 1871, 1905, 1917, del partito comunista dell’URSS e dell’Internazionale Comunista».

E in realtà nelle grandi battaglie della rivoluzione cinese fra il 1924 e il 1927 non fu la sorte di una Cina «indipendente, ricca e potente» ad essere compromessa per molti anni, ma la sorte di tutto il movimento operaio nelle colonie per un periodo storico infinitamente più lungo e più doloroso.

14) Entrando nel Kuomintang, mandando i suoi «ministri» nel governo nazionalista di Canton, il PCC non eseguiva un’abile manovra tattica per aumentare la sua influenza, come gli fece credere l’Internazionale di Mosca. Esso rinunciava ai suoi principi e subordinava la sua azione alla strategia nazionale della borghesia. Stalin spinse questa posizione fino alle sue ultime conseguenze e le «tesi» da lui pubblicate nell’aprile 1927, più di un anno dopo il primo colpo di forza di Ciang Kai-scek, contro i comunisti, presero una forma «classica».

L’adesione ai «tre principi del popolo» non implicava infatti il semplice riconoscimento di principi astratti, la «fede comune degli operai e dei borghesi nel movimento nazionale». Secondo la dottrina di Sun Yat-sen ai «tre principi» corrispondevano «tre tappe» dello sviluppo della rivoluzione borghese: – La prima tappa, «militare», doveva tradurre in pratica il principio del nazionalismo mediante l’unificazione della Cina; – La seconda, «educativa», doveva preparare il popolo alla democrazia politica; – La terza, infine, doveva realizzare questa democrazia e introdurre il «benessere del popolo».

Nelle sue «tesi», Stalin riprende le stesse «tappe» battezzandole: antimperialista, agraria, sovietica. Solo il massacro del proletariato cinese segnava per lui la fine della «prima tappa», durante la quale i comunisti non dovevano porre né la questione agraria né quella della loro uscita dal Kuomintang. Tutti i partiti staliniani ripresero questa politica nei paesi coloniali. In Cina, in cui essa fu applicata per la prima volta, essa si è rivelata apertamente come un tradimento di classe, abbandonando i proletari insorti nei maggiori centri industriali alla sanguinosa repressione di Ciang Kai-scek.

15) Nella sconfitta del 1927, lo stalinismo non volle mai vedere che «una tappa» della rivoluzione borghese in Cina e un «provvisorio» rinculo del movimento operaio. Noi respingiamo questa interpretazione. Le lotte di classe in quel periodo furono così poco «parziali», che si trasformarono in una lotta per la conquista del potere fra borghesia e proletariato, e la sconfitta si accompagnò all’eliminazione fisica duratura di tutta l’avanguardia comunista. Ormai, come disse Trotzky, la «rivoluzione democratica» in Cina avrà il carattere non più di una rivoluzione, ma di una controrivoluzione, borghese. Infine, il rovescio del 1927 segna per l’Internazionale di Mosca il rinnegamento completo della tradizione bolscevica in tutti i paesi d’Oriente. Alle «Tesi di Aprile» 1917, con le quali Lenin annunciava l’imminente vittoria della rivoluzione russa, si contrappongono parola a parola le «Tesi di Aprile» 1927, in cui Stalin giustifica con la teoria delle «tappe» rivoluzionarie il colpo di stato di Ciang Kai-scek.

Contro la storiografia nazionale e borghese, il marxismo deve ristabilire la sua concezione proletaria e mondiale del corso storico dei movimenti rivoluzionari borghesi:
- 1789–1871, moti democratico-borghesi nell’Europa occidentale (come pure in America del nord ed in Giappone);
- 1905–1950, circa, moti nazional-rivoluzionari nell’Europa orientale e in tutta l’area afro-asiatica; una sola vittoria proletaria: in Russia;
- 1917–1927, strategia mondiale della rivoluzione permanente, con sconfitte successive in Europa (1918–1923) e in Asia (1924–1927) quali premesse alla controrivoluzione stalinista in Russia e nel mondo.

«Socialismo» contadino e democrazia di tipo «nuovo»

16) Il marxismo non ha solo denunziato la teoria della «tappa democratica», ha anche respinto, nella «tappa agraria», l’impiego ad opera di Stalin della parola d’ordine della «dittatura democratica degli operai e dei contadini», per coprire l’alleanza governativa con il Kuomingtang di sinistra. Nella sua forma compiuta, questa teoria è diventata quella della democrazia «nuova», abbandono completo delle concezioni marxista sulla natura di classe di ogni stato.
«Le numerose forme di regime politico esistenti nel mondo si riducono essenzialmente ai tre tipi seguenti:
1) repubbliche di dittatura borghese,
2) repubbliche di dittatura proletaria,
3) repubbliche di dittatura della alleanza di diverse classi rivoluzionarie…
Durante un certo periodo storico, nei paesi coloniali e semicoloniali in rivoluzione, la sola forma applicabile per l’organizzazione dello Stato è la terza, quella che noi chiamiamo repubblica di nuova democrazia«
(Mao Tse-tung, «La nuova democrazia»).

Non soltanto l’Internazionale di Lenin non ha mai chiamato i proletari delle colonie a fondare questi Stati «intermedi» fra la dittatura del proletariato e quella della borghesia, ma noi neghiamo altresì che ne esista o ne sia resistito uno solo dopo 40 anni di «fronti anti-imperialistici». L’esperienza del dualismo del potere nella rivoluzione russa ha provato che la «dittatura democratica degli operai e dei contadini» non può non trasformarsi, a breve scadenza, in dittatura del proletariato o dittatura della borghesia. Trotzky estese quest'insegnamento alla rivoluzione di Cina, e noi ne vediamo oggi la conferma nel punto di approdo borghese di tutti i moti anticoloniali.
«Se i populisti russi e i menscevichi diedero apertamente alla loro effimera ‹dittatura› la forma di una dualità di poteri, al contrario la ‹democrazia rivoluzionaria› cinese non si era sviluppata abbastanza per arrivare a questo. E siccome la storia non lavora su ordinazione, non resta che rendersi conto che non c’è e non ci sarà altra ‹dittatura democratica› se non quella esercitata dal Kuomingtang dal 1925» (Trotzky, «L’Internazionale comunista dopo Lenin»).

17) Dopo di avere a lungo ignorato il movimento agrario e l’armamento dei contadini, gli staliniani se ne invaghirono al punto di vedervi il tratto
«originale della rivoluzione cinese e il fondamento della democrazia di tipo nuovo».

«La questione nazionale è, fondamentalmente, una questione contadina»,
dichiarò Stalin. E Mao commenta:
«Ciò significa che la rivoluzione cinese è, fondamentalmente, una rivoluzione contadina, che la lotta contro gli invasore giapponesi è fondamentalmente una lotta contadina. Il regime di nuova democrazia consiste fondamentalmente nel dare il potere ai contadini» («La nuova democrazia»).

Non è questa, per noi, l’originalità delle rivoluzioni borghesi nell’epoca imperialistica. In passato, tutte hanno messo in moto il contadiname in forme diverse, compresa l’organizzazione armata; tutti hanno realizzato in gradi diversi delle trasformazioni profonde nell’agricoltura. Ma il marxismo ha sempre sottolineato l’incapacità della classe contadina di avere una politica propria. Esso ha dimostrato che le insurrezioni agrarie, parti integranti delle rivoluzioni borghesi, sono riuscite unicamente sotto la direzione delle città e cedendo loro il potere. Il «Manifesto» insisteva già sul carattere duplice del contadiname e sulle ragioni per cui non può agire come classe indipendente. Il contadino non è che il rappresentante sociale di rapporti borghesi; lascia sempre ad altri il compito della sua rappresentanza politica.

A tutti i campioni del «socialismo» contadino che, in Russia come in Cina, ci rimproveravano di «sottovalutare» il contadiname, noi abbiamo apposta questi insegnamenti del marxismo rispondendo che l’originalità delle rivoluzioni d’Oriente non risiedeva nell’intervento armato delle masse rurali, ma nella prospettiva di una direzione proletaria verso scopi che non fossero inevitabilmente borghesi.

18) La sconfitta del proletariato cinese spiega che la rivoluzione abbia dovuto ripartire dal fondo delle campagne, ma non giustifica che i comunisti abbiano barattato le loro concezioni classiste con le teorie del «socialismo» contadino. Nel 1848-'49, l’insuccesso della rivoluzione tedesca aveva lasciato il proletariato in un’analoga disorganizzazione politica; l’aveva posto di fronte allo stesso pericolo d’essere sommerso dalla democrazia piccolo-borghese. È contro questo pericolo che Marx ed Engels scrissero il loro celebre «Indirizzo alla lega dei comunisti».

Contro i radicali piccolo-borghesi che «tendono a coinvolgere i lavoratori in un’organizzazione di partito in cui dominino le frasi generiche socialdemocratiche dietro cui si nascondono gli interessi specifici dei piccolo borghesi», l’«Indirizzo» ricorda la necessità di un partito di classe indipendente.

Contro ogni tipo di potere della democrazia piccolo-borghese, esso lancia in questi termini la parola d’ordine della rivoluzione proletaria:
«Accanto ai nuovi governi ufficiali gli operai debbono in pari tempo istituire i propri governi rivoluzionari, sia nella forma di giunte e consigli comunali, sia mediante circoli e comitati operai, cosicché i governi democratici borghesi non solo perdono subito l’appoggio degli operai, ma si vedano sin da principio sorvegliati e minacciati da organismi dietro cui si trova tutta la gran massa degli operai».

È questa la classica risposta del marxismo alle formule reazionarie dei «partiti operai-contadini», dei governi «operai-contadini» e della democrazia «nuova». L’«Indirizzo» del 1850 è interamente diretta contro di esse. Se Marx ed Engels non vi parlano di «dittatura democratica», gli è che una tale parola d’ordine non poteva essere quella del proletariato di fronte alla agitazione dei democratici piccolo-borghesi. Stalin e Mao non possono nemmeno appoggiarsi su un’assenza in Germania della particolarità «originale» che si pretende di aver scoperta in Cina o addirittura in Russia: la rivoluzione agraria. Al contrario, nella Germania dell’epoca, Marx ed Engels scontarono più di una volta una «riedizione» della guerra dei contadini del XVI secolo sotto la direzione politica del proletariato.

19) Non più che la rivoluzione borghese tedesca, la rivoluzione russa non rivela il segreto di un potere «popolare» stabile rappresentante un blocco di classi. Molto prima del 1917, Lenin aveva spiegato la formula della «dittatura rivoluzionaria e democratica degli operai e dei contadini» come un potere del proletariato «che si appoggia sui contadini» o che «si trascina dietro i contadini», formula non frontista e neppure «democratica». Ma ecco come, nell’aprile 1917, in perfetta continuità con Marx ed Engels, egli la interpreta:
«La dittatura rivoluzionaria e democratica del proletariato e dei contadini si è già realizzata nella rivoluzione russa, perché questa ‹formula› non prevede che una correlazione di classe, non un istituto politico concreto REALIZZANTE questa correlazione, questa collaborazione. Il ‹Soviet dei deputati operai e soldati›, ecco come la vita ha realizzato questa dittatura… Esistono a fianco a fianco, contemporaneamente, sia la dominazione della borghesia (il governo di Lvov e di Gučkov) sia la dittatura rivoluzionaria democratica del proletariato e dei contadini che cedono VOLONTARIAMENTE il potere alla borghesia, si trasformano volontariamente in una sua appendice… Il compito all’ordine del giorno è un altro, un compito nuovo: la scissione degli elementi proletari (disfattisti, internazionalisti, «comunisti», per il passaggio alla Comune) in seno a questa dittatura, dagli elementi della piccola proprietà o della piccola borghesia» (Lenin, «Lettera sulla tattica»).

Tra il febbraio e l’ottobre, i populisti e i menscevichi furono dei rabbiosi partigiani della «dittatura democratica», rimproveranti a Lenin di «sottovalutare»i contadini o di voler «saltare» al di là della tappa delle riforme sociali borghesi. I bolscevichi ricordavano invece che non si trattava di «introdurre il socialismo» in Russia, ma di impadronirsi del potere politico; dopo di che mostrarono come la dittatura proletaria realizzi le riforme economiche della democrazia piccolo-borghese.

20) Dopo la capitalizzazione di fronte alla borghesia liberale cinese, la «lotta contro il trotzkismo» ebbe per scopo di assicurare il trionfo, in seno al proletariato sconfitto, delle posizioni già difese dal blocco dei populisti e dei menscevichi durante la rivoluzione russa. E fu Mao, già membro delle C. C. del Kuomingtang e nuovo agitatore del contadiname, a realizzare questo compito.

Per noi, egli non ha né «salvato» né «ricostruito» il partito del proletariato conducendolo «nelle montagne» e spingendolo alla guerriglia contadina; l’ha semplicemente annegato nell’enorme magma piccolo-borghese contro la cui corrente Lenin nell’aprile 1917 e Marx nel marzo 1850 avevano saputo preservare i comunisti. Non ha nemmeno sbarazzato la questione del potere nella rivoluzione cinese dalle illusioni piccolo-borghesi che nel 1927 avevano permesso la repressione ad opera di Ciang Kai-scek. La teoria della «nuova democrazia» non è che lo sviluppo di queste illusioni in un periodo e in un paese in cui la debolezza della borghesia «nazionale» non lasciava altre prospettive di costituzione di un potere borghese che mediante l’azione delle masse «popolari» e contadine, così inette e lente ad organizzarsi.

I democratici piccolo-borghesi amano attribuire alla «reazione» la loro difficoltà di unirsi «efficacemente», la loro mancanza di carattere e le loro fluttuazioni congenite. Il marxismo vi riconosce al contrario il riflesso della loro situazione economica instabile. Fare appello alla iniziativa politica di queste masse per fondare uno Stato nazionale, combattere l’imperialismo e realizzare il programma socialista, non è solo rinnegare Marx e Lenin, ma compromettere ogni movimento rivoluzionario. Bastano per noi a provarlo le interminabile peripezie della rivoluzione cinese e, ancor oggi, l’anarchia sanguinosa in cui si dibatte la maggior parte dell’Africa nera.

Ecco perché, nel 1917, Lenin accantonò la «vecchia formula» della «dittatura rivoluzionaria e democratica» che populisti e menscevichi volevano «realizzare»… mediante l’Assemblea costituente. Allo stesso modo, i socialisti buttarono agli archivi della seconda Internazionale il nome di «partito socialdemocratico».

Perché, e ciò vale anche per la «democrazia di tipo nuovo», la
«democrazia esprime di fatto ora la dittatura della borghesia, ora il riformismo impotente della piccola-borghesia che si subordinata a questa dittatura» (Lenin, «La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky»).

«L’impotente riformismo piccolo-borghese»

21) Nel loro «Indirizzo», Marx ed Engels avvertivano i proletari tedeschi che la democrazia piccolo-borghese avrebbe giocato lo stesso ruolo di tradimento che la borghesia liberale nella trasformazione rivoluzionaria delle vecchie strutture sociali e politiche. Queste previsioni si verificarono in Russia con i socialisti rivoluzionari. L’esempio cinese ce ne da’ la conferma assoluta alla scala di tutto il periodo storico e di un intero paese.
«I piccoli borghesi democratici, ben lungi dal voler rovesciare tutta la società per i proletari rivoluzionari, tendono a una trasformazione delle condizioni sociali, per cui la società attuale diventi per loro quanto più è possibile tollerabile e comoda. Perciò essi reclamano… l’eliminazione della pressione del grande capitale sul piccolo mediante istituti pubblici di credito e leggi contro l’usura, per modo che a loro e ai contadini sia possibile ricevere anticipi a buone condizioni dallo stato invece che dai capitalisti; perciò vogliono l’applicazione nelle campagne dei rapporti borghesi di proprietà, mediante l’eliminazione completa del feudalesimo… Per quanto riguarda gli operai, rimane anzitutto stabilito che essi debbono rimanere salariati come sinora; i piccoli borghesi democratici desiderano soltanto che gli operai abbiano un salario migliore e una esistenza sicura, e sperano di conseguire questo risultato con una parziale occupazione di operai da parte dello stato e con misure di beneficenza… Queste rivendicazioni non possono in nessun modo bastare al partito del proletariato. Mentre i piccoli borghesi democratici vogliono portare al più presto possibile la rivoluzione alla conclusione, e realizzando tutt’al più le rivendicazioni di cui sopra, è nostro interesse e nostro compito rendere permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere dello stato, sino a che l’associazione dei proletari, non solo in un paese ma in tutti i paesi dominanti del mondo, si sia sviluppato al punto che venga meno la concorrenza tra i proletari di questi paesi, e sino a che almeno le forze produttive decisive non siano concentrate nelle mani dei proletari. Non può trattarsi per noi di una trasformazione della proprietà privata, ma della sua distruzione; non del miglioramento dei contrasti di classe, ma della abolizione delle classi; non del miglioramento della società attuale, ma della fondazione di una nuova società».

22) Nella questione agraria, il partito di Mao non ha fatto nulla per combattere le tendenze piccolo-borghesi ansiose di sottolineare la rottura con i vecchi rapporti sociali con una consacrazione giuridica dei sacri diritti della proprietà contadina. E tutte le riforme annunziate a gran voce dopo la creazione della Repubblica popolare non hanno contemplato una maggiore concentrazione dell’agricoltura che sulla base dello sviluppo della produzione particellare, degli «interessi» del contadino particellare e dell’«aiuto» statale ad esso. Quando vuole superare questi limiti, che sono quelli dei rapporti di produzione borghesi, la catastrofe sociale che ne derivò non fu meno grave di quella seguita alla falsa collettivizzazione staliniana in Russia.

Riassumendo, la famosa «rivoluzione agraria» si riduce a una difficile accumulazione del capitale nelle campagne cinesi secondo le due fasi classiche di sviluppo dell’agricoltura capitalista: prima dell’instaurazione della proprietà contadina, poi un lento processo di espropriazione e concentrazione sotto la spinta delle forze produttive borghesi e di una giganteggiante economia di mercato.
«Noi lotteremo prima per la riduzione degli affitti e del saggio d’interesse nell’insieme del paese, poi, con l’applicazione di misure adeguate, otterremo progressivamente che ogni contadino abbia il suo campo… Se, in seguito, si aiutano i contadini a organizzarsi progressivamente, di loro spontanea volontà, in cooperative di produzione agricola o altre, ciò provocherà l’incremento delle forze produttive».

È occorso un quarto di secolo (1927–1952) perché si compisse la prima fase: confisca e spartizione. Ma, prima che la Cina abbia un’agricoltura «moderna», concentrata, cioè pienamente capitalista, possiamo sperare che il proletariato comunista mondiale abbia avuto ragione del «socialismo» nazionale contadino e piccolo-borghese.

23) Dallo sviluppo storico dell’agricoltura cinese noi troviamo una conferma di fatto: il suo carattere borghese. Ma dalla politica agraria del PCC traiamo una critica di principio: essa non ha rispettato che i processi molecolare di questo sviluppo senza tentare di anticipare sulle sue conseguenze, sociali, in specie sul sovvertimento dei rapporti borghesi di proprietà. Citiamo ancora l’«Indirizzo» del 1850:
«Il primo punto sul quale i democratici borghesi entreranno in conflitto con gli operai sarà l’abolizione del feudalesimo. Come nella prima rivoluzione francese, i piccoli borghesi vorranno dare le terre feudali ai contadini in libera proprietà, e cioè vorranno lasciare sussistere il proletariato agricolo, e creare una classe di contadini piccolo-borghesi che dovrà attraversare lo stesso ciclo di impoverimento e di indebitamento in cui ancor oggi è preso il contadino francese.
Gli operai, nell’interesse del proletariato agricolo e del proprio, devono opporsi a questo piano. Essi debbono esigere che la proprietà feudale confiscata resti patrimonio dello stato e venga trasformata in colonie di operai, coltivati dal proletariato agricolo associato, con tutti i vantaggi della grande agricoltura e in modo che il principio della proprietà comune riceva subito una forte base in mezzo ai vacillanti rapporti della proprietà borghese»
.

Per i comunisti, non si trattava di stabilire se la Cina o la Russia piccolo-borghese era «natura» per questa trasformazione: l’abbattimento della denominazione borghese era concedibile solo su scala internazionale. Non si trattava nemmeno, in un dato paese, di inventare delle ricette «collettivistiche» per accelerare lo sviluppo economico. «Noi scriviamo un decreto, non un programma», diceva Lenin commentando il «Decreto sulla terra» al quale certuni rimproveravano d’essere il programma dei socialisti rivoluzionari. In un punto questo decreto si distingueva tuttavia dal loro programma: non racchiudeva in forme giuridiche definitive (spartizione, nazionalizzazione) le aspirazioni dei contadini. Qui risiede tutta la differenza di programma fra «socialismo» nazionale e comunismo internazionalista.

24) La politica piccola-borghese del partito di Mao appare in luce ancora più netta nella «questione operaia». Lungi dall’iscrivere sulle sue bandiere l’abolizione del salariato, il PCC proclama l’associazione del capitale e del lavoro, e non tralascia nessuna «misura di beneficenza» nella tradizione del «socialisti» alla Louis Blanc:
«Il compito della classe operaia cinese non è solo di lottare per creare uno Stato di nuova democrazia, ma anche di lottare per industrializzate la Cina e organizzare la sua agricoltura su nuove basi. Nello Stato di nuova democrazia, si applicherà una politica destinata a regolare i rapporti fra capitale e lavoro. Da una parte, i diritti dei lavoratori saranno tutelati: secondo la situazione concreta, si determinerà la giornata di 8 ore o di 10, si fornirà l’aiuto necessario ai disoccupati, si istituiranno le assicurazioni sociali e saranno preservati i diritti sindacali. D’altra parte, si garantirà alle aziende di Stato, alle imprese private e alle cooperative i ragionevoli proventi di una gestione razionale. Tutte queste misure avranno di mia che sia lo Stato che gli individui, sia il lavoro che il capitale, contribuiscano in comune allo sviluppo della produzione industriale» (Mao, «Sul governo di coalizione»).

Un tale programma, una tale pratica, non si distinguono più in nulla dal vecchio riformismo dei paesi capitalisti progrediti, dai discorsi elettorali di qualunque deputato «progressista» o ministro «reazionario» d’Occidente.

Chiamandoli «socialismo» e rivendicandone l’esclusività contro Mosca, Mao si è portato al livello «ideologico» delle forze di conservazione borghese nel mondo. Ha perduto la sua aureola di agitazione contadina.

In Cina, la democrazia piccolo-borghese ha cessato d’essere rivoluzionaria dal 1927; fu riformista ancor prima di detenere il potere statale; oggi è reazionaria nel presentare le sue illusioni e soprattutto la sua prassi economico-sociale sotto l’etichetta di «costruzione socialista». Qui è tutto il significato politico che noi attribuiamo al suo conflitto con Mosca.

25) Così si compie il destino storico del «populismo» cinese. Sin dalla prima rivoluzione borghese 1911, Lenin sottolinea il doppio aspetto dell’ideologia di Sun Yat-sen. Utopista era l’idea di realizzare il «socialismo» mediante la nazionalizzazione delle terre, la «limitazione» del grande capitale e l’applicazione «onesta» di un piano di sviluppo industriale concertato da parte delle grandi potenze. Ma questo programma aveva un contenuto rivoluzionario borghese che i bolscevichi seppero riconoscere in Cina come in Russia. Adottandolo, realizzandolo, il partito di Mao gli ha conferito il solo «sviluppo originale» che gli fosse riservato: l’utopia del «socialismo» contadino è divenuta l’ideologia reazionaria della «costruzione socialista» in Cina, e il suo contenuto rivoluzionario si è diluito nell’oceano delle riforme piccolo-borghesi.

Così è degenerata l’ideologia politica di una classe molto tempo dopo che la storia né aveva firmato la condanna a morte. All’opposto, dal lontano 1894, Lenin poteva annunziare con i primi passi del proletariato russo il fallimento ideologico degli «amici del popolo», molti decenni prima che il loro potere «popolare» vedesse la luce:
«Effettivamente la campagna si scinde. O meglio si è già completamente scissa. E con lei si è scisso in Russia il vecchio socialismo contadino: da una parte, esso ha ceduto il passo al socialismo operaio; dall’altra, è degenerato in un volgare radicalismo piccolo-borghese. Questa trasformazione non può chiamarsi che una degenerazione. La dottrina di un regime proprio della vita contadina, delle vie originali del nostro sviluppo, ha dato origine a un eclettismo fumoso che non può più negare che l’economia mercantile è divenuta la base dello sviluppo economico, si e trasformata in economia capitalista; ma soltanto non vuol vedere il carattere borghese di tutti i rapporti di produzione, né la necessità della lotta di classe sotto questo regime. Da un programma politico che si proponeva di sollevare i contadini per la rivoluzione socialista contro i fondamenti della società attuale, è nato un programma che si propone di rabberciare, di ‹migliorare› la situazione del contadino preservando i fondamenti della società attuale» (Lenin, «Che cosa sono gli ‹amici del popolo›»…).

Antagonismi dell’Oriente borghese

26) A differenza dall’India e da altri paesi coloniali, la Cina è entrata nella storia moderna come la «colonia di tutti». Ben presto l’esportazione di capitali prevalse su quella dei prodotti industriali dalla vecchia metropoli inglese. Per proteggere i loro investimenti, le grandi potenze «si accordarono» circa la spartizione del paese in sfere d’influenza. A Pechino, il corpo diplomatico disponeva nell’insieme delle finanze dello Stato. Questa situazione rifletteva, come mostrò Lenin, il passaggio del capitalismo al suo stadio supremo: l’imperialismo. Il programma di Wilson per «l’internazionalizzazione delle colonne», la sua versione «ultra-imperialista» in Kautsky e il progetto di Sun Yat-sen di creare un consorzio delle grandi potenze per lo sviluppo di una Cina «indipendente», non avevano altra base oggettiva.
«Ammettiamo (scriveva Lenin nell’«Imperialismo») che tutte le potenze imperialiste formino un’alleanza per la ‹pacifica› spartizione di questi paesi asiatici. Sarà ‹il capitale finanziario unito alla scala del mondo›. Esistono degli esempi pratici di questa alleanza nella storia del XX secolo: i rapporti delle grandi potenze con la Cina. Sorge una questione: è ‹pensabile› che, vincendo il capitalismo (ed è la condizione supposta da Kautsky), tali alleanze non siano effimere ed escludano gli attriti, i conflitti e la lotta sotto tutte le forme possibili?».

L’esempio della Cina ha mostrato che era impensabile. Il paese che, sui primi del secolo, offriva le maggiori promesse di sviluppo capitalista e le più sicure garanzie di profitto, è divenuto il campo chiuso delle guerre civili e delle rivalità imperialiste. Meglio ancora, di fronte allo scatenarsi di questi antagonismi, l’imperialismo mondiale ha dovuto rinunciare a tutti i suoi «piani» economici in Cina, trasportando la sfrenata concorrenza fra capitali sulle vecchie colonie e semicolonie: India, Africa, America del Sud. Là sorgono i «piani di sviluppo» e il pacifico sviluppo bolso dei Wilson e dei Kautsky russo-americani. Ma vi si preparano anche, su scala ancor più vasta, le prossime esplosioni rivoluzionarie.

27) Il partito di Mao ha fatto di tutto perché la sua vittoria non prendesse il carattere di una violenta rottura della catena imperialista in Asia. Aderendo ancor più completamente che Sun Yat-sen alla guerra mondiale, il PCC fece proprie le illusioni della borghesia liberale cinese su una «società delle nazioni» e una «cooperazione internazionale» di cui la Cina fosse beneficiaria.
«Il PCC approva la Carta Atlantica e le decisioni delle conferenze di Mosca, Teheran e Yalta… i principi fondamentali del PCC in politica estera sono i seguenti: stabilire e sviluppare rapporti diplomatici con tutti i paesi, risolvere tutte le questioni dei mutui rapporti… partendo dalla necessità di schiacciare gli aggressori fascisti, di mantenere la pace internazionale, di rispettare vicendevolmente l’indipendenza e l’uguaglianza nei diritti degli Stati, di cooperare reciprocamente nell’interesse degli Stati e dei popoli» (Mao Tse-tung, «Sul governo di coalizione», 1945).

Fin dal 1924 Sun Yat-sen aveva constatato il fallimento di questo programma! Mao non solo gli è rimasto fedele, ma lo predica a guisa di «socialismo»:
«I paesi socialisti, grandi o piccoli, economicamente sviluppati o no, devono stabilire i loro rapporti sulla base dei principi dell’uguaglianza completa, del rispetto dell’integrità territoriale, della sovranità e della indipendenza, della non ingerenza negli affari interni, come pure dell’appoggio e dell’aiuto reciproco» («Lettera in 25 punti del 14–6–63»).

Contro l’utopia piccolo-borghese di un «socialismo» delle patrie realizzante uno sviluppo «armonico» attraverso un commercio «uguale», noi rivendichiamo la distruzione delle patrie borghesi e lo stabilimento di rapporti non mercantili, e che appunto non saranno «uguali», fra i paesi in cui domani si instaurerà la dittatura proletaria!

28) Lungi dal riflettere «divergenze ideologiche», il conflitto cino-russo si colloca sullo stesso terreno degli interessi nazionali borghesi. È incontestabile che i compromessi dell’URSS con la borghesia autoctona o con l’imperialismo straniero ritardarono fino alla fine della II guerra mondiale la costituzione di Stati nazionali borghesi in tutto l’Oriente. Esattamente come la rivoluzione russa aveva ridestato i moti anticoloniali d’Asia, la controrivoluzione staliniana ne frenò gli sviluppi. Ma il partito di Mao che oggi si leva contro Mosca non ha mai denunciato questo tradimento: né nel 1937, quando il PC seguì docilmente la svolta dei «fronti popolari» riannodando l’alleanza con Ciang Kai-scek, né nel 1945, quando Stalin firmò con lo stesso Ciang un trattato di pace e di amicizia che doveva durare… 30 anni.

Non dunque la coscienza degli interessi del movimento anticoloniale, né ancor meno la critica del «socialismo» russo, è all’origine del conflitto cino-sovietico; ma le contraddizioni tra lo sviluppo del capitalismo cinese e gli interessi dell’imperialismo russo:
«È ancor più assurdo trasporre nei rapporti fra paesi socialisti la prassi consistente nel realizzare profitti a spese altrui, – prassi che caratterizza i rapporti fra paesi capitalisti –, e giungere sino a ritenere che la «integrazione economica» e il «mercato comune» introdotti dai gruppi imperialisti per accaparrarsi degli sbocchi e spartirsi i profitti possano servire di esempio ai paesi socialisti nella loro mutua assistenza e nella loro collaborazione economica» («Lettera in 25 punti»).

29) Il «Programma» che Stalin fece adottare al VI Congresso dell’Internazionale escludeva per la Cina e gli altri paesi arretrati quello che la Russia si era da poco attribuito: il privilegio della «costruzione del socialismo» nelle sue frontiere nazionali. Nel momento in cui gli interessi del capitalismo russo si sono integrati in quelli del mercato mondiale, la Cina riprende per conto suo questo vecchio slogan staliniano. E noi ripeteremo per essa ciò che Trotzky diceva del «socialismo russo»:
«La divisione mondiale del lavoro, la dipendenza dell’industria sovietica rispetto alla tecnica straniera, la dipendenza delle forze produttive dei paesi avanzati rispetto alle materie prime asiatiche ecc., rendono impossibile la costruzione di una società socialista autonoma e isolata in un qualsiasi paese del mondo» («Tesi sulla rivoluzione permanente»).

La «costruzione del socialismo» in Cina non può significare che l’accumulazione del capitale e l’estensione di un’economia di mercato. Ma questa teoria non riesce a mascherare degli antagonismi molto più acuti. Il conflitto cino-sovietico, tutta la storia dei movimenti nazionali borghesi d’Asia e di Africa, tutte le conferenze sul commercio mondiale hanno sottolineato con inquietudine il ritardo crescente della maggioranza dei paesi arretrati, «indipendenti» o no, «socialisti» ho no, sul pugno di grandi potenze imperialistiche che detengono tutti i poteri politici, economici e militari nel mondo attuale.

30) Per scongiurare la sorte che l’attende, la borghesia dei paesi arretrati si sforza con tutti mezzi di far passare la sua emancipazione politica e nazionale come pegno dell’emancipazione sociale e umana delle masse sfruttate. Doppiamente vittime della loro borghesia e delle contraddizioni accumulate dall’imperialismo mondiale, i proletari delle ex colonie troveranno sempre più ragioni per rompere con l’ideologia democratica e riformista. Essi allora si ricorderanno che il marxismo e l’Internazionale di Lenin non si erano mai aspettati dalla democrazia politica e dall’indipendenza nazionale la liberazione dei popoli coloniali da ogni sfruttamento:
«Il capitale finanziario nelle sue tendenze all’espansione compera e stringe a sé ‹liberamente› il più libero dei governi democratici e repubblicani, e i funzionari di qualsivoglia paese, anche ‹indipendente›. La dominazione del capitale finanziario, come del capitale in generale, non può essere soppressa da alcuna riforma nel campo della democrazia politica; e l’autodeterminazione si collega interamente ed esclusivamente a tale campo. Ma questo dominio del capitale finanziario non favorisce affatto l’importanza della democrazia politica come forma più libera, vasta e chiara, della oppressione di classe e della lotta di classe» («Tesi sulla rivoluzione socialista e il diritto dei popoli a disporre di sé stessi», Lenin 1916).

E contro questa forma più libera, vasta e chiara dell’oppressione di classe che il proletariato della Cina «popolare», come dell’India russo-americana, dovrà riprendere la sua battaglia.

Notes:
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  1. Pubblicato sul titolo «Confluenza nella unitaria dottrina storica internazionalista dei grandi apporti delle lotte rivoluzionarie nei paesi moderni», (Primo resoconto sommario della riunione allargata di Marsiglia 11 – 13 Luglio 1964) [⤒]


Source: «Il Programma Comunista» n. 15 del 1964

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