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AD UN SECOLO DALLA FONDAZIONE DELLA I INTERNAZIONALE


Content:

Ad un secolo dalla fondazione della I Internazionale
I. La miseria è crescente
II. Oggi dopo cent’anni
III. La piovra dell’«aristocrazia operaia»
IV.
Il comunismo resta da vivere
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
Source


Ad un secolo dalla fondazione della I Internazionale

Il 28 settembre 1864, nel corso di un comizio promosso in solidarietà alla Polonia – paese allora smembrato e sottoposto al giogo dell’aristocrazia feudale, veniva proclamata a Londra la costituzione della I Internazionale. Il suo vero nome di fondazione fu: «Associazione Internazionale dei Lavoratori». Carlo Marx ne redasse il celebre «Indirizzo inaugurale», che svolse cominciando con queste parole:
«È una grande verità di fatto che la miseria delle classi operaie non è scemata negli anni che vanno dal 1848 al 1864, benché proprio questo periodo non abbia confronto negli annali della storia per riguardo allo sviluppo dell’industria e all’incremento del suo commercio».

I. La miseria è crescente

La grande verità di fatto che Marx sottolineava, mediante la citazione della vivente storia, era dunque la «miseria crescente» dei lavoratori salariati nel capitalismo. Nonostante il «folle» progresso dell’industria e la espansione del commercio, cresciuti tanto rapidamente da fare impazzire di gioia il cancelliere dello scacchiere dell’impero britannico, Gladstone, lo stesso altissimo funzionario era obbligato ad occuparsi della miseria della classe lavoratrice del proprio paese. Se infatti da un lato era aumentata la ricchezza della nazione – in tale proporzione da strabiliare perfino quel portavoce della classe possidente –, dall’altro e per converso la miseria della classe lavoratrice non solo non era affatto diminuita, anzi era aumentata, materialmente e sostanzialmente, per il peggiorare del suo stato di precarietà e per la sua accresciuta dipendenza dal capitale.

La contraddizione era addirittura stridente; e certo non sarebbero bastate ad offuscarla, meno che mai a risolverla, le parole o le manipolazioni statistiche di abili ripartitori del «reddito nazionale». Sta anzi appunto in tale contraddizione che, per i comunisti degni di questo nome, si rivela in tutta la sua crudezza la natura propria del modo capitalistico di produzione, e si manifesta con luce solare il carattere dei suoi effetti antisociali.

Come dunque poteva accadere e accade che all’aumento della ricchezza della nazione non corrispondesse e non corrisponda un miglioramento effettivo delle condizioni di vita degli operai salariati; anzi, queste peggiorino? La risposta classica della dottrina comunista è arcinota: la miseria crescente della classe lavoratrice è la conseguenza del progresso storico dell’industria e del commercio capitalistici (considerati nel senso più generale). Il fenomeno è oggettivo e poggia sulle radici stesse dell’attuale modo di produzione.

L’accumulazione del capitale, o, il che è equivalente, il progresso dell’industria e del commercio capitalistici, spoglia progressivamente i produttori dei loro strumenti di lavoro. «Liberati» dal mezzo di sostentamento, questi vengono buttati sul libero mercato della manodopera, ove potranno vendere l’unica cosa di cui possono ormai disporre: la loro forza-lavoro. Separati dagli strumenti di lavoro, tutta la loro proprietà si riduce alla forza-lavoro: gli oggetti di consumo, le sussistenze, tutto ciò che serve a mantenere in piedi e in vita l’operaio, dipenderanno ineluttabilmente dalla possibilità stessa di alienare questa forza, vale a dire di cederla a un padrone, a un capitalista, a un direttore di azienda, le figure in cui lo sfruttamento capitalistico del lavoro si impersona.

Se l’aumento della massa delle merci, del volume della ricchezza, non migliora affatto la situazione della classe operaia è proprio perché, con esso, aumentano in pari tempo la dipendenza e la schiavitù generali del lavoro salariato dal capitale. Con quanto precede non ha nulla a che vedere il cosiddetto miglioramento continuo del tenore di vita di chi lavora, tanto ipocritamente e instancabilmente magnificato dalla classe dominante. Non si nega infatti che i mezzi di soddisfazione del consumo possano storicamente aumentare, e che in effetti aumentino: ciò avviene in rapporto all’aumentata massa dei bisogni, che progrediscono, con l’aumento della produzione e della produttività del lavoro, in misura molto maggiore del consumo effettivo, tanto che a questo riguardo può ben dirsi che la disparità nei confronti delle altre epoche sociali è enorme. Ma il dato di base, il fatto fondamentale è che, con la perdita degli strumenti di lavoro, ogni riserva economica è perduta per i produttori, che quindi restano esclusi dalla ricchezza che hanno prodotto. Ed è in forza e per effetto di ciò che la loro stessa esistenza ha esclusivamente valore per i bisogni di valorizzazione del capitale.

Il lavoro salariato appartiene al capitale, forza sociale impersonale. Lo stesso operaio dispone della forza-lavoro solo per cederla: vendendola egli acquista il diritto a mangiare. Le sussistenze della classe lavoratrice dipendono esclusivamente da questo scambio: forza-lavoro contro salario. Nel sistema del salariato l’operaio, schiavo della azienda capitalistica, mentre produce la ricchezza per gli altri, produce per sé la miseria, l’abbrutimento fisico e mentale. Questo stato di dura soggezione non scema affatto con la produzione che aumenta o con la ricchezza che cresce; il loro progredire fa progredire anche la oppressione dei salariati, ne aggrava lo stato di precarietà, l’incertezza del domani, la caduta nell’esercito industriale di riserva, la disoccupazione, la fame, e infine il precipitare nella voragine della guerra, dove essi saranno inevitabilmente impiegati come carne da cannone.

La miseria crescente della classe operaia resta dunque una grande verità di fatto, che nessun aumento della ricchezza nazionale fa scemare. Essa è assolutamente ineliminabile senza l’abbattimento del sistema capitalistico, senza l’abolizione del lavoro salariato. Il regno del capitale è il regno dell’abbondanza delle merci e, allo stesso tempo, della miseria, della fame, dell’abbrutimento del «produttore».

Di fronte al progresso dell’industria e del commercio capitalistici, all’aumento della produzione, alla potenza del capitale, Marx – come in quel celebre discorso – non invocò per i lavoratori delle briciole «riformiste», ma levò alto il vessillo della lotta rivoluzionaria e comunista della guerra di classe dei salariati, dei proletari, contro il dominio del capitale.

Con l’ardente grido del 1848: «Proletari di tutto il mondo unitevi!» Marx fonda la I Internazionale.

II. Oggi dopo cent’anni

A distanza di un secolo, venti anni dopo la seconda guerra imperialistica, lo spettacolo del «progresso economico», che si apre sulla scena mondiale col grandeggiare dell’industria e col ciclopico sviluppo del commercio, è più stupefacente, vertiginoso e quasi allucinante, che mai. Tutti gli indici economici, tutti i dati produttivi, hanno raggiunto proporzioni gigantesche, mentre la ricchezza di un pugno di nazioni si è smisuratamente accresciuta, in tale misura da non trovare confronto col passato.

Eppure, malgrado tutto il «progresso economico», rimane una grande verità di fatto, una verità sempre più viva e palpitante, che la massa della miseria della classe lavoratrice non è per nulla diminuita e che la sua schiavitù salariale è così terribilmente aumentata da superare ogni limite prima raggiunto. Centinaia di milioni di lavoratori, di proletari, di semi-proletari, di salariati di tutti i paesi, sono sottoposti ad uno sfruttamento spietato, a una schiavitù costante ed avvilente; mentre una gran parte di essi vive addirittura nella più nera e squallida miseria, soffrendo letteralmente la fame. Lavoratori dell’India e in genere dell’Asia, dell’Africa, dell’America meridionale e centrale, della «ricca» Europa e della «ricchissima» America del Nord, salariati di tutte le razze e di tutti i continenti, sono permanentemente soggetti all’assillo spietato del bisogno economico e della ricerca del pane, alla minaccia costante della disoccupazione, alla paura della guerra; in balia di un meccanismo inesorabile di sfruttamento. Tutta una massa enorme dell’umanità, la stragrande maggioranza di essa, patisce sofferenze incalcolabili a causa del cieco e spietato dominio del capitale, di questo vampiro sociale che si ingigantisce nutrendosi del sangue succhiato al vivente lavoro.

Ovunque, su tutto lo sferoide, si giri lo sguardo, la miseria e le sofferenze di tutti coloro che vivono di salario restano un dato di fatto incancellabile, inconfutabile, e, vigendo il regime del lavoro salariato, ineliminabile. Perfino gli Stati Uniti, che estorcono profitti e sovrapprofitti dal mondo intero, che dominano e depredano con la loro potenza economica e militare la gran parte della popolazione terrestre, non sfuggono a questa verità di fatto, a questa legge fondamentale del capitalismo. Malgrado le immense ricchezze accumulate, malgrado l’opulenza accecante, non solo negli USA milioni e milioni di negri vivono in condizioni sotto-bestiali e in uno stato di semi-schiavitù politica, ma la stessa maggioranza dei proletari di pelle bianca conduce una esistenza precaria, dannata e in molti casi miserabile. Non c’è bisogno, per questo, di rifarsi alle recenti dichiarazioni ufficiali del presidente dello Stato federale, che mentre il suo paese attraversa un periodo di grande floridezza economica ha dovuto impegnarsi a «dichiarare guerra alla miseria» in casa propria. Non è necessario, e si può ben lasciare questa personificazione del sistema dell’opulenza e della fame condurre la sua «guerra»; risulterà, alla fine, che i miseri si ritroveranno più miseri. Un paese che spende all’incirca venti e forse trenta miliardi di dollari per la sola pubblicità è senza dubbio quello che ha acuito al massimo l’antitesi tra capitale e lavoro salariato, che ha spinto all’estremo il dominio del prodotto sul produttore, che ha portato al vertice la divinizzazione della merce e del denaro, la schiavizzazione dell’operaio e dell’uomo. Si può senz'altro elevare a norma che il capitalismo più fa pubblicità, più condanna alla morte per fame i suo «sudditi».

Batta pure la grancassa il gangsterismo politico d’oltre Atlantico, strilli pure lo slogan della «guerra alla miseria», tanto comodo, in questo momento, alle varie «bande» per la loro campagna elettorale: alla fine, la «povertà» sarà più povera. Ovunque domina il capitale (e domina su tutto il pianeta), i lavoratori, gli operai, le masse salariate giacciono sotto il tallone di ferro del suo sfruttamento e delle sue leggi: della sua oppressione, della sua cieca forza distruttiva. Il capitalismo è un’economia di profitto, in cui l’uomo e i suoi consumi sono soltanto i mezzi a quell’unico fine.

III. La piovra dell’«aristocrazia operaia»

Ma se dappertutto il lavoro salariato geme sotto il tallone di ferro del capitale; se ovunque la schiavitù salariale del lavoro, cresciuta più che mai col sopravvivere del capitalismo a sé stesso, è il sistema generale; sono tuttavia alquanto differenti nei diversi paesi del mondo le condizioni materiali di vita e la situazione momentanea della classe operaia. Le condizioni materiali del proletariato sono strettamente connesse all’evoluzione generale degli Stati, e risente dei rapporti che, nel corso storico, si stabiliscono fra di essi. Il proletariato degli Stati Uniti e di alcuni Stati europei si trova a vivere in paesi che detengono la egemonia economica e militare, finanziaria e politica, sul resto dei mondo. Questo fatto ha notevoli conseguenze su strati più o meno numerosi della classe operaia, sul suo atteggiamento politico, e in genere sullo svolgimento della lotta di classe e rivoluzionaria per l’abbattimento del sistema di produzione capitalistico. Se si vuol capire l’atteggiamento politico della classe operaia, l’influenza enorme che su di essa esercitano l’opportunismo, la corruzione parlamentare e la seduzione nazionale, non si può fare a meno di considerare i rapporti materiali che l’evoluzione economica e politica del capitalismo ha stabilito (e stabilisce) fra gli Stati e fra le diverse aree geografiche ed economiche. È chiaro di per sé che è impossibile capire lo sviluppo economico di un paese, la situazione momentanea della classe lavoratrice al suo interno, lo svolgimento della lotta di classe, la formazione delle aristocrazie operaie e l’apparire del fenomeno opportunistico, considerando tutti questi aspetti isolatamente e in modo autonomo, cioè senza tenere conto dello sviluppo dell’economia mondiale e dei rapporti in continuo cambiamento che si producono fra gli Stati.

Nel corso di interi secoli e fino ad oggi uno strato più o meno numeroso del proletariato dei paesi capitalistici di occidente, in particolar modo di alcuni paesi di questa area geografica, ha divorato le briciole delle masse enormi di profitti e sovrapprofitti estorti dalla propria borghesia al resto del mondo, grazie al suo dominio commerciale, tecnico, finanziario, militare. Con queste briciole, concesse a una parte della classe operaia, la borghesia ha posto al suo servizio gli stessi partiti operai, cointeressandoli alla politica colonialista e di brigantaggio imperialista. Il proletariato di questi paesi si è quindi venuto a trovare e tuttora si trova in una situazione di apparente benessere di fronte al resto della popolazione mondiale; ma la radice materiale di questa situazione risiede nello sfruttamento esoso, nelle sofferenze atroci, inflitte a centinaia di milioni di lavoratori, nella rapina e nello sterminio di interi popoli. La borghesia occidentale, oggi non la sola, ha praticato e pratica il saccheggio e lo sfruttamento coloniale di territori e popolazioni immensi, il brigantaggio imperialistico sul mondo intero. Se dunque alcuni strati della classe operaia in Europa e negli Stati Uniti, se in genere il proletariato d’Occidente, si sono venuti a trovare, rispetto a quelli del resto del mondo, in una diversa condizione materiale di vita, tutto ciò non è dipeso e non dipende che dalla spoliazione di una buona parte del pianeta ad opera delle rapaci borghesie metropolitane.

Il frutto del sudore e del sangue di centinaia di milioni di lavoratori di «colore», che nel secolare dominio dell’Occidente capitalistico è affluito e affluisce in Europa e negli Stati Uniti, ha originato e origina quella differenza; ha consentito e consente a strati della classe operaia i «vantaggi materiali» che tanto hanno accecato e accecano gli occhi delle aristocrazie operaie; ha alimentato e alimenta la peste opportunista; ha costituito e costituisce la base della pretesa superiorità e della burbanzosa civiltà del bianco. Ed è inoltre la matrice del fetentissimo difesismo nazionale, di cui il proletariato di Occidente dimostrò in passato di essere spaventosamente affetto ed è ancor oggi profondamente impeciato.

Il capitale ha base mondiale. Penetrato in tutti i paesi del globo ad economie più o meno chiuse e presalariali, rivoluzionandone l’antica tecnica di produrre e i modi di vita tradizionali esso li ha saccheggiati e sottomessi alla sua egida; li ha legati al mercato mondiale ponendoli alla mercé di un pugno di potenze capitalistiche, che ne hanno tenuto e ne tengono in mano il destino economico e politico.

Pur se, oggi, una gran parte dei paesi coloniali ha acquisito l’indipendenza politica e, sotto questo aspetto, il colonialismo può formalmente considerarsi un capitolo della storia del capitalismo che si avvia ad appartenere al passato; la realtà dei rapporti economici non è cambiata a svantaggio delle potenze capitalistiche e colonialiste, le più forti delle quali ne hanno addirittura tratto benefici incommensurabilmente maggiori. Il capitale monopolistico, l’alta finanza, come schiacciano la piccola produzione e dissolvono le economie ristrette all’interno di ogni nazione, analogamente all’esterno schiacciano i paesi economicamente deboli, cioè poco sviluppati dal punto di vista industriale, li aggiogano al proprio carro, ne condizionano lo sviluppo, lo subordinano alle proprie esigenze. Tutti gli Stati di recente formazione, tutti i paesi del blocco «afro-asiatico», tutti i popoli ex-coloniali assurti a indipendenza nazionale nel secondo dopoguerra, hanno esperimentato e stanno esperimentando dolorosamente il fenomeno per cui la dittatura del capitale – americano, europeo, e di alcune altre potenze imperialistiche – li accompagna come la loro ombra; pesa sulla loro vita politica come una spada di Damocle; stringe in una morsa di acciaio tutta la loro economia ed il loro stesso avvenire.

È oggi di moda l’ipocrita e piratesco ritornello dell’aiuto economico e finanziario ai paesi del cosiddetto terzo mondo e «sottosviluppati». Da tutte le bande dell’orizzonte politico fanno coro le voci «piangenti» sulle centinaia di migliaia di uomini e donne che vi muoiono per fame: vittime dell’indigenza o della «carestia». La filantropia borghese invoca viveri, generi di prima necessità e medicine da inviare in soccorso. Ma intanto su quei territori si avvicendano le forze armate della repubblica stellata, del regno britannico o della gendarmeria internazionale del capitale (l’O.N.U.), pronte a mantenere l’ordine, a spegnere nel sangue ogni focolaio di ribellione, ogni tentativo di progresso civile. E il dato di fondo, il fatto che è alla base di tutto, e che neppure quelle stesse voci non possono nascondere, è che il divario economico tra i paesi arretrati e quelli super-industrializzati si è approfondito paurosamente, proprio come vogliono le leggi della produzione capitalistica che solo la rivoluzione proletaria potrà storicamente infrangere. La borghesia imperialistica di occidente, dopo di aver depredato ed immiserito popoli interi, è costretta ad organizzare il servizio di carità per assicurarne la sopravvivenza. Le cose dunque non solo non potevano andare in modo diverso, ma, restando in piedi il modo capitalistico di produzione, non potranno neanche cambiare. Il capitalismo lo ha scritto a lettere indelebili: «i ricchi diventano sempre più ricchi; i poveri sempre più poveri». In circa tre quinti della superficie terrestre, la fame miete vittime stabilmente e permanentemente, anche a prescindere dalle stragi causate dalle cosiddette carestie. Ma in altre regioni del mondo le derrate alimentari vengono deliberatamente distrutte; buttate a mare, se del caso; e ciò per «sostenere» i prezzi di mercato. Sono i prodigi tipici dell’economia di profitto, nei quali si concreta il miracolo per cui mezzo miliardo di individui, appartenenti a un gruppo di nazioni «privilegiate», possono godersi i benefici momentanei derivanti dal dominio economico e finanziario sui circa tre miliardi che formano il resto della popolazione del globo.

Ora, se non si tiene conto di tutto ciò, è ovvio che non si può comprendere la situazione materiale del lavoro salariato, la base unica che determina le differenze interne. Se si prescinde da tutta l’evoluzione mondiale, e dall’intreccio di legami e rapporti reciproci che questa intesse fra gli Stati e fra i popoli, non si possono realmente capire le condizioni di vita del proletariato, l’atteggiamento specifico della classe operaia e dei partiti che la influenzano di fronte alla lotta di classe comunista, lo sviluppo stesso di questa lotta nei diversi paesi e continenti, con tutti gli aspetti patologici e negativi che pervicacemente lo caratterizzano.

La situazione materiale del proletariato dei paesi super-industrializzati è strettamente dipendente da quella del proletariato di tutti gli altri paesi e delle loro masse lavoratrici. Questa interdipendenza, mentre dal punto di vista economico rivela l’influenza che esercita sulle condizioni di vita del proletariato all’interno di un dato paese il peso economico e finanziario sul mercato mondiale (potenza imperialistica) del corrispondente apparato statale, dal punto di vista politico mostra quale incidenza possa avere la diversità relativa di condizione materiale di esistenza sull’atteggiamento politico della classe operaia e delle forze politiche che la influenzano rispetto alla lotta rivoluzionaria per il comunismo. La differenza nelle condizioni di vita del proletariato nei paesi «ricchi» e nei paesi «poveri», per usare un linguaggio di comodo, è un fatto di grande importanza nello sviluppo della lotta di classe. Un fatto né casuale, né tanto meno «naturale». Esso è un prodotto tipico del capitalismo, che raggiunge l’apice con l’estensione del suo dominio su tutto il pianeta. Non bisogna dimenticare che proprio mediante questa differenza relativa, la quale tende ad allargarsi a favore delle grandi metropoli capitalistiche, una parte della classe operaia è stata conquistata alla politica opportunista di collaborazione con la borghesia. E questo è un fatte che bisogna assolutamente non trascurare.

Nel secolo scorso, in modo tipico l’Inghilterra e in seguito in modo ancora più impressionante gli Stati Uniti, mercé il dominio commerciale ottenuto sul mercato mondiale in forza della loro potenza economica e militare, si sono creati, accanto alla loro borghesia, una borghesia «operaia» e dei partiti sedicenti socialisti ma perfettamente borghesi, quindi interessati alla politica imperialistica e nemici acerrimi della rivoluzione proletaria e del comunismo. Durante tutto il periodo di esistenza della II Internazionale (1889–1914), finita nella vergogna della difesa della patria borghese, l’opportunismo mise profonde radici nell’Europa occidentale proprio per il fatto che gli Stati imperialisti di questo continente (Inghilterra, Francia, Belgio, Germania, ecc.), imposto il loro dominio politico ed economico su un miliardo circa di oppressi (più della metà del genere umano allora), poterono vivere alle loro spalle pompando sovrapprofitti favolosi, con poche briciole dei quali comprarono i capi dei partiti socialdemocratici. I rapporti venutisi a stabilire fra gli Stati del mondo in seguito allo sviluppo del capitalismo, crearono all’interno dei paesi imperialisti la base economica della corruzione dei capi operai e di strati della classe lavoratrice, cioè dell’opportunismo socialsciovinista e democratico-pacifista.

È dunque solo considerando il processo complessivo, lo sviluppo generale dell’economia e della storia politica degli Stati ad esso legata, che si disegna con chiarezza davanti ai nostri occhi la reale prospettiva della lotta proletaria e socialista. Il programma della rivoluzione comunista è interamente basato sulla natura inscindibile dei rapporti reciproci fra classi e stati, che il corso dei capitalismo determina internazionalmente. La prospettiva del comunismo è mondiale, passa per la rivoluzione internazionale del proletariato, poggia sulla dittatura comunista in tutto il mondo.

Solo così diviene agevole comprendere da un lato la paurosa depressione politica in cui versa la classe operaia dei paesi super-industrializzati, come gli Stati Uniti, e dall’altro lo stato di relativo fermento e di predisposizione alla guerra di classe delle masse lavoratrici dei paesi sottoposti al dominio economico e finanziario delle potenze imperialistiche solo così è anche possibile stabilire con precisione le radici economiche dell’opportunismo; avanzare perfino la previsione dell’area in cui l’incendio della futura rivoluzione dovrà incominciare a divampare.

La parte più avanzata e risoluta del proletariato dei paesi sia dell’Occidente, che dell’Oriente, deve cercare di afferrare questa realtà, capire il legame profondo, il nesso inscindibile, fra la situazione continentale e quella del resto del mondo: deve sforzarsi di apprendere e non più dimenticare che i limiti del fronte di lotta sono internazionali e che senza questa necessaria prospettiva ogni tentativo, ogni sforzo anche il più generoso, è irrimediabilmente condannato alla confitta.

Il capitalismo ha base mondiale. Non solo, ma la sua tendenza storica è di concentrarsi sempre più. Questo fenomeno fondamentale dell’attuale modo di produzione è più visibile e appariscente che mai, dopo ogni crisi, dopo ogni guerra. Il processo di concentrazione della ricchezza nelle mani di un pugno di potentati monopolistici di due o tre grossi paesi è, sotto un aspetto generale, il dato centrale di questo dopoguerra. Esso è alla base dei rapporti fra gli Stati, della situazione e dei rapporti reali fra le classi nell’Occidente, nell’Oriente, dovunque: è alla base del soffocamento politico di qualsiasi moto antimperialista, della repressione di ogni alzata di testa del proletariato. Tre continenti (America, Asia, Africa), per limitarsi a quelli ora più direttamente interessati, nel torno di questo «pacificissimo» scorcio di tempo sono teatro di operazioni militari e di guerre locali. In quasi trenta paesi, schieramenti militari, forze armate, gruppi ordinati in guerriglia, si scontrano. Ovunque, o quasi, sotto l’egida dei briganti imperialisti, e per la conservazione dei loro sporchi interessi, che vengono fatti massacrare senza possibilità e speranza di successo. Dal canto loro, i super-Stati coltivano col cinismo più assoluto le loro eterne conferenze per il disarmo e per la pace, mentre proseguono nella corsa agli armamenti e potenziano la loro produzione bellica. Queste alte piraterie, che con tanto sussiego e «spirito umanitario» parlano di pace e di mantenimento della pace nel mondo; queste alte piraterie che siedono a un tavolo di conferenza per patteggiarvi la vita e il benessere dei popoli, tengono sguinzagliate le loro ciurmaglie, armate fino ai denti coi più poderosi ordigni di guerra, pronte ad uccidere sprezzantemente, a calpestare ignobilmente, le deboli forze di piccoli paesi schiavizzati, che vogliono solo emanciparsi dalla loro funesta tutela.

La guerra e la pace sono le due facce inseparabili del capitalismo: dopo la guerra la pace; dopo quest’ultima la guerra. Non c’è scampo a questo dilemma, sotto il capitalismo. Russia e Stati Uniti hanno dato luogo, proprio in questi giorni, a uno scambio di annunzi circa le loro ultimissime realizzazioni nel campo degli ordigni bellici. È l’ultima notizia a sensazione che ha fatto turbinosamente il giro del pianeta: Mosca possiede una «super-bomba», quasi quasi un raggio della morte! Dal canto suo Washington risponde di possedere più potenti mezzi di offesa e di difesa. La cosa, quindi, non la impressiona affatto. L’umanità ascolta attonita sia l’annuncio che il terrificante dialogo delle due «pacifistissime» centrali. Ma, dopo lo scoramento, giunge l’immancabile conforto del gazzettume, e l’imbonimento dei crani ad opera delle centrali di stampa ed altre: «Nessuna preoccupazione, si tratta di strumenti a presidio della pace; di mezzi capaci di distogliere chicchessia dal fare la guerra».

Malauguratamente il proletariato oggi è in ginocchio, mentre dal canto suo la guerra sembra maturare nel profondo. Non saremo certo noi a mancar di lanciare il grido quasi secolare: «Contro la guerra degli Stati, viva la guerra delle classi!», se la prima dovesse «sorprendere» il proletariato e l’avanguardia comunista una terza volta ancora, in questo secolo che non ha oltrepassato da molto la metà del suo percorso. Ma il punto è un altro. Per uscire dall’inferno capitalista, dagli orrori e dalle infamie della putrescente società di classe, dalle rovine di una terza guerra imperialista, la rivoluzione comunista mondiale deve poter battere in breccia la guerra degli Stati. E allora sì che, senza dubbio alcuno, si saprà, si «scoprirà», che un «vero» raggio della morte esiste. Che è in possesso di una classe. Che appartiene al proletariato. Che si chiama: Dittatura proletaria.

Questa sì riuscirà a cancellare, per sempre, le menzogne, le mistificazioni, le infamie, gli orrori della società divisa in classi. È essa il «vero» raggio della morte del sistema che genera inevitabilmente le guerre, il capitalismo; in grado essa sola di sciogliere definitivamente il dilemma della pace e della guerra sul pianeta.

I comunisti non si stancano di ripetere che l’unica via storica per liberare l’umanità dal giogo del capitale e della guerra è la rivoluzione proletaria. L’umanità deve procedere inesorabilmente per questa strada e per nessun’altra. Lo scioglimento di tutti i problemi politici e sociali dell’epoca nostra, l’epoca della civiltà borghese, sta tutto racchiuso nell’abbattimento del dominio del capitale sul lavoro vivente e nell’instaurazione della Dittatura Comunista Internazionale.?

IV.

Un secolo dunque è trascorso dalla fondazione della I Internazionale e, benché il proletariato si sia battuto generosamente, ingaggiando in momenti cruciali la guerra frontale contro il proprio nemico di classe; benché in due successivi grandiosi balzi storici abbia dato l’assalto al potere e sia riuscito nel secondo a conquistarlo in più paesi e persino a mantenere, per parecchi anni, nelle proprie mani lo Stato di classe, drizzato minacciosamente contro la borghesia ed il capitale in un’ampia zona del pianeta (Russia); la grandiosa prospettiva per la quale esso combatte non è stata tuttavia raggiunta ancora.

Il comunismo resta da vivere

È quel che è peggio, politicamente è oggi meno vicino che in altri momenti storici del passato.

Come è potuto avvenire ciò? A quali cause oggettive e di portata generale imputare questo ritardo? Forse che la prospettiva del comunismo, classicamente apertasi all’umanità col «Manifesto del Partito Comunista» del 1848, è stata di gran lunga anticipata nel tempo, per cui la società non sarebbe ancora matura per il passaggio a un nuovo modo di vita?

Rispondere a questi interrogativi equivarrebbe a rifare la storia delle lotte di classe, del partito di classe, dell’evoluzione del capitalismo, negli ultimi cento anni. E qui è assolutamente impossibile perfino tracciarne uno schizzo sintetico. La risposta deve essere quindi necessariamente ristrettissima e limitarsi a puntualizzare i tre punti seguenti:
a) il grado di sviluppo raggiunte dall’economia;
b) l’intensità della lotta di classe;
c) l’attitudine e l’idoneità del partito della rivoluzione proletaria, del Partito Comunista.

a) Da oltre mezzo secolo, il modo di produzione capitalistico ha prodotto le condizioni materiali per il trapasso ad una nuova forma di organizzazione del lavoro e della vita: cioè al socialismo. E fino a quel momento, malgrado gli orrori e le sofferenze a cui sottopone la classe operaia e l’intera società in dati periodi, esso, come sistema economico, trova giustificata la sua esistenza: è stato, e non poteva non essere necessario. Ma da quando è entrato nello stadio imperialista, un po’ prima dell’inizio di questo secolo, ogni suo giorno di vita in più è causa di sciupii, di distruzioni, di guerre catastrofiche. Giunto a tal punto, il capitalismo non solo è l’oppressione del lavoro salariato, la dittatura del lavoro morto sul lavoro vivo, il dominio del prodotto sul produttore; è un mostro divoratore e distruttore di energie sociali della specie e della natura tutta.

È da molto dunque che il capitalismo tiene in grembo il socialismo. La gravidanza si è protratta al di là del suo limite storico, naturale e necessario. Chi è mancata è la «levatrice», che non ha ancora saputo rompere il cordone ombelicale.

b) Neanche l’intensità della lotta di classe ha storicamente fatto difetto. Durante periodi caratteristici, in concomitanza con la crisi economica e sociale generale del capitalismo, essa è stata profonda ed acuta. Decine di milioni di proletari, di semi-proletari, di contadini poveri, sono entrati nel sommovimento generale, si sono battuti con eroismo e con abnegazione sul fronte della guerra civile per il comunismo. La situazione oggettivamente rivoluzionaria si è dunque presentata, e la lotta di classe si è inasprita al massimo, è diventata lotta armata per la conquista del potere. In Russia, Germania, Ungheria, Cina, in Occidente e in Oriente in genere, le masse sono state spinte alla rivoluzione e per essa hanno dato la vita. Non stanno dunque essenzialmente su questo terreno le cause della disfatta della rivoluzione proletaria e del mancato avvento del comunismo.

c) È passando – per usare una delle espressioni tecniche – dalla condizione oggettiva alla condizione soggettiva della rivoluzione, cioè alla considerazione dell’attitudine e dell’idoneità del partito della rivoluzione comunista, che si può rispondere sufficientemente a quei quesiti. Il proletariato, senza la capacità e l’attitudine rivoluzionaria del Partito Comunista, è impotente a venire a capo del dilemma: passare, distruggendo le Stato borghese, dalla dittatura della borghesia a quella del proletariato. La lotta di classe potrà toccare note asperrime e aspetti incandescenti, ma se manca il partito ogni sforzo, ogni sacrificio, è condannato alla rovina. Il nocciolo di tutta la questione risiede interamente in ciò. Le vicende che hanno agito negativamente sul partito, che ne hanno ridotto e diluito la capacità di lotta rivoluzionaria, e quindi l’hanno reso impotente a svolgere i suoi compiti storici, si ricollegano a tutta la lotta storica generale, alle vittorie e alle sconfitte, agli errori di teoria e di azione, alle ondate opportuniste. Non potendo qui svolgere l’esame di tutti questi elementi, si sottolinea una delle cause principali che hanno debilitato il partito di classe: l’opportunismo.

La rivoluzione socialista non ha potuto vincere nel mondo a causa dell’opportunismo che ha infestato il partito e la classe operaia.

V.

L’opportunismo è un fenomeno politico dipendente dallo sviluppo economico della società. È un fenomeno storico che incide sulla lotta delle classi per la confluenza di interessi economico-sociali di strati delle classi sottomesse e sfruttate con gli interessi di conservazione politico-sociale della classe dominante. E diviene una vera forza contro-rivoluzionaria, agente sul proletariato molto più efficacemente che la borghesia, e con maggior presa, soprattutto nei momenti decisivi della battaglia di classe del proletariato comunista.

Dopo il crollo vergognoso della II Internazionale, andata in pezzi sotto le cannonate della prima guerra mondiale e quindi passata armi e bagagli al nemico, il movimento socialista si divise in tre correnti principali:
1) I socialsciovinisti – socialisti a parole, nazionalisti e patriottardi nei fatti;
2) I centristi – oscillanti tra socialsciovinisti e, a parole, i comunisti autentici;
3) Gli internazionalisti – veri comunisti.

Nel marzo 1919 si forma la III Internazionale. La dottrina comunista è interamente ristabilita ed i suoi principi – Partito rivoluzionario di classe, Dittatura del proletariato, Rivoluzione mondiale – cominciano a permeare l’azione di tutte le forze autenticamente comuniste. La lotta contro l’opportunismo della II Internazionale acquista una importanza fondamentale, diviene addirittura parte integrante dell’opera storica della III Internazionale.

«L’opportunismo è il nostro nemico principale – sottolineava Lenin al II Congresso dell’Internazionale Comunista, nell’estate 1920, svolgendo il suo rapporto «Sulla situazione internazionale e i compiti dell’I. C.». – L’opportunismo negli strati superiori della classe operaia non è socialismo proletario, ma borghese. La pratica ha dimostrato che gli uomini politici del movimento operaio appartenenti alla corrente opportunista, difendono la borghesia meglio degli stessi borghesi. Se essi non avessero la direzione degli operai, la borghesia non potrebbe resistere».

La lotta contro l’opportunismo costituiva dunque uno dei compiti principali dell’Internazionale Comunista. Questa lotta doveva essere condotta inflessibilmente e senza esitazioni contro le varie sfumature e gradazioni dell’opportunismo: destra, centro, e così via. Il fuoco doveva investire con la stessa veemenza e con più precisione ancora il centro, pericoloso più che mai per le sue oscillazioni verso il comunismo rivoluzionario, che lo facilitavano nell’opera di inganno degli operai.

L’opportunismo è il nemico principale del proletariato e del comunismo. Oggi più che mai.

Ma l’opportunismo non esisteva solo all’esterno dell’Internazionale Comunista: elementi opportunisti erano anche penetrati nel suo seno. Alcuni mesi prima del II Congresso, nel febbraio 1920, Lenin rilevava («Note di un pubblicista»):
«La discrepanza tra le parole e i fatti ha fatto fallire la II Internazionale. La III non ha ancora un anno di vita, e già diventa un centro di attrazione e una moda per i politicanti che vanno dove vanno le masse. La III Internazionale comincia già ad essere minacciata dalla discrepanza fra le parole e i fatti. Bisogna svuotare questa minaccia, ad ogni costo e dovunque, ed estirpare dalla radice ogni manifestazione di questo male».

Si era nel 1920, in una fase storica dello scontro mondiale fra le classi densa di possibilità rivoluzionarie e aperta al trionfo universale della prospettiva comunista. L’afflusso nell’Internazionale Rossa di gruppi e uomini politici instabili, di politicanti alla moda, costituiva una grave minaccia per tutta l’organizzazione internazionale del proletariato. Al centro effettivo delle reali preoccupazioni di Lenin, e nostre, stavano l’efficienza del partito e la sua compattezza e omogeneità interne, rese solamente possibili dall’unicità di vedute teoriche e tattiche della direzione rivoluzionaria, di tutti i militanti. L’inquinamento dell’organizzazione internazionale del proletariato avrebbe costituito in ogni caso un pericolo serio nell’eventualità di un riflusso dell’ondata rivoluzionaria. Pochi anni dopo, in relazione all’andamento di quello scontro che incominciava a volgersi a svantaggio della rivoluzione proletaria, vennero compiuti dall’Internazionale i primi passi cedevoli che, in brevissimo volgere di tempo, dovevano condurla alla rovina, una rovina così profonda che dopo quarant’anni circa il proletariato non riesce ancora a battersi per i suoi interessi politici e per il suo obbiettivo centrale, la conquista del potere politico e la instaurazione della sua dittatura.

VI.

Orbene, in che cosa consisteva, fondamentalmente, l’opportunismo politico dei socialsciovinisti e dei social-patrioti, riguardo alla lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico, durante e successivamente alla prima guerra imperialista? Il tradimento politico consumato dai capi opportunisti della II Internazionale consisteva essenzialmente nell’agire sul «terreno democratico» nel difendere gli interessi nazionali, nel disconoscere la necessita della dittatura del proletariato. Ma il nocciolo del bubbone opportunista, radicato particolarmente nel centrismo, stava nel rifiuto di distruggere la macchina statale della borghesia, senza di che nessuna rivoluzione può vincere, nessun socialismo è possibile. Il tradimento politico dei partiti degeneri della disciolta III Internazionale riconduce in definitiva alle stesse posizioni.

La teoria del socialismo in un solo paese, inalberata dalla controrivoluzione russa e seguita da tutti i partiti aderenti alla III Internazionale dal 1926, dopo aver battuto e cacciate dal sue schiere le forze genuinamente comuniste, è la matrice della politica arci-opportunista di difesa degli interessi nazionali, praticata, più ignobilmente ancora del social-patrioti del 1914, da poco meno di quattro decenni. L’intermedismo che i partiti degeneri della III Internazionale hanno abbracciato anima e corpo li ha condotti al ripudio effettivo della letta per la dittatura del proletariato e al corrente allineamento sulle posizioni più grette della democrazia borghese e del rancidume piccolo-borghese. Dal punto di vista della rivoluzione proletaria e della sua questione centrale, la questione del potere, tanto l’opportunismo della II Internazionale, quanto quelle dei partiti degeneri della III Internazionale possono ridursi a questo punto-chiave: ammettere che tra la dittatura della borghesia e quella del proletariato esista una soluzione intermedia. Tutta la cancrena opportunista delle varie ondate storiche di questo male nella lotta rivoluzionaria del proletariato per la conquista del potere politico, sta esattamente in ciò. Supporre che tra la dittatura della borghesia e quella del proletariato vi sia una terza strada, è rinnegare il principio centrale della teoria rivoluzionaria comunista, è porsi sul terrene borghese, a difesa della dittatura capitalistica.

Di fronte al passaggio all’avversario e al voltafaccia politico di schiere di opportunisti e di interi partiti, non si ribadirà mai abbastanza che, senza la distruzione della macchina statale della borghesia, senza lo scioglimento dei suoi apparati burocratici, militari, giudiziari ecc., senza la creazione di un nuovo Stato, senza la Dittatura Comunista, è assolutamente impossibile abbattere il dominio politico della classe borghese; liberare il proletariato dalla schiavitù salariale e l’umanità intera dal giogo del capitale e delle sue guerre.

In questo secolo, perfino i più reazionari e conservatori dei borghesi amano tingere di «socialista» le loro merde politiche. Tutti questi truffatori incalliti lasciano intendere che un po’ di «socialismo» non farebbe male a nessuno. Interi partiti (laburisti, social-democratici, ecc.) ultra-borghesi tengono addirittura il socialismo come loro meta finale. Nessuna sorpresa quindi che partiti recanti l’appellativo di «socialista» o «Comunista» e che asseriscono di volere il comunismo, facciano la politica della borghesia, collaborino al mantenimento del suo dominio politico sul proletariato. La lotta tra l’opportunismo e la rivoluzione comunista non verte sulla finalità; come sempre, essa investe il campo dei principi, e prima di tutto quello che riguarda la questione del potere e del come conquistarlo.

È proprio su queste punte che nessuna incertezza, nessuna riserva, nessuna perplessità, nessuna distinzione, è ammissibile. I proletari debbono guardare in faccia la realtà così com’è, senza paura e senza esitazioni, e non aver timore di trarne tutte le conseguenze politiche. La lotta di classe tra proletariato e borghesia è una lotta dura, aspra, per la vita e per la morte, che a nessun altro sbocco può condurre che o alla dittatura borghese o alla dittatura proletaria. Qualunque sia la forma sempre diversa (democratica, fascista, ecc.) che il dominio della classe borghese momentaneamente assume: comunque lo imbellettino i servi e politicanti opportunisti, e per quanto si ciarli di democrazia popolare e progressiva e di Stato «neutrale» al di sopra del le classi, il dominio della borghesia sul proletariato rimane sempre ed invariabilmente una dittatura aperta e mascherata.

E, per rovesciare questa dittatura, per abbattere il dominio del capitale, per instaurare la dittatura del proletariato, la strada necessaria da percorrere è una sola: la lotta di classe rivoluzionaria portata fino in fondo, spinta alle sue conseguenze logiche, fino alla lotta armata per la conquista del potere.

Il comunismo, considerato e dal punto di vista oggettivo, è una potenza gigantesca che traspira da ogni lato della società presente. Esse «vive» già in boccio nelle condizioni oggettive storicamente prodotte dal capitalismo. Il ritardo del suo avvento, che dipende strettamente dalle vicissitudini delle lotte di classe e dalle ondate di degenerazione opportunista che hanno infestato il partito politico, non lo rende perciò meno vivo e attuale. È anzi, questo ritardo, in forza del quale il capitalismo ha potuto continuare a distruggere, opprimere e massacrare; è anzi questo aspro processo di gestazione, con tutti i dolori e le sciagure di cui è fonte, che non potrà non renderlo più necessario, irrompente, invincibile, che mai.

VII.

Malgrado la potenza «oggettiva» del comunismo, malgrado l’aumento colossale delle forze produttive, la prospettiva della frattura rivoluzionaria della società presente è tuttavia ancora non vicina. Le premesse politiche per lo stabilimento del suo presupposto storico: la Dittatura del proletariato – sono del tutto irrisorie nella fase che attraversiamo. La lotta per la conquista del potere politico resta esclusa dall’azione immediata, e non si pone all’ordine del giorno neanche in un’immediata prospettiva futura: si pone solo come obiettivo finale di tutto un periodo più o meno lungo di preparazione rivoluzionaria delle classe operaia e delle centinaia di milioni di schiavi delle galere capitalistiche.

I compiti, che in conseguenza spetta di svolgere al partito, sono molto primordiali e si presentano come preliminari all’azione effettiva. Il partito è tuttora costretto a muoversi in «sede teorica», senza poter esercitare «la manovra di azione» diretta alla guida materiale e reale della classe in lotta per il rovesciamento dello Stato borghese e l’abbattimento del capitalismo. Nelle vicende della lotta di classe, con e nell’alternarsi di periodi rivoluzionari e controrivoluzionari, questa situazione in cui il partito di classe viene a trovarsi o è transitoriamente respinto è un fenomeno purtroppo normale ed è il risultato di tutto l’andamento del conflitto sociale, della lotta delle classi. Come in tutti i periodi di controrivoluzione, i compiti e l’attività dell’avanguardia comunista si riducono notevolmente e si restringono all’essenziale. L’opera principale del partito si compendia in un lavoro continuo, tenace, molecolare, impercettibile, alla superficie della vita politica quotidiana della società, diretto alla messa a punto rigorosa dell’arsenale teorico, alla riorganizzazione delle file del partito, all’oleazione delle armi, alla preparazione rivoluzionaria del proletariato in un urto incessante e spietato con l’opportunismo. È pressoché naturale che un lavoro di tal genere, nelle innumeri difficoltà che si frappongono al suo svolgimento, si presenti duro e perfino snervante per le stesse limitate forze militanti di questi periodi negativi. È quindi abbastanza spiegabile che l’impulso e il desiderio di fare al di là del possibile e del giusto di tanto in tanto affiorino e raggiungano persino posizioni attivistiche deleterie per l’azione rivoluzionaria di classe. Per quanto ciò costituisca una manifestazione inseparabile dal lavoro in questi periodi, è tuttavia necessario, ai fini della lotta ultima e dell’azione generale che il partito deve svolgere, considerare l’impazienza e il desiderio dell’azione come tremendi tarli corrosivi non solo dei nervi di pur buoni militanti rivoluzionari, ma soprattutto della solidità ed incisività dell’azione rivoluzionaria del partito. Non si debbono nutrire perplessità o debolezze di fronte a tali manifestazioni, che inevitabilmente si generano e che il partito non può che combattere ed espellere dal proprio seno, quando si presentino.

Il processo rivoluzionario non è determinato dalla volontà o dall’attività del partito. Esso è il risultato di tutto il generale movimento storico della società, in cui il partito svolge un ruolo agente. Il partito, anche volendolo, non può né creare le condizioni della rivoluzione né la rivoluzione stessa: deve, essenzialmente, prepararsi alla rivoluzione, per dirigerla e condurla ai suoi obbiettivi.

La parte principale dei compiti «attuali» dell’avanguardia comunista, il «dovere» politico fondamentale del presente, consiste in un lavoro perseverante e tenace, svolto in profondità e «assolutezza» (con intransigenza) e diretto al ristabilimento della dottrina comunista (arma di battaglia del proletariato); alla ritessitura delle file di partito (organo direttivo della rivoluzione comunista); allo smascheramento a fuoco dell’opportunismo (tossico tremendo dell’energia rivoluzionaria del proletariato).

Disincantare gli operai dall’inganno del rispetto della patria; smuoverli dalla difesa degli interessi nazionali; scuoterli dall’oppio del pacifismo sociale; liberarli dall’illusione democratica e da quella elettorale; e così via, è assolutamente necessario e primordiale. Senza liberare il proletariato dalla illusione della via riformista e parlamentare «al potere», dall’inganno della via democratica e nazionale al socialismo; senza inculcargli i principi rivoluzionari del comunismo, anche la futura rivoluzione sarà inevitabilmente condannata alla sconfitta. La sostanza reale del costante lavoro di ristabilimento della piattaforma teorica e tattica del comunismo, della polemica feroce contro l’opportunismo, dell’azione diretta a screditarlo agli occhi del proletariato e ridurne l’influenza, non in altro consiste e può consistere che nell’educazione rivoluzionaria del proletariato, nella preparazione delle masse di sfruttati di tutti i colori e di tutti i continenti alla guerra di classe per la DITTATURA COMUNISTA MONDIALE.

Il proletariato deve risollevarsi, e certo si risolleverà, dalla paurosa depressione politica in cui si trova, con la netta e decisa coscienza della necessità ed inevitabilità della rivoluzione comunista; deve svegliarsi con la chiara e assoluta visione della necessità e inevitabilità di scrollarsi per sempre dal giogo del capitale mediante l’insurrezione e la lotta armata; deve riavviarsi verso la prospettiva grandiosa del comunismo con la ferma coscienza della necessità e inevitabilità che la posta in gioco, l’obbiettivo unico da raggiungere, è la conquista del potere politico alla scala mondiale.

Molto marciume, molte e cancrenose incrostazioni sociali, ha accumulato la società borghese. Molta melma e molto letame hanno ammonticchiato le successive ondate opportuniste. Qualunque idea, qualunque pretesa di evoluzione graduale, di passaggio pacifico al socialismo, è un non senso, una cecità assoluta. È una droga ammuffita, buttata ancora una volta negli occhi dei proletari. Anche l’ipotesi di «riscatto pacifico» dalla borghesia, avanzata condizionalmente per l’Inghilterra nel secolo scorso dai fondatori del socialismo scientifico, dal principio di questo secolo è stata completamente travolta dall’evoluzione politica generale del capitalismo, entrato nel suo stadio imperialista. Il militarismo – questo solo aspetto dell’imperialismo borghese che i rinnegati e transfughi del comunismo invocano ad ogni piè sospinto per giustificare la loro calata di brache davanti al nemico di classe e l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria – costituisce già di per sé un fatto storico che fa piazza pulita dei metodi di lotta cosiddetti pacifici, delle fantasie sentimentali dell’umanitarismo riformista, e cose del genere, e rende al contrario di un’estrema evidenza, di una immediata palpabilità, la necessità ed inevitabilità della violenza rivoluzionaria del proletariato, nella conquista del potere per sé, dovunque.

Ma vi è di più. I rapporti economico-sociali del periodo storico presente hanno un contenuto di violenza potenziale, quale non hanno mai racchiuso periodi anteriori dell’epoca borghese. Le enormi proporzioni raggiunte dal capitalismo costituiscono un ammasso di dinamite dagli effetti sociali immani. Le contraddizioni in cui la sua stessa evoluzione l’ha spinto «a cacciarsi» sono più che mai stridenti ed insolubili. Sono un fattore di squilibri, di crisi, di distruzioni, di guerre. Il suo aumento quantitativo a tanto l’ha portato, che lo scioglimento di ogni suo nodo non può avvenire che attraverso la forza e la violenza di classe e comunista del proletariato.

Solo delle carogne opportuniste, dei pacifisti incancreniti, dei venduti alla borghesia (socialisti, comunisti nazionali, e compagnia), solo queste organizzazioni di autentici agenti dell’imperialismo, osano predicare il pacifismo sociale; si danno centomila arie filosofando di «struttura mutata» del capitalismo, di un «neocapitalismo» che «non sarebbe più capitalismo»; di tante e tante altre corbellerie per stornare il proletariato dalla lotta rivoluzionaria, per incretinirlo con le schede elettorali o con la panzana della «pacifica conquista interna del potere» per atterrirlo con la psicosi atomica; in una parola, per impedirgli di spezzare le catene del suo sfruttamento con l’abbattimento rivoluzionario di questo maledetto sistema, e così conquistare finalmente un mondo nuovo.

Questa gentaglia ne dirà sempre delle belle e delle nuove. Sicofanti ed imbroglioni, essi troveranno sempre nuove droghe per addormentare o svirilizzare l’energia rivoluzionaria del proletariato. Ebbene, signori: il capitalismo si è evoluto, ma non in altro (e tanto basta) che nell’estendere il proprio dominio sul lavoro salariato. Questa aumentata potenza del capitale, che è sempre fermo nella sua natura, che non è cambiato per nulla nella sua essenza, questo suo accresciuto dominio sul lavoro vivo richiede per abbatterlo una violenza corrispondente. Malgrado tutte le ciarle, gli inganni, le distorsioni e gli artifici dell’opportunismo, la rivoluzione comunista è e rimane l’unica via di uscita dalla schiavitù capitalistica del lavoro, l’unica strada di salvezza, per tutto il genere umano dalle atrocità della guerra. Al di fuori della via rivoluzionaria, nessuna, assolutamente nessuna soluzione del dilemma sociale posto ai tempi nostri dalla storia è possibile. Senza la rivoluzione comunista, senza la dittatura comunista mondiale, è impossibile fare andare avanti la specie umana, farla uscire dal capitalismo ed entrare nel socialismo.

VIII.

All’inizio di questo mese si sono riuniti a Bruxelles gli esponenti dei partiti affiliati all’internazionale gialla, (la cosiddetta internazionale socialista) per celebrare, secondo gli annunci ufficiali, il centenario della I Internazionale. Non c’è bisogno di dirlo: si tratta dei successori diretti di gente di esecrabile memoria come Longuet, Scheidemann, Noske, Renaudel, Hyndman, Bissolati e compagnia, rappresentati nella circostanza da Mollet (Fr), Saragat (It), Schmidt (Ger), Collard (Bel) ecc., carnefici di capi valenti del proletariato, assassini di Rosa Luxemburg e Carlo Liebknecht, di tanti e tanti altri militanti della causa comunista; cinici pugnalatori della rivoluzione proletaria. Questa sbirraglia da forca, di cui la maggior parte se non dirige direttamente un governo vi collabora almeno strettamente, ha dunque ripetuto il rito: sul sangue del proletariato mondiale che gli Stati che essi rappresentano o servono hanno fatto e fanno scorrere a fiumi, hanno «consacrato» Marx, Engels, il socialismo, agli ideali della democrazia borghese, alla libertà dello sfruttamento capitalistico del lavoro, alla conservazione della società di classi.

Queste serpi velenose stanno ancora, dopo quasi cinquant’anni dacché noi comunisti per un certo tempo legittimamente sperammo fossero definitivamente schiacciate, a rimuovere con la lingua biforcuta il nome di Marx, di Engels, della gloriosa I Internazionale rossa. Ma da loro (e questo è il punto) non differiscono sostanzialmente i partiti della disciolta III Internazionale, i sedicenti partiti comunisti e correnti analoghe, che, richiamandosi a Marx, ad Engels, a Lenin, alla Rivoluzione di Ottobre ed alla III Internazionale dei primi anni ardenti (piccisti, kruscioviani, titini, maoisti, e così via), mantengono in pratica la stessa attitudine politica di quelli di fronte alle questioni centrali della rivoluzione e della dittatura comuniste. Da quando hanno rinunziato alla lotta per la dittatura internazionale del proletariato, abbracciando la «teoria» del socialismo in un paese solo, essi sono ricaduti sulle posizioni dei social-pacifisti e dei social-patrioti. Con l’aggravante che questi ultimi, dopo di aver consumato fino alla faccia tutte le posizioni dell’opportunismo del passato (difesa infame degli interessi nazionali, rispetto della legalità borghese, rinunzia alla distruzione dello Stato borghese, «lotta» sul terreno nazionale, ecc., ecc.), pretendono di rappresentare davanti alla classe operaia che hanno spudoratamente tradita, i continuatori del comunismo difeso da Marx e da Engels, mirabilmente restaurato da Lenin e solo ed esclusivamente dal Partito Comunista Internazionalista aspramente riaffermato in tutta la sua integrità originaria. È certo che proprio costoro rappresentano, ai tempi nostri, la peggiore specie di opportunisti e quindi il principale nemico del proletariato rivoluzionario.

Il compito più utile ed urgente per la borghesia, in questo momento, non sta, è vero, nel ripararsi da minacce attuali di assalti proletari. Ma se questo, da un lato, è fuori di dubbio, dall’altro lato è più che certo che per essa è questione di vita o di morte tenere sempre in funzione questi «vecchi arnesi». Senza l’aiuto e l’intervento dell’opportunismo, la borghesia non potrebbe tenere a lungo imbrigliata la classe operaia: esso rimane pur sempre la sua migliore difesa. La tempesta della futura rivoluzione comunista, che incuba e si prepara malgrado tutto, non permette di lasciare inutilizzato alcun mezzo, alcuno strumento, alcuna manovra.

Inconsapevolmente o consapevolmente non importa, le forze politiche organizzate delle classi in lotta si preparano allo scontro.

IX.

Dalla Comune di Parigi (1871) fino alla prima guerra mondiale (1914–1918) all’incirca, non si presentò in tutta l’Europa, se si eccettua il 1905 russo, una situazione oggettivamente rivoluzionaria. Dal 1923 circa (disfatta del proletariato tedesco in ottobre) ad oggi, malgrado le vampate rivoluzionarie dell’Oriente negli anni 1925–1928 e sebbene si siano verificati in tutto questo periodo avvenimenti di grande importanza politica (guerre dei movimenti nazional-borghesi, lotte di liberazione dei popoli coloniali o oppressi dall’imperialismo, guerre mondiali, guerre locali, ecc.), nessuna situazione oggettivamente rivoluzionaria si è prodotta nei grandi paesi capitalistici del mondo. E dobbiamo constatare che essa si presenta ancora come il fatto di un avvenire più o meno lontano.

Quello che bisogna rilevare, ai fini del tema sopra indicato, è che, nei due periodi qui abbozzati a grandi linee, l’avanguardia comunista del proletariato, dovendo, dopo la disfatta, ricominciare daccapo, si è trovata ad operare, nel corso della controrivoluzione, in condizioni politiche notevolmente diverse. Dopo l’annientamento della Comune di Parigi l’avanguardia comunista, duramente provata, si rimise all’azione, e con un lento, molecolare, difficile lavoro assolse il compito essenziale: preparare il proletariato e riorganizzare il partito in vista del futuro combattimento per la dittatura proletaria. La grandiosa vittoria rivoluzionaria dell’Ottobre 1917 in Russia è il frutto, sotto l’aspetto della condizione soggettiva della rivoluzione, del formidabile lavoro magnificamente svolto dai bolscevichi guidati da Lenin, dai comunisti autentici. Con la conquista del potere politico in Russia, e le successive momentanee vittorie comuniste altrove, si nutrì la profonda fiducia che l’instaurazione della dittatura del proletariato si estendesse a tutto il mondo. Ma il volgere degli eventi negli anni successivi fu alquanto duro per il proletariato internazionale, che non solo non riuscì a trionfare sull’avversario, ma perse anche quello che eroicamente aveva conquistato: la dittatura del proletariato in Russia e la stessa III Internazionale.

Ora, la Comune di Parigi fu schiacciata nel sangue dalle truppe comandate da Thiers e dai versagliesi, nemici dichiarati di quei rivoluzionari generosi. Il proletariato parigino venne calpestato dalla borghesia, e i suoi capi fucilati. Ma sulle carni della classe operaia si incise profondamente la dura lezione, passando vigorosa alle generazioni future che al suo ricordo avrebbero trovato alimento nell’assalto al potere e vigore rivoluzionario nel regolamento dei «conti storici». Un fenomeno opposto è avvenuto in Russia dopo la vittoria rivoluzionaria. Lo Stato proletario quivi si è disfatto, non ad opera della guerra promossa dall’Intesa, dalle potenze del capitale, dalle armate controrivoluzionarie che l’assaltavano da tutti i lati per strangolarlo ma furono tutte una alla volta irrimediabilmente battute; né ad opera di una guerra civile interna culminante in una repressione violenta del partito comunista con la vittoria di forze dichiaratamente borghesi e controrivoluzionarie; non per tutto questo, ma per un processo di lenta ma inesorabile degenerazione. I capi migliori del proletariato sono stati, in vari tempi, passati spietatamente per le armi, e con loro trucidate o deportate migliaia e anche decine di migliaia di militanti devoti e appassionati, il fiore dei combattenti del comunismo. Ma sui cadaveri e sulla loro memoria i carnefici hanno steso una coltre di lurido fango: «traditori del socialismo», «agenti della borghesia», «sabotatori», ecc. In Russia la controrivoluzione – ivi è la particolarità di questo periodo – ha marciato sulla rivoluzione e i suoi combattenti non già inalberando la bandiera della libertà, della patria, del popolo unito nella nazione, cioè la bandiera propria della borghesia, ma tenendo in pugno la bandiera rossa con la falce e il martello, simboli di agitazione e combattimento degli operai e dei rivoluzionari comunisti.

Il capitalismo si è sviluppato in Russia sotto «le mentite spoglie» del socialismo. Milioni di operai, centinaia di milioni di lavoratori, generazioni diverse addirittura, hanno tenuto gli occhi fissi verso questo grande paese, additato al mondo intero dallo pseudo-comunismo staliniano come la patria del socialismo. E oggi stesso, a quasi quarant’anni dalla erezione del colossale «mito», sebbene esso faccia acqua da tutti i lati e ne sia imminente il crollo, la sua suggestione sulla classe operaia è tuttora sensibile.

Gli effetti della controrivoluzione russa, e dell’opportunismo seguito alla degenerazione della III Internazionale, sono incalcolabili, e hanno inciso profondamente sul movimento operaio e sul partito politico di classe. La degenerazione della rivoluzione russa ha travolto non solo la dittatura del proletariato innalzata in Ottobre, ma la stessa Internazionale, distruggendo le forze migliori delle avanguardie comuniste nelle diverse sezioni. Essa ha prodotto un vuoto attorno a sé e, nel corso del suo infuriare, ha divorato le forze superstiti del partito di classe, distruggendo le condizioni politiche della sua stessa ricostituzione per tutta una fase storica.

Da oltre tre decenni alla scala mondiale, borghesia imperialista, giovani forze borghesi di capitalismi in sviluppo, sono state e sono le vere forze politiche che si fronteggiano e si urtano nella lotta fondamentale per il dominio del mercato mondiale unico sempre più erodente le barriere protettive di campi economici «semichiusi» o in formazione. Il proletariato per tutto questo tempo è stato trascinato in sanguinosi conflitti a servizio delle potenze capitalistiche. Privato del suo partito, esso è stato privato della sua prospettiva; la lotta per la conquista del potere politico per sé. Ha combattuto nella seconda guerra imperialista in difesa della democrazia contro il nazifascismo; combatte inutilmente oggi pro o contro queste due forme tipiche del dominio di classe della borghesia, della dittatura del capitale sul lavoro salariato, o per obbiettivi analoghi, indissolubilmente legati al quadro della società esistente, rafforzanti la schiavitù salariale del lavoro e salvaguardanti la società divisa in classi. Gli interessi generali e di fondo per i quali il proletariato è stato impiegato come massa di manovra, malgrado tutti gli appellativi ad essi appiccicati di «socialismo» e «comunismo» e le presentazioni ideologiche pseudo-proletarie, sono gli interessi di fondo e generali dello schieramento capitalistico internazionale; antiproletari ed anticomunisti al cento per cento. L’attuale conflitto russo-cinese fa parte di questo tipo di interessi: come il capitalismo russo per svilupparsi si servì del proletariato mondiale, altrettanto cerca di fare quello cinese. La controrivoluzione tenta di guadagnare in Oriente quello che sta perdendo in Occidente con l’erosione del «mito» del socialismo in Russia.

La situazione prodotta dalla controrivoluzione russa è stata dunque, per l’avanguardia comunista del proletariato, drammatica e terribilmente aggrovigliata. Ricominciare a tessere la trama della futura riscossa di classe divenne più difficile che in altre analoghe situazioni storiche. Una controrivoluzione che si riveste di «comunismo», che parla in nome di Marx, di Engels, di Lenin, che si richiama alla dottrina comunista, che assume di «costruire» la società socialista e la società comunista, mentre in realtà distrugge ogni germoglio di propaganda rivoluzionaria in senso genuinamente comunista, ogni principio di azione classista; una tale controrivoluzione devasta e rovina atrocemente, uccide i vivi e i nascituri. Il quadro dei reali rapporti fra le classi, della contrapposizione dei rispettivi programmi politici, degli obiettivi di lotta propri di ognuna delle classi antagoniste, è interamente offuscato da una caligine spessa, impenetrabile per un tratto di tempo notevole ai raggi del programma comunista del proletariato.

In questo clima, le condizioni per la formazione delle nuove leve rivoluzionarie e del partito politico di classe furono le peggiori che la storia del movimento operaio dal suo sorgere ai giorni nostri abbia registrato.

Da un lato l’infuriare della controrivoluzione ha eliminato quasi totalmente le vecchie forze rivoluzionarie della III Internazionale, rimaste sul campo di battaglia fedeli al comunismo; dall’altro sono venute a mancare le premesse oggettive per la ricostituzione del partito, per tutto un lungo tratto che solo in tempi relativamente recenti può considerarsi chiuso. Èuna dura constatazione che nessuna delle nuove generazioni apparse dal I e II decennio di questo secolo in poi sia passata attraverso una esperienza rivoluzionaria comunista o, quanto meno, abbia praticato nella lotta di classe radicale «la scuola preparatoria» alle grandi battaglie politiche di domani. Se si prescinde dalle vecchie leve superstiti, nessuna delle nuove possiede ancora una considerevole esperienza rivoluzionaria e di lotta classista. Le condizioni politiche generali, in cui esse hanno dovuto operare, sono state altamente sfavorevoli (e non cessano tuttora di esserlo) all’educazione e alla formazione rivoluzionarie. Obiettivamente considerato; è questo un fatto che va tenuto in alto conto nella organizzazione del partito di classe.

Il Partito è anch’esso un prodotto storico. E se, come programma, sorge a un momento dato dell’evoluzione sociale, per accompagnare senza più sparire tutta la lotta successiva e il movimento d’insieme della classe che esprime; come organizzazione esso va però soggetto alle vicende della lotta, risentendone gli effetti e i risultati. E, per la organizzazione di partito, l’avvicendamento di nuovi militanti capaci; di nuove leve, idonee a svolgere i compiti generali che sono suoi propri, è uno dei problemi più vitali che direttamente la riguardano. In particolare la formazione dei quadri di partito, dei militanti esperti indispensabili al partito per dirigere con successo la lotta di classe del proletariato nei momenti decisivi e la stessa rivoluzione, è un processo lungo, difficile, tormentoso. Le difficoltà in questo campo sono considerevoli, ma interessanti e direttamente impegnative per tutto il partito. La forza, l’efficienza, la capacità e l’attitudine rivoluzionarie del partito, sono il fattore principale della rivoluzione proletaria e della vittoria del comunismo.

Sappiamo come il partito difettò tremendamente nel periodo rivoluzionario 1917–1923, e costituì, proprio in quanto consumato dall’opportunismo, la causa principale della sconfitta mondiale della classe operaia. L’avanguardia comunista deve lavorare in questo campo instancabilmente, con tenacia e con rigore; l’organizzazione del partito deve restare al centro di tutte le nostre attenzioni e di tutti i nostri sforzi.

Se tuttavia da un lato la degenerazione della III Internazionale e l’ondata opportunista che ne seguì, tutt’oggi dilagante negli ambienti e nelle organizzazioni di massa del proletariato, determinano una serie di difficoltà notevoli per l’educazione e preparazione di reclute all’esercito rivoluzionario di domani, dall’altro preziosi insegnamenti ne derivano al partito comunista e alla classe operaia, alcuni dei quali vitali per l’azione e l’organizzazione del partito di classe.

La I Internazionale nacque come organizzazione unitaria del proletariato, e come organo di guida centrale, di fronte alle sette socialiste e semi-socialiste allora esistenti, della lotta di classe per la dittatura comunista internazionale. Ma, come tale, essa anticipò le esigenze future del movimento di classe più che non abbia potuto agire praticamente come organo effettivo di direzione e inquadramento delle battaglie proletarie. Questo dipendeva d’altronde dallo sviluppo generale raggiunto dalla società. La I Internazionale apparve in un periodo storico di complesse lotte di classe. In Europa la lotta borghese per la formazione dello Stato nazionale e per la creazione del mercato interno, capitalista, non si era ancora del tutto conclusa. La stessa forza di classe del proletariato e il suo peso nel processo della produzione trovavano un contrappeso nell’abbondanza delle classi intermedie e della piccola borghesia.

La II Internazionale (1889–1914), vissuta in un periodo di evoluzione del capitalismo, operò in realtà come una federazione di partiti, ciascuno dei quali restava autonomo nell’azione. Allo scoppio della prima guerra imperialista, tutti i partiti che ne facevano parte finirono ignominiosamente nella politica nazionale e democratica, che del resto avevano anche prima in buona parte praticata.

Nel corso della guerra, quando l’ondata rivoluzionaria affluì, ingigantita dalla vittoria riportata in Russia la maggioranza dei paesi mancava di partiti rivoluzionari di classe, di partiti comunisti. Malgrado la presenza della situazione oggettivamente rivoluzionaria e delle condizioni favorevoli per l’instaurazione della dittatura del proletariato, era in ritardo e in grave difetto l’organo di questa lotta: il partito. Un compito storico colossale che toccò di svolgere alla III internazionale consistette appunto nella formazione e costituzione dei partiti comunisti, delle sezioni nazionali ad essa aderenti. La III Internazionale nacque infatti come organizzazione mondiale unica del proletariato combattente per la Dittatura Comunista Mondiale. Il pensiero e il convincimento profondi tanto di Lenin quanto di Trotzky, che furono in testa nell’opera di fondazione, erano anzi che questa non soltanto dovesse agire in pratica come Partito Comunista mondiale, ma che tale dovesse essere nella sua denominazione.

La costituzione delle sezioni comuniste aderenti, se fu, come detto, un compito fondamentale della III Internazionale, si dimostro tuttavia un processo duro e laborioso, che per giunta non diede i risultati sperati, perché non si riuscì a impostare e risolvere soddisfacentemente le questioni dell’azione e dell’organizzazione rivoluzionarie del partito di classe.

Infatti, le 21 condizioni di ammissione, se da un lato costituivano un ottimo, e assolutamente salutare filtro anti-riformista e antidemocratico, dall’altro lasciavano passare attraverso i loro pori un margine abbastanza largo di discrezionalità nell’azione a beneficio delle singole sezioni. Molto peso ed eccessiva importanza venivano in tal modo ad acquistare le cosiddette «situazioni locali e contingenti». Non solo, ma la stessa azione generale del proletariato, la tattica del Partito Comunista, non venne rigorosamente ancorata a tipi ben precisi, fissati in anticipo alla classe, valevoli per le fasi storiche susseguentisi e, per le grandi aree geografiche, in tutto il corso delle battaglie proletarie per l’abbattimento del sistema politico borghese. La stessa discrezionalità nell’azione lasciata alle singole sezioni si rifletteva inevitabilmente in modo negativo sull’organizzazione e sulla disciplina in seno all’Internazionale stessa. Era più che naturale che, con la libertà di manovra lasciata alle sezioni nazionali, i loro vincoli col centro dell’Internazionale dovessero apparire ed essere effettivamente sentiti in modo puramente formale e superficiale. Le varie sezioni, in pratica, potevano, mediante la discrezionalità lasciata loro dalle condizioni di ammissione, condurre una lotta politica sostanzialmente contrastante con il programma e la strategia rivoluzionaria del Partito Comunista.

X.

Passano dunque al partito di classe, e per suo tramite al proletariato, le lezioni della disfatta. Anche per queste, ci limitiamo a un cenno molto sintetico.

Il primo grande insegnamento riguarda l’azione rivoluzionaria del partito. L’azione, o la tattica, è anch’essa parte fondamentale di tutta la visione strategica della lotta di classe per il comunismo, propria e caratteristica del partito politico di classe. Essa non dipende né dalle contingenti situazioni locali, né tanto meno da decisioni improvvise che lo stesso partito possa prendere in date svolte (causando in tal modo una rovinosa frattura con la continuità della sua azione generale), ma è determinata dalla conformità al fine e dalla necessità del modo di raggiungerlo. Al succedersi delle fasi storiche del ciclo del dominio politico della borghesia e della evoluzione del capitalismo corrispondono tipi di azione ben precisi, che non debbono essere minimamente modificati, pena la rovina del partito stesso.

Il secondo grande insegnamento riguarda l’organizzazione del partito rivoluzionario. L’organizzazione del partito di classe è anch’essa strettamente legata al programma politico generale, e all’azione rivoluzionaria che il partito storicamente sviluppa. Questa raggiunge il massimo di omogeneità interna e di compattezza sul presupposto indispensabile dell’unicità e intangibilità del programma, della unicità dello scopo da raggiungere, dell’uniformità e coscienza anticipata dei mezzi da impiegare per raggiungerlo. Il partito del proletariato è un partito unico alla scala mondiale. Esso si muove come un corpo solo, e opera con un programma ben definito in tutte le sue parti, posto a base della sua azione. Questo programma deve contenere non soltanto le premesse generali di dottrina e le finalità supreme del movimento, ma la determinazione inequivoca dei principi e la fissazione delle regole d’azione. Il partito si muove come organismo unitario alla scala mondiale, e raggiunge un massimo grado di disciplina e centralizzazione, esclusivamente sulla base della presenza o del rispetto dei presuntuosi menzionati.

Se un secolo è dunque trascorso dalla I Internazionale e ciò malgrado il proletariato è dappertutto classe sottomessa e sfruttata; se un lasso di tempo così notevole della storia, pur denso di lotte epiche combattute dal proletariato per la presa del potere, è trascorso, e il comunismo resta ancora da raggiungere; possiamo tuttavia affermare di possedere, sebbene allo stato embrionale, il partito che ne potrà assicurare in futuro l’avvento.

Il Partito Comunista Internazionalista è, in germe, il partito della rivoluzione comunista. Dipenderà dalla sua forza, dalla sua efficienza, da come avrà potuto e saputo lavorare per la rivoluzione, la vittoria mondiale della classe operaia e di tutti gli sfruttati della terra.


Source: «Programma Comunista» – nn. 18, 19, 20, 21 1964

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