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I PROBLEMI DELLA MONETA


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I problemi della moneta
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I problemi della moneta

Fu la necessità scientifica che condusse Marx ad iniziare l’esplorazione del sistema borghese di produzione mediante un’analisi approfondita di ciò che ne costituiva la base fondamentale: la forma merce dei prodotti del lavoro umano.

Egli sottolineò che:
«come noi, quando riflettiamo sulle forme della vita umana e tentiamo di farne l’analisi scientifica, prendiamo in realtà una strada opposta al vero sviluppo di questa vita, partiamo cioè dai risultati raggiunti dal processo di sviluppo; allo stesso modo, le forme che imprimono ai prodotti del lavoro il carattere di merci e sono dunque considerate come esistenti prima di ogni circolazione di merci, hanno già la stabilità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto, non del carattere storico di queste forme, che essi ritengono già immutabili, ma del loro contenuto»[1].

Ciò che Copernico realizzò nel campo cosmico rivelando l’esatto significato del movimento apparente degli astri e riducendo con ciò a modeste proporzioni il folle egocentrismo degli uomini, Marx lo realizzò nel campo economico quando scoprì l’essenza profonda delle leggi che reggono l’economia capitalista, dopo averle spogliate del mistero che faceva apparire le istituzioni borghesi come «naturali» ed «eterne» mentre l’Economia classica considerava le forme di produzione preborghesi «press’a poco come i Padri della Chiesa trattavano le religioni che hanno preceduto il cristianesimo», cioè come istituzioni artificiali. Noi sappiamo che non fu affatto così, ma al contrario, le comunità primitive rivelarono incontestabilmente il carattere naturale dei loro rapporti sociali.

Nella società antica e nell’economia feudale, i rapporti sociali degli uomini restarono fondamentalmente rapporti di dipendenza diretta e individuale: i prodotti del lavoro apparivano immediatamente sotto la loro forma materiale di oggetti rispondenti a dei bisogni; non rivestivano la forma merce se non accidentalmente, quando vi era scambio, con altre comunità, di oggetti che eccedevano i bisogni. Così, nella società feudale, i rapporti sociali non furono altro che l’adempimento delle prestazioni imposte dal contratto feudale, non avendo luogo alcuno scambio di prodotti per l’inesistenza di una contropartita economica qualunque, o – se si vuole – non vi fu che scambio di prestazioni in natura contro servizi.

Questi organismi di produzione conservarono così un carattere di semplicità the permetteva di scoprire facilmente le loro forme specifiche di sfruttamento; non esisteva alcuna categoria economica che dissimulasse queste forme o ne alterasse il significato. (La moneta non rappresentava che una parte secondaria, corrispondente all’importanza minima degli scambi).

In seguito i rapporti di produzione ed i contrasti sociali si velarono in misura o sotto l’impulso del progresso tecnico e di una divisione del lavoro più accentuata, le ricchezze si accrebbero nel tempo stesso che si moltiplicava e si concentrava la proprietà privata e che si sviluppava la produzione delle merci. E quando quest’ultima forma di produzione raggiunse il suo completo sviluppo con lo schiudersi del Capitalismo, quando il prodotto del lavoro non apparve che sotto la forma di una merce e questa sotto forma di moneta, allora il carattere dei rapporti sociali ed i rapporti medesimi disparvero nel flusso di una intensa circolazione di merci e si nascosero sotto l’aspetto del Denaro. La circolazione delle ricchezze poté anzi apparire come un meccanismo indipendente dall’attività produttrice, avente le sue proprie leggi, ed è così che le illusioni monetarie coltivate dall’economia politica borghese procedettero dalla concezione che il modo di scambio è indipendente dal modo di produzione.

Si comprende già che il carattere enigmatico della moneta nella quale deve necessariamente cambiarsi la merce non può essere chiarito che tramite una «conoscenza della natura – apparentemente misteriosa – della merce stessa».

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È ben vero che la produzione e lo scambio delle merci sono condizionati dall’esistenza di una divisione sociale del lavoro, ma di contro, il funzionamento di questo non deve necessariamente determinare la formazione dei prodotti-merci.

Marx cita l’esempio delle comunità primitive dove il lavoro era socialmente diviso ma dove i prodotti erano direttamente consumati e non perdevano il loro aspetto immediato di oggetti di utilità. I lavori differenti non esprimevano che funzioni diverse in seno all’organismo sociale e i produttori non erano che gli organi della meccanica sociale posti in una stretta dipendenza reciproca. Allo stesso modo, abbiamo detto, nella società schiavista, poi nella società medioevale, i rapporti di dipendenza personale sussistevano fra padroni e schiavi, fra servi e signori, fra vassalli e sovrani e formavano la base sociale; i prodotti del lavoro non avevano dunque da prendere affatto una forma apparentemente strana che dissimulasse la loro realtà di cose corrispondenti a dei bisogni.

Lo scambio dei prodotti trasformati in merci si sviluppò parallelamente alla decomposizione delle economie naturali. Attraverso un lungo processo storico, i produttori, nello stesso tempo che acquistavano la qualità di possessori privati dei frutti del loro lavoro, si affrancavano dal loro stato di dipendenza sociale. D’altra parte i differenti lavori individuali sempre più venivano eseguiti indipendentemente gli unì dagli altri, e se i produttori rinforzavano così la loro indipendenza economica nella misura in cui si appropriavano del prodotto del loro lavoro, d’altro canto, alla dipendenza sociale primitiva se ne sostituiva un’altra: lo sviluppo della produzione delle ricchezze e del loro scambio trasformava il carattere del prodotto nei confronti del suo produttore e proprietario; per questo fu non più un oggetto rispondente ad un uso proprio, ma destinato ad essere scambiato con un oggetto differente, capace di soddisfare uno dei suoi bisogni. Di modo che, mentre nelle economie naturali era la ripartizione diretta dei prodotti del lavoro eseguito in comune che permetteva di far fronte ai bisogni, al contrario il produttore privato non poteva provvedere ai suoi bisogni personali che in un modo indiretto, subordinandosi al mercato.

Per il suo possessore, il prodotto divenne dunque una merce nella misura in cui rappresentò per lui non più un valore d’uso tra un valore di scambio con cui egli poteva ottenere un altro valore d’uso che avrebbe potuto consumare. Ed è quando la produzione per i bisogni si fu trasformata totalmente in una produzione in vista dello scambio, che un solo rapporto economico si stabilì fra gli uomini, quello di possessori di merci, e che il solo valore di scambio regolò i rapporti fra produttori e mise a confronto i loro molteplici lavori privati. Il valore di scambio acquistò un carattere sociale che gli permise, sovrapponendosi al valore d’uso del prodotto, di dissimulare la natura fisica e l’utilità di quest’ultimo, prendendo egli stesso un’apparenza materiale. In tal modo conferì alla merce, nel circuito degli scambi, un aspetto misterioso, mentre «il rapporto sociale determinato esistente fra gli uomini prese ai loro occhi la forma fantasmagorica di un rapporto fra oggetti e bisognò fare appello alle regioni nebulose del mondo religioso per trovare qualcosa di analogo». È ciò che Marx chiamò «il feticismo che si attacca ai prodotti del lavoro, dacché essi figurano come merci» che si estese per conseguenza alla moneta, che non era se non una forma particolare della merce.

Ma il valore di scambio divenne una realtà sociale soprattutto perché permise di stabilire un rapporto quantitativo di scambio fra valori d’uso differenti, e di fissare la proporzione di scambio di un certo numero di oggetti di una specie con un certo numero di oggetti di un’altra specie.

Sul mercato i prodotti, benché totalmente dissimili fisicamente, poterono scambiarsi come cose equivalenti perché racchiudevano un elemento comune a tutti: il lavoro; non il lavoro particolare individuale, che si concretizzava in un oggetto materiale sotto la forma di valore d’uso, ma il lavoro generale astratto che costituì la sostanza stessa del valore di scambio. E la grandezza del valore di scambio della merce non era che la quantità di lavoro socialmente necessario alla sua produzione.

Nella sua polemica con Bernstein, che aveva affermato che la legge del valore lavoro non era che una semplice astrazione, Rosa Luxemburg replicò che
«l’astrazione di Marx non è un invenzione, ma una scoperta, che essa non esiste nella testa di Marx, ma nell’economia mercantile; che non ha un’esistenza immaginaria, ma un’esistenza sociale, reale, così reale da poter essere tagliata e battuta, pesata e monetata. Il lavoro astratto, umano, scoperto da Marx, non è sotto la sua forma sviluppata niente altro che il Denaro»[2]

Rosa Luxemburg confermò così ciò che Marx aveva già affermato, cioè che la scienza non aveva fatto che scoprire la natura reale del valore, mentre gli uomini, stabilendo nei loro scambi l’uguaglianza di valore dei loro prodotti, avevano già affermato «senza saperlo» che i loro diversi lavori erano uguali gli uni agli altri in quanto lavoro umano. E Marx diceva che
«il valore non porta scritto sulla fronte ciò che é. Esso trasforma piuttosto ogni prodotto del lavoro in un geroglifico sociale. Di conseguenza gli uomini tentano di decifrare il senso del simbolo, di penetrare il mistero del loro prodotto sociale; e appunto come il linguaggio, questa determinazione degli oggetti d’uso come valori è un loro prodotto sociale».
Egli aggiungeva poi che:
«il tempo di lavoro sociale non esiste, per così dire, che allo stato latente nelle merci, e non si manifesta che nel loro processo di scambio»;
che non è dunque
«un presupposto bell’e fatto, ma un risultato che diviene».
Dal fatto che la grandezza del valore di una merce si misurava dalla quantità o dal tempo socialmente necessario alla sua produzione, ne risultava necessariamente che il valore di scambio di un oggetto era variabile; aumentava o diminuiva, secondo che il progresso tecnico (cioè la produttività del lavoro) si abbassava o si elevava: dunque in ragione inversa. Ed un mutamento nella grandezza del valore di una merce doveva necessariamente modificare il suo rapporto di scambio con le altre merci, se il valore di queste restava immutato; nella società capitalista la quantità di lavoro necessario ed il valore degli oggetti furono costantemente revisionati sotto l’azione della concorrenza.

Dalla variabilità dei valori di scambio derivò questa facile constatazione, che se il valore d’uso attuale di un chilogrammo di pane di frumento restava identico al suo valore d’uso di parecchi secoli prima, una tale affermazione non valeva allorché si trattava del valore di scambio.

Fu questo ancora un aspetto di questa dualità interna della merce tra valore d’uso e valore di scambio che, quando si trattò della merce particolare che si chiamava Forza di Lavoro, si sviluppò fino a trasformarsi nella contraddizione fondamentale del Capitalismo.

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Se il tempo di lavoro era in realtà l’esatta misura dei valori mercantili, non di meno nel processo dello scambio si sentì la necessità di materializzare questo tempo di lavoro in una merce particolare, e questa apparve così come l’equivalente generale, la misura di tutte le altre merci, ed acquistò la forma moneta, la forma Denaro non appena la circolazione delle merci ebbe raggiunto un certo grado di sviluppo.

Dal fatto che una merce rivestisse così una forma specifica non derivò in alcun modo che essa perdesse il suo carattere di merce ed il valore suo proprio. Come non fu lo scambio a regolare la grandezza di valore di una merce ma questa grandezza regolò al contrario i rapporti di scambio, così la moneta non riceve affatto il suo valore dallo scambio, ma è appunto perché, in quanto merce, possedeva di già un valore, che essa poté accettare di divenire moneta. Il danaro non poteva dunque costituire un puro simbolo, avere solamente un valore immaginario o convenzionale, ma il fatto che a un certo stadio della sua evoluzione poté essere rimpiazzato da semplici contrassegni di carta, fece apparire lui stesso come un semplice contrassegno.

È perciò che
«tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal non vedere che il danaro rappresenta un rapporto di produzione sociale sotto la forma di un oggetto naturale avente proprietà determinate».

In quanto prodotto superiore e complesso dello sviluppo della produzione di merci, la moneta dissimulò ancora di più il rapporto sociale degli uomini, che già lo scambio nasconde sotto la forma di un rapporto sociale di cose ed è così che
«l’enigma del denaro feticcio non fu, in ultima analisi, che l’enigma della merce feticcio, e che il ciclo della vita sociale, cioè del processo materiale della produzione, non si spoglierà del suo velo mistico e nebuloso che dal giorno in cui il suo complesso apparirà come il prodotto di uomini liberamente associati ed esercitanti un controllo cosciente e metodico».

L’oro ebbe assegnata la funzione di moneta per il fatto che materializzava del lavoro sociale sotto la forma più concentrata ma nello stesso tempo – e noi dobbiamo insistervi – perché già esisteva in quanto merce prima di acquistare la forma specifica di moneta; divenne moneta pur restando merce, e per conseguenza, pur conservando un valore variabile secondo la quantità di lavoro necessaria alla sua produzione.

È appunto perché l’oro poté divenire la misura dei valori di tutte le altre merci, che una certa quantità di merci esprimenti un certo tempo di lavoro poté materializzare il suo valore in una certa quantità di oro che racchiudeva il medesimo tempo di lavoro.

La variabilità del valore dell’oro non poteva dunque in nulla alterare la sua funzione di misura dei valori, giacché la vera misura restava il tempo di lavoro. Un cambiamento del valore, sia dell’oro, sia delle altre merci, non poteva che modificare i rapporti degli scambi, né più né meno; ma mentre la modificazione di questo rapporto restava limitata quando si trattava della variazione di valore di una o di alcune merci, essa si generalizzava al contrario quando era il valore dell’oro che cambiava. Il che si spiegava col fatto che, essendo l’oro l’equivalente generale, tutte le altre merci vi rispecchiavano il loro valore. Fra parentesi, importava mettere in rilievo che il valore dell’oro sì modificava con un ritmo molto più lento di quello impresso alla variazione di valore delle altre merci: in un secolo i costi di produzione dell’oro sono relativamente poco diminuiti, mentre sappiamo che la produttività del lavoro industriale e del lavoro agricolo è considerevolmente aumentata sotto l’impulso dello sviluppò meccanico stimolato dalla concorrenza e dall’accumulazione del Capitale.

La messa in evidenza della nozione di variabilità del valore dell’oro è dunque essenziale e tanto più questa nozione tende ad oscurarsi quanto più si penetra nell’intimità dell’esistenza dell’oro-moneta. Accadde così quando la merce il cui valore di scambio aveva preso la forma di moneta, non apparve più che come un prezzo. Ma che la merce fosse divenuta un prezzo, non significava affatto che essa fosse entrata nella sfera della circolazione. Il prezzo significava soltanto che il prodotto che rappresentava una certa quantità di lavoro speciale era pronto a cambiarsi con un peso di oro che esprimesse la medesima quantità di lavoro: «i prezzi sono un invito che le merci lanciano al danaro». O, se si vuole, il prezzo non era che
«l’idealizzazione in oro del valore di scambio di una merce, ed ogni proprietario sapeva che era ben lontano dall’aver convertito le sue merci in oro, quando ne esprimeva il valore sotto forma di prezzo o sotto forma di oro immaginario e che non aveva bisogno nemmeno di un grano d’oro per valutare in oro milioni di valore di merci».
Per valutare solamente, giacché in realtà questo proprietario non consentiva a scambiare la sua merce che con danaro sonante e di buon peso – o con ciò che ne faccia le veci – e, per conseguenza, l’equazione con l’oro, che egli aveva stabilita trasformando il valore di scambio del suo prodotto in prezzo, rimaneva da realizzare sul mercato; questa equazione non appariva che come il tentativo iniziale di materializzare il lavoro «astratto» e non poteva essere concretizzata se non quando fossero state superate le contraddizioni contenute nella produzione di merci e – sotto una forma più acuta – nella produzione Capitalista.

Quando ci si riferisce all’oro come misura dei valori, si constata che esso non ha preso ancora l’aspetto materiale e che la moneta non si è ancora trasformata in concrete monete. Essa non può prendere questo aspetto fisico se non quando l’oro ha giustapposto alla sua funzione di misura di valori quella di unità di misura. Se in teoria le merci si paragonano e si commisurano reciprocamente secondo le differenti quantità di oro che rappresentano, praticamente, esse non possono scambiarsi che venendo tutte riferite ad un certo peso di oro, fissato convenzionalmente e che diviene l’unità di misura delle differenti quantità di oro espresse nelle merci: Lira-sterlina, Dollaro, Franco non sono che i nomi dati alle diverse unità di peso adottate come campioni dei prezzi; allo stesso modo le suddivisioni di questi pesi si chiamano: scellino, cent, centesimo.

Se supponiamo che due grammi di oro si chiamino «Dollaro» e che noi rappresentiamo il prezzo di una merce con cento dollari, constatiamo che questo prezzo esprime due cose: da una parte il valore della merce equivalente a 200 grammi di oro che materializzano, ad esempio, 200 ore di lavoro; dall’altra il numero di unità monetarie che questa quantità di oro contiene. Il numero di unità non può dunque influire sul valore delle merci laddove questo valore, al contrario, determina il numero di unità con cui deve scambiarsi, giacché il valore di scambio è trasformato in quantità di oro prima che l’oro divenga un campione dei prezzi. L’oro, in quanto misura di valori e in quanto campione di prezzi, ha una forma determinata del tutto differente e la confusione dell’una con l’altro ha fatto nascere le teorie più stravaganti.

Cambiando di valore, l’oro, come non perde la sua qualità di misura dei valori, secondo quanto abbiamo visto, così non altera per nulla la sua funzione di campione dei prezzi: se supponiamo che il valore dell’oro si abbassi della metà, le quantità di oro esprimenti i valori di scambio di tutte le altre merci saranno raddoppiate, ma il rapporto di valore di queste quantità di oro fra di loro resterà invariabile; tutti i prezzi saranno raddoppiati senza modificare in nulla il loro rapporto. D’altra parte, 1000 grammi di oro resteranno mille grammi ed avranno sempre dieci volte più valore di cento grammi, come mille dollari avranno potere di acquisto dieci volte superiore a quello di cento dollari.

Dalla confusione fra la stabilità dell’oro in quanto unità di misura e la sua variabilità in quanto valore monetario è nata questa assurda teoria quantitativa che ha tentato di definire le leggi di circolazione della moneta. Storicamente, questa teoria prese consistenza dopo la scoperta di nuove miniere d’oro ed in seguito ad una analisi insufficiente dei fatti che seguirono questa scoperta; si credette che il prezzo delle merci fosse aumentato per la maggiore quantità di oro e di argento funzionanti da mezzi di circolazione.

In sostanza, la teoria quantitativa si enunciò come segue: i prezzi delle merci sono determinati dalla quantità di moneta in circolazione. Montesquieu la difese dicendo che «lo stabilirsi del prezzo delle cose dipende sempre fondamentalmente dal rapporto del totale delle cose al totale dei segni monetari». Essa fu sviluppata da Hume e in seguito da Ricardo. Quest’ultimo, pur avendo definito rettamente la sostanza del valore si contraddisse quando passò all’analisi della moneta:
«il valore del denaro è determinato dal tempo di lavoro che vi si trova materializzato ma solamente fino a quando la quantità del denaro è in rapporto esatto con la quantità e il prezzo delle merci da vendere».
Noi vediamo così che anche Ricardo accetta implicitamente l’ipotesi che al momento in cui entravano nella sfera degli scambi le merci non avevano prezzi e la moneta non aveva valore. Bisogna non trascurare questa teoria, perché oggi parecchi economisti e «pianificatori» la riprendono per tentare di spiegare la crisi del capitalismo e di apportarvi dei «rimedi». E de Man, in Belgio, vi ricorre quando dichiara che il danaro troppo «raro» rincara in rapporto alle merci e fa cadere i loro «prezzi». E Léon Blum non ha una comprensione più marxista della moneta quando considera che un aumento dello stock mondiale di oro deve tradursi nel rialzo generale di tutti i prezzi, e cita come esempio la ripercussione sui prezzi provocata nel sec. XIX dalla scoperta delle miniere della California e dell’Australia.

La teoria marxista, opponendosi diametralmente alla teoria quantitativa, afferma che il movimento circolatorio della moneta, lungi dal regolare la circolazione delle merci, le é, al contrario, subordinato. Ne risulta che:
«la quantità dei mezzi di circolazione è determinata dal prezzo totale delle merci in circolazione e dalla velocità media del corso della moneta».
Di più, i prezzi si alzano e si abbassano non perché circoli più o meno oro, ma la quantità di oro in circolazione aumenta o diminuisce perché i prezzi salgono o scendono. Nel caso in cui circoli troppo oro in rapporto ai bisogni della circolazione delle merci, l’eccedente è semplicemente ritirato dal circuito degli scambi e tesaurizzato. Al contrario, se la massa di moneta non basta allo sviluppo degli scambi, l’equilibrio potrà essere ristabilito con la messa in circolazione, se l’oro manca, di contrassegni monetari che non saranno meno rappresentativi della moneta reale se la loro origine ha una causa economica.

Se vogliamo riassumere le cause fondamentali di oscillazione dei prezzi[3] diremo: che un rialzo generale dei prezzi si realizza, da un lato attraverso un abbassamento del valore dell’oro, supponendo che il valore delle altri merci resti costante; dall’altro, attraverso un rialzo del valore di tutte le merci e fin tanto che il valore dell’oro sia costante.

Il ragionamento inverso varrà nel caso di una diminuzione generale dei prezzi.

È evidente che questa enunciazione riguarda i prezzi delle merci e non il «prezzo» dell’oro, per la semplice ragione che questo non ha prezzo in quanto moneta; il suo valore non può essere espresso nella sua sostanza, e dire che 1000 franchi sono il prezzo di 2 grammi di oro non significa nulla.

L’oro potrebbe avere un prezzo solo se potesse esprimersi in una merce specifica esercitante quella funzione di moneta che esercita lui stesso. In realtà l’oro ha tanti «prezzi» per quante sono le specie di merci con le quali si può scambiare.

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Abbiamo indicato che la merce non rappresentava un valore d’uso per il suo possessore e che, per divenirlo, bisognava che entrasse nella sfera degli scambi e che vi si realizzasse come valore di scambio. Per il proprietario essa non ha dunque valore che nella misura in cui egli può sostituirla con moneta che diverrà per lui l’equivalente generale di una merce qualunque. Come abbiamo detto, egli incomincia col trasferire il valore di scambio del suo prodotto in una quantità di oro immaginaria: gli dà un prezzo. Ma
«nell’esistenza del valore di scambio, come prezzo, o dell’oro, come misura di valore, è contenuta la necessità dell’alienazione della merce contro oro contante e la possibilità della sua non alienazione, in breve ogni contraddizione che risulta dal fatto che il prodotto è merce o dal fatto che il lavoro speciale dell’individuo privato deve, per produrre un effetto sociale, manifestarsi nel suo contrario immediato, il lavoro generale astratto».

Un disaccordo poteva dunque sorgere tra la quantità «teorica» di oro di un valore di scambio anticipato nel suo prezzo e la quantità di oro realmente ottenuta dallo scambio o prezzo mercantile. È nel crogiolo del mercato che si poteva controllare se il valore di scambio di una merce o la quantità di lavoro che essa contiene corrispondesse o no alla quantità di lavoro socialmente necessario alla sua produzione. Era il giuoco dell’offerta e della domanda, così come la concorrenza che regolavano la trasformazione del valore in valore mercantile; che riflettevano inoltre contrasti sviluppati in questo dal sistema capitalista di produzione; che affermavano l’esistenza delle differenti classi e strati sociali che si dividevano la rendita totale della Società e la consumavano, determinando con ciò l’estensione della domanda:
«l’antagonismo delle merci e della moneta è la forma astratta e generale di tutti gli antagonismi contenuti nel lavoro borghese».

Nella circolazione semplice delle merci, l’indipendenza delle due azioni – comperare e vendere – la loro non solidarietà, aprivano già possibilità di squilibrio negli scambi e segnavano la netta differenziazione fra questi e lo scambio diretto dei prodotti. Malgrado il moltiplicarsi degli acquisti e delle vendite e le metamorfosi incessanti delle merci, la moneta finiva sempre per restare fra le mani di un terzo perché il venditore di una merce non era necessariamente e nello stesso tempo l’acquirente di un’altra merce. Ma, fondamentalmente, il movente sussisteva: scambio di una merce per acquistare un’altra merce che diventasse un valore d’uso.

Il movimento delle merci se iniziava necessariamente con la vendita di un non-valore d’uso, terminava generalmente con l’acquisto di un valore d’uso che, attraverso il consumo, usciva dalla circolazione. Benché il circuito potesse essere interrotto, benché il rinnovarsi del movimento potesse non effettuarsi immediatamente, la posizione di attesa che prendeva l’oro sotto la sua forma di moneta e l’interruzione della sua funzione di mezzo di circolazione non erano che accidentali. Il conflitto fra il possessore di merci e il possessore di denaro restava dunque contenuto negli stretti limiti che gli impedivano di assumere le forme violente sorgenti nelle crisi economiche che sconquassarono poi la società capitalistica.

Era così perché l’oro, che funzionava già come misura di valore, campione dei prezzi, mezzo di circolazione, non funzionava ancora come Capitale.

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Il Capitale nacque dal denaro allorché gli scambi ebbero acquistato un grado di sviluppo che creava possibilità di arricchimento sotto forma di accumulazione di denaro.

Si accrebbe sempre più la tentazione di limitarsi ad effettuare la prima operazione della circolazione, la vendita, e di trattenerne il prodotto, il danaro. Con l’estensione degli scambi aumentò dunque anche la potenza della moneta che apparve sempre più come il rappresentante tangibile della ricchezza materiale:
«L’istinto della tesaurizzazione é, per sua natura, senza misura. Dal punto di vista della qualità e della forma, la moneta non ha limiti e resta il rappresentante generale della ricchezza materiale, perché può direttamente trasformarsi in qualsiasi merce».

Tuttavia la tesaurizzazione non ricevé un significato concreto se non quando il denaro fu convertito in capitale da un cambiamento di forma della circolazione delle merci.

Il movimento non consisté più nel trasformare merce in denaro, poi il denaro in merci, ma al contrario nel convertire il denaro in merci e queste nuovamente in denaro.

Il ciclo iniziava dunque con l’acquisto per terminare con la vendita. Ed era nel corso stesso di questo ciclo che il denaro diveniva capitale accrescendosi, nel risultato finale, di un’eccedenza, di un plusvalore che tuttavia non poteva provenire dalla circolazione medesima.

Sappiamo che fu necessario che certe condizioni fossero riunite, perché il denaro potesse divenire Capitale; che bisognò che nascesse una merce di natura particolare: la Forza-lavoro il cui uso fu creatore di valore.

Dall’apparire del Capitale, il denaro divenne non solamente un oggetto di arricchimento, ma l’oggetto per eccellenza; l’accrescimento del valore di scambio, il far fruttare il valore divenne uno scopo a sé, mentre il valore d’uso e, con esso, i bisogni persero ogni apparenza di esistenza:
«il valore sorge dalla circolazione, vi rientra, vi si mantiene e vi si moltiplica, ne esce aumentato e ricomincia senza sosta il medesimo ciclo ‹Denaro-Denaro›, il denaro che cova il denaro».

Il capitalista non può «creare» valore altro che rimettendo senza sosta il denaro in circolazione, facendolo funzionare come capitale.

Da un confronto fra le due forme di circolazione delle merci, la forma semplice e la forma capitalistica, deriva che nell’ultima il denaro-moneta come mezzo di circolazione si eclissa sempre più davanti al denaro-capitale. In un ciclo della prima forma, il denaro-moneta non faceva che circolare di mano in mano, lasciava definitivamente quella dell’acquirente per entrare in quella del venditore, e così via.

Al contrario, nella circolazione capitalista, il denaro è il punto di partenza del ciclo ed è capitale «in fieri» attraverso l’acquisto delle merci (macchine, materie prime, forza di lavoro) che, trasformate e rivendute, rientrano sotto forma di denaro ed in valore accresciuto rispetto al momento di partenza, nella tasca del capitalista che ne aveva fatto l’anticipazione. Nella forma semplice della circolazione l’acquisto completava la vendita, nella forma capitalista la vendita conclude l’acquisto. Da ciò:
«una differenza palpabile e sensibile fra la circolazione del denaro come capitale e la sua circolazione come semplice moneta»
che non era che una conseguenza della differenza fra una produzione in cui il produttore vendeva le sue merci per trasformarle in mezzi di sussistenza e la produzione capitalista in cui il consumo spariva dietro l’obbiettivo della produzione di plusvalore. Qui c’è un produttore «unico»: il capitalismo[4], ed il rapporto fra produttori individuali attraverso il mercato è sparito ed ha dato luogo ad un rapporto antagonistico fra il proletariato, detentore di una merce di natura particolare: la Forza-lavoro, creatrice di valore, ed il Capitalismo, proprietario della totalità delle altre merci (mezzi di produzione, materie industriali ed alimentari) ivi compreso l’oro, sotto il suo duplice aspetto di merce e di moneta.

E parimenti ne risulta che proprio come in un’economia mercantile precapitalista, la ripartizione del potere di acquisto e della moneta in regime capitalista non è che il riflesso della ripartizione dei prodotti merce, derivando questa dal carattere privato della proprietà.

Una differenza fondamentale tuttavia: il Capitalismo è il solo acquirente della Forza-Lavoro. Il proletariato non potrà dunque possedere moneta che nella misura in cui sarà riuscito a vendere la sua Forza-Lavoro, merce che per lui non rappresenta nessun valore d’uso, giacché egli non possiede i mezzi per metterla in azione. È il capitalismo che, consumando questa forza di lavoro, ne ricava un Valore superiore a quello che esso ha pagato sotto forma di salario e benché questo sia l’equivalente del valore della forza di lavoro. È il capitalismo che detiene la chiave del potere di acquisto dell’operaio; sono la natura e le esigenze della produzione capitalista che determinano la portata di questo potere di acquisto. Quanto al prezzo della Forza-Lavoro, come per qualunque altra merce, esso non è che l’espressione monetaria del suo valore di scambio, cioè del valore dei prodotti necessari alla sua riproduzione. Questo valore resta il cardine attorno al quale si muove il salario sotto la pressione, da una parte, dell’offerta e della domanda sul mercato del lavoro e, dall’altra, del rapporto delle forze fra la Borghesia e il Proletariato.

Va dunque da sé che, fatta astrazione dall’influenza di questi due fattori, «teoricamente» il prezzo della Forza-Lavoro subisce anche le variazioni del valore dell’oro, abbassandosi il salario quando il valore dell’oro sale e, inversamente, rialzandosi con il ribassare di questo valore. Ma la storia del passato ci insegna che una diminuzione del valore della moneta ha sempre incitato la borghesia a tentare di derubare l’operaio, portando il prezzo della sua Forza-Lavoro al disotto del suo valore.

Quando, in periodo di crisi, l’operaio è scacciato dalla sfera produttiva, si trova conseguentemente privato del potere di acquisto corrispondente al suo salario e cade sotto la dipendenza assoluta della Borghesia, che non interverrà nel costo del suo mantenimento (sotto forma di compenso di disoccupazione o di soccorso privato) che nei limiti richiesti dallo stretto minimum fisiologico.

La portata del potere di acquisto della classe operaia resta dunque strettamente condizionata alla necessità di far rendere il Capitale; ogni ampliamento di questo potere di acquisto non potrebbe che tradursi automaticamente, non in un rialzo dei prezzi delle merci (come spesso ci si immagina) ma in una diminuzione del profitto capitalista. Coloro che, in nome del Proletariato, preconizzano oggi mezzi che possano non metter capo a questa conseguenza pur permettendo di aumentare il consumo operaio, si schierano per ignoranza o per interesse a fianco della Borghesia. Come vedremo, le «politiche» monetarie non hanno altro obbiettivo che operare uno spostamento di reddito ad esclusivo profitto della classe dominante e solamente in favore della sua frazione più avanzata: il Capitale Finanziario.

Se è ben vero che la moneta è esistita ed ha rappresentato storicamente una parte più o meno importante prima che esistessero il Capitale, il Lavoro salariato, le Banche, essa però non ha potuto rivestire le forme apparentemente complesse che noi le conosciamo oggi se non sotto l’impulso dello sviluppo, su scala mondiale, della produzione capitalista e della circolazione delle merci; il biglietto di banca, l’effetto commerciale, lo chèque, non sono che strumenti imposti dal meccanismo sempre più complesso dei rapporti sociali sotto la loro forma capitalista.

Ma queste nuove forme monetarie derivarono esse stesse direttamente dal fatto che progressivamente l’oro si fece rimpiazzare, in quanto mezzo di circolazione apparente sotto forma di denaro contante, da monete metalliche con effigi e denominazioni molteplici.

Per ragioni tecniche e anche perché si consumava troppo rapidamente, l’oro si ritirò anzitutto dalle sfere della circolazione dove il corso della moneta era più attivo e più rapido e fu sostituito da monete d’argento e di rame. E il carattere simbolico di queste non apparve immediatamente, perché esse si presentavano ancora sotto un’apparenza di valore, benché non fossero più che dei rappresentanti del valore di scambio invece di essere la materializzazione di questo valore, come l’oro.

Con il biglietto di banca, non poteva esserci dubbio che esso non fosse che un contrassegno monetario rappresentativo di un valore di cui l’oro avrebbe continuato ad essere il sostegno. Ma vi è apparenza che il contrassegno di valore rappresenti immediatamente il valore delle merci perché non si presenta come contrassegno di oro, ma come contrassegno del valore di scambio, che è espresso semplicemente nel prezzo, ma che non esiste che nella merce. Ora, questa apparenza è falsa. Direttamente il segno di valore non è che il segno di prezzo, dunque segno di oro e per un rigiro soltanto, è segno del valore delle merci. L’oro acquista con la ma ombra.

Più le forme monetarie si allontanarono dalla loro base-oro più esse parvero prendere un’esistenza a sé, e più si accrebbero anche le illusioni monetarie, e ciò perché con lo svilupparsi della circolazione dei contrassegni di valori, e la progressiva sparizione dell’oro come mezzo di circolazione, all’interno di ciascuna delle economie nazionali, tutte le leggi che regolavano la circolazione della moneta reale sembrarono essere smentite e completamente sconvolte così che, al contrario dell’oro che circolava come moneta perché aveva un valore proprio, la carta acquistò valore solo perché poté circolare in quanto rappresentante dell’oro, e si arrivò a credere che questa carta aveva un valore per se stessa.

Notes:
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  1. Tutte le citazioni che seguono senza indicazione di fonte sono di Marx. [⤒]

  2. «Riforma e Rivoluzione». [⤒]

  3. Si tratta fin qui del prezzo teorico, corrispondente al valore, e non del prezzo mercantile che se ne può differenziare nel modo che vedremo. [⤒]

  4. Noi facciamo evidentemente astrazione dalla massa dei produttori indipendenti (contadini, artigiani) che esistono ancora nella società borghese, ma che sono inevitabilmente e progressivamente assorbiti dall’una o dall’altra classe fondamentale. [⤒]

si vede anche: «I problemi della moneta e la prima guerra mondiale»


Source: «Prometeo», № 3, 1946

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