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UN ESPERIMENTO DI CONTROLLO DEMOCRATICO


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Un esperimento di controllo democratico
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Un esperimento di controllo democratico

Vi condanno alla democrazia

(MacArthur ai giapponesi)

Nel pronunciare queste parole all’atto della presa di possesso dell’amministrazione del Giappone, MacArthur esprimeva qualcosa di molto più serio e storicamente decisivo di quello che poteva apparire dalla pura e semplice formulazione politica del controllo statunitense sul paese vinto. Di là dall’apparente proposito di «educare il Giappone alla democrazia», le sue parole segnavano il destino di un territorio che, da allora in poi, sarebbe passato sotto la tutela incontrastata degli Stati Uniti. La «vittoria della democrazia» trovava qui la sua espressione più limpida: era il trionfo politico ed economico statunitense su tutto il Pacifico.

In realtà, il Giappone è stato il più fecondo campo d’esperimento della dittatura politica ed economica americana. Lo svolgimento della guerra ha lasciato liberi gli Stati Uniti di colonizzare nel senso più completo e letterale della parola l’Estremo Oriente. Se in Cina (in modo affine, per quanto diverso, dalla Germania) la vittoria degli Alleati si prolunga in un’aspra lotta – di concorrenza fra i due imperialismi più direttamente interessati, quello inglese è ormai fuori combattimento in questa zona, se non come forza di rincalzo dell’imperialismo americano – il Giappone non è ormai più che il territorio di confine di un gigantesco impero che ha i suoi punti di appoggio fondamentali in una repubblica di cartapesta (le Filippine) e in un possedimento la cui fisionomia politica non è definita se non dalla lapidaria frase del comandante in capo delle forze americane. Come tutte le grandi potenze coloniali, gli Stati Uniti non hanno smantellato la struttura politica del Giappone: il Mikado è rimasto al suo posto, il governo ha cambiato faccia ma ha mantenuto la sua sostanza, i partiti politici hanno assunto denominazioni diverse solo per conservare la loro tradizionale ossatura, i grandi trust hanno perduto le penne sovrabbondanti solo per ritrovare una maggiore stabilità nel quadro della nuova economia giapponese.

Ma tutte queste istanze vivono di vita riflessa: il Mikado è MacArthur, il governo è il Supreme Commander for the Allied Powers (SCAP), i partiti sono i partiti che siedono nella Camera dei Rappresentanti di Washington. Il controllo dello SCAP è assoluto e totale; i «consigli» (Directives) che dà al governo nipponico sono una forma benevola di «ukase» e si riferiscono ai dettagli anche minimi dell’amministrazione dello Stato; la fondazione di partiti politici, l’imposizione di una tassa o di una dogana, l’eliminazione di organizzazioni politiche e l’epurazione dell’amministrazione statale, la assegnazione di cariche nell’amministrazione dello Stato, l’amministrazione ordinaria e straordinaria della giustizia, l’istruzione pubblica, il sistema delle assicurazioni sociali, l’organizzazione della polizia, la riforma terriera, la complicata materia dei diritti di pesca, il rimpatrio dei prigionieri, ecc. formano oggetto delle deliberazioni di quest’organo insieme militare e civile in cui si esprime e si sintetizza il dominio politico degli Stati Uniti sul Giappone. Lo SCAP è affiancato da un organo consultivo, l’Allied Council for Japan, costituito in base alle deliberazioni della conferenza di Mosca del 1945, che può discutere tutte le misure prese dall’autorità esecutiva su domanda di quest’ultima o di uno dei suoi membri, mentre è teoricamente sottoposta all’autorità suprema della Far Eastern Commission, le cui deliberazioni hanno valore impegnativo per il ministero degli affari esteri americano e di conseguenza per lo SCAP. Ma nel caso di quest’ultima commissione, è chiaro che si tratta di un organo strettamente affiliato alla politica americana e in cui solo la Russia può rappresentare un fattore di discussione e di critica. Quanto al governo nipponico, esso è sottoposto in tutte le sue ramificazioni provinciali e locali al controllo di ufficiali delle truppe di occupazione, mentre le rappresentanze diplomatiche sono state abolite e le potenze straniere alleate trattano, attraverso rappresentanti accreditati presso il generale MacArthur. Infine, si è previsto un periodo di occupazione di almeno 10 anni. Grazie a questo incontrastato potere di controllo, gli Stati Uniti si sono preoccupati soprattutto di tracciare invalicabili confini all’economia giapponese, di eliminare la concorrenza su tutti i settori del Pacifico e dell’Estremo Oriente in generale. Il criterio adottato è stato quello di ridurre l’attività economica ai limiti richiesti dalle strette necessità di vita della popolazione. Il Giappone può importare, sempre sotto controllo, una certa quantità di materie prime ed altri beni di cui ha bisogno per «scopi di pace», ed esportare quel tanto che è strettamente necessario per pagare le importazioni. L’importazione è dunque circoscritta alle merci e materie prime richieste per impedire la carestia, le malattie e le epidemie e per la produzione di articoli di consumo richiesti dalle truppe di occupazione: l’esportazione è strettamente regolata sia per quel che riguarda la determinazione dei prezzi, che deve avvenire sulla base dei prezzi del mercato internazionale, sia per quel che riguarda i pagamenti in valuta. Il Giappone si presenta così, sul mercato internazionale, come un’economia chiusa, che acquista appena quel tanto che occorre ai suoi cittadini per vivere e vende appena quel tanto che le occorre per pagare gli acquisti e che le maggiori potenze commerciali le permettono al fine di colmare le proprie deficienze in materie prime.

In questo commercio strettamente limitato, è naturale che gli Stati Uniti abbiano la parte del leone assorbendo l’enorme maggioranza dei prodotti giapponesi e rifornendo il paese occupato delle merci autorizzate dello SCAP. Tutte le transazioni con l’estero si svolgono per il tramite della United States Commercial Company, mentre ai rappresentanti di case commerciali degli stessi paesi alleati è stato proibito di riprendere possesso degli uffici sequestrati all’atto della dichiarazione di guerra e ai rappresentanti di paesi neutrali è stato riservato lo stesso trattamento che ai commercianti indigeni, cosicché la maggior parte di loro ha preferito ritornare in patria valendosi delle facilitazioni offerte dall’autorità occupante.

Le cifre del commercio estero nel periodo sett. 1945 – maggio 1946 dimostrano come gli Stati Uniti si siano assicurati l’effettivo controllo di tutta la vita economica giapponese:

Destinazione Import
(in migliaia di dollari)
Export
(in migliaia di dollari)
Impero britannico 55 1026
Cina 1644 766
Corea 36 7802
URSS 0 24
Stati Uniti 26 110 41 859
In complesso 27 845 51 477

In altre parole, il Giappone è divenuto il mercato di sbocco quasi esclusivo degli Stati Uniti e un loro importantissimo mercato di acquisto, e, non rappresentando più un concorrente diretto nel commercio di esportazione sui mercati del Pacifico, permette loro di sostituirglisi sia nel possesso delle posizioni precedentemente raggiunte dai nipponici, sia nell’assalto alle posizioni britanniche, australiane, indiane, olandesi. Con un’industria come quella statunitense, che ha raggiunto durante la guerra una così gigantesca capacità produttiva, che cosa non sarà possibile ottenere, anche sul terreno politico, nell’Estremo Oriente?

E quale poderosa arma non rappresenterà questa colonia militare, economica, politica, che è il Giappone, nella sorda lotta che si sta svolgendo fra Stati Uniti e Russia per il predominio in Cina? Il Giappone non può ormai più vivere che come provincia statunitense. È la sua condanna ed è insieme la sua unica possibilità di rinascita: rinascita, s’intende, in vista della guerra. «Lavorate per noi»: in questo senso si deve intendere la frase di MacArthur. La democrazia non è che la traduzione formale e giuridica dell’adeguamento della vita politica ed economica del vinto alle esigenze internazionali del vincitore. E del resto, sul piano dei rapporti e delle competizioni inter-imperialistiche, ha mai voluto dir altro la «concessione della democrazia politica»?[1] Il totalitarismo giapponese non esiste più solo perché gli si è sostituito nello stesso Giappone il totalitarismo nord-americano.

Notes:
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  1. A proposito della serietà di certe riforme in senso «democratico», basti pensare che, come osserva il «New Statesman and Nation» del 6 aprile, l’applicazione delle leggi contro i trust è stata affidata ad un governo i cui principali esponenti sono notoriamente legati alle case commerciali Mitsubishi e Mitsui, che della concessione di crediti ai coltivatori diretti sono state investite le «Associazioni contadine» notoriamente infeudate ai grandi proprietari terrieri, e che questi ultimi hanno tempestivamente provveduto a dividere le loro proprietà in lotti da 12 acri (limite massimo fissato dallo SCAP per la proprietà terriera per affidarne la coltivazione a loro uomini di fiducia). [⤒]


Source: «Prometeo», № 3, 1946

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