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PROMETEO INCATENATO


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Prometeo incatenato
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Prometeo incatenato

Al susseguirsi rapido e contraddittorio delle vicende politiche non risponde alcun tentativo di spiegazione reale di queste, ché anzi la stampa di ogni colore si affanna a mettere in luce fatti e fatterelli, più o meno marcatamente a seconda degli interessi particolari, ma sostanzialmente coll’intento di polarizzare gli ormai disattenti sguardi sullo svolgimento apparente delle vicende medesime.

Ciò appare a noi del tutto logico, tanto per le «destre» quanto per le «sinistre» dello schieramento borghese, sia che si tenga conto della loro cosciente volontà di «distrarre» l’avversario sia che si consideri invece la loro istintiva, e necessariamente siffatta, concezione generale dei fatti e degli «atti» umani, politici, economici ecc.

E non si può d’altra parte negare che questa continua presentazione di attriti tra Stati, di giuochi diplomatici, di lotte asperrime tra partiti, di scaramucce parlamentari abbia sortito il suo effetto sostenendo validamente l’azione più concreta, derivante dagli effettivi rapporti di forza, della eliminazione del proletariato dalla scena politica attuale.

Ma a noi spetta evidentemente di fare il punto sulle situazioni politiche e non soltanto con la chiarificazione delle grandi linee su cui si svolgono i processi sociali, ma anche con l’indagine degli avvenimenti, dei quali, attraverso la rigida applicazione del metodo marxista, è necessario rintracciare la reale funzione, onde armare la nostra esperienza ideologica e politica della chiara visione del divenire storico in ogni suo aspetto.

Abbiamo ora accennato alla eliminazione del proletariato dalla scena politica come al punto focale intorno al quale si delineano i diversi aspetti delle lotte politiche. In realtà questo è il fatto nuovo, fondamentale e caratteristico del moderno stadio di sviluppo della società, la quale, se ha visto marciare insieme borghesia e proletariato nel periodo della rivoluzionaria affermazione sulla precedente struttura feudale, se ha visto, nel periodo d’oro dello sviluppo dell’economia capitalistica, il graduale affermarsi della organizzazione del proletariato, ha infine visto uno sviluppo delle condizioni economiche, sociali e politiche che ha condotto o alla rivoluzione comunista e quindi alla dittatura del proletariato o alla violenta reazione e alla dittatura borghese-fascista.

In altri articoli di «Prometeo» si è chiarita la necessità storica di queste diverse fasi di sviluppo della società borghese nonché la natura del fascismo e della sua funzione di superamento della struttura cosiddetta democratica. Qui interessa soltanto vedere la peculiarità di determinati aspetti organizzativi della società odierna, parallelamente ai quali il proletariato è stato messo da parte, gli è stata tolta la forza attiva, ad esso non rimanendo ormai che la forza della sua energia potenziale cioè quella della minaccia rappresentata dal suo eventuale ricostituirsi in classe e perciò stesso in partito di classe. Insomma, nel periodo immediatamente seguente alla prima guerra mondiale il processo di accrescimento delle forze proletarie, prima contenuto e immaturo ideologicamente e organizzativamente, avvia concretamente, attraverso la costituzione e l’azione della Internazionale e dei partiti comunisti, la soluzione rivoluzionaria dei contrasti sviluppatisi nel sistema di produzione capitalistico. Il partito del proletariato, in coerenza alla sua concezione della lotta di classe, alla sua intransigenza rivoluzionaria e alla esatta impostazione dei rapporti tra situazioni oggettive e interventi soggettivi, adotta per primo una struttura organizzativa militare nella lotta politica.

La borghesia intuisce che in questo senso deve svilupparsi anche la sua azione ritorce contro il proletariato, moltiplicandola in mezzi e in capacità, l’arma che questi aveva applicato allo sviluppo storico.

L’affermazione degli stati fascisti segna esplicitamente questa fase e non ha importanza alcuna il fatto che le borghesie più forti abbiano evitato il ricorso a questi estremi di difesa limitando la loro reazione in rapporto alle ridotte possibilità rivoluzionarie presentate dalla situazione. Il principio organizzativo passava automaticamente nelle mani della classe dirigente d’ogni paese e premeva sul proletariato con altrettanta efficacia di quella dei paesi fascisti.

Si addiviene così ad una situazione nella quale i contrasti insiti al sistema di produzione capitalistico sono generalmente giunti ad un punto critico, e tuttavia ciò non produce la parallela crisi politica rivoluzionaria perché proprio attraversò l’adeguazione costantemente aggiornata dei suoi sistemi organizzativi la borghesia è finora perfettamente riuscita ad evitarla.

La nota esasperazione dei contrasti sociali non consente più in alcun paese la espressione delle forze di classe del proletariato, espressione che, per evidenti necessità obiettive, non lascerebbe alcun adito a soluzioni riformiste e non potrebbe essere ormai altro che rivoluzionaria e diretta alla conquista violenta del potere. Perciò il proletariato doveva essere eliminato come classe e a questo si è giunti altrettanto bene negli stati fascisti che in quelli democratici.

La eliminazione è naturalmente avvenuta con l’inserimento delle masse proletarie nel processo della classe avversa. Gli stati fascisti sono andati verso il popolo con gli ordinamenti corporativi; quelli democratici con i partiti comunisti e socialisti. Questo inserimento è stato facilitato dalla presenza e dall’opera dello «stato proletario» russo, ma, ove avesse un interesse ragionare coi se, non è affatto detto che le cose avrebbero seguito un esito sostanziale diverso se lo «stato proletario» non avesse agito da controproducente nel processo di accrescimento delle forze proletarie. Si può tuttavia avanzare l’ipotesi che i partiti comunisti rimasti su basi rivoluzionarie, in caso di sconfitta, o sarebbero stati posti violentemente nella illegalità, come appunto si verificò coll’avvento dello stato fascista, o gli sarebbero state tolte le possibilità determinanti nell’ingranaggio politico attuale (contrapposto a potenziale), come si è generalmente verificato e come ora si verifica nei paesi democratici nei confronti dei comunisti internazionalisti, affidando ai soli socialisti il compito di convogliare le masse proletarie sul terreno della classe borghese.

L’esame dei fatti e delle vicende politiche salienti della moderna evoluzione sociale ci consente di ravvisare la mancanza di qualunque autonomia del proletariato nei confronti di una borghesia che è organizzativamente saldissima e che manovra a suo piacere provocando volutamente la sensazione, del tutto illusoria, che le forze proletarie intervengano nella determinazione dello svolgersi delle situazioni politiche.

C’è tutto un giuoco complesso che la borghesia ha creato, tutto un irretimento abilissimo, quanto istintivo perché derivante dalla dialettica dei rapporti di forza tra le classi, che va smontato e smascherato: non, evidentemente, per il puro gusto della verità, ma perché in questo giuoco è attanagliato con la complicità dei «suoi» partiti il proletariato, ed esso deve esserne liberato se si vuole che sia posto in grado di fronteggiare le armi che la borghesia appresterà per sopravvivere alla nuova crisi da cui, forse non a lunghissima scadenza, sarà sconvolta.

Si pensi alla facilità con cui il capitalismo ha liquidato il fascismo: solo con una enorme potenza ed una struttura organizzativa imponente ci si potevano permettere questi cambiamenti di scena con tanta freschezza, se si considera che i regimi abbattuti sorsero proprio come estremo rimedio a crisi sociali che i singoli capitalismi nazionali non erano in grado di fronteggiare diversamente. E il proletariato è stato fatto partecipare soddisfatto alla trasformazione, perfettamente allineato nella credenza di perseguire i propri finì.

In questo incontrastato prepotere del capitalismo vanno fatte rientrare le mille vicende della politica attuale.

È questa l’epoca delle elezioni: la Francia, in poco più di un anno, ha chiamato i suoi cittadini alle urne otto volte! E il fenomeno specifico delle elezioni è questo: che abbiamo spesso dei parlamenti in prevalenza di «sinistra» i quali danno regolarmente vita a governi di «destra».

Il meccanismo parlamentare subisce coi regimi fascisti delle trasformazioni, soprattutto formali, e il suo funzionamento è palesemente diretto dagli organi governativi, mentre nei paesi democratici il suo totale controllo da parte della classe dirigente avviene attraverso le capillari, saldissime possibilità assicurate a questa classe da una robusta struttura organizzativa e da una lunga tradizione di potere.

La borghesia può tranquillamente permettersi di avere un parlamento «dì sinistra», pur conservando tutto l’apparato dirigente e governativo di destra: la turlupinatura avveniva in Italia nel 1922, quando Mussolini andava al governo avendo in parlamento 81 fascisti e la maggioranza socialista, come in Francia nel 1924 quando Herriot era tranquillamente sbalzato da Poincaré, come nel Belgio nel 1925 quando Vandervelde e Poullet erano soppiantati dalla destra.

E non ci si ferma qui, perché la borghesia ha superato anche questo stadio ed è arrivata a permettersi il lusso d’avere governi «di sinistra», ai quali naturalmente fa applicare i programmi «di destra». Li abbiamo in Inghilterra coi Laburisti, si era delineata in questi giorni la possibilità di averli in Francia coi comunisti, li abbiamo in forma «mista» in Italia e ormai quasi in ogni paese d’Europa.

Ciò avviene anche grazie alla trasformazione dei partiti del proletariato totalmente asserviti alla classe borghese attraverso la penetrazione opportunistica che questa vi ha operato, ma ciò che soprattutto importa è che ciò avviene fondamentalmente per la forza politica e organizzativa, nazionale e internazionale, di quella classe.

I proletari non sono, come si suol dire, ingannati; essi non eleggono i loro rappresentanti in parlamento pensando che si vadano a comportare diversamente da come in realtà faranno; essi sanno benissimo che quel comportamento è necessario in questo momento come domani continueranno tranquillamente a ritenere che un nuovo comportamento, in realtà egualmente fallimentare, sarà necessario in quel momento. C’è in sostanza una deviazione fondamentale impressa dalla borghesia al proletariato e che nei suoi aspetti più recenti segue una linea di progressiva affermazione dal dopoguerra 1918 ad oggi. I veri rappresentanti degli interessi borghesi al parlamento, e quando è necessario anche al governo, sono proprio i «rappresentanti» di quel proletariato che rivendica a sé gli organi di dominio su se stesso.

Ricalcare sulla situazione di oggi lo schema di un passato ormai lontano è falso, giacché qui non si tratta più di una marcia di avvicinamento, sia pure controllata dalla borghesia attraverso il sistema della gradualità riformista, tendente alla conquista di determinati trampolini di lancio per il momento della crisi del sistema capitalistico, e quindi parallela ad uno sviluppo economico della situazione non ancora atta a esprimere obiettivamente forze rivoluzionarie; qui si tratta invece di un processo che ha, si, le sue basi economiche, ma le ha in quanto le necessità di superare la crisi (in realtà, di prolungarla finché si può) hanno condotto il regime capitalista sul piede dell’economia di guerra, cioè di un’economia che producendo per la guerra riesce a evitare il collasso di una sovrapproduzione che la guerra – e solo la guerra – può assorbire: a questa economia, se si può dire, innaturale, prodotto artificioso e disperato della volontà di sopravvivere di un sistema, fa riscontro il perfezionamento organizzativo di cui abbiamo parlato e grazie al quale si ha una inversione del naturale processo, consistente nell’assorbimento anche organizzativo delle masse nel seno della borghesia.

Le masse proletarie, prese in questo ingranaggio grottesco nel quale, in loro nome, si applicano contro di esse tutti i provvedimenti e le tutele atti a garantire nel miglior modo il prevalere della classe avversa, non possono che sostenere i «loro» governi «di sinistra» esprimendo la subita deviazione in una affermazione che è il portato di tutto l’evolversi dei rapporti politici sotto la guida rigidissima della borghesia, che cioè «i destri farebbero peggio».

Non si tratta più, come si è detto, di un semplice inganno, perché tutte le posizioni sono rovesciate e il vigore con cui il rovesciamento è stato imposto è il prodotto diretto delle inderogabili necessità di conservazione del capitalismo; se non si capisce questa totale metamorfosi organizzativa, è impossibile porre in giusta luce tutto ciò che passa oggi sotto i nostri occhi.

Tra gli spettacoli più recenti abbiamo avuto quello di Trieste; che Trieste sia contesa tra potenze orientali e occidentali per ragioni esclusivamente imperialistiche, questo nessuno lo mette in dubbio; si potrebbe pensare che la borghesia dovesse fare chi sa quali miracolosi sforzi per persuadere «i popoli» che invece, no, si tratta di questioni soprattutto spirituali, etniche, morali ecc., onde portare il peso della pubblica opinione sulla bilancia internazionale. Invece niente; la borghesia non si scomoda oltre il solito nell’impiego di quella terminologia; un semplice ordine agli strumenti organizzativi interessati alla faccenda, e Trieste è immediatamente posta all’attenzione delle masse, in un senso o nell’altro, come un problema perfettamente aderente ai loro interessi, alle loro aspirazioni. La rivendicazione che fino a un determinato momento era propria delle «sfere reazionarie e conservatrici» diviene di colpo, senza alcun preambolo, l’oggetto della volontà e dell’azione «nazionale» del proletariato. Tranquillamente, senza dover più temere alcuna reazione, Togliatti può affermare, in un discorso ai quadri del suo partito, di aver più volte consigliato De Gasperi, a proposito di Trieste, a non rivolgersi a Occidente, dove avrebbe trovato solo delle buone parole, ma all’URSS e alla Jugoslavia che avrebbero compreso i motivi nazionali dell’Italia.

Non solo non si nasconde, ma addirittura si sprona apertamente il pieno giuoco delle affermazioni nazionalistiche. Parallelamente, queste avvengono sotto la direzione onnipotente dei grandi stati imperialistici nelle cui mani sta in definitiva la forza suprema, ordinatrice e reggitrice di tutta la impostazione organizzativa che abbiamo delineato.

I furiosi nazionalismi, serbo, croato e sloveno, sono assorbiti dal nazionalismo jugoslavo il quale cova prima nel seno dell’imperialismo inglese e poi, con l’accordo di questo, passa nella sfera russa. Le affermazioni nazionalistiche jugoslave nella competizione per Trieste raggiungono una tensione estrema e poi, di punto in bianco, gli interessi del nazionalismo «superiore», impongono all’inferiore, con una facilità pari a quella raggiunta nello imporre qualunque direzione al proletariato, il mutamento di rotta. Alla Russia serve per suoi determinati fini imperialistici che il nazionalismo jugoslavo rinunci a Trieste; e tutto, senza scosse, deve ubbidire a chi ha in mano questa formidabile forza, divisa ormai tra pochissimi strapotenti Stati padroni del mondo.

L’America, che ha invaso con le sue truppe e col suo imperio diretto o indiretto mezzo mondo, si dichiara non favorevole al governo di Franco in Spagna, ma afferma che il problema è di esclusiva pertinenza del popolo spagnolo: così si otterrà il duplice risultato di lasciare Franco al suo posto e di dare al popolo spagnolo, quando questo si sarà fatto scannare senza risparmi, e se sarà giovevole, il governo democratico che esso stesso reclamerà per farsi nuovamente e più saldamente opprimere.

In Italia, mentre Nitti va sapientemente illustrando le tre fasi di rinascita della borghesia italiana, per cui ad una fase critica di 3–4 mesi necessaria a dare allo Stato i mezzi sufficienti per le spese indispensabili, seguirà una fase di 8 anni per la rinascita su precise basi economiche e finanziarie e poi una terza in cui, aperti i traffici e gli scambi internazionali, dovremo anche pagare le riparazioni, la Conf. Gen. del Lavoro assicura il governo sul contributo dei lavoratori al successo del prestito; i lavoratori non si accontentano più di dirigere lo strumento della loro oppressione, di alimentarlo come sostanzialmente fanno, essi ed essi solo, ma vogliono anche direttamente appoggiarlo perché la borghesia a volte è… stupida e lesina allo Stato gli strumenti che servono esclusivamente a difenderlo dai proletari; e ciò non vogliono i proletari, che sopperiranno anche a questi inconvenienti… con la loro furbizia.

Tutto ciò si innesta sulla nuova funzione dello Stato che, di fronte allo sviluppo dell’economia e dei connessi rapporti sociali, presenta esigenze diverse da quelle di ieri.

Se le inevitabili contraddizioni del sistema produttivo e capitalistico hanno raggiunto un tal punto di maturazione che è impossibile per lo Stato permettere la vita del partito di classe del proletariato, è peraltro naturale, in considerazione di tutto ciò che abbiamo detto sulla «conquista», da parte delle masse, degli organi di dominio su se stesse, che il capitalismo abbia tutto l’interesse di togliere allo Stato la parvenza di suo mandatario; la responsabilità dello Stato si sdoppia consentendogli di evitare il polarizzarsi della funzione rivoluzionaria del proletariato, e questo ruolo di sdoppiamento è appunto esercitato dai partiti di massa.

Alla vita statale proprio le masse sono chiamate a partecipare e il continuo giuoco di rimbalzo tra i partiti politici è l’alimento quotidiano che, sapientemente somministrato, dà vita a questa mostruosa inversione.

Nella nuova struttura organizzativa tutte le forze del capitalismo sono realmente impegnate; e gli interessi imperialistici che determinano i movimenti sullo scacchiere politico hanno una dinamica perfettamente armonizzata con la necessità di legare le masse alla funzionalità stessa dello Stato.

In questo senso la nuova democrazia perfeziona il precedente sistema che era solo amministrativo.

In corrispondenza a questa direzione si determina il compito del partito di classe del proletariato che non può correggere o sfruttare ordinamenti esistenti, sindacali o politici, ormai organicamente ingranati nella vita dello Stato, ma soltanto violentemente distruggerli.


Source: «Prometeo», N.4, dicembre 1946

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