LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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NOVECENTO – LA CONTRORIFORMA CAPITALISTICA


Content:

Novecento – la controriforma capitalistica
1 – Fin de siècle
2 – Tra un secolo e l’altro: l’ondata revisionista
3 – Alba rossa del nuovo secolo
4 – La «stabilizzazione» capitalistica
5 – Il crollo del 1929
6 – Stalinismo e «antifascismo»
7 – Fascismo e New Deal
8 – La seconda guerra mondiale
9 – La spartizione del mondo fra le superpotenze
10 – Il sistema di Bretton Woods e il «Piano Marshall»
11 – Il marxismo rivoluzionario e i «trenta gloriosi»
12 – Le «onde lunghe» della produzione capitalistica
13 – I movimenti sociali, ovvero la maturazione della società fordista
14 – Decolonizzazione e «antimperialismo»
15 – Il punto di svolta
16 – «L’età dell’incertezza»
17 – Le conseguenze
18 – L’ulteriore crescita del capitalismo
19 – Il crollo del «socialismo reale» e il debito del «terzo mondo»
20 – Elementi per un bilancio
21 – La guerra balcanica
22 – Le conferme del marxismo
23 – Prospettive del nuovo millennio
24 – Novecento, secolo della «controriforma» capitalistica
25 – Dove va la classe operaia?
26 – Errare humanum est, perseverare diabolicum
Tavola I – Produzione Industriale USA – 1985=100
Tavola II – Capitale fisso per addetto in Francia
Tavola III – Evoluzione di salari USA in dollari costanti del 1982
Tavola IV – Addetti ai servizi sul totale della populazione attiva giapponese 1960–90
Tavola V – Disoccupati OSCE in milioni
Tavola VI – Flussi finanziari cross-border USA
Tavola VII – Salari medi americani in $ costanti del 1982
Tavola VIII – Crescita produzione mondiale in %
Tavola IX – Crescita % della produzione – confronto USA-UE-Economie asiatiche avanzate
Tavola X – Variazioni % del PIL russo
Tavola XI – Variazioni % del PIL 1991–97 in Europa dell’Est
Tavola XII – Debito estero in mld $
Notes
Source


Novecento – la controriforma capitalistica

1 – Fin de siècle

«‹Proletari di tutto il mondo, unitevi!› Solo poche voci risposero» – scrisse Engels in occasione del I maggio 1890 – «quando, sono ormai quarantadue anni, noi lanciammo al mondo queste parole, alla vigilia della prima rivoluzione di Parigi che abbia visto il proletariato avanzare rivendicazioni proprie. Ma proletari della maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale si riunirono il 28 settembre 1864 nella Associazione Internazionale degli Operai di gloriosa memoria. Certo, l’Internazionale stessa è vissuta solo nove anni. Ma proprio la giornata di oggi è il miglior testimone del fatto che la Lega eterna dei proletari di tutto il mondo fondata dall’Internazionale vive ancora, e vive più forte che mai. Poiché oggi, mentre scrivo queste righe, il proletariato d’Europa e d’America passa in rivista le sue forze mobilitate per la prima volta come un solo esercito, sotto una sola bandiera, per un solo fine prossimo: la giornata lavorativa normale di otto ore, proclamata già dal congresso di Ginevra dell’Internazionale nel 1866, e di nuovo dal congresso operaio di Parigi nel 1889, da introdursi per legge. E lo spettacolo di questa giornata aprirà gli occhi ai capitalisti e ai proprietari terrieri di tutti i paesi sul fatto che oggi i proletari di tutti i paesi si sono effettivamente uniti. Fosse Marx ancora accanto a me, a vederlo coi suoi occhi!»[1].

Fino all’ultimo, il vecchio compagno di Marx credette che la rivoluzione operaia fosse «sicuramente vicina»[2]. La socialdemocrazia tedesca, affermerà poco prima di morire, a cinque anni dalla fine del secolo, aumenta
«in modo spontaneo, costante, irresistibile, e in pari tempo tranquillo, come un processo naturale. (…) Avanzando di questo passo, per la fine del secolo avremo conquistato la maggior parte dei ceti medi della società, dei piccoli borghesi come dei piccoli contadini, e saremo diventati nel paese la forza decisiva, alla quale tutte le altre dovranno inchinarsi, lo vogliano o non lo vogliano»[3].

Engels si rendeva conto, certo, che non si sarebbe trattato di un idillio, che il capitalismo preparava una guerra mondiale nella quale
«quindici o venti milioni di uomini armati si scannerebbero e devasterebbero l’Europa come mai non fu devastata».
Egli confidava tuttavia che
«questa guerra produrrebbe il trionfo immediato del socialismo, ovvero sconvolgerebbe talmente l’antico ordine delle cose, e si lascerebbe dietro dappertutto tale un cumulo di rovine, che la vecchia società capitalistica diverrebbe più impossibile che mai»[4].

Questa visione ottimistica delle prospettive della lotta di classe era senza dubbio influenzata dalla «grande depressione» che l’economia capitalistica internazionale, a partire dal 1873, stava attraversando. e che durerà, con fasi alterne, fino alla metà degli anni '90[5], facendo avanzare al vecchio Engels l’ipotesi che la «forma acuta» delle vecchie crisi capitalistiche col loro «ciclo decennale» potesse aver lasciato il posto ad
«un alternarsi, a carattere cronico e di più lunga durata, di periodi di ripresa relativamente brevi e poco accentuati e di periodi di depressione relativamente lunghi e senza soluzione»
o, in alternativa, che il capitalismo fosse entrato
«nella fase preparatoria di una nuova crisi mondiale di inaudita violenza»[6].
Soprattutto, l’ottimismo engelsiano era più che giustificato dall’osservazione degli immensi progressi compiuti dal movimento operaio nel corso dell’ottocento. Quest’ultimo non aveva visto soltanto l’affermazione della borghesia e dell’industrialismo, l’elaborazione della dialettica hegeliana, il succedersi di scoperte come quelle di Ohm, Faraday, Hertz nel campo dell’elettromagnetismo, di Darwin, Mendel, Pasteur, Haeckel, in quello della biologia, di Mendeleev in chimica. L’utilizzo sempre più ampio del vapore – eredità del secolo precedente – e del telaio meccanico, l’epopea delle ferrovie e dei piroscafi transoceanici, assieme al mercato mondiale e al capitalismo, avevano favorito un grandioso sviluppo del movimento operaio.

In Inghilterra, esso aveva mosso i primi passi al limite del XVIII secolo, per affermarsi fin dal 1810, con lo sciopero dei minatori di Durham e con la diffusione del luddismo negli anni immediatamente successivi. Nel 1824, era già così forte da ottenere una prima revoca della legge contro le associazioni industriali dei lavoratori, nel 1830–31 da organizzarsi nazionalmente, nel 1838–39 da superare il livello tradunionista per assurgere, con il cartismo, a movimento politico, ottenendo nel 1847, alla vigilia della rivoluzione europea, le dieci ore.

Intanto – dopo il suo primo drammatico annuncio alla fine del '700 con gli «uguali» di Babeuf – nel 1831 la lotta della classe operaia aveva fatto la sua comparsa nel continente grazie al movimento dei setaioli che, a Lione, insorsero al grido di «vivere lavorando o morire combattendo!». Nel 1848, mentre il cartismo inglese è al suo apogeo, Parigi proletaria insorge sotto le bandiere comuniste di Blanqui, nel primo tentativo storico di imporre la propria dittatura di classe. Con questa ardita anticipazione il proletariato francese sostituiva quello inglese all’avanguardia del movimento operaio europeo.

La grave sconfitta della rivoluzione quarantottesca non impedì, secondo l’espressione di Marx, che i suoi affossatori divenissero i suoi «esecutori testamentari» per quanto riguarda la realizzazione dei postulati borghesi: Stato nazionale in Italia e Germania, mercato, commercio e industria ovunque. Per quanto riguarda la classe operaia, fin dal 1864, come già ci hanno detto le parole di Engels, essa fu in grado di riorganizzarsi, e su di un piano più alto, creando la sua prima «Associazione Internazionale», nei cui statuti campeggiava il concetto che
«l’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi».
La realizzazione di questa organizzazione, per molti aspetti erede di quella vecchia e ormai sciolta «Lega dei comunisti» che aveva incaricato Marx ed Engels di scrivere il maggior best-seller di tutti i tempi, stava a quel primo tentativo d’avanguardia come l’albero adulto al tenero virgulto. Non a caso, malgrado il carattere minoritario dei suoi membri nella Comune parigina del 1871, tutto il mondo borghese attribuì all’»Associazione Internazionale dei lavoratori» la responsabilità politica e morale della prima realizzazione storica di un governo operaio autonomo.

Secondo fonti di polizia (sicuramente esagerate) essa arrivò ad organizzare al massimo 800 mila membri[7], i quali, come era previsto dagli Statuti, mantenevano la loro eventuale appartenenza all’organizzazione sindacale, politica o mutualistica cui erano affiliati nei diversi paesi (ciò che faceva dall’AIL una sorta di superpartito internazionale sovrapposto alle forme locali di organizzazione operaia). Il suo «programma», ancorché redatto da Marx, era così generico da lasciare spazio ai tradunionisti inglesi, ai mazziniani, ai phroudoniani e agli anarchici. L’unica condizione richiesta era non contrastare in linea di principio gli Statuti dell’AIL ed in particolare l’idea dell’emancipazione della classe operaia. Nonostante questi limiti, che condurranno ad un susseguirsi di lotte intestine ed infine alla sua dissoluzione, la Prima Internazionale, come dirà Lenin,
«aveva gettato le fondamenta dell’organizzazione internazionale degli operai per la preparazione del loro assalto rivoluzionario contro il capitale»[8]
e, malgrado la sua crisi negli anni successivi alla guerra civile in Francia, dalle esperienze di questo primo grande partito politico internazionale proletario – che contribuì anche alla diffusione dell’organizzazione sindacale del proletariato in molti paesi – germogliarono i grandi partiti socialisti nazionali, che avrebbero impresso il loro indelebile marchio alla storia europea dell’ultimo quarto di secolo, imponendo nelle principali nazioni moderne il riconoscimento, de iure o de facto, di partiti operai indipendenti e di ampie associazioni economiche per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia.

Nel 1889, in occasione del centenario della rivoluzione francese, a Rue Petrelle il movimento socialista europeo e il proletariato americano manifestarono la volontà di avviare un coordinamento internazionale della lotta per le «otto ore» e dei partiti operai, dando vita così a quella che fu chiamata «Internazionale socialista», o «Seconda internazionale». Diciassette anni erano trascorsi dal Congresso dell’Aja che aveva sancito la dissoluzione dell’AIL. L’intervallo non era passato invano: il 1875 aveva assistito, in Germania, alla riunificazione tra la lassalliana »Associazione generale degli operai tedeschi» e il «Partito operaio socialdemocratico tedesco», di ispirazione marxista. Nel 1879 in Francia era nata, richiamandosi a Marx ed Engels, la «Fédération du Parti des Travailleurs». Il «Parti Ouvrier Belge» fu fondato nel 1885. In Italia occorrerà attendere il 1892. In ogni modo, malgrado l’eterogeneità dei singoli partiti nazionali e la labilità dei legami tra di essi (la II Internazionale era una federazione di organizzazioni autonome), lo sviluppo del movimento continuò a grandi passi, anche se sul piano quantitativo in modo più lineare che non su quello qualitativo. Non mancarono belle pagine di lotta contro il puro tradunionismo, la massoneria, il revisionismo e l’anarchismo soprattutto.

Mentre si diffondeva l’organizzazione politica autonoma del proletariato, anche quella sindacale andava mutando le sue caratteristiche: sorto in Inghilterra come organizzazione di mestiere della forza lavoro skilled, qualificata, per tenere alti i salari e difendere la professionalità dei suoi appartenenti, il sindacato operaio aveva via via palesato i limiti della sua origine, in qualche modo ancorata al passato manifatturiero; non solo essa, come Marx ed Engels più volte sottolinearono, mostrava, nella misura in cui si opponeva all’organizzazione della manovalanza, certi tratti reazionari che ne inficiavano le potenzialità classiste, ma si dimostrava sempre meno in grado di opporsi allo sfruttamento man mano che il macchinismo si impadroniva di settori sempre più ampi dell’industria, svalutando il peso della specializzazione nei processi di produzione; così l’organizzazione operaia per mestieri fu dapprima affiancata, poi via via sostituita (anche se in un processo tutt’altro che lineare e rapido) dal sindacato d’industria, che si affermerà compiutamente solo nella seconda metà del secolo successivo, con l’affermazione della gigantesca fabbrica fordista, come organizzazione di tutti gli operai di una determinata azienda e/o addirittura di una determinata branca industriale, unico modo per contrastare la pressione esercitata da un capitale sempre più centralizzato.

A cavallo tra i due secoli la forza raggiunta dal movimento operaio appariva impressionante, in particolare in Germania, la nuova avanguardia del socialismo internazionale:
«Il Partito operaio socialdemocratico tedesco conta nel 1914 1 085 905 aderenti. I suoi candidati alle elezioni legislative del 1912 hanno ottenuto più di 4 250 000 voti. I sindacati che esso ha creato e che controlla contano oltre 2 milioni di iscritti e dispongono di un reddito di 88 milioni di marchi. Intorno al partito i militanti hanno saputo tessere una vasta rete di organizzazioni parallele che inquadrano, a vari livelli, la quasi totalità dei salariati, e si estendono a tutti i campi della vita sociale: associazione delle donne socialiste, movimento giovanile, università popolari, biblioteche e centri di lettura, organizzazioni ricreative, case editrici, giornali, riviste. L’edificio poggia sulle solide fondamenta di un apparato amministrativo e tecnico competente ed efficace, esperto nei criteri moderni di gestione e di propaganda. Nei suoi novanta quotidiani il partito impiega 267 giornalisti, 3 mila operai e impiegati, gerenti, direttori commerciali, rappresentanti. La maggioranza dei dirigenti, in particolare i membri della direzione (il «Parteivorstand») e degli uffici centrali, i responsabili nei vari Stati, gran parte dei segretari delle organizzazioni locali, sono funzionari permanenti, professionisti stipendiati che lavorano a tempo pieno per il partito. Lo sono anche gran parte dei suoi rappresentanti, i 110 deputati al Reichstag, i 220 deputati che il partito conta nei diversi Landtag e i 2886 eletti nei comuni. I dirigenti delle federazioni sindacali, dei sindacati di mestiere e delle unioni locali, anch’essi funzionari da anni, sono nella quasi totalità membri del partito»[9].

Come scrisse più tardi Ruth Fischer:
«Il Partito socialdemocratico tedesco divenne un modo di vivere. Fu molto di più di una macchina politica: esso diede all’operaio tedesco dignità e rango in un suo proprio mondo. L’operaio come individuo viveva nel suo partito, il partito influenzava le abitudini quotidiane dell’operaio. Le sue idee, le sue reazioni, i suoi atteggiamenti risultavano dall’integrazione della sua persona in questa collettività»[10].

«Il partito socialdemocratico» (tedesco) – ha scritto Rosa Luxemburg«non è legato alle organizzazioni della classe operaia, esso stesso è il movimento della classe operaia»[11].

2 – Tra un secolo e l’altro: l’ondata revisionista

Questa forza immensa, questa radicata influenza non spiega solo l’incredulità che si impadronì delle sinistre socialiste allorquando, nell’agosto del 1914, i partiti della II Internazionale cedettero, ognuno per suo conto e salvo poche eccezioni, alle lusinghe della «difesa della patria», rinnegando tutti le risoluzioni e i proclami antimilitaristi e internazionalisti della vigilia; essa spiega anche la paralisi che si impadronì del movimento operaio internazionale e il modo tardivo e caotico in cui esso reagì in modo classista e rivoluzionario a quella guerra generale che Engels aveva lucidamente anticipato senza poterne tuttavia prevedere il tragico effetto sulla socialdemocrazia.

Perché proprio allorquando
«le condizioni oggettive del socialismo sono giunte a completa maturazione»[12]
la socialdemocrazia internazionale ha fatto vergognosamente bancarotta? Bisogna prima di tutto osservare che le previsioni di Engels relative al prolungarsi o aggravarsi della «grande depressione» non si erano realizzate. A partire dalla metà degli anni '90, il capitalismo, un capitalismo profondamente cambiato e caratterizzato in misura crescente da cartelli, trusts, monopoli, aveva iniziato un nuovo ciclo espansivo: l’investimento estero inglese nel 1913 superava di due volte e mezza il record precedente alla grande depressione, lo stesso era avvenuto per le esportazioni di ferro e acciaio tra il 1895 e il 1910, e, mentre le merci americane invadevano i mercati europei, le esportazioni britanniche di macchine utensili si erano più che triplicate[13]. Non è un caso dunque se proprio nel 1899, cento anni or sono, il pupillo di Engels, Eduard Bernstein, pubblicando «Die Voraussetzungen des Sozialismus»[14], dava inizio al dibattito sul cosiddetto «revisionismo»: le previsioni di Marx sul «crollo» del capitalismo e l’aumento della miseria – si legge in questa opera – si sono rivelate fallaci, la prospettiva rivoluzionaria deve perciò essere abbandonata in favore di un’opera volta ad ottenere riforme strutturali della società presente e miglioramenti immediati della condizione delle classi inferiori; il socialismo «scientifico» si era rivelato errato, e doveva essere sostituito da un socialismo etico, da un ideale da perseguire in una lenta e pacifica opera di trasformazione.

«Le condizioni obiettive della fine del secolo XIX – spiegherà Leninhanno particolarmente rafforzato l’opportunismo trasformando l’utilizzazione della legalità borghese in un atteggiamento servile dinanzi ad essa, creando un piccolo strato di burocrazia e di aristocrazia della classe operaia, attirando nelle file dei partiti socialdemocratici molti «compagni di strada» piccolo-borghesi. La guerra ha accelerato questo sviluppo, trasformando l’opportunismo in socialsciovinismo, rendendo palese l’unione segreta degli opportunisti con la borghesia. (…) La base economica dell’opportunismo e del socialsciovinismo è identica: gli interessi di un gruppo piccolissimo di operai privilegiati e di piccoli borghesi che difendono la propria situazione privilegiata, il proprio «diritto» alle briciole dei profitti ottenuti dalla «loro» borghesia nazionale col depredamento delle altre nazioni, coi vantaggi della posizione di grande potenza, ecc.»[15].

Le reazioni dell’ala «ortodossa» della socialdemocrazia, incarnata da Kautsky, secondo cui Marx non aveva elaborato alcuna semplicistica teoria del «crollo»[16], o l’appassionata difesa operata dalla Luxemburg nel 1913[17] dell’inevitabilità di quest’ultimo, non risolvevano la questione della «crisi del marximo» sollevata dal Bernstein debatte: se da un lato Kautsky riaffermava la previsione di un «cronicizzarsi» delle crisi in contraddizione con gli ultimi anni della vita economica mondiale[18], dall’altra la Luxemburg – rispondendo in particolare a chi, come Tugan-Baranovsky, rinveniva negli schemi della riproduzione del II Libro del «Capitale» la dimostrazione delle illimitate possibilità di espansione dell’economia borghese – riteneva necessario, per salvare la previsione di una fine certa del capitalismo, «correggere» Marx e la sua teoria dell’accumulazione. A suo modo di vedere il capitale poteva vivere soltanto espandendosi verso l’esterno e colonizzando le aree non capitalistiche, e sarebbe perciò caduto nella misura in cui questa possibilità si sarebbe andata progressivamente restringendo.

3 – Alba rossa del nuovo secolo

Lo scoppio della «grande guerra», confermando le previsioni engelsiane, spostò lo scontro dal piano teorico a quello immediatamente politico: nel conflitto le sinistre rivoluzionarie della socialdemocrazia videro immediatamente la conferma che il capitalismo era destinato ad una fine cruenta. D’altronde il primo conflitto mondiale fu percepito come una vera cesura storica. Nessuna delle guerre precedenti aveva avuto effetti altrettanto catastrofici: cominciata con i muli, le baionette e le cariche di cavalleria, essa offrì via via arnesi mai visti prima alla distruzione di massa: mitragliatrici, corazzate e incrociatori, sommergibili, aerei, gas, carri armati, artiglierie di ogni dimensione, proiettili di ogni formato. La società delle macchine aveva prodotto la guerra delle macchine, la sua potenza produttrice diventava potenza distruttrice. Il campo di battaglia da terreno di romantici eroismi ottocenteschi a catena di montaggio del massacro sincronizzato. L’ultima guerra ottocentesca, quella tra Germania e Francia del 1870–71, era costata 150 000 morti. Il primo giorno della battaglia della Somme, che complessivamente costò 1 200 000 vittime, gli inglesi accusarono 60 000 perdite. Alla fine della guerra non meno di dieci milioni di persone avevano perso la vita sui fronti.

Al posto dei 25 stati del 1914, dopo la pace di Versailles l’Europa ne aveva 33, risultanti dalla dissoluzione dell’impero austro-ungarico e del dominio russo sulla Polonia, la Finlandia, gli stati baltici. Le cause della guerra risalivano in ultima analisi alla concorrenza interimperialistica, ma a far da detonatore era stata la situazione dei Balcani, dove la dissoluzione dell’impero turco, oltre a risvegliare il nazionalismo serbo, greco e bulgaro, aveva acceso gli appetiti austro-tedeschi e russi verso i «mari caldi». Ma i nuovi stati slavi, in particolare la Cecoslovacchia e la Yugoslavia, erano ben lungi dall’essere stati nazionali. Come molti osservatori contemporanei osservarono (basterà citare il Keynes di «Le conseguenze economiche della pace»), le condizioni imposte alla Germania, d’altra parte, erano tali da implicare l’impossibilità di una piena normalizzazione dei rapporti le potenze.

Gli effetti non furono meno notevoli nel campo della vita sociale ed economica: tutte le energie dei singoli paesi furono gettate nel conflitto, comportando un impiego massiccio della propaganda ed un disciplinamento della vita economica senza precedenti: il laissez faire, l’idea che lo Stato doveva limitarsi ad un benign neglet nei confronti delle forze economiche, lasciate alle leggi pure del mercato, faceva ormai posto ad un dirigismo statale pervasivo.

Mentre il movimento operaio occidentale brancolava tuttavia nel buio, paralizzato dalla stessa elefantiasi del «suo» partito, solo una delle frazioni del «piccolo» e sottovalutato movimento russo, che aveva una tradizione incomparabile di lotta contro il revisionismo e l’opportunismo, che si era forgiata, all’alba del nuovo secolo, al fuoco della rivoluzione sconfitta del 1905 e temprata nel gelo della deportazione, delle carceri, dell’esilio, non volle e non poté – sospinta dall’esplosiva situazione del semi-feudale impero zarista – rassegnarsi: «Bisogna sognare!» urlò Lenin rialzando la bandiera dell’internazionalismo e chiamando a raccolta le sinistre che le erano rimaste fedeli. Audacia, audacia e ancora audacia. Di fronte agli sbigottiti e compassati socialisti up to date di Zimmerwald i bolscevichi lanciarono la parola d’ordine che – fidando sull’istinto combattivo delle masse di fronte al disastro della «grande guerra» – doveva compiere le consegne del vecchio Engels e far leva su tutto quanto di buono era rimasto della vecchia Internazionale:
«disfattismo rivoluzionario! Trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile! Fondazione di una nuova Internazionale!».

Laddove le parole di Engels erano sembrate nella sua epoca, tanto verosimili, quelle di Lenin furono accolte con incredulità, scetticismo e derisione. Eppure, l’impostazione di Lenin non era che uno sviluppo di quella engelsiana e, ben lungi dall’essere frutto di un’esaltazione utopistica, poggiava sull’analisi dei fenomeni della nuova fase che, a cavallo tra XIX e XX secolo, il capitalismo aveva intrapreso: quella dell’imperialismo. Ecco come Lenin ne descriveva i caratteri salienti:
«1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo «capitale finanziario», di un’oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche«
[19].

«L’imperialismo è il più alto grado di sviluppo del capitalismo, ed è stato raggiunto soltanto nel XX secolo. Per il capitalismo (molto prima che si parlasse di «globalizzazione»; nda) sono diventati angusti i vecchi stati nazionali (…). Da liberatore delle nazioni quale era nella lotta contro il feudalesimo, il capitalismo, nella fase imperialista, è divenuto il maggiore oppressore delle nazioni. Da progressivo, il capitalismo è divenuto reazionario; ha sviluppato a tal punto le forze produttive, che l’umanità deve o passare al socialismo o sopportare per anni, e magari per decenni, la lotta armata tra le «grandi» potenze per la conservazione artificiosa del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi e le oppressioni nazionali di ogni specie»[20].

Se il tradimento della socialdemocrazia ostacolava la realizzazione dell’ormai matura rivoluzione socialista, per contro
«la situazione rivoluzionaria obiettiva creata dalla guerra (…) genera inevitabilmente uno stato d’animo rivoluzionario, tempra ed educa tutti i proletari migliori e più coscienti»[21].
Di qui la necessità che le sinistre rivoluzionarie, rimaste sul terreno dell’internazionalismo, si riorganizzassero per far leva sui sentimenti rivoluzionari originati dalle catastrofi provocate dal conflitto.

Lo svolgimento successivo dei fatti sembrò confermare le speranze del bolscevismo. La rivoluzione russa apriva una nuova fase montante del movimento operaio, culminante nella fondazione dell’Internazionale comunista. Le previsioni del vecchio Engels parevano ad un passo dal compimento. L’idea centrale che animava i bolscevichi era quella di utilizzare l’immensa eco rivoluzionaria emanante dall’Ottobre per rilanciare l’ipotesi della rivoluzione mondiale, per unire, come disse Lenin, le «due metà spaiate» del socialismo: quella politica, presente in Russia, che mancava però per la sua arretratezza della possibilità materiale di attuare il socialismo; quella economica, presente invece nell’Europa occidentale, capitalisticamente avanzata, dove però la classe operaia e le sue avanguardie combattive si dimostravano non ancora mature per i compiti rivoluzionari. Tale unione sembrava tuttavia ad un passo. Si legge nel «Manifesto» del primo congresso della Terza Internazionale, del 1919:
«Le contraddizioni del sistema capitalistico mondiale, annidate nel suo stesso seno, si liberarono con terribile violenza in un’enorme esplosione: la grande guerra imperialistica mondiale. […] La nuova epoca è nata! È l’epoca della disgregazione del capitalismo, del suo dissolvimento interno, l’epoca della rivoluzione comunista del proletariato. Il sistema imperialistico si sfascia. Fermento nelle colonie, fermento fra le piccole nazioni prima asservite, insurrezioni del proletariato, vittoriose rivoluzioni proletarie in vari paesi, disgregazione degli eserciti imperialistici, totale incapacità delle classi dirigenti a guidare il destino dei popoli: ecco il quadro della situazione attuale nel mondo intero. Sull’umanità, la cui civiltà è stata oggi abbattuta, incombe la minaccia di una distruzione totale. Una sola forza può salvarla, e questa forza è il proletariato. L’antico ‹ordine› capitalistico non esiste più, non può più esistere. Il risultato finale del processo produttivo capitalistico è il caos, e questo caos può essere superato soltanto dalla più grande classe produttrice: la classe operaia»[22].

Nei suoi primi due anni il Comintern visse con convinzione generalizzata l’assioma che il sistema capitalistico mondiale fosse ormai irrimediabilmente disgregato e destinato ben presto a lasciare il posto, perlomeno nell’area europea, al dominio della classe operaia. Alla prova dei fatti i partiti comunisti appena nati dalla scissione delle vecchie organizzazioni socialdemocratiche risultarono poco influenti nonché numericamente e teoricamente troppo deboli per ambire al potere: l’ondata proletaria originata dall’esempio russo, dalle sofferenze di guerra e dalla crisi capitalistica del periodo immediatamente successivo, benché impressionante e ripetuta, soprattutto in area tedesca, fu respinta. Ciò consentì ai poteri borghesi, per un momento vacillanti, di riorganizzarsi anche grazie al concorso dei partiti socialisti, i cui esponenti frenarono e disorganizzarono le masse, quando non parteciparono addirittura, dal governo, alla loro repressione, come in Germania, dove il governo socialdemocratico stroncò lo spartachismo e ne assassinò i capi.

4 – La «stabilizzazione» capitalistica

A partire dal 1921, il potere comunista russo e l’Internazionale furono costretti a mutare prospettiva. Il primo si ritrovava a fare i conti con un paese ridotto alla fame e, sotto la pressione di un’ondata di scioperi delle città e di moti nelle campagne culminanti nella ribellione di Kronstadt, a passare dal «comunismo» di guerra» con cui aveva gestito l’emergenza della guerra civile ad un più stabile progetto di ripresa economica. La «Nuova Politica Economica», impossibile senza uno stabile compromesso con la maggioranza contadina della popolazione, sorgeva insomma anche dalla consapevolezza dell’impossibilità di una rapida esportazione della rivoluzione verso Occidente. Il capitalismo, riconobbero i vertici bolscevichi e dell’Internazionale, si andava «stabilizzando», ossia prometteva di durare ancora. «Dobbiamo saper resistere sino alla prossima ondata rivoluzionaria», dobbiamo durare anche «venti» o «cinquant’anni», dissero Lenin e Trotzky, e impiegare questo tempo, in Unione Sovietica per
«costruire le basi del socialismo», ossia l’industria capitalista, in Occidente per «conquistare le masse».

L’ipotesi che il capitalismo potesse durare ancora così a lungo era d’altra parte puramente teorica. Nelle condizioni di marasma economico generalizzato dei primi anni '20 nessun comunista e nessuna persona dotata di senno avrebbe potuto immaginare che il capitalismo sarebbe entrato nel XXI secolo. Ancora nel 1923, l’occupazione della Ruhr e fenomeni inauditi come la «grande inflazione» (il marco del '23 valeva un milione di milioni meno che dieci anni prima[23]) sembravano sicuro indice di un’incapacità del sistema di mettere un freno alle proprie contraddizioni, preparando altre guerre ed altre rivoluzioni.

Il sistema finanziario internazionale, in particolare, non poté mai trovare, tra le due guerre, un equilibrio soddisfacente. Il suo ubi consistam prima della guerra, il gold standard, si era ormai dimostrato inadeguato. Il tentativo operato nel '26 di porre un po’ d’ordine al sistema dei cambi fluttuanti attraverso il gold exchange standard[24] sarebbe ben presto stato travolto. Oberata dai prestiti di guerra contratti con gli USA, Londra tentò disperatamente di tenere in piedi il predominio della propria moneta che garantiva ai finanzieri della city una rendita di posizione, col risultato di aggravare la sua bilancia commerciale. La Germania di Weimar intanto, risollevatasi grazie ai dollari del piano Dawes, si trovava a sua volta finanziariamente nelle mani dello zio Sam[25]. In tutti i paesi capitalistici, l’insistenza sul regime aureo, una difesa ad oltranza della propria moneta curiosamente somigliante al monetarismo attualmente ispirato dalla Bundesbank alla Banca Centrale Europea, una depressione dei prezzi agricoli derivante anche da notevoli progressi tecnici dell’agricoltura, contribuirono a tenere alto il livello di disoccupazione e ad ostacolare gli investimenti.

In ogni modo il compito che i bolscevichi si erano prefissi si rivelò impari. Innanzitutto la classe operaia e le avanguardie rivoluzionarie dell’Occidente non si dimostrarono all’altezza della rivoluzione: qui il peso della tradizione democratica da una parte, l’influenza ancora predominante della socialdemocrazia in seno alle masse dall’altra, la minor acutezza della crisi sociale rispetto alla Russia prerivoluzionaria dall’altra ancora, ostacolarono irrimediabilmente i troppo inesperti e recenti partiti comunisti. Ma soprattutto rovinosa fu per essi la tattica, voluta anche dai bolscevichi quale manovra per guadagnare tempo e conquistare «la maggioranza» della classe, di fronte unico politico proprio con quei partiti socialisti da cui ci si era testé separati e che portavano la responsabilità, non solo di numerose sconfitte proletarie, bensì talvolta persino quella della diretta repressione del movimento operaio rivoluzionario e delle sue avanguardie comuniste, come in Germania, dove il governo socialdemocratico si macchiò del sangue di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht.

In secondo luogo in Unione Sovietica le forze del mercato e del capitalismo, che i bolscevichi intendevano tenere a bada sotto la sferza di una ferrea dittatura, si dimostrarono in realtà incontrollabili, originando nel paese uno scontro di classe tra la minoranza proletaria da un lato, il capitalismo statale e la maggioranza piccolo borghese dall’altro. Ciò si tradusse in una lunga e confusa lotta intestina al partito comunista russo, risoltasi alfine, a cavallo tra il 1926 e il 1927, nella vittoria della fazione che rappresentava le esigenze delle forze borghesi, la quale trasformò l’opera per l’edificazione delle «basi» del socialismo in «costruzione del socialismo in un solo paese». La vittoria dello stalinismo significò, in Russia la liquidazione politica e fisica della vecchia guardia bolscevica e di ogni opposizione proletaria, a livello internazionale la subordinazione del Comintern alle esigenze politiche e diplomatiche dello Stato russo. Ciò fu particolarmente evidente durante il lungo sciopero dei minatori inglesi del '26, quando i comunisti inglesi furono spinti dalla direzione dell’Internazionale a riporre fiducia nella sinistra delle Trade Unions che invece contribuì ad affossare lo sciopero, e nel 1927 in Cina, allorché la linea Bucharin-Stalin di entrismo nel Kuomintang sfociò nel massacro proletario di Shangai e nella persecuzione dei comunisti cinesi.

In terzo luogo, in particolare negli Stati Uniti, che erano usciti dal conflitto come prima potenza mondiale, l’economia capitalistica andò in realtà incontro ad un periodo di grande espansione, i «ruggenti anni venti». Alla vigilia della crisi del '29 la produzione americana superava del 65 % il livello del 1913, dal 1925 la domanda di macchinari era cresciuta del 90 %, quella di attrezzature siderurgiche del 50 %[26]. Il «consumismo», favorito anche dall’introduzione delle vendite a rate e da una pubblicità ormai martellante[27], aveva fatto la sua apparizione, negli Stati Uniti appunto, dove nel 1929 c’erano già tante automobili per abitante quante nell’Italia del 1970[28]. La riorganizzazione del lavoro industriale, designata «razionalizzazione» in Europa, «taylorismo» e «fordismo» in America, attraverso l’analisi e l’elaborazione scientifica del processo di produzione aveva conferito all’industria moderna la sua definitiva maturità.

In seno all’Internazionale la discussione sul futuro del capitalismo era stata viva. Marx a suo tempo aveva osservato che l’economia capitalistica procedeva per cicli. In ogni ciclo si susseguivano fasi di
«ristagno, di vitalità media, di precipitazione (cioè di «boom»; ndr), di crisi»[29], la quale ultima «costituisce sempre il punto di partenza di un nuovo grande investimento» e quindi, considerata la società nel suo insieme, «un nuovo fondamento materiale per il prossimo ciclo di rotazione».
«Si può supporre» – afferma Marx«che per i rami fondamentali di industria questo ciclo sia ora (corsivo nostro; ndr) in media di dieci anni»
e coincida con le fasi di rivoluzionamento e sostituzione dei mezzi di produzione dovuti alle nuove tecnologie[30]. Abbiamo già visto come, ai tempi della pubblicazione del III volume del «Capitale», Engels avesse osservato un diverso ritmo dei cicli.

Al III Congresso dell’Internazionale comunista, che aveva ammesso l’esistenza di una certa «stabilizzazione capitalistica», Trotzky, citando un’analisi del «Times», aveva osservato l’esistenza, accanto a quelli più brevi, di più lunghi cicli dello sviluppo capitalistico.

«Nei periodi di rapido sviluppo capitalistico – ne aveva concluso – le crisi sono brevi e di carattere superficiale, mentre i boom si prolungano e acquistano dimensioni considerevoli. Nei periodi di declino capitalistico. Le crisi sono di carattere prolungato, mentre i boom sono limitati, superficiali e speculativi. Nei periodi di ristagno le fluttuazioni si producono allo stesso livello»[31].

«…dobbiamo fare una netta distinzione – affermò l’anno seguente al IV congresso – tra due tipi di curve: la curva di fondo che delinea lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche, l’incremento della produttività del lavoro, l’accumulazione di ricchezza e così via, e la curva ciclica che descrive le ondate periodiche del boom e della crisi, che si ripetono, in media, ogni nove anni. La correlazione tra queste due curve non è stata sinora illustrata nella teoria marxista né, che io sappia, nella letteratura economica in generale. Eppure si tratta di una questione della più grande importanza teorica e politica«[32].

Attirando l’attenzione sull’intreccio di onde cicliche e onde lunghe della produzione capitalistica, Trotsky riprendeva in realtà una suggestione di Parvus accolta con molto interesse da Kautsky. In ogni caso, egli se ne serviva per ribadire che, al di là della parziale stabilizzazione, il capitalismo mondiale si trovava in una fase di declino e di crisi storica.

Alcuni anni dopo, Bucharin e Varga, pur senza contrapporsi direttamente all’idea leniniana che la rivoluzione russa avesse aperto la fase della vittoria mondiale del proletariato, avevano avanzato l’ipotesi che la «stabilizzazione» capitalistica avrebbe potuto essere di lunga durata, e che essa fosse in rapporto con la trasmutazione che le crisi capitalistiche avevano ormai subito nell’epoca dell’imperialismo, perdendo il loro carattere acuto per cronicizzarsi. La posizione serviva in quel momento a supporto della teoria che l’edificazione del socialismo avrebbe dovuto proseguire nella sola Russia, e fu perciò fieramente avversata dall’Opposizione di sinistra, che vedeva all’opposto nella «stabilizzazione» un fenomeno temporaneo prima di una nuova crisi rivoluzionaria[33]. Entrambe le fazioni erano in errore: la crisi mondiale era destinata di lì a poco ad esplodere con una violenza mai vista prima, ma senza rinnovare l’ondata di lotte degli anni precedenti.

5 – Il crollo del 1929

Nel fatale anno 1929, un rapporto della «Commissione per i precedenti mutamenti economici» presieduta dal presidente Hoover, dichiarava con tipica enfasi da «nuova frontiera»:
«…economicamente, si apre di fronte a noi un orizzonte sconfinato; sempre nuovi bisogni aprono la via ad altri ancora, illimitatamente, al tempo stesso in cui vengono soddisfatti (…). Si direbbe che stiamo appena sfiorando i limiti delle nostre possibilità di sviluppo«[34].

Non c’è allora da stupirsi se la grande crisi che di lì a poche settimane sarebbe scoppiata era destinata a lasciare nella memoria storica della borghesia e dei suoi nemici, i rivoluzionari, un’impressione mai più eguagliata[35]. In effetti, si trattò e si tratta ancora della più violenta e profonda mai attraversata dal capitalismo: iniziata con un memorabile crollo di borsa a Wall Street e proseguita con un violento deflusso di capitali richiamati in America dall’Europa (soprattutto dalla Germania), essa fu una vera catastrofe produttiva. Nel giro di tre anni negli USA, i più toccati, la produzione si ridusse del 55 %, negli altri paesi di una percentuale tra il 50 e il 25 %. La crisi fu davvero mondiale perché coinvolse, pure qui con effetti disastrosi, anche le colonie. Il commercio mondiale perse il 40 % del suo valore, il reddito nazionale di una serie di paesi risultò dimezzato. I prezzi delle materie prime scesero tra il 30 e il 50 %, quelli dei manufatti intorno al 30 %[36]. Mentre a causa di questa deflazione i salari degli occupati vedevano accresciuto il proprio potere d’acquisto, le masse furono colpite sul fronte di una dilagante disoccupazione: intorno al 1933, momento più acuto della crisi, il 22 % della forza lavoro inglese e belga, il 24 % di quella svedese, il 27 % di quella americana, il 29 % di quella austriaca, il 31 % di quella norvegese, il 32 % di quella danese, ben il 44 % di quella tedesca era disoccupato[37].

«Il gigantesco sistema creditizio che la classe capitalistica aveva costruito nel dopoguerra – scrive il socialista austriaco Otto Bauer nel '36 – crollò. Fu sospeso il pagamento delle riparazioni e dei debiti di guerra. Sotto forma di patti di non intervento, norme valutarie e «moratorie di trasferimento», gli stati sospesero il rimborso dei crediti a breve termine e il pagamento degli interessi e delle rate di ammortamento per i debiti esteri a lungo termine. (…) Il tesoro aureo della Banca d’Inghilterra si assottigliò, e la banca stessa sospese il rimborso in oro delle banconote, e contemporaneamente l’emissione di valuta aurea. La via era ormai tracciata: uno dopo l’altro, gli stati sospesero le emissioni in oro e lasciarono cadere il corso della moneta nazionale. Mentre pochi anni prima la moneta era stata stabilizzata con gravi sacrifici, a questo punto prese l’avvio una nuova svalutazione»[38].

Non si era mai visto nulla del genere: la «grande depressione» dell’ultimo quarto del secolo precedente, al confronto, impallidiva. Analogamente, però, la ripresa si dimostrò tardiva e incerta[39]. Bisognò attendere il 1937 perché il livello del 1929 fosse raggiunto, dopo di che la produzione scese di nuovo, pesantemente, l’anno successivo. Non molto diverso fu l’andamento negli altri paesi. In ogni modo, i dati economici di fine decennio registravano già la preparazione del secondo conflitto mondiale, con l’influenza grandeggiante delle commesse statali. Come osservava l’»Economist» appena prima dell’inizio della guerra a proposito dello Stato, «il gendarme è divenuto Babbo Natale»[40].

6 – Stalinismo e «antifascismo»

Non a caso la crisi del '29, ben lungi dal determinare una ripresa delle lotte operaie, ne costituì il funerale: dissanguata dalle sconfitte precedenti, la classe operaia si trovava inquadrata sotto l’influenza di partiti comunisti ormai solo di nome, di fatto sottomessi alla politica dello stato «sovietico». L’imponente macchina propagandistica di quest’ultimo, facendo leva sulla demoralizzazione di un movimento in ritirata, ha potuto per decenni occultare l’autentico decorso della rivoluzione russa e del movimento operaio internazionale: si doveva dimostrare che lo stalinismo rappresentava la continuità del «leninismo» e lo sviluppo del «socialismo reale». Ciò comportava intanto una profonda revisione storiografica, spinta fino alla costruzione di una colossale montatura politico-giudiziaria: nei processi di Mosca della seconda metà degli anni '30 la vecchia guardia bolscevica, l’élite rivoluzionaria comunista fu accusata di collusione col nazismo, di complotto anti-comunista; peggio, sotto le pressioni fisiche e psicologiche fu costretta ad auto-accusarsi di tali delitti, e giustiziata.

Assieme alla revisione storiografica, lo stalinismo comportò il pervertimento dei contenuti del marxismo: la rabbiosa ed economicamente fallimentare lotta contro l’influenza dei contadini agiati, la cosiddetta «dekulakizzazione», fu presentata come una tappa della collettivizzazione. Il faticoso e contrastato impianto in Russia della moderna produzione industriale capitalista attraverso l’uso massiccio e talvolta disastroso delle leve dello Stato pianificatore fu paludata da costruzione del socialismo. I piani quinquennali, annunciati a grancassa e regolarmente disattesi, divennero le tappe mediante cui scandire, da una parte la progressione di un «comunismo» allietato dal lavoro salariato, dal denaro, dalla miseria come e più del «capitalismo»; dall’altra la rincorsa ai volumi della produzione occidentale che secondo i dirigenti del Cremlino dovevano essere raggiunti e superati, confermando così la «superiorità» del sistema sovietico.

I fatti si sono ormai incaricati di dimostrare che non solo l’Occidente non è stato raggiunto, ma che il tessuto produttivo, sociale ed istituzionale dell’Unione sovietica ha finito per implodere sotto la pressione di una competizione persa in partenza in quello che è stato definito «crollo del comunismo» e che all’opposto è stato il fallimento di un capitalismo arretrato eretto «alla cosacca» sotto la sferza di un delirio pianificatore degno erede del dispotismo orientale, dilapidando a man bassa risorse umane e materie prime, inquinando e distruggendo per dotare il quadro produttivo di costosi e antieconomici impianti e le ambizioni imperialistiche di un apparato militare spropositato rispetto alle risorse a disposizione.

Le aberrazioni del «socialismo reale» hanno comportato la completa deturpazione del movimento operaio internazionale e la sterilizzazione di ogni residua potenzialità classista. Nel corso della «guerra civile spagnola» lo stalinismo, mentre portava avanti la prova generale del suo schieramento anti tedesco nella imminente guerra, non solo contribuiva politicamente alla sconfitta di una classe operaia ridotta ad alfiere della democrazia repubblicana, bensì contribuiva all’eliminazione fisica delle avanguardie combattive. Con la politica dei «fronti popolari» prima, con l’appaisement verso la Germania ai tempi del patto Ribbentrop-Molotov poi, la politica di Stalin attua una serie di sterzate prima di concretizzarsi, a partire dall’invasione tedesca dell’Urss durante il II conflitto mondiale (non prima!) nella partecipazione alla guerra a fianco degli «alleati». La «resistenza», in particolare, con la sua enorme valenza simbolica, pesa come un incubo sulle possibilità di ripresa di un futuro movimento operaio realmente autonomo: le sue pose rivoluzionarie e partigianesche hanno infatti ottenuto il risultato di offuscarne completamente il carattere di asservimento ad uno schieramento bellico imperialistico.

7 – Fascismo e New Deal

Gli effetti della grande crisi sulla politica economica degli stati borghesi era stata la definitiva messa in soffitta di ciò che rimaneva del liberalismo. Seguendo le orme del fascismo italiano, tutte le principali nazioni capitalistiche ampliarono enormemente il ruolo dello Stato nell’economia: la politica di deficit spending che, con un’inversione di 180 gradi, fu adottata per pilotare il sistema fuori dalla depressione significò un rafforzamento mai visto del potere economico e finanziario, una stretta simbiosi di quest’ultimo col potere statale, uno sforzo gigantesco di regolazione dei conflitti di classe, d’un lato erigendo una serie di garanzie sociali (welfare state) a barriera contro movimenti radicali, dall’altro attuando uno stretto controllo sulle organizzazioni sindacali, sottomettendone le dirigenze e i partiti operai con la contropartita di una loro più stretta integrazione all’apparato politico e statuale.

Con ciò lo stato borghese veniva assumendo la forma che lo caratterizzerà soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale e che resterà sua propria all’incirca fino alla fine degli anni '70. Una forma che componeva in modo originale e nuovo le spinte, fra quelle che al suo interno si erano agitate nel periodo precedente, che risultavano compatibili con la sua sopravvivenza dopo le minacce portate in successione dalle lotte operaie degli anni '20 e dalla crisi: la concentrazione del potere politico, la concentrazione del potere economico, il riformismo, la repressione del movimento operaio, l’uso spregiudicato e sistematico dei mezzi di comunicazione di massa, una politica del «consenso» in cui persino un pensiero iper-democratico come quello della «scuola di Francoforte» (Adorno, Horkheimer, Marcuse, ecc.) è riuscito a intravedere la stretta analogia con il totalitarismo fascista e nazista.

La comprensione della natura «fascista», «statalista» dell’evoluzione capitalistica dopo la prima guerra mondiale e la crisi del '29, la comprensione di quella «modernità» del fascismo che la storiografia più recente (ad es. De Felice in Italia e Hillgruber e Zitelmann in Germania) è stata costretta a riscoprire dopo decenni di amenità staliniane e gramsciane[41] sul suo carattere «retrivo», è uno dei nodi cruciali della comprensione del '900. Senza questa comprensione, senza quella, indissolubilmente collegata, della natura dello stalinismo, senza quella, a sua volta indissolubile dalle due altre, dell’»antifascismo», inevitabilmente la storia del secolo che si chiude, a partire dal primo dopoguerra, diventa caricaturale: caduta l’interpretazione à la PCUS di un «campo socialista» in espansione che si allea momentaneamente col nemico capitalista per combattere la versione più terribile e orrenda di quest’ultimo, ossia il nazi-fascismo, prima di riprendere la sua «competizione» col fronte occidentale, rimane quella del mondo della «libertà» e della «democrazia» che, capitanato da uncle Sam, sconfigge l’idra totalitaria nazi-fasci-comunista per assicurare finalmente al mondo il viver civile.

«Ciò che tramonta» – scriverà Pollock nel 1933 riflettendo sugli effetti della crisi del '29 – «non è il capitalismo, ma la sua fase liberale»[42].
Gli istituti democratici che avevano caratterizzato le rivoluzioni borghesi e il periodo progressivo di impianto del regime borghese perdevano cioè, se mai lo avevano avuto, il carattere di centri del potere – posseduto ormai da trust, imprese statali monopoli e lobbies ad essi collegate – trasformandosi in istituzioni conservative di acquisizione del consenso sociale, centri di corruzione delle classi oppresse, illuse di poter ambire alla cogestione della società attraverso il suffragio universale. Man mano infatti che il diritto di voto si diffondeva nei paesi capitalisticamente maturi, abbandonava il carattere censitario, veniva esteso alle donne, di pari passo esso perdeva ogni incidenza dirimente sulla vita politica e sociale, mentre ogni sostanziale differenza tra «destra» e «sinistra» dello schieramento parlamentare si andava perdendo nella marmellata di analoghi programmi interclassisti elaborati all’unico scopo di carpire voti attraverso promesse mai mantenute.

Quante volte nella storia del '900 la classe operaia ha sacrificato i propri obiettivi autonomi, si è spogliata della sua opposizione intransigente allo stato borghese, ha «sospeso» la lotta anticapitalista per «difendere» o «ripristinare» le libertà «democratiche», ossia le «libertà» acquisite armi alla mano dalla borghesia per imporre storicamente il proprio regime? Quante volte (Italia, Germania, Spagna nel I dopoguerra, Cile, Argentina, ecc. nel II) la «democrazia» ha con le sue nenie pacifiste e legalitarie disarmato la classe operaia di fronte alla reazione fascista?

Eppure, fin dai dibattiti della III Internazionale sul fascismo, nei primi anni '20, non era mancato chi del fenomeno aveva dato un’interpretazione che avrebbe risparmiato al movimento operaio internazionale la discesa agli inferi dei fronti «antifascisti»:
«… la borghesia – scriveva la sinistra del PCd’I nel 1921 in un articolo intitolato «Il fascismo»tenderà a spingere al massimo l’intensificazione dei due metodi difensivi, che non sono incompatibili ma paralleli. Essa ostenterà la più audace politica democratica e socialdemocratica mentre sguinzaglierà le squadre della organizzazione militare bianca per seminare il terrore nelle file del proletariato«[43].

«La genesi del fascismo – afferma al IV congresso dell’Internazionale comunista, nel 1922, anticipando di cinquant’anni le analisi cui abbiamo accennato sopra – deve (…) essere attribuita a tre fattori principali: lo Stato, la grande borghesia e le classi medie»[44].

«Il fascismo (…) è il partito unitario, ad organizzazione centralizzata e fortemente disciplinata, della borghesia e delle classi che gravitano nell’orbita di questa. È lo stato borghese-democratico, completato da una organizzazione dei cittadini. (…) i metodi della violenza reazionaria sono senza contrasto combinati alla demagogia democratica. La confluenza col riformismo è chiara»[45].

Non si doveva insomma attendere l’ultimo quarto di questo secolo per scoprire, come per lo più avviene a partire da ambienti di destra, che, allo stesso titolo del New Deal che lo segue, il fascismo realizza alcune istanze del socialismo riformista (cassa mutua, pensioni, lavori pubblici, ecc.) per assicurare il «consenso». Non a caso in Germania il fascismo si chiamerà nazional-socialismo.

(Il fascismo) «è un movimento più moderno, più raffinato, che cerca contemporaneamente di guadagnare influenza tra le masse proletarie. E a tal fine esso si impadronisce senza esitare dei principii della organizzazione sindacale«[46].

«…il fascismo deve essere considerato come una vittoria della destra borghese sulla sinistra borghese? No, il fascismo è qualcosa di più: è la sintesi di due mezzi di difesa della classe borghese«[47].

La consegna era chiara: nessuna alleanza con gli ormai anacronistici partiti democratici contro il «fascismo», nessuna nostalgia della democrazia liberale, ma lotta intransigente e contemporanea contro entrambe le forme della politica borghese.

«Si tratta di resistere alla illusione democratica, su cui pure gioca il fascismo stesso (salito al potere per via parlamentare; ndr), di contare tra i nemici le varie opposizioni (democratiche; ndr) di Sua Maestà, di lottare contro la criminosa illusione pacifista di (socialisti; nda) unitari e massimalisti. (…) La democrazia ha fatto il suo tempo. Le oche liberali, e a coro con esse le stesse aquile oggi ostentanti un antiparlamentarismo borghese e reazionario (di lì a poco, dopo il delitto Matteotti, i partiti si sarebbero infatti «ritirati sull’Aventino»; ndr), strilleranno ben altrimenti quando vedranno come tratterà la democrazia una rivoluzione non da operetta»[48].

Furono ben pochi, purtroppo, i comunisti che, forti di questa interpretazione, rimasero insensibili alle sirene «antifasciste» della guerra civile spagnola e della «Resistenza».

«Il nostro atteggiamento di fronte al fenomeno del partigianesimo» – si legge nel n. 4 del gennaio 1944 di «Prometeo», organo della sinistra comunista italiana sopravvissuta alla bufera staliniana – «è dettato da precise ragioni di classe. Nate dallo sfacelo dell’esercito, le bande armate sono, obiettivamente e nelle intenzioni dei loro animatori, degli strumenti del meccanismo di guerra inglese, e i partiti democratici le sfruttano al doppio intento di ricostruire sul territorio occupato un potenziale di guerra e di sviare dalla lotta di classe una minacciosa massa proletaria, gettandola nella fornace del conflitto».

Il risultato di questo asservimento fu durante il secondo conflitto imperialistico mondiale la vittoria dell’imperialismo più forte e più rapace, quello anglossassone, sul piano militare; la vittoria dello statalismo borghese nella sue versioni politicamente più pericolose, quella «socialista» e quella «democratica», che all’esercizio della forza e della violenza di classe potevano aggiungere, più che il fascismo e il nazismo, la carta del consenso democratico e sociale. Da questo duplice inganno, il movimento operaio non si è ancora emancipato. È questa una delle chiavi di comprensione della sua progressiva attenuazione nel corso del II dopoguerra.

8 – La seconda guerra mondiale

Basta spegnere l’audio della propaganda storiografica e osservare sullo schermo della storia gli schieramenti della seconda guerra mondiale per cogliere la realtà. Guerra delle democrazie e del socialismo alleati contro il nazi-fascismo? E come mai prima di quello che la storia considera – ma non è, non da solo – l’inizio del conflitto, Unione sovietica e Germania si spartiscono l’influenza a nord, e a est dell’Europa gli schieramenti sono ancora in gran parte quelli della «grande guerra»? Perché ancora una volta – anzi ancor di più questa volta – la Germania si trova sostanzialmente sola di fronte ad una coalizione capitanata da Londra e Washington? Perché subito dopo aver stretto la mano a Hitler, Stalin stringe quella di Roosevelt e Churchill? Perché i manuali fanno partire la seconda guerra mondiale dall’invasione tedesca della Polonia e non da quella, concomitante dei russi? Perché Francia e Gran Bretagna, dopo la spartizione della Polonia, dichiararono guerra ai tedeschi e non ai sovietici? Perché alla fine del conflitto tutti gli stati europei creati dopo la I GM furono ricostituiti, tranne gli stati baltici (annessi all’URSS) e la Germania, divisa in due? La risposta sarebbe imbarazzante, e viene ignorata anche da chi, da «sinistra», arriva magari a denunciare Dresda rasa al suolo dai bombardieri alleati o «il grande sole di Hiroschima», come espressione dell’imperialismo americano, ma si guardano bene dal prendere posizione ad es. contro la strage di Katyn, dove 11 000 polacchi furono giustiziati dall’«armata rossa» perché avevano combattuto «il movimento operaio internazionale»[49].

La II GM non fu solo, e più della I, una «guerra totale». Essa coinvolse davvero tutto il mondo: le operazioni belliche si svolsero contemporaneamente su quattro continenti (Europa, Africa, Asia, Oceania) coinvolgendoli tutti. Il numero dei morti è ancora soggetto a dispute tra gli storici, ma si può stimare che si aggiri tra le tre e cinque volte più di quelli della guerra '14-'18[50]. La novità della II GM sta comunque non tanto nell’elevato numero dei morti, quanto nella proporzione tra essi dei civili (più della metà del totale[51]: il terrore sistematico nei loro confronti attraverso deportazioni, lager, bombardamenti a tappeto, armi di sterminio di massa diviene parte integrante e addirittura preponderante della strategia bellica. Se le atomiche su Hiroshima e Nagasaki causarono (senza contare i successivi) 240 000 morti, per parte sua il bombardamento di Dresda, a Germania ormai sconfitta, rase completamente al suolo la città e ne provocò 70 000 [In realtà, i raid aerei su Dresda uccisero tra 21 000 e 25 000 persone. La figura qui riprodotta è una reliquia della propaganda nazista – sinistra.net]. Nella sola Europa tra il '39 e il '45, senza contare gli ebrei e i lavoratori non tedeschi in Germania, si calcola che i deportati ammontassero a circa 40 milioni, cui si sommarono, in seguito, 13 milioni di tedeschi[52]. La guerra del Kossovo non ha certo inventato nulla! Con tutto ciò, la generazione dei baby boomers è stata educata all’idea hollywoodiana di una guerra dei buoni contro i cattivi che, come nell’ultimo film di Benigni, parlano una lingua ostica e gutturale.

9 – La spartizione del mondo fra le superpotenze

Dal punto di vista dei rapporti interimperialistici, il risultato più rilevante del conflitto fu in realtà la vittoria di quelle che vennero definite le due superpotenze, USA ed URSS. Ma mentre la prima era davvero una potenza globale mondiale, sostenuta da un’economia e da una finanza leader nel mondo, la seconda aveva per lo più una dimensione continentale e scontava un’arretratezza economica che agli occhi del popolino della sinistra sarebbe divenuta chiara solo molto più tardi. In ogni caso i grandi sconfitti del conflitto furono il Giappone in Asia e, nel vecchio continente, non solo una Germania rimpicciolita e divisa in due ma l’Europa tutta, ormai sostanzialmente occupata militarmente al di qua e al di là della «cortina di ferro» che finì per dividere lo schieramento occidentale da quello orientale. Per questo, una lettura del dopo '45 secondo la categoria della «guerra fredda», la quale presuppone due schieramenti idealmente e socialmente antitetici, appare insoddisfacente. Se la rivalità russo-americana per il predominio in Europa fu per molti anni un dato innegabile della geopolitica (temperata tuttavia dal reciproco interesse al mantenimento del predominio nelle rispettive sfere d’influenza) molto meno convincente fu l’adesione degli stati europei alla NATO da una parte, al Patto di Varsavia dall’altra. In entrambi i casi questa adesione comportò l’allineamento alle decisioni volute dai «grandi» a Yalta e una notevole restrizione della sovranità nazionale[53].

10 – Il sistema di Bretton Woods e il «Piano Marshall»

Il 22 luglio 1944, tre giorni prima dell’offensiva finale del generale Patton contro le truppe tedesche, gli accordi di Bretton Woods segnavano, come notò Keynes, negoziatore per l’Inghilterra, la fine ufficiale del predominio finanziario inglese e l’inizio dell’era del dollaro. Ancora prima che le conferenze di Yalta e Postdam, dell’anno successivo, sancissero la spartizione geopolitica del mondo, la «pace finanziaria» fra il grande del passato, l’ormai sconfitto capitale finanziario inglese, e quello americano, trionfatore del secolo, segnavano una nuova era: spettava al dollaro, ora, la palma di moneta internazionale degli scambi. Esso era il centro del sistema di cambi fissi che, dalla fine della guerra, gli Stati Uniti cercarono di erigere attorno alla loro moneta la quale – dopo un ulteriore fallito tentativo della sterlina e una serie di pesanti svalutazioni (fino al 30 %) delle monete europee – rimase fino al 1958 l’unica convertibile in oro[54].

In ogni modo, il «blocco» occidentale poté godere i frutti del cospicuo programma di finanziamenti provenienti dagli Stati Uniti meglio noto come «piano Marshall», che contribuì a risollevare le economie europee prostrate a beneficio del capitale accumulato dall’America – che oltretutto non aveva subito distruzioni – nel corso della guerra.

Per gli Stati Uniti, che alla fine della guerra rappresentavano ormai metà della produzione industriale mondiale, l’»European recovery program» (ERP) rappresentava, da un lato il coronamento del prodominio mondiale, dall’altro una necessità; necessità perché la fine della guerra aveva innescato una brusca frenata recessiva dell’economia americana, che era stata il massimo motore del conflitto; inoltre le bilance dei pagamenti dei paesi europei erano talmente deficitarie (8 miliardi di dollari, di cui 3,75 dovuti dalla sola Inghilterra) rispetto a quella americana che non si poteva nemmeno pensare, nelle condizioni date, ad una normale ripresa delle relazioni economiche mondiali, a cui si opponevano tra l’altro le pesanti tariffe doganali ereditate dalla feroce lotta commerciale che aveva seguito dappresso la grande crisi del '29 e preceduto la guerra. Il piano di aiuti a fondo perduto annunciato il 5 giugno 1947 dal segretario di Stato americano George Marshall comportò, entro il 1951, l’esborso di 13,5 miliardi di dollari, dopo gli 11 di interventi di emergenza varati entro il 1948[55]. Grazie ad esso ed alla riduzione delle tariffe doganali innescata dal «General Agreement on Tariffs and Trade» (GATT) il sistema circolatorio del capitale mondiale poté ripartire.

11 – Il marxismo rivoluzionario e i «trenta gloriosi»

I tre decenni successivi, definiti «i trenta gloriosi» da Jean Fourastié[56], furono per il capitale mondiale di straordinario sviluppo. Tra il 1950 e il 1973, nei dodici paesi dell’«Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo» (OSCE, creata nel 1961), il tasso di crescita (vedi Tavola I) fu mediamente del 4,9 % annuo contro il 2,9 % del 1900–1913 e il 2 % del periodo 1913–1945, portando il tasso di disoccupazione al 3,5 % complessivo. Il volume del commercio mondiale raggiunse nel 1973 il 500 % di quello precedente il «venerdì nero» che aveva bruscamente interrotto gli «anni ruggenti»[57]. La produzione di manufatti del 1970 era dieci volte più alta che nel 1950![58].

Tavola I – Produzione Industriale USA – 1985=100
(fonte suppl. a «Il Programma Comunista» 2/97)

Tavola 1 – Produzione Industriale USA – 1985=100

Certo, ad un’analisi dettagliata, il periodo si dimostra non indenne da fasi di rallentamento o anche di recessione, però blande e di breve durata. Nel complesso, senza ombra di dubbio, la capacità di ripresa del capitalismo dopo la serie «grande depressione», I GM, '29, II GM, stupì persino i suoi apologeti[59], ormai tutti convertiti alle dottrine keynesiane di incentivazione del deficit di bilancio e pronti a giurare che il welfare state (che come abbiamo detto arrivò a compiuta realizzazione solo nel secondo dopoguerra) fosse una componente essenziale dello sviluppo e della stabilità del sistema.

Tavola II – Capitale fisso per addetto in Francia
(P. Villa)

Tavola 2 – Capitale fisso per addetto in Francia

Era chiaro che una tale vitalità del capitalismo, alimentata da uno straordinario aumento della produttività e del capitale costante rispetto al variabile (Tavola II), mentre smentiva ancora una volta l’ottimismo con cui i rivoluzionari degli anni '20 avevano pensato di trovarsi nella fase terminale della vita del regime borghese, poneva non indifferenti problemi di interpretazione. Avevano dunque ragione i corifei del capitale nel sostenere che esso era il «migliore dei mondi possibili»? Tanto più che esso assicurò anche un miglioramento generale delle condizioni della classe operaia che non aveva precedenti storici [60] (Tavola III).

Tavola III – Evoluzione di salari USA in dollari costanti del 1982
(fonte: E. N. Luttwak, 1998)

Tavola 3 – Evoluzione di salari USA in dollari costanti del 1982

Infatti, la visione rivoluzionaria rimaneva confinata in ambienti ristretti, affidata a gruppi di sopravvissuti del periodo glorioso della III Internazionale, i quali, dopo essersi augurati ed avere anche creduto, ancora una volta, che la fine del conflitto mondiale avrebbe potuto innescare un processo rivoluzionario simile a quello che aveva seguito «la grande guerra», si trovarono ad interrogarsi sulla capacità del marxismo di interpretare i fenomeni sociali della nuova fase capitalistica. Via via che si procedeva nel dopoguerra, diveniva evidente che le interpretazioni semplicistiche del «crollo» del capitalismo avevano fatto il loro tempo: era ad es. sempre più arduo sostenere, come la Luxemburg[61], che il capitalismo poteva sopravvivere solo a patto di espandersi verso l’esterno, distruggendo le economie precapitalistiche.

È vero che malgrado la «decolonizzazione» molte aree del mondo erano ancora ben lontane dalla produzione industriale moderna, ma era d’altra parte vero che il mercato capitalistico si era complessivamente espanso molto di più in profondità, all’interno del ristretto numero di paesi metropolitani, creando una serie di nuovi bisogni, di nuovi consumi, di nuovi stili di vita: i 40 milioni di automobili del 1948 erano divenuti nel 1971, a livello mondiale, 250. Nel 1946 iniziava l’era della televisione (il primo modello risale al 1933), quella della plastica nel 1957. Degli anni '40 sono anche le prime lavatrici. Intanto i progressi nel campo medico (la penicillina è del 1928) portavano ad un considerevole aumento della vita media (17 anni tra il 1930 e il 1969[62]), cui si sommavano gli effetti del cosiddetto baby boom. In relazione a questa crescita della «società dei consumi», gli adolescenti una componente stabile del mercato, un target, e i giovani in generale un elemento essenziale dell’»opinione pubblica»opinione. Intanto anche l’istruzione si «massificava», e nuovi stili di vita, testimoniati dall’enorme consumo della nuova musica urbana di massa, si diffondevano.

Tavola IV – Addetti ai servizi sul totale della populazione attiva giapponese 1960–90
(OCDE 1994)

Tavola 4 – Addetti ai servizi sul totale della populazione attiva giapponese 1960–90

La stessa struttura della popolazione attiva si era modificata radicalmente: ora nei grandi paesi industriali gli addetti all’agricoltura erano scesi ovunque sotto il 10 % del totale[63], controbilanciati, dapprima da un aumento degli addetti nell’industria, ma successivamente da uno straordinario incremento del settore dei servizi (Tavola IV). Ora le donne assumevano un ruolo mai visto prima nella vita economica (tra il 1940 e il 1980 le lavoratrici americane passarono dal 14 al più del 50 % della popolazione femminile, a fine millennio siamo ormai giunti al 71 % [64]).

Complessivamente, il secondo dopoguerra vide la potente affermazione di quella fase della produzione capitalistica che è stata chiamata «taylorismo» o «fordismo». In senso stretto, si trattò dell’analisi minuziosa e scientifica del processo di produzione industriale, reso possibile dalla meccanizzazione, concretizzatosi nella grande fabbrica e nel sistema della «catena di montaggio». In senso più ampio, tale sistema comportava tutta un’organizzazione della vita sociale che fosse funzionale al modo di produzione così congegnato. I grandi vantaggi della fabbrica fordista, per essere mantenuti, richiedevano grandi concentrazioni residenziali di braccia disponibili, servizi quali trasporti, asili e mense che risolvessero alcune delle incombenze sociali e famigliari delle maestranze, sincronizzazione dei tempi sociali a quelli dell’utilizzo degli impianti. La rigidità dei giganteschi impianti industriali quanto all’utilizzo della forza lavoro, che doveva essere mantenuta costantemente al di sopra di un certo livello minimo, richiedeva l’impianto di una macchina di assistenza sociale riguardante la mallatìa e l’infortunio nonché eventualmente la temporanea mancanza di lavoro (si pensi ai sussidi di disoccupazione o, in Italia, all’istituto della «Cassa integrazione guadagni»).

Tali trasformazioni, mentre confermavano – come dal marxismo predetto – l’estendersi della condizione di lavoratori salariati a strati sempre più ampi della popolazione, liquidavano storicamente le interpretazioni volgari del marxismo, spesso assunte per buone proprio dai suoi avversari per poterle smentire. Innanzitutto quella per cui nel suo corso il regime del capitale avrebbe accresciuto in assoluto la miseria delle classi lavoratrici. In realtà Marx, nel formulare la sua «legge della miseria crescente» aveva inteso dimostrare che, pur storicamente aumentando in termini assoluti, il consumo, la quota di ricchezza spettante al proletariato decresceva a paragone della ricchezza generale prodotta. Miseria relativa dunque, e non assoluta, da non raffrontare all’andamento dei profitti, il quale tende a sua volta a diminuire in percentuale del capitale complessivo, ma appunto ai valori complessivamente prodotti.

«Laddove la produzione fiorisce – scrivevano i comunisti rivoluzionari della sinistra fin dal 1951 –, per gli operai occupati tutta la gamma delle misure riformiste di assistenza e previdenza per il salariato crea un nuovo tipo di riserva economica che rappresenta una piccola garanzia patrimoniale da perdere, in un certo senso analoga a quella dell’artigiano e del piccolo contadino; il salariato ha dunque qualcosa da rischiare, e questo (fenomeno d’altra parte già visto da Marx, Engels e Lenin per le cosiddette aristocrazie operaie) lo rende esitante ed anche opportunista al momento della lotta sindacale e peggio dello sciopero e della rivolta»[65].

La crescita esponenziale del settore dei servizi, d’altronde, anche se questo divenne chiaro a tutti solo dopo la recessione del '73-'75, quando la percentuale di occupati nell’industria sul totale cominciò inesorabilmente a calare, metteva in crisi un’altra idea volgare, l’identificazione della «tuta blu» con il proletariato e la classe operaia, alla base di tanto operaismo. Diveniva inevitabile riconoscere che non solo ormai nelle ferrovie e nelle poste, ma negli ospedali, nelle scuole, nei supermercati, negli asili, crescevano categorie di lavoratori che, anche quando non direttamente produttive, concorrevano però alla valorizzazione del capitale ed erano remunerate sulla base della stessa legge del salario che presiedeva al calcolo del valore della forza lavoro produttiva. Esse appartenevano dunque a tutti gli effetti alla classe operaia, cosa che fu dimostrata puntualmente, tra gli anni '60 e '70, dal loro ingresso nel campo delle lotte sindacali, quivi talvolta più aspre di quelle negli impianti industriali, dove la maggiore tradizione sindacale consentiva un più stretto controllo della conflittualità da parte dei sindacati tradizionali, addomesticati dal regime o addirittura sempre più, secondo il modello fascista, integrati all’apparato statale ovvero, secondo quello socialdemocratico, inseriti in un sistema di «cogestione» dell’azienda.

Anche la visione di un capitalismo destinato a morire in seguito al «cronicizzarsi» delle sue tendenze alla crisi[66], o quella di «crollo» assoluto del capitalismo originata dalla caduta del saggio di profitto spinta fino all’impossibilità di assicurare la valorizzazione del capitale accresciuto (così come, ad es., l’aveva formulata Grossmann[67] alla vigilia del «venerdì nero»), erano ovviamente messe in discussione. L’unica possibilità teorica di mantenerle in piedi consisteva nel ritenere che il capitalismo fosse stato in grado di conoscere un nuovo periodo dorato soltanto a causa delle due guerre mondiali ravvicinate: le distruzioni belliche avrebbero secondo tale ipotesi temporaneamente allontanato il fatale declino «cronico» o il «crollo repentino» del capitalismo. Ma inevitabilmente, esauriti gli effetti delle guerre, il problema si sarebbe ripresentato. La discussione era comunque, in attesa di una nuova crisi capitalistica, destinata a continuare.

12 – Le «onde lunghe» della produzione capitalistica

Nel corso del dibattito degli anni '20 all’interno dell’I. C., un economista sovietico, Kondrat'ev, caduto poi in disgrazia nel periodo staliniano, aveva approfondito lo studio storico dei cicli, arrivando a confermare l’esistenza di lunghi cicli (ovvero «onde») dell’economia mondiale capitalistica[68], della durata di 50–60 anni. Più che su elementi teorici, la ricerca di Kondrat'ev si basava su elementi empirici e, malvista in Russia dove cozzava con l’idea di un capitalismo in stato comatoso senza ritorno, fu invece ripresa in seguito da economisti borghesi quali Shumpeter[69] alla fine degli anni '30. Fra i critici della teoria dei «cicli» va segnalata la presenza di Trotzky.

«Un «ciclo» – egli aveva osservato – significa fluttuazioni entro il quadro di un sistema essenzialmente immutato, mentre nel caso che stiamo considerando ogni nuova onda di mutamento tecnico si risolve in uno spostamento del sistema economico verso un nuovo stadio, qualitativamente differente, di organizzazione e di tecnica, che comporta un certo numero di mutamenti socio-economici. Le onde del progresso tecnico – che come si è visto, Trotzky stesso aveva segnalato al III e IV congresso del Comintern – si devono quindi interpretare non come cicli, ma come fasi del processo storico reversibile di sviluppo delle forze produttive che procede a sbalzi ed è accompagnato da crisi»[70].

Comunque sia, l’idea che – al di là dei più brevi alti e bassi della congiuntura – la produzione capitalistica attraversasse lunghi periodi di ascesa conclusi da più o meno lunghi e profondi periodi di depressione forniva alle poche avanguardie rivoluzionarie rimaste a continuare la riflessione teorica che era stata del Comintern non stalinizzato uno strumento dai molti vantaggi: intanto, permetteva – senza per questo passare dalla parte di quanti scommettevano sull’eternità del capitalismo – di superare le secche cui aveva portato continuare a sostenere, contro ogni evidenza, che la rivoluzione russa avesse aperto la crisi finale del capitalismo. In mancanza di strumenti migliori, l’esistenza dei «cicli» forniva inoltre una base di previsione della durata della nuova fase espansiva del capitale che si andava sempre più decisamente delineando, nonché alla convinzione che le contraddizioni capitalistiche avrebbero fatalmente portato, a termine, ad un’ulteriore fase di «crisi storica» capitalistica.

Riprendendo e rielaborando, talvolta fino a ribaltarne i risultati, i lavori degli economisti sovietici Kuczynski e Varga, i comunisti italiani di sinistra, fin dalla fine degli anni '20 estromessi dal PCI, diedero dei «lunghi cicli» dell’economia borghese un’interpretazione che sembra tener conto (fossero conosciute o meno) delle obiezioni di Trotzky. Senza avanzare cioè una «teoria» dei cicli, ma piuttosto basandosi su di una «formula, empirica () al massimo grado», si calcolava possibile un’inversione critica del ciclo espansivo capitalistico intorno alla metà degli anni '70[71]. Sulla base delle esperienze della fine del XIX secolo e della prima metà del XX, che avevano assistito al succedersi di lunghe depressioni seguite in modo più o meno ravvicinato da devastanti guerre mondiali, era logico dedurre che
«una terza guerra mondiale verrebbe dopo passata una grande crisi di interguerra della portata di quella del 1929–32»[72].
L’intervallo tra la crisi e la guerra avrebbe misurato la capacità della classe operaia internazionale di assumere l’iniziativa rivoluzionaria.

È importante sottolineare che si trattava di una posizione controcorrente. Da una parte essa andava contro la propaganda borghese e la sua pretesa di averla una volta per tutte finita con le contraddizioni del capitale, dall’altra prendeva di petto l’illusione – amplificata a dismisura dalla propaganda dei «socialismi» reali, ma ripresa da molte minoranze sedicentemente rivoluzionarie, fossero esse trotzkyste, «marxiste-leniniste» o «terzomondiste» – che malgrado tutto la «crisi» capitalistica fosse in atto, contrassegnata dall’incessante avanzare del socialismo «nazionale» in questo o quel paese. Essa prendeva dunque atto del perdurare del capitalismo, spiegava con esso le palesi deficienze della lotta proletaria internazionale, l’incapacità della classe di sottrarsi all’influenza dell’opportunismo stalinista; aveva anzi il coraggio di affermare, contro ogni «attivismo» e illusione di successo a breve scadenza, che il comunismo rivoluzionario sarebbe stato ancora a lungo condannato ad una situazione di sostanziale isolamento; pronosticava però in pari tempo l’inevitabilità della futura crisi capitalistica sforzandosi di inquadrarla temporalmente.

13 – I movimenti sociali, ovvero la maturazione della società fordista

Malgrado la straordinaria floridezza economica di quelli che Hobsbawm ha chiamato «gli anni d’oro» le contraddizioni sociali del capitalismo erano affievolite, ma non spente. Mentre nei ghetti americani si sviluppava un movimento della minoranza nera, i grandi cambiamenti sociali innescati dallo stesso sviluppo esplodevano verso la fine degli anni '60 in movimenti peculiari: gli studenti e i giovani americani dettero il segnale di partenza ad un movimento internazionale che sintetizzava una serie di spinte sociali e culturali: l’opposizione alla guerra del Vietnam, una critica dei valori tradizionali della società e della cultura occidentale (l'american way of life), la rivendicazione dell’estensione e dell’allungamento del diritto all’istruzione, della parità fra le razze ed i sessi, una reazione contro la dequalificazione del titoli di studio e del lavoro intellettuale, una vaga simpatia per le rivoluzioni antimperialiste.

Nell’insieme queste rivendicazioni e questi movimenti, anche quando facevano uso delle armi o di una fraseologia presa a prestito dalla tradizione del movimento operaio, rimanevano sul terreno di una radicalizzazione democratica compatibile ed anzi funzionale ad una società capitalistica matura, con i suoi bisogni di estendere l’istruzione, di sfruttare liberamente la forza lavoro indipendentemente dalla razza e dal sesso, in un quadro dunque di eguaglianza giuridica. Ed in effetti il movimento, anche se non ha fatto, come pretendeva di voler fare, la «rivoluzione», ha indubbiamente soddisfatto una parte dei propri presupposti: allargamento dell’istruzione, accesso delle classi medie istruite ad alcuni ruoli nel campo dell’istruzione, della politica, del giornalismo, eliminazione dei residui di legislazioni antirazziste, riforma del codice di famiglia, liberalizzazione dei costumi sessuali, diritto al divorzio e all’aborto, miglioramento generale della situazione della donna. Entro questi limiti, l’accusa che oggi viene rivolta ai leaders di quei movimenti di aver rinnegato il proprio passato per inserirsi nelle leve di comando del sistema, pur suggestiva, non coglie nel segno, proprio perché fin dagli inizi, al di là di ciò che i suoi protagonisti pensavano di se stessi, il movimento era di carattere borghese, o meglio piccolo borghese.

In un’altra circostanza storica, il malcontento delle classi medie del capitalismo maturo (ben diverse da quelle delle economie arretrate, proprietarie – come il contadino e l’artigiano – dei propri mezzi di produzione), avrebbe potuto in parte assecondare un movimento sociale generale della classe operaia. Infatti, per alcuni aspetti, quali la prestazione di lavoro dipendente, la percezione di un salario, la latente proletarizzazione, ecc., gli strati intermedi della società capitalistica matura non solo «copiano» le forme di lotta della classe rivoluzionaria, ma potrebbero, soprattutto ai livelli più bassi, condividerne alcune rivendicazioni. Per converso gli strati più elevati delle classi medie, o quelli direttamente connessi a forme parassitarie di reddito (proprietà di immobili, titoli, ecc.) rappresentano un notevole potenziale controrivoluzionario. Oscillando tra questi due estremi, la lotta delle odierne classi medie finisce inevitabilmente per orientarsi verso la classe più forte e più solida del momento storico in corso. I limiti mostrati fra gli anni '60 e '70 dal movimento della classe operaia comportarono perciò il finale riassorbimento di quello che fu chiamato «il sessantotto».

Quale fu dunque la natura del movimento operaio di quegli anni? A cavallo tra gli anni '60 e '70, un notevole risveglio della lotta operaia, benché di carattere prevalentemente tradunionista e senza mai sfuggire sostanzialmente dal controllo delle organizzazioni sindacali integrate allo stato e da quello dei partiti operai tradizionali, rappresentò un fenomeno storicamente importante, che interessò larga parte dell’Europa. Secondo lo studioso inglese R. Lumley, ad esempio, lo sciopero generale del maggio '68 in Francia fu la prima mobilitazione operaia della storia quanto a numero di ore di lavoro, mentre l «autunno caldo» del '69 italiano ne fu la terza, dopo lo sciopero generale del 1926 in Gran Bretagna[73]. La lotta della classe operaia occidentale di quegli anni, mentre smentiva l’illusione che il capitalismo potesse assicurare una perenne pace sociale, e suona conferma dell’ineluttabilità futura dello scontro lavoro salariato-capitale, permetteva al proletariato di accedere per proprio conto ad una parte del progresso sociale e della ricchezza generale, completando diciamo così «dal basso» i fattori costituitivi della società «fordista» e consolidando quella condizione di vita ormai considerata tipica del proletariato occidentale che per molti anni è parsa irrinunciabile, e che comunque ancora oggi appare l’unica degna, fatta di garanzia del posto di lavoro, leggi di tutela dei diritti sindacali, salari relativamente elevati, assistenza medica e ferie pagate, turni lavorativi di 8 ore al giorno e così via.

L’asprezza dello scontro con le vecchie forme del potere e della cultura borghese da un lato, e col padronato dall’altro, permisero qui o là un recupero o il mantenimento minoritario di un legame con le esperienze rivoluzionarie passate del movimento operaio, però nella sostanza i movimenti sociali degli anni '60 e '70 finirono per favorire il ricambio delle dirigenze politiche e sindacali, una maggiore capacità del sistema di gestire «democraticamente» il potere, una modernizzazione della società borghese tale da renderla definitivamente matura. Se un verde come Rutelli può gestire lo scempio del Giubileo e se i radicali propongono un referendum contro lo Statuto dei lavoratori, se Blair propone di farla finita col sussidio di disoccupazione e un Presidente americano pizzicato a fumar sigari con una stagista mantiene il suo scranno, non abbiamo forse la «fantasia al potere»?

È vero però altresì che scavalcando le opportunistiche dirigenze sindacali e politiche tradizionali, i lavoratori dettero vita a specifiche forme organizzative, quali i consigli di fabbrica, che, per essere l’espressione storicamente a noi più vicina della capacità di autorganizzazione operaia, meritano di essere studiate, se non altro perché vi si sono mostrate quelle carenze che la rottura del filo della tradizione di classe originata dallo stalinismo comporterà a maggior ragione – vista l’ulteriore acqua passata sotto i ponti – nel movimento futuro. Non a caso infatti esse ebbero marcato carattere spontaneista e operaista, confondendo spesso la lotta ai partiti e sindacati opportunisti con la lotta a partiti e sindacati tout court, in questo riprendendo in un contesto di assenza dell’organizzazione politica rivoouzionaria di classe le vecchie suggestioni dell’anarco-sindacalismo di inizio secolo e del consiglismo degli anni '20.

Un’altra lezione interessante di quel periodo è la capacità di recupero allora mostrata dai sindacati ufficiali, che proprio grazie ai movimenti che in quegli anni li misero in discussione, seppero rigenerare le proprie burocratizzate strutture e rinnovare le proprie bonzesche dirigenze. Anche se questo aspetto – stante l’attuale svuotamento della vita sindacale – potrebbe in futuro non avere la medesima rilevanza, alcuni segnali (ad es. la lotta dell’UPS, di cui parleremo oltre, o quella dei ferrovieri in Francia nel 1995) non permettono di escluderlo.

Certo è che il radicalismo politico sorto alla fine degli anni '60 rimase sempre un fenomeno minoritario; esso non fu tuttavia marginale, e una quota non indifferente dei proletari e dei giovani era allora solidamente convinta di trovarsi alla vigilia di una rivoluzione collettivista. Non ultima ragione di tale illusione fu l’impatto psicologico e culturale dei movimenti di liberazione nazionale sulla storia del XX secolo.

14 – Decolonizzazione e «antimperialismo»

L’idea che al di là di apparenti o temporanei successi il regime capitalistico mondiale fosse in realtà in una situazione critica, una «tigre di carta», non derivava in effetti soltanto da una sterile ripetizione delle posizioni di Lenin nei primi anni '20, ma anche dall’incomprensione del reale decorso della rivoluzione russa, vale a dire dell’impossibilità, per un arretrato paese come la Russia, di accedere isolatamente al socialismo, al di fuori di un processo rivoluzionario internazionale, abortito all’incirca dal '27.

Si è già detto di come la sottomissione dei partiti comunisti allo stalinismo avesse portato il movimento operaio occidentale al disastro. Non meno perniciosi furono gli effetti di esso sui movimenti nazionali ed antimperialisti che, soprattutto nel II dopoguerra, diedero vita ad uno dei fenomeni sicuramente più importanti del secolo, la «decolonizzazione».

Nella visione di Lenin e del II Congresso dell’Internazionale Comunista, i movimenti nazionalisti-rivoluzionari delle colonie e semicolonie sarebbero stati i naturali alleati del proletariato occidentale nella lotta contro l’imperialismo mondiale. La classe operaia, in quanto punta più avanzata di questa lotta, poneva anzi la propria candidatura alla sua guida: nei paesi avanzati lottando per il potere proletario e contro la politica imperialistica della propria borghesia, in quelli arretrati combattendo assieme ai rivoluzionari borghesi contro il dispotismo precapitalistico e il colonialismo, per la rivoluzione democratica e, ove possibile, per quella operaia e contadina. Unendo i propri sforzi a quelli dei paesi avanzati in marcia verso il socialismo, anche quelli arretrati avrebbero così potuto sperare in un rapido superamento della fase capitalistica.

Condizione di questa audace visione strategica era, da un lato che ai movimenti democratici e antimperialisti dei paesi arretrati non venisse concessa una patente comunista che era appannaggio della classe operaia, dall’altra che la minoranza proletaria di questi paesi mantenesse – come era stato in Russia, come purtroppo non era stato in Cina – la propria totale indipendenza, pronta a rivolgere le armi contro i rivoluzionari borghesi non appena raggiunti gli obiettivi comuni.

Al contrario, i movimenti antimperialisti che – dalla Cina a Cuba, dall’Indonesia al Vietnam al Medio Oriente, all’Africa – hanno segnato la storia di questo secondo dopoguerra, mentre proprio dall’influenza dello stalinismo venivano deprivati della possibilità di un corso radicale à la Lenin, ovvero alla proletaria, ornavano processi rivoluzionari democratico-borghesi moderati con iconografie e miti «socialisti» sui generis, aggiungendoli al colossale qui pro quo del socialismo sovietico.

Ciò malgrado questi movimenti costituiscono il fenomeno forse più rivoluzionario del XX secolo: essi hanno dischiuso infatti ad aree fino allora immobili il cammino, non già verso il comunismo, bensì verso la società capitalistica e la moderna lotta di classe. Forse non è così blasfemo allora che gli eroi di queste rivoluzioni borghesi, i Robespierre, i Napoleone e i Garibaldi di questo secolo, ovvero i Mao, i Che e gli Ho Chi Minh, abbiano trovato la loro degna consacrazione epica (assieme a James Dean, a Marylin Monroe o a Marlon Brando) nelle opere provocatorie di Andy Warhol e… sulle T-shirt o sulle lattine di coca (cola) dei ragazzi di tutto il mondo.

15 – Il punto di svolta

Il 15 agosto 1971 il Presidente americano Nixon informava il Fondo Monetario Internazionale, creato a guida americana a latere degli accordi di Bretton Woods, della fine della convertibilità in oro del dollaro. Non è eccessivo affermare che si trattò di una decisione epocale. Si chiude con essa infatti forse per sempre una fase della storia del denaro iniziata molti secoli fa, quando esso nacque come merce (oro, argento, ecc.), dotata di valore intrinseco, accanto alle altre merci. Se il capitale avesse dovuto procedere a suon di dobloni sonanti, se per mobilizzare l’immensa quantità di merci prodotte avesse dovuto immobilizzare un corrispondente valore in oro, la zecca e l’industria dei forzieri sarebbero i settori trainanti dell’economia e impiegherebbero più occupati dell’industria automobilistica, e i costi per il sistema sarebbero stati intollerabili. Per svilupparsi, per liberare la vulcanica produzione delle merci e il mercato in cui si scambiano dai ceppi di una moneta «forte» (costosa, farraginosa nonché mai sufficientemente elastica e calibrata secondo le necessità del ciclo), il capitalismo ha proceduto invariabilmente, con alti bassi ma invariabilmente, verso la «smaterializzazione» del denaro.

A questo fine, ha sviluppato la più potente di tutte le sue armi di compensazione delle permanenti sproporzioni esistenti sul mercato: il credito, grazie a cui, come per miracolo, domanda e offerta possono invariabilmente incontrarsi, rimanere in apparente equilibrio (ti manca denaro, il tuo lavoro non ha ancora prodotto la ricchezza che vuoi consumare? Compra a credito!). Grazie al credito è possibile alla palude del mercato assorbire il vulcano della produzione; grazie al credito lo Stato, le banche, le industrie amiche non falliscono mai; grazie ad esso la sovrapproduzione di merci da una parte e di capitali dall’altra si elidono reciprocamente. Almeno finché …c’è credito.

Il bello del credito è infatti che esso non costa nulla nell’immediato; a scadenza però obbliga a pagare un interesse; perciò il suo lato brutto è che quando l’interesse corrisposto non compensa il rischio di perdere il capitale o quando non si può più pagare nemmeno l’interesse, il credito sparisce. Ecco allora che si scopre che ci sono troppe merci da un parte, troppi capitali dall’altra… È la storia della «grande depressione» di fine '800 come di quella del '29: ad un certo punto la bolla del credito, che si autoalimenta, scoppia, e il re è nudo.

Ebbene, chi ha un conto in banca sa che il luogo sacro del credito è quello in cui, contemporaneamente, si porta e si prende il denaro. Anche i bimbi sanno che se l’assegno con cui paghiamo la Tv o la lavatrice fosse un foglietto di carta invece di essere emesso da una banca, non varrebbe nulla. Se io porto in banca 1000 lire la banca me le scrive su di un libretto e a fine anno sul libretto sarà scritto che possiedo 1100 lire. Intanto le mie mille lire sono state prestate ad un altro e sono diventate 2000 senza che alcuna merce reale sia stata prodotta. Se si tratta della Banca d’Italia, può moltiplicarle molto di più stampandole. Finché gode di credito può farlo. Gli Stati Uniti, in virtù degli accordi di Bretton Woods, godevano di credito in tutto il mondo. Che cosa ne hanno fatto? Quello che qualsiasi banchiere avrebbe fatto al posto loro. Approfittare del credito per moltiplicare all’infinito le 1000 lire. Stamparono cioè molti più dollari di quanti potessero essere ritrasformati in oro sulla base delle riserve depositate a Fort Knox.

Alla fine degli anni '60, annunciati da una serie di turbolenze monetarie (nel 1967 ci fu una memorabile svalutazione della sterlina), i nodi vennero al pettine: per quanto grande fosse il credito goduto dagli USA, il loro peso nell’economia e nel commercio mondiali non era più quello di prima. Mentre il primo era ormai passato da poco meno di metà a poco più di un quarto, le esportazioni statunitensi di manufatti sul totale mondiale erano scese dal 34 del 1960 al 19 % del 1970, laddove le esportazioni CEE valevano ormai tre volte quelle USA[74]. Le loro riserve auree si andavano rapidamente esaurendo. I pezzi di carta senza valore intrinseco con cui avevano inondato il mondo, finanziato l’economia europea e giapponese, la guerra di Corea e del Vietnam e un crescente deficit della loro bilancia dei pagamenti, finirono per ripercuotersi sulla bilancia commerciale, facendo dell’economia americana un’economia parzialmente da rentier che consuma molto di più di quello che produce. Come? Pagando con carta straccia da loro garantita le merci acquistate. Era chiaro che un simile sistema non poteva funzionare all’infinito.

«Il cambiamento avvenne negli anni cruciali 1968–73. Fu in quegli anni che i depositi nel cosiddetto mercato dell’eurodollaro o dell’eurovaluta registrarono un improvviso balzo verso l’alto seguito da venti anni di crescita esplosiva. E fu nel corso di quegli stessi sei anni che il sistema delle parità fisse tra le principali monete nazionali e il dollaro americano e tra il dollaro americano e l’oro (…) fu abbandonato in favore del sistema di cambi flessibili o fluttuanti (…). Da un lato, l’accumulazione di una massa crescente di liquidità mondiale in depositi che nessun governo controllava suscitò pressioni crescenti affinché i governi manovrassero i cambi delle rispettive monete e i saggi di interesse, in modo da attrarre o respingere la liquidità tenuta nei mercati offshore per contrastarne le carenze o gli eccessi nelle loro economie interne. Dall’altro lato, le continue variazioni dei cambi tra le principali monete nazionali e dei differenziali dei saggi di interesse moltiplicarono le opportunità a disposizione del capitale depositato nei mercati monetari offshore di espandersi grazie alle transazioni e alla speculazione in valute. Come conseguenza di questi sviluppi di vicendevole rafforzamento, a metà degli anni settanta il volume delle transazioni puramente monetarie realizzate nei mercati offshore superava già di molte volte il valore del commercio mondiale. Da allora in avanti l’espansione finanziaria divenne inarrestabile. Secondo una stima, nel 1979 il commercio di valute estere ammontava a 17,5 trilioni di dollari, più di undici volte il valore complessivo del commercio mondiale (1,5 trilioni di dollari)»[75].

Gli USA furono insomma costretti a tagliar corto con le pressioni sulla loro valuta con un semplice colpo di spugna. Avete voluto i dollari? Adesso pedalate! In mancanza di un’altra moneta in grado di sostituire il dollaro, ossia in mancanza di una moneta che godesse altrettanto credito di un dollaro sia pur svalutato e inconvertibile, il mondo fu costretto a ingoiare il rospo, a contare sconsolatamente nelle proprie tasche i tanti dollari rimastivi, e augurandosi suo malgrado, pena la rovina, che continuassero a godere di fiducia. Da allora, tutta l’economia mondiale viaggia sul credito puro, nella consapevolezza che i caveaux delle banche centrali ormai contengono quasi solo carta.

Dal punto di vista fenomenico, gli eurodollari corrispondevano ai depositi delle società (le cosiddette «multinazionali») americane all’estero e alle emissioni con cui il tesoro americano finanziava il deficit della bilancia dei pagamenti. Dal punto di vista sostanziale tuttavia, questo eccesso di moneta era l’indice che qualcosa si andava inceppando nell’economia capitalistica mondiale dopo gli anni del «boom economico», che vi era una pletora di liquidità che, invece di essere investita nella produzione, serviva ad alimentare la speculazione e il consumo parassitario. Per l’analisi marxista, una simile pletora di capitale è la manifestazione di una sovraccumulazione, di una sovrapproduzione alimentata grazie all’espandersi del credito, di una sovrapproduzione originata, in ultima analisi, dalla difficoltà del capitale liquido di trovare un impiego profittevole: in una parola, in un flettersi della curva del saggio di profitto.

Nell’immediato, il «pure dollar standard» dava agli USA un vantaggio considerevole, emancipandoli dalla necessità di equilibrare la propria bilancia dei pagamenti. A scadenza tuttavia, esso aggraverà i mali della bilancia commerciale e dei pagamenti americane.

16 – «L’età dell’incertezza»

Ancora nel 1972, una relazione dell’ONU confidava che
«non si può prevedere ora un particolare fenomeno che possa influire sul contesto operativo delle economie europee mutandolo drasticamente»[76].
Ancora una volta la borghesia andava inconsapevole verso la crisi.

Quest’ultima – in un certo senso confermando le previsioni sui lunghi cicli avanzate dai comunisti rivoluzionari della sinistra – colpì pesantemente tutti i principali paesi capitalistici a partire dal '73 e per tutto il '75. Fu preceduta, è vero, come molti autori notano, sia da un’impennata dei prezzi delle materie prime (in particolare del petrolio, il cui prezzo, già raddoppiato nei tre anni precedenti, dal 1973 al 1981, in seguito alle decisioni prese dai produttori arabi in rapporto alla guerra del Kippur e poi alla guerra Irak-Iran, passò da due a quaranta dollari[77]), sia da un notevole incremento dei salari. Anche tali fattori però possono essere ricondotti ad un fenomeno di sovraccumulazione, il parossismo che precede la crisi ben descritto da Marx. Nell’insieme, a partire dalla crisi monetaria (ossia una crisi del credito), i fatti descritti segnano indubbiamente una svolta nell’economia e nella società capitalistica mondiale. Come disse J. K. Galbraith, iniziava «l’età dell’incertezza».

Mentre la produzione dei principali paesi capitalistici calava dal 10 al 20 %, innescando la più grave recessione del dopoguerra, si verificò un fenomeno nuovo, ossia la compresenza di recessione e inflazione: questo fatto servì a smentire l’idea che le politiche keynesiane, le commesse statali, il deficit di bilancio, la stampa di carta moneta fossero di per sé sufficienti a risparmiare al capitalismo il ritorno alla depressione. Come la crisi del '29 aveva smentito i sostenitori della stabilità della moneta e dei cambi, quella del '73-'75 ha dimostrato che le recessioni non possono essere spiegate nmmeno con la mancanza di credito, di liquidità e di spesa; anche se pochi se ne sono accorti, il dibattito tra monetaristi e keynesiani è chiuso definitivamente: hanno entrambi torto. Come dice Marx, il vero limite del capitale è il capitale stesso.

La crisi del capitalismo dunque si è ripresentata, smentendo quanti avevano ipotizzato una definitiva uscita del capitalismo dal ciclo della congiuntura. Essa tuttavia non assunse l’ampiezza della crisi del '29, e questo fu uno dei motivi per cui non vi si manifestarono, come i rivoluzionari avevano sperato, una ripresa della lotta di classe.

Non l’unico, in quanto la classe operaia occidentale si trovò ad affontare la crisi inquadrata in organizzazioni che da una parte avevano una lunga tradizione di collaborazione con lo stato borghese e dall’altra, nel corso dell’ondata tradunionista degli anni precedenti, avevano acquisito una credibilità ed un rafforzamento considerevoli. Tradita dai propri dirigenti la classe lavoratrice dei paesi occidentali andò incontro ad alcune gravi sconfitte, come nel 1981 avvenne ai controllori di volo americani e agli operai della Fiat in Italia, e nel 1984 ai minatori inglesi. A sua volta, nei paesi dell’Est europeo, questa volta coinvolti dalla crisi generale (Polonia 1980, minatori rumeni, ecc.), dove lunghi anni di «socialismo reale» avevano fatto sorgere una radicale avversione alle stesse idee di «lotta di classe» e «comunismo», il malcontento sociale si indirizzò verso la rivendicazione di un accesso ai paradisi della civiltà occidentale. Se quello era il «socialismo», tanto valeva adottare il capitalismo…

17 – Le conseguenze

A) Aumento della disoccupazione

Le conseguenze di questa crisi sono state di enorme importanza: innanzitutto la fine del «pieno impiego» (Tavola V). Da allora un’elevata disoccupazione, particolarmente giovanile, proprio come tra le due guerre mondiali e anche di più, è diventata un elemento strutturale delle economia capitalistiche evolute, che soltanto negli USA, e nel più recente periodo, ha dato segni, molto contraddittori, di reversibilità.

Tavola V – Disoccupati OSCE in milioni
(OSCE)

Tavola 5 – Disoccupati OSCE in milioni

Bisogna dire che molti la attribuiscono, più che ad una tendenza intrinseca all’evoluzione del capitalismo di fine secolo, al risorto monetarismo dei governi occidentali negli ultimi due decenni. L’inflazione a due cifre che aveva caratterizzato gli anni '70 aveva infatti determinato un rovesciamento delle politiche keynesiane per quanto riguarda la moneta e la spesa pubblica per i servizi sociali. Con l’arrivo della Thatcher (1979) di Reagan (1980) alla guida dei governi inglese e americano, anche se il sostegno finanziario all’economia rimaneva forte, il monetarismo diveniva di nuovo, come ai tempi di Montagu Norman, la dottrina ufficiale del capitalismo. Abbandonata la politica di svalutazione del dollaro tesa a stimolare le esportazioni, dall’1,72 del 1980, il tasso di interesse americano fu portato al 15 per cento del 1981, col risultato che il cambio del dollaro raddoppiò rispetto al marco, contribuendo ad una nuova «mini» recessione economica intorno al 1982. Nello stesso anno la crisi finanziaria si abbatté di nuovo sui mercati nella forma dell’impossibilità di molti paesi del terzo mondo, in particolare dell’Est europeo e dell’America Latina di far fronte agli enormi deficit accumulati (spesso appunto in dollari ora rivalutati) verso i paesi creditori. Ciò trascinò con sé un peggioramento dei conti delle banche americane e il fallimento di alcune di esse. Per un momento, il mondo parve sull’orlo di una crisi bancaria catastrofica.
«Ogni crisi finanziaria» – riconosce Soros«è infatti preceduta da un’espansione del credito fino a limiti insostenibili»[78].
La finanza keynesiana dell’era Carter aveva portato vicini al collasso.

B) La «finanziarizzazione» dell’economia

Per non strangolare l’attività economica, la ricetta fu: diminuzione della spesa pubblica, particolarmente quella dedicata al welfare state, detassazione dei redditi elevati e dei capitali, deregulation dei movimenti di quest’ultimi. Gli stimoli alla domanda così creati si concretizzarono, com’è ovvio, in un enorme deficit della bilancia commerciale americana, cui corrispondeva però un saldo attivo della bilancia dei pagamenti a causa dei capitali attirati nelle piazze finanziarie yankees dall’elevata remunerazione dei bonds americani, ed una crescita esponenziale del commercio dei titoli, sia obbligazionari che, sempre più, azionari. Da maggiore paese creditore del mondo, gli Stati Uniti divennero il maggiore debitore. Malgrado i vantaggi sul fronte delle esportazioni, le economie europea e giapponese, minacciate dal deflusso di capitali, dovettero agire a loro volta al rialzo sui propri tassi di interesse. Gli europei si sono sforzati di rispondere alla dittatura del dollaro con la costruzione della moneta europea, che ha significato l’adozione delle stesse politiche economiche del capitalismo anglosassone. A partire dagli anni '80 i paesi sviluppati hanno assistito perciò ad una spettacolare diminuzione dell’inflazione.

Comunque, nel 1985 Washington decideva che il dollaro era troppo forte e minacciava la struttura industriale degli States (erano gli anni in cui la stampa era zeppa di articoli sul «declino americano» e sulla «deindustrializzazione» di certi settori, come ad es. l’acciaio, e di intere aree produttive, come quelle minerarie), decidendo una graduale riduzione dei tassi d’interesse, attuata a partire dall’»accordo del Plaza» a New York nell’ambito del G-7[79]. Il dollaro non calò tuttavia in modo netto, e la tendenza generale della bilancia commerciale americana non mutò. Tuttavia la diminuzione graduale del tasso d’interesse determinò l’esplosione di Wall Street, fino al primo crollo del 1987, allorquando la borsa americana perse in un giorno il 22,6 per cento, più che non nel famigerato «venerdì nero» dell’ottobre 1929.

Al di là dei motivi squisitamente tecnici che possono concorrere a spiegare una situazione per molti aspetti paradossale (come il fatto che l’elevata domanda di dollari dovuta alla crescita dell’economia asiatica ha contribuito a mantenerne alto il corso, mentre è noto che il tasso d’interesse è inversamente proporzionale all’andamento della borsa) è del tutto evidente che l’enorme aumento delle transazioni finanziarie da allora in corso diventa inspiegabile senza collegarlo alla speculazione, la quale a sua volta appare un segno di quella sovraccumulazione di capitale di cui abbiamo già parlato. È sufficiente paragonare la crescita della borsa americana con l’andamento della crescita economica per rendersi conto che siamo in presenza di una bolla speculativa di enormi proporzioni. Dal 1982 al massimo livello delle quotazioni del 1987 Wall Street crebbe del 927 %[80], contro il 50 % del PIL[81]. Dai 1937 punti del 19 ottobre di quell’anno, all’indomani del crollo, ad oggi essa è giunta a qualcosa come più di 11 000, tanto che sono molti a scommettere su di un suo imminente disastroso crollo[82]. Se è vero infatti che senza creazione di ricchezza e di valore non vi può essere speculazione finanziaria, e che essa è tanto più parossistica quanto maggiori sono le attese di profitto delle società i cui titoli vengono scambiati sul mercato, è altrettanto vero che ormai l’ammontare del capitale fittizio globale (Tavola VI) ha raggiunto un valore che è un multiplo enorme delle transazioni reali di beni e servizi. Già nel 1993 i flussi finanziari mondiali superavano questi ultimi di 50 volte, con transazioni giornaliere sul mercato dei cambi dell’ordine di 900 miliardi di dollari; nel 1991 il montante dei crediti internazionali rappresentava il 44 % del PIL dei paesi dell’OSCE contro il 4 % di dieci anni prima e nello stesso periodo le negoziazioni sul mercato dei titoli erano passate da 120 a 1400 miliardi di dollari [83]. Oggi negli Stati Uniti la capitalizzazione di borsa ha raggiunto il 150 % del Prodotto interno lordo, tre volte di più che dieci anni prima; nel contempo la percentuale degli americani che investe in borsa è salita dal 21 % del 1990 al 43 % attuale, e il loro portafoglio azionario è passato dall’8 % delle loro attività nel 1984 al 25 %[84]. Ma non è finita: i consumi sono mantenuti elevati anche grazie ad un indebitamento senza precedenti delle famiglie americane, giunto ormai all’89 % del loro reddito[85]. Secondo alcune stime il debito mondiale complessivo (stati, famiglie e imprese) è passato sta crescendo ad un ritmo tre volte più rapido del PIL mondiale. «Un gigantesco vulcano che potrebbe in qualsiasi momento entrare in eruzione»[86].

Tavola VI – Flussi finanziari cross-border USA – Goldman Sachs

Tavola 6 – Flussi finanziari cross-border USA

Tra gli analisti vi è ormai larga convergenza sul fatto che i cosiddetti mercati finanziari off-shore, ossia i «paradisi fiscali» come le isole Cayman o le Bahamas, ma anche Hong Kong e Singapore, maneggino capitali di entità tale da poter vanificare qualsiasi sforzo di controllo, anche concertato, delle banche centrali. A loro volta i fondi di investimento, in particolare i famigerati hedge fund – che secondo alcune valutazioni segnano attivi dell’ordine di 30 mila miliardi di dollari, ossia il prodotto annuale dell’intero pianeta[87]riescono, con operazioni allo scoperto molto rischiose, a determinare flussi finanziari potenzialmente destabilizzanti i quali, in caso d’insuccesso, minacciano di trascinare tutto il sistema finanziario mondiale nel panico, come allorquando la recente crisi russa mise in ginocchio l’hedge fund LTCM, precipitosamente salvato dalla Federal Reserve e da un consorzio di banche americane[88] ad un passo da un collasso finanziario internazionale di proporzioni inimmaginabili[89].

C) La crescente instabilità finanziaria

Non sorprende dunque che dopo il «big crash» del 1987, l’instabilità finanziaria sia divenuta una componente permanente dell’economia mondiale: nel 1989 le borse di tutto il mondo vissero altre giornate di passione, nel 1994 la crisi debitoria messicana creò il panico nei mercati finanziari, obbligando il FMI e gli Stati Uniti ad intervenire quali pagatori di ultima istanza. Infine, nel 1997 una crisi sia valutaria sia borsistica paragonabile, per valore di capitali bruciati, a quella del '29, ha investito l’Asia, annullando in pochi mesi tra il 90 e il 60 % dei valori delle quotazioni[90], facendo tremare tutta l’economia mondiale; nel '98 prima la crisi del rublo e poi quella della finanza brasiliana mandavano in fibrillazione i mercati svuotando le casse del FMI, che non avrebbe avuto alcuna possibilità di fronteggiare un’ulteriore prova, se essa avesse seguito le altre.
«Senza l’intervento delle autorità monetarie» – ha scritto George Soros«il sistema finanziario internazionale sarebbe crollato in almeno quattro occasioni: nel 1982, nel 1987, nel 1994 e nel 1997»[91].
Eppure, proprio nel novembre scorso Clinton ha eliminato definitivamente tutti i limiti che la crisi del '29 aveva consigliato di porre al sistema finanziario. Il mondo ha forse dimenticato la lezione?

Per comprendere la gravità della crisi si deve tenere presente che al suo epicentro si collocavano il Giappone e la Cina. Il primo, nel momento in cui scoppiava la bolla asiatica stava attraversando il più lungo periodo depressivo della sua storia, iniziato nel 1990, quando i fasti del mercato immobiliare nipponico terminarono e il Kabuchoto, la borsa di Tokyo (la cui capitalizzazione superava allora quella di Wall Street) cominciò a scendere inesorabilmente, perdendo l’80 % in nove anni[92]. Nel '98 l’indebitamento complessivo dell’economia giapponese raggiungeva secondo alcuni analisti qualcosa come il doppio del PIL, minacciando seriamente la solvibilità delle grandi banche nipponiche, che poterono essere salvate solo grazie ad un maxi piano governativo dell’ordine di 500 miliardi di dollari. Ora si deve tenere presente che il Giappone, oltre a possedere la seconda economia del mondo, è il maggior esportatore mondiale di capitali ed il maggior detentore di buoni del tesoro americano: è facile immaginare quali sarebbero potute essere le conseguenze se le banche giapponesi, minacciate di fallimento, avessero iniziato a ritirare i loro capitali dal mercato americano. Per quanto riguarda la Cina, che è ormai la settima economia del mondo, la percentuale di crediti inesigibili detenuta dalle sue banche si aggira probabilmente, come per il Giappone, intorno al 30 %, e soltanto l’inconvertibilità della sua moneta le ha permesso di non svalutare lo yuan, il che ha avuto però effetti pesantissimi sulle sue esportazioni. Una svalutazione dello yuan avrebbe avuto ulteriori effetti «domino» sulle altre valute asiatiche, che sarebbero state costrette a ulteriori svalutazioni. I temuti contraccolpi di un tale avvenimento hanno spinto la Casa Bianca a promettere alla Cina l’entrata nel WTO come contropartita ad una sua politica «responsabile» in materia di cambio.
«Il mondo» – ha dichiarato in proposito il Ministro del tesoro americano L. Summers«si trovò di fronte alla crisi più grave dell’ultimo mezzo secolo»[93].

D) La ristrutturazione generale dell’apparato produttivo

Il risultato più rilevante della crisi del '73-'75 è stato però l’aver imposto alla produzione capitalistica una nuova svolta tecnico-scientifica ed una rivoluzione del modo di produzione immediato. Quello che all’inizio poté sembrare un processo di «deindustrializzazione», che vide colare a picco interi settori minerari e industriali «pesanti» (in modo particolare il carbone e l’acciaio) col tempo assunse sempre più l’aspetto di una ristrutturazione generale dell’apparato produttivo, di una «terza rivoluzione industriale». In realtà le produzioni «pesanti», come già precedentemente quelle a basso contenuto tecnologico, vennero in parte spostate nei paesi di nuova industrializzazione, i quali nel frattempo avevano acquisito i presupposti della produzione moderna (istruzione generale, trasporti, comunicazioni, costituzione dell’esercito industriale, ecc.). Nei paesi avanzati, grazie all’informatica e alle nuove tecnologie, grazie al passaggio dalla meccanizzazione all’automatizzazione, si vennero privilegiando in modo sempre più marcato le cosiddette produzioni «leggere», ad elevata intensità di know-how, vale a dire di capitale costante-tecnologia, ma con minor consumo di materie prime, energia e forza-lavoro, ivi compresa quella addetta alla progettazione, alla contabilità e all’amministrazione, sempre più informatizzate[94]. Ad es. il peso di Microsoft e Intel nella borsa americana è ormai superiore a quello della General Motors, la più grande industria mondiale, ma ben diverso è il numero degli addetti (48 100 contro 721 000). In totale, i primi venti giganti dell’informatica USA occupano 128 420 dipendenti, nemmeno metà di quelli della seconda industria automobilistica americana, la Ford (325 300). La più grande delle nuove aziende non informatiche, la Southwest Airlines conta «appena» 15 200 dipendenti[95].
«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali»[96].

Macchine utensili altamente tecnologizzate, robotica, microelettronica, software e computer, telecomunicazioni, scienza dei materiali, biotecnologie, aviazione e trasporti sono divenuti allora i settori trainanti dell’economia capitalistica avanzata[97], con il fiorire di nuove zone industriali non più caratterizzate dal gigantismo degli impianti, ma da una rete di più piccole unità periferiche sparse nel territorio («fabbrica diffusa»)[98], con il grandeggiare della produzione di merci «immateriali» quali i programmi informatici, le telecomunicazioni, le manipolazioni genetiche, prodotti del lavoro umano il cui valore di mercato dipende assai più dalle ore di lavoro spese in progettazione e ricerca che non dal costo dell’involucro materiale, ormai accidentale e sussidiario.

Tali trasformazioni, secondo i suoi nemici o coloro che pretendevano di aver proceduto «oltre Marx», mettevano definitivamente in crisi il marxismo, il suo rozzo materialismo. Finalmente il «lavoro mentale» aveva il suo degno riconoscimento nella società, o addirittura dischiudeva, mandando all’aria la teoria del valore-lavoro, nuove possibilità di emancipazione. In realtà gli ultimi sviluppi del capitalismo ne hanno mandato in soffitta le interpretazioni volgari, meccaniche, materialistiche rozze. Eppure Marx l’aveva detto: il valore non è una proprietà fisica della merce, ma il riflesso di un rapporto sociale determinato, lo scambio dei prodotti del lavoro umano nell’ambito dell’anarchia mercantile; il lavoro umano nell’ambito del mercato crea valore indipendentemente dalla forma del valore d’uso in cui si concreta. Quanto al «socialismo virtuale» avviato dalla «rete» di cui vaneggiano teorici quali Toni Negri[99], al contrario il capitale, incorporando la conoscenza, la sottomette ai bisogni della valorizzazione tendendo alla proletarizzazione degli intellettuali. Come fin dal 1847 Marx ed Engels avevano anticipato, la borghesia
«ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati a suoi stipendi»[100].

È vero però che molti «marxisti» hanno reso un cattivo servizio alla teoria rifiutandosi ostinatamente di ammettere che la rivoluzione tecnologica stimolata dalla crisi del '73-'75 avesse modificato la struttura della base produttiva, rendendo obsoleti gli strumenti statistici con cui si erano sino ad allora valutati il suo stato di salute ed il suo grado di sviluppo. Così se la produzione di acciaio e la «tuta blu» del metalmeccanico o il «muso nero» del minatore dovessero ancora essere considerati i parametri di identificazione del capitalismo avanzato, l’URSS prima del crollo dell’89, quando la sua produzione di acciaio era la più alta del mondo, sarebbe stato il paese borghese più moderno. Del pari, se soltanto le merci «pesanti» producessero valore e plusvalore, la diminuzione del proletariato industriale sul totale in atto da tempo nei paesi capitalistici maturi avrebbe trascinato il capitalismo nella polvere comportando la diminuzione, non soltanto del saggio, ma anche della massa di profitto. È vero invece che accanto a numerose attività improduttive o addirittura parassitarie rese possibili dall’elevato saggio di plusvalore della società moderna (commercio, intermediazione, banche, assicurazioni, finanza, lavori domestici, ecc.), la categoria statistica «servizi» – che negli USA comprende ormai il 75 e in Italia il 64 % della popolazione attiva[101]cela numerose attività (in particolare quelle legate alla produzione di processi conoscitivi e tecnologici, al turismo, ai trasporti, alle comunicazioni, ecc.) produttive nel senso capitalistico giacché, come spiega Marx, produttivo è, indipendentemente dalla sua forma, il lavoro che crea valore e plusvalore[102]. Inoltre, sotto la voce «servizi», la statistica borghese contabilizza attività fino a ieri a pieno titolo industriali. Si legga il seguente passo:

«L’espansione del settore dei servizi è generalmente attribuita in primo luogo alla ristrutturazione del settore industriale avvenuta dopo la crisi petrolifera del 1973–74. Per effetto della riorganizzazione del processo di produzione allora intrapresa, le industrie manifatturiere hanno fatto ricorso sempre più massicciamente all’outsourcing, ossia al trasferimento delle loro attività non essenziali a fornitori di servizi esterni. Di conseguenza, il settore dei servizi ha assunto un ruolo considerevole nella competitività globale delle industrie manifatturiere. In effetti, la capacità di un prodotto di essere concorrenziale dipende da una vasta gamma di servizi: già prima dell’avvio del processo di produzione entrano in gioco servizi nella forma di studi di fattibilità, di ricerche di mercato, di design del prodotto ecc. Servizi quali il controllo di qualità, il leasing di attrezzature, la manutenzione e le riparazioni costituiscono parte integrante del processo di produzione. Nella fase finale, poi, i servizi svolgono un ruolo fondamentale non soltanto nel campo della pubblicità, dei trasporti e della distribuzione del prodotto, ma altresì in quelli dell’assistenza ai clienti (ad esempio, manutenzione e formazione del cliente). Infine, i servizi in materia di software, di contabilità, di consulenza nella gestione, di formazione, di telecomunicazioni, di assicurazione e di intermediazione finanziaria sono tutti fondamentali per il buon funzionamento di un’impresa»[103].

Con tutto ciò – rendendosi patetico nello sforzo di dimostrare la «crisi irreversibile» del capitalismo – c’è ancora chi si ostina a prendere in considerazione solo la produzione industriale quale fonte di estrazione del plusvalore.

L’informatizzazione del processo produttivo e distributivo delle merci ha reso inoltre possibile la riduzione di alcuni costi fissi (ad es. quelli dovuti alle scorte ed al magazzinaggio) e la produzione detta just in time, con innegabili effetti positivi sul saggio di profitto indotti dal minor esborso di capitale anticipato. Sul luogo di lavoro tale processo è stato accompagnato dalla progressiva limitazione della produzione «fordista» a «catena di montaggio» nell’ambito di grandi impianti industriali, e dall’estensione in sempre nuovi settori del «toyotismo», ossia della produzione a squadre composte da lavoratori polivalenti cointeressati al raggiungimento di determinati obiettivi e standard qualitativi («qualità totale»), col risultato di una maggiore saturazione del tempo di lavoro per addetto[104]. I nuovi ritmi di lavoro implicati dalla produzione a «isole» da un canto, la volontà di accelerare la rotazione del capitale dall’altro, suggerivano ora una ristrutturazione dell’orario di lavoro che permettesse il funzionamento degli impianti per tutte le ventiquattro ore del giorno e ove possibile addirittura per tutti e sette i giorni della settimana. Pertanto in un numero sempre più grande di branche industriali si sono introdotti quattro turni giornalieri di 6 ore e in seguito soluzioni ancora più spinte, a orario variabile a seconda delle esigenze e dei cicli del mercato («orario flessibile»), come alla Volkswagen tedesca o nel tessile italiano; questi metodi potevano d’altra parte ormai essere introdotti anche in sempre più ampi settori dei servizi (ad es. nei supermercati)[105]. Qui il segreto della contemporanea e di forme di riduzione dell’orario di lavoro e di un allungamento complessivo delle ore effettivamente lavorate in alcuni paesi e settori, come gli Stati Uniti, dove sono passate dalle 1883 del 1980 alle 1996 del 1997[106].
«Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti»[107].

E) Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia

Nel complesso la «produzione flessibile» così articolata ha consentito un indubbio recupero dei tassi di profitto aziendali, mantenendo strutturalmente ampio (come si è già detto) l’esercito industriale di riserva e contribuendo così a tenere depressi i salari (Tavola VII), ossia anche per questa via ad aumentare il plusvalore estorto alle maestranze [108]. Essa si è accompagnata inoltre ad una ristrutturazione, o meglio deregulation complessiva del mercato del lavoro, con la progressiva riduzione dell’area del lavoro «garantito» o, per dirla alla giapponese, del «lavoro a vita», e la crescita di contratti temporanei, precari, «flessibili», e di nuove figure proletarie come i lavoratori «interinali», quelli con contratti di formazione, e così via. In Germania e Italia essi costituiscono ormai un terzo del totale[109], ma tra i nuovi assunti la percentuale è ormai al di sopra del 50 %.

Tavola VII – Salari medi americani in $ costanti del 1982
(Luttwak)

Tavola 7 – Salari medi americani in $ costanti del 1982

Questa deregolamentazione del mercato del lavoro ha un suo corrispettivo nella politica salariale delle imprese e nell’evoluzione della contrattazione collettiva: in tutti i paesi capitalistici avanzati si è assistito alla crescita della parte «flessibile» del salario, ossia alla riduzione della quota salariale contrattata centralmente, ed alla crescita invece della sua parte legata alla produzione, a contratti aziendali, a riconoscimenti individuali; nel medesimo tempo sono diminuite ovunque le sfere di competenza della contrattazione nazionale[110].

A livello sociale, la crisi del «fordismo» porta con sé la riduzione di quel complesso intreccio di servizi sociali che, come si è visto, erano funzionali alla fluidità di quel sistema, essenzialmente rigido, ciò che ha consentito quella parziale dismissione del welfare state chiesta a gran voce dai profeti della «privatizzazione».

Il processo di trasformazione dalla classe lavoratrice «fordista» a quella «post-fordista» è quindi la base oggettiva della crisi del movimento operaio occidentale e dell’eclissarsi della tradizione tradunionista che esso, pur avendo perduto a partire dal I dopoguerra quella classista, aveva mantenuto sui luoghi di lavoro come frutto delle passate lotte e in alcuni paesi (come l’Italia e la Francia) rinforzato negli anni '60 e '70. Una dopo l’altra, le grandi organizzazioni sindacali di azienda o di categoria tipiche della produzione fordista si sono venute trasformando in istituzioni burocratiche addette alla difesa del «cittadino lavoratore» ancor più strettamente integrate allo Stato borghese e assottigliando sui luoghi di lavoro fino ad entrare in stato comatoso[111]. Negli Stati Uniti, ad es., già a metà degli anni '90
«le iscrizioni ai sindacati sono scese all’11–12 % dell’intera forza lavoro salariata, mentre negli anni cinquanta erano intorno ad un terzo dell’intera forza lavoro»[112].
Lo scontato tradimento dei burocrati è dunque solo uno degli aspetti dei successivi cedimenti degli organismi sindacali tradizionali: è entrata in gioco qui la palese inadeguatezza storica di queste forme a gestire, anche da un punto di vista puramente collaborazionista col potere borghese, la trasmutazione della classe operaia in corso[113].

F) L’aumento della miseria

Se la condizione del proletariato è peggiorata, se il numero dei disoccupati e dei sottoccupati è aumentato, quello che Luttwak chiama il «turbocapitalismo» sta portando ad un incremento della povertà, non solo nel terzo mondo, ma nello stesso Occidente avanzato. Consideriamo gli Stati Uniti, le cui performances economiche hanno preso nei giornali degli anni '90 il posto occupato dal Giappone negli anni '70 e '80: il miracolo «americano» rivela un divario crescente fra un ristretto numero di ricchi e «nuovi ricchi» e un crescente numero di poveri e «nuovi poveri». Se nel 1977 il 5 % più ricco delle famiglie americane si appropriava del 16,8 % del reddito complessivo, nel 1994 ne godeva il 21 %. Al contrario, il 20 % più povero dei nuclei famigliari ha visto nel medesimo arco di tempo passare la sua parte dal 4,1 al 3,6 %. Anche il 20 % immediatamente successivo dei redditi famigliari è sceso intanto dal 10,2 all’8,9 del totale. Attualmente, una volta aggiunti gli interventi dell’assistenza pubblica, il 40 % più povero delle famiglie USA detiene il 16,2 % del reddito contro il 44,1 % del più ricco 20 %[114]. Per mantenere costante il loro livello di vita, gli americani devono oggi lavorare in media 245 ore in più all’anno, con pesanti riflessi sulla vita famigliare e sociale[115].

«…si può comprendere che le famose patologie del sottoproletariato tanto patologiche non sono. Indubbiamente lo status di disoccupato cronico è meno doloroso per chi non è sobrio, non si tiene lontano dalla droga e non arde dal desiderio di lavorare. (…) La crisi della famiglia può essere spiegata anche in base a fattori culturali, ma certamente è già scritta nella carenza di posti di lavoro per chi non ha alcuna professionalità. In questo passaggio perfino la criminalità si rivela un fatto funzionale: non una sorta di devianza bensì una scelta razionale«[116].

Parallelamente, la società americana ha visto crescere la delinquenza a livelli sconosciuti in precedenza. Dal 1975 al 1995, la sua popolazione carceraria è cresciuta di sei volte; nel 1998 essa riguardava ormai un milione e ottocentomila persone, ovvero il 6,5 per mille della popolazione[117].

18 – L’ulteriore crescita del capitalismo

Malgrado il perenne orgasmo finanziario descritto precedentemente e uno stato del mercato in cui ogni giorno è vissuto come l’ultimo e in cui i capitali a breve dominano sempre più gli umori, la ripresa economica mondiale (soprattutto americana) negli anni '80 e (dopo una contrazione agli inizi del decennio) negli anni '90 è stata innegabile (Tavola VIII).

Tavola VIII – Crescita produzione mondiale in %
(«Libro dei fatti 2000»)

Tavola 8 – Crescita produzione mondiale in %

In febbraio, gli USA entreranno nel centosettesimo mese ininterrotto di espansione, il più lungo della loro storia[118]. Prima della recente crisi era l’area asiatica quella con il maggior ritmo di sviluppo, con conseguenze geopolitiche di prim'ordine visto che l’area del Pacifico ha ormai soppiantato quella atlantica come centro strategico dell’economia-mondo e in Asia si concentra ormai la parte maggiore dell’economia mondiale (Tavola IX), tanto che alcuni studiosi pronosticano si tratti dell’area che sostituirà quella americana alla guida del capitalismo mondiale allorquando il «ciclo americano» dell’accumulazione si esaurirà come già avvenuto nel caso inglese e, ancor prima, olandese [119].

In ogni caso anche la classe operaia di quest’area, dopo le grandi lotte operaie cinesi di inizio secolo, ha fatto la sua entrata nella storia delle lotte di classe, in particolare nella Corea del Sud nel 1987, 1990, 1997 e 1998.

Tavola IX – Crescita % della produzione – confronto USA-UE-Economie asiatiche avanzate
(«Libro dei fatti 2000»)

Tavola 9 – Crescita % della produzione – confronto USA-UE-Economie asiatiche avanzate

È evidente che questa ulteriore espansione del capitalismo mondiale è in relazione con le trasformazioni verificatesi nell’apparato produttivo da noi sopra delineate. Una volta per tutte dunque tramonta l’idea che esista un punto in cui l’economia del capitale entri in una crisi assoluta e irreversibile a cui purtroppo certi che fraintendono Marx continuano a dare credito, offrendo agli avversari del materialismo storico la possibilità di una facile confutazione. E anche qui non si può che ribadire come il testo marxiano non lasciasse adito a dubbi.
«Non esistono crisi permanenti»
aveva scritto Marx[120], spiegando:

(Le crisi) «sono sempre solo delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti, violente eruzioni che ristabiliscono momentaneamente l’equilibrio turbato. (…) Il periodico deprezzamento del capitale esistente, che è un mezzo immanente del modo capitalistico di produzione per arrestare la diminuzione del saggio di profitto ed accelerare l’accumulazione del valore-capitale mediante la formazione di nuovo capitale, turba le condizioni date in cui si compie il processo di circolazione e di riproduzione del capitale, e provoca di conseguenza degli arresti improvvisi e delle crisi del processo di produzione. (…) Ma in tutti i casi, per ristabilire l’equilibrio, si renderebbe necessario lasciare inattiva o anche distruggere una quantità più o meno grande di capitale. (…) si verificherebbe, a causa dell’interruzione nel funzionamento del sistema produttivo, una distruzione assai più forte ed effettiva dei mezzi di produzione. (…) La distruzione principale e a carattere più grave avverrebbe per il capitale in quanto esso possiede carattere di valore, e quindi per i valori-capitale. (…) Una parte delle merci a disposizione sul mercato può completare il suo processo di circolazione e di riproduzione solo mediante una enorme contrazione del suo prezzo, quindi mediante deprezzamento del capitale che esso rappresenta. Allo stesso modo tutti gli elementi del capitale fisso risultano più o meno deprezzati. (…) Il ristagno della produzione avrebbe reso disoccupata una parte della classe operaia e avrebbe in conseguenza costretto la parte occupata ad accettare una riduzione del salario anche al di sotto del salario medio: operazione che avrebbe rispetto al capitale lo stesso identico effetto di un aumento del plusvalore assoluto o relativo, con un salario medio rimasto invariato. (…) Inoltre il deprezzamento degli elementi del capitale costante costituirebbe esso stesso un fattore che provocherebbe un aumento del saggio di profitto. La massa del capitale costante impiegato rispetto al variabile sarebbe accresciuta, ma il valore di questa massa potrebbe essere diminuito. Il rallentamento della produzione avrebbe preparato – entro limiti capitalistici – un ulteriore aumento della produzione. E così il circolo tornerebbe a riprodursi. Una parte del capitale, il cui valore era diminuito in seguito all’arresto della sua funzione, riguadagnerebbe il suo antico valore. Ed a partire da questo momento il medesimo circolo vizioso verrebbe ripetuto con mezzi di produzione più considerevoli, con un mercato più esteso e con una forza produttiva più elevata«[121].

Gli ultimi vent’anni di storia del capitalismo dunque sbaragliano anche la tesi, sorta dall’esperienza di due guerre mondiali ravvicinate inframmezzate da una grave recessione, che la guerra generale sia l’unico modo consentito al capitale del periodo imperialistico per superare le proprie crisi di sovrapproduzione, ovvero una necessità strettamente economica. Senza per questo negare che le guerre siano un periodico inevitabile sbocco delle contraddizioni economiche e politiche dell’imperialismo, senza negare altresì l’effetto che esse assumono, grazie alla massiccia distruzione di capitale, nel periodico rigenerarsi del mostro capitalistico, l’esperienza ha dimostrato che anche senza guerra il capitalismo può venire a capo delle sue crisi, anche se forse in modo meno duraturo.

19 – Il crollo del «socialismo reale» e il debito del «terzo mondo»

Basta riflettere sugli immensi effetti devastatori che la crisi ha assunto nei paesi dell’est europeo per comprendere che davvero il capitale sa essere, anche senza guerre, il sistema sociale più dilapidatore delle forze produttive sociali che sia mai esistito (Tavole XTavole XI).

Tavola X – Variazioni % del PIL russo
(Guarracino)

Tavola 10 – Variazioni % del PIL russo

In effetti, quanto avvenuto nelle economie e nella società dell’ex blocco sovietico e dei Balcani, col suo corredo di guerre e distruzioni, è un ulteriore importante indice della contradditorietà della ripresa capitalistica dell’ultimo ventennio. Del fatto che la crisi degli anni '70 ha comportato una modificazione nel modo di produzione, ma anche delle aree di sviluppo del capitalismo. Anche se la «grande confessione» di essere in tutto e per tutto capitalisti che i comunisti internazionalisti avevano negli anni '50 pronosticato per i paesi del «socialismo reale» non c’è stata, il crollo del sistema cosiddetto sovietico è una vittoria teorica di quanti avevano compreso il carattere non socialista di quelle strutture economico-sociali e l’impossibilità per esse di raggiungere i livelli dell’Occidente.

Solo a partire dal disvelamento del carattere sociale borghese di quei sistemi è possibile la comprensione degli avvenimenti che li riguardano: l’89 di questo secolo non rappresenta il loro passaggio dal «socialismo» al comunismo, ma la crisi di un’area arretrata di fronte alla forza dell’altra e ai capricciosi movimenti con cui il mercato mondiale disloca i capitali alla ricerca di profitto. Ciò che è avvenuto nell’est europeo non è molto diverso da quanto è avvenuto nelle aree più deboli del capitalismo mondiale, a loro volta strette nella morsa di un indebitamento crescente (Tavola XII). L’analogia di situazione è tutt’altro che casuale: essa è – mutatis mutandis – l’indice di un’omologia sociale. D’altra parte sono spesso le stesse nomenclature ieri ammantate di socialismo a dichiararsi oggi convinte assertrici dei valori del «liberismo» economico più sfrenato. E questa, a suo modo, è una confessione. Non solo del «falso socialismo», ma anche della permanente natura del capitale: con il 1989 tornano ufficialmente in Europa la miseria, i nazionalismi, le guerre. Anche se non ha direttamente preparato la terza guerra mondiale, la crisi '73-'75 ne ha posto per il futuro alcune premesse.

Tavola XI – Variazioni % del PIL 1991–97 in Europa dell’Est
(«Rivista del Manifesto» dic. 99)

Tavola 11 – Variazioni % del PIL 1991–97 in Europa dell’Est

Tavola XII – Debito estero in mld $
(État du monde 1998)

Tavola 12 – Debito estero in mld $

20 – Elementi per un bilancio

Come ben sapevano i comunisti rivoluzionari che a metà di questo secolo ne scrutavano il futuro,
«le crisi grandi e leggere hanno lo stesso carattere qualitativo: l’indice della produzione generale industriale decresce per una certa serie di anni, fino a che non riprende a salire»[122].

«Con quale mezzo» – si chiede il «Manifesto del partito comunista»«la borghesia supera le sue crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse»[123].

Sospintovi dalla crisi degli anni '70, il capitalismo è entrato insomma in una nuova fase, parafrasando Marx in un nuovo «circolo vizioso», un «nuovo grande investimento», basato su di un «nuovo fondamento materiale» del suo «ciclo di rotazione». Caratteristiche di tale nuova fase sono:
– una base produttiva allargata ai paesi nel frattempo entrati nel novero della produzione capitalistica, principalmente nella regione Asia-Pacifico, ma non solo (si pensi al Sud Africa, al Brasile, ecc.);
– una diversa dislocazione del capitale mondiale, con la perdita di importanza di alcune aree (ad es. quella dell’ex «impero sovietico») e la crescita di altre (ad es. le «tigri asiatiche»);
– il passaggio – grazie all’introduzione delle nuove tecnologie, l’informatica in primis – dal modo di produzione «fordista» a quello della lean production (di origine giapponese ma che nella sua struttura attuale va ben oltre), con le relative conseguenze per il processo di produzione, il mercato del lavoro, l’occupazione, i salari, il regime di orario lavorativo, le «garanzie» sociali e la classe operaia stessa; conseguenze riassumibili, da un lato nel peggioramento generale delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, dall’altro nel concetto di «flessibilità», dall’altro ancora in una generale controtendenza alla caduta del saggio di profitto;
– una più spinta finanziarizzazione dell’economia, con il suo corredo d’instabilità crescente e permanente dei mercati.

Conviene rilevare anche che, malgrado la dimensione imponente della ripresa determinatasi in alcune aree nell’ambito di questa nuova fase, e malgrado che il tasso mondiale di crescita faccia indubbiamente registrare un saldo positivo, la ripresa capitalistica è stata particolarmente difficile e contraddittoria, riconfermando quella tendenza al «cronicizzarsi» delle crisi che già Engels aveva fatto notare ai tempi della «grande depressione» e che gli anni successivi al '29 avevano ribadito. Ma crisi «cronica» non significa «permanente» o «irreversibile», concetti che fanno a pugni con la classica descrizione del capitale data sin dal «Manifesto». Significa che, nell’ambito dell’economia capitalistica avanzata, ed in particolar modo a partire dalla sua fase «imperialista», l’influsso dei trust e dei monopoli, l’intervento dello Stato nell’economia, la giganteggiante influenza del credito e della leva monetaria, la forza delle grandi potenze capitalistiche, agiscono sul ciclo economico perturbandone i ritmi. Da un lato ciò tende a posporre l’esplodere della crisi violenta e tende ad attutirla; dall’altro finisce di tempo in tempo per dare alle crisi un carattere più profondo, ossia più catastrofico e violento o più prolungato, o tutte queste cose insieme.

«(…) le grandi crisi di produzione, per i più potenti capitalismi più sconvolgenti delle guerre (…) sono dello stesso ordine di grandezza degli arresti della produzione a seguito di sconfitte belliche e di invasioni devastatrici. La dottrina delle crisi è già in Marx ed egli ravvisò in esse un periodo decennale (…). Ma queste crisi del giovane capitalismo sono di incidenza assai minore e hanno più carattere di crisi del commercio internazionale che della macchina industriale. Esse non intaccano le potenzialità della struttura industriale (…). Quelle erano crisi di «chomage», ossia di chiusura, serrata, delle industrie; queste moderne, crisi di disgregazione di tutto il sistema, che deve poi faticosamente ricostruire le sue ossature avariate«[124].

Mai come dopo l’ultima crisi, in effetti, la strada del ciclo della produzione per il profitto è stata lastricata da contraddizioni gigantesche e crescenti: nel quarto finale del secolo non v’è stato momento in cui il capitalismo abbia dato l’idea di avere imboccato un ciclo paragonabile a quello del II dopoguerra: la prolungata disgregazione dell’est europeo, la lunga depressione giapponese, il recente crollo asiatico, le ripetute e devastanti crisi monetarie e finanziarie hanno segnato con lugubre rintocco il pendolare ritorno dello spettro del '29, per un verso opponendo i paesi poveri al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, che dettano ai primi una politica economica funzionale all’occidente e le condizioni di accesso al credito, per un altro verso opponendo tra loro le principali valute internazionali, dollaro, yen, marco ed ora euro. Il 1999, simbolicamente, si è chiuso con il fallimento del WTO, succeduto al GATT, minacciando di avviare il mercato internazionale lungo una nuova china protezionistica.

A loro volta, le tensioni internazionali si sono costantemente aggravate. Da una parte l’imperialismo è stato chiamato a colpire senza pietà, ma non sempre con successo, le ambizioni dei paesi emergenti di acquisire una reale autonomia ed un profilo moderno: è avvenuto in Iran, nella guerra delle Falklands nel 1983, contro l’Irak nel 1990–91; dall’altra ha cercato di riempire e sfruttare vuoti strategici lasciati aperti da situazioni di disgregazione geopolitica come nel Libano (1982), in Somalia (1992), nei Balcani, nel Caucaso; dall’altra ancora è intervenuto dietro le quinte (ma non solo) in conflitti come quello afgano e quelli che insanguinano l’Africa. Un sempre maggior numero di paesi si è venuto coalizzando in guerre sempre più lunghe, costose, devastanti e senza via d’uscita. I contrasti tra le potenze nella penisola balcanica, l’allargamento della NATO a Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, le pretese cinesi su Taiwan, i contrasti sempre più aperti tra Giappone e USA da un lato, UE e Stati Uniti dall’altro, l’abbandono precipitoso da parte di Eltsin dell’ultimo G-8 per i contrasti con i «grandi» sulla Cecenia testimoniano il fatto che la prospettiva di una guerra mondiale, proprio come previsto da Engels alla fine del XIX, non è estranea al secolo che si apre.

21 – La guerra balcanica

Dal punto di vista geopolitico la recente guerra nei Balcani ha registrato, oltre al rimaneggiamento della Serbia e alla spartizione dell’area fra imperialismi, il predominio della potenza globale americana sugli interessi degli «alleati» europei, nonché l’accerchiamento della Russia, minacciata anche dall’estensione della NATO a Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.

Al di là dell’unitarismo di facciata, europei e americani hanno affrontato il conflitto con interessi diversi, con strategie diverse, con l’idea di sottrarsi gli uni con gli altri le sfere d’influenza. Gli americani hanno sfruttato il loro controllo sul comando dell’Alleanza atlantica per dirigere i bombardamenti non solo contro l’esercito serbo e gli obiettivi civili, ma anche contro la struttura industriale della Serbia la quale, bisogna sottolinearlo, in gran parte è frutto della collaborazione fra europei e Belgrado, quando addirittura non appartenente al capitale europeo, italiano e tedesco in prima fila. Bombardando gli impianti industriali di proprietà di Joint ventures tedesco-serbe o serbo-italiane (ad es. la Telekom serba), la NATO ha lavorato così per il capitale americano contro quelli europei, in particolare quello tedesco (che nell’Asse Danubiano ha uno dei suoi progetti espansionistici maggiori) e italiano. La presenza americana in Macedonia e Albania inoltre contrasta l’area di influenza di Roma e mira contemporameamente a controllare il famoso «corridoio 8» che – secondo un progetto dell’ENI – dovrebbe portare il petrolio caucasico sino all’Adriatico. In questo modo Washington intende mettere in ginocchio le esportazioni russe di «oro nero» e tenere sotto controllo la voglia europea di emanciparsi dalle forniture – controllate da yankees e inglesi – provenienti dal Medio Oriente. Come ha scritto Stefano Cingolani sul «Corriere della sera» del 26 aprile '99,
«…tanti sogni europeisti svaniscono nell’alba rossa dei Balcani».

L’interventismo americano risponde, come scrivono i due politologi americani Heilbrunn e Lind, «a una nuova strategia imperiale, che pone la sua frontiera proprio nell’Europa del Sud est» e mira a porre l’ipoteca statunitense nel «ventre molle» dell’Europa. È chiaro: l’allargamento a Polonia, Cechia e Ungheria della Nato non è rivolto solo contro la Russia.

Per questo gli Europei, italiani e tedeschi avanti a tutti, hanno cercato disperatamente, coinvolgendo la Russia, una soluzione politica che in qualche modo imbrigliasse la prepotenza USA; per questo il papato, mettendo da parte la sua secolare politica di scontro con la chiesa ortodossa per la penetrazione ad Est, si è schierato per la fine delle ostilità. Per questo il paci-fantoccio Rugova è volato a Roma e ha proseguito per Berlino ed il Vaticano.

Insomma questa guerra, che dietro l’apparente compattezza della NATO mette a nudo come non mai le divergenze di interessi tra le potenze, è stata il biglietto da visita di una futura guerra mondiale. Come si legge in un volume che raccoglie le più disparate voci della «sinistra» e della «destra» europee (Alain de Benoist, Giulio Andreotti, Luciano Canfora, Maurice Couve de Murville, Massimo Fini, Giorgio Galli, Harold Pinter, Aleksandr Zinoviev, ecc.), il conflitto balcanico ha visto
«l’affiorare, ancora magmatico, di una coscienza borghese dell’esistenza di interessi contraddittori tra le due sponde dell’Atlantico»[125].
Fatto forse ancor più rilevante, ha visto affiorare la disponibilità di una serie di forze di «sinistra» ad uno schieramento «antimperialista» generico, che potrebbe dunque in futuro dimostrarsi funzionale agli interessi di quella parte del capitale europeo che maggiormente scalpita contro il giogo statunitense[126].

La guerra ha visto cioè convergere obiettivamente nell’opposizione ad essa una serie di forze eterogenee: in Italia, oltre alle forze borghesi cui si è prima accennato, cattolici, leghisti, Rifondazione, centri sociali, sindacati di base, elementi della cosiddetta «sinistra rivoluzionaria» e persino nazionalisti serbi. Il minimo comun denominatore tra queste forze è consistito nel proclamare «illegale» l’»aggressione» della NATO ad un paese «sovrano», la Serbia, riconosciuto dal «diritto internazionale»[127].

Nelle sue versioni estreme e operaiste, la ventata di rinnovato antiamericanismo ha giustificato il proprio schieramento pro serbo con la permanenza di presunte tracce «socialiste» nell’economia e nella società iugoslave.

In sostanza, come ai tempi della «Resistenza antifascista» si erano messe sotto l’ala degli imperialismi americano, inglese e russo contro il «nazifascismo», così oggi le «sinistre» si sono poste a favore di uno schieramento borghese, quello russo-serbo, contro l’altro, quello della NATO. In questo modo hanno posto la propria candidatura all’appoggio della politica nazionale ed europeista per il momento in cui la contraddizione fra gli interessi europei e americani emergerà alla luce del sole, in cui le borghesie italiana ed europea si stuferanno di vedere le proprie fabbriche bombardate dagli aerei della NATO, ritenendo di avere la forza di opporsi allo strapotere americano.

La controprova si può osservare oggi proprio nel corso della guerra in Cecenia. Essa è la risposta russa alle mene occidentali. I russi sono ben consapevoli della volontà di Washington di favorire la disgregazione della Federazione Russa per meglio controllare i famosi «corridoi» che dai paesi dell’est, ed in particolare dal Caucaso, dovrebbero trasportare merci, petrolio e gas verso l’Europa. Vedono perciò nell’indipendenza della Cecenia il pericolo di una perdita di controllo su tutta la regione. Insomma, la guerra in Cecenia, in atto mentre scriviamo, è la continuazione della guerra dei Balcani, un altro episodio dello scontro sempre più aperto fra imperialismi. Ebbene, non a caso, nessuna delle forze di «opposizione» alla guerra balcanica (o meglio, alle guerre balcaniche), siano esse di «destra» o di «sinistra», ha mosso un dito, innalzato una protesta, chiesto la mobilitazione contro l’intervento russo.

Non esitiamo a dire che il delinearsi di questo fluido e trasversale allineamento antistatunitense è il più funesto fatto politico degli ultimi anni: come la guerra civile spagnola fu la prova generale degli schieramenti della seconda guerra mondiale (non solo dal punto di vista militare, ma soprattutto da quello politico) avendo elaborato la parola d’ordine internazionale della lotta al nazi-fascismo quale arma ideologica del coinvolgimento proletario nel conflitto, così la guerra balcanica ha gettato un ponte tra sedicente «estrema sinistra» e capitale «europeista» in un’eventuale futura mobilitazione antiamericana.

La guerra nella ex Yugoslavia è insomma l’episodio iniziale di un nuovo ciclo in cui le varie forze politiche, più rapidamente che nel passato, evolveranno verso il loro destino storico. Chi avrebbe creduto, fino a pochi mesi fa, che i governi di «sinistra» si sarebbero gettati in una guerra come la presente? Allo stesso modo, ben presto, evolveranno quelle forze che oggi salvano la faccia nascondendo le proprie opzioni filo-serbe, filo-europee, anti-americane.

22 – Le conferme del marxismo

Riandando ora con la mente alle analisi elaborate dai marxisti a partire dalla fine del secolo scorso, vediamo confermarsi, nella sostanza, l’idea che le contraddizioni del capitalismo si sarebbero andate ingigantendo e moltiplicando. Che senza la vittoria rivoluzionaria, guerre e crisi sempre più distruttive avrebbero coinvolto l’umanità. Che il capitale finanziario avrebbe dominato sempre più globalmente l’economia del capitale. Oggi, benché la concentrazione del capitale sia giunta al punto che duecento mega-società controllano da sole più del 26 % del PIL mondiale, quanto 150 paesi non membri dell’OSCE[128], le grandi società per azioni e le public company che coinvolgono un gran numero di piccoli azionisti ci mostrano in modo sempre più forte la tendenza a fare della classe borghese, più che un ceto identificabile di grassi capitani d’industria col proverbiale sigaro in bocca, una «rete di interessi» sempre più spersonalizzata che avvolge il pianeta.

Per quanto riguarda le condizioni immediate di vita e di lavoro del proletariato, alla luce di tutto il secolo che finisce, i «trenta gloriosi» – con le loro peculiari «garanzie sociali»- sempre più ci appaiono come una fase particolare, legata al «fordismo», dello sviluppo del sistema borghese, e non un’architettura permanente di esso. Abbiamo visto prima, tra depressioni e guerre a catena. e vediamo oggi, entrando nel regno della deregulation e della «flessibilità», accrescersi, oltre alla miseria relativa, l’insicurezza e la precarietà dell’esistenza. Quale futuro, nel mondo globalizzato, per milioni di donne e uomini nel terzo mondo strozzato dai grandi usurai del Fondo Monetario Internazionale, se non la miseria o l’emigrazione selvaggia? Quale futuro nei paesi dell’est Europa incancreniti dalla delinquenza mafiosa, dall’arroganza dei parvenus, dalla prostituzione? Quale futuro per i giovani occidentali minacciati da una disoccupazione che in Europa arriva in certi paesi al 30 % o addirittura, come in Italia, lo supera[129]?

«Gli studi ci dimostrano – osserva Silvia Vegeti Finzi, docente di psicologia dinamica all’Università di Pavia – che gli adolescenti hanno una visione del futuro che contiene molta meno progettualità della generazione precedente. Si sentono disimpegnati, dicono che la società vuole poco da loro (o troppo? Ndr) e vivono una grande noia»[130].

Sui luoghi di lavoro i crescenti ritmi e la minaccia di perdere il posto non coinvolgono più soltanto l’operaio non specializzato. Come l’operaio specializzato minacciato dall’automatizzazione dei processi produttivi, anche l’impiegato ed il tecnico, sostituiti in un numero sempre maggiore di funzioni dal computer, vedono dissolversi i loro privilegi, abbassarsi i loro salari e venir meno la sicurezza del posto di lavoro. Il processo coinvolge naturalmente anche i servizi, e tra essi quelli statali, dove l’elettronica e l’informatica hanno reso superflue molte delle competenze dei funzionari. Anche le mansioni che consentivano ancora a certe categorie del lavoro dipendente un margine di autonomia e creatività (disegnatori, progettisti, ecc.) sono assoggettate ai modi della macchina, anche se questa macchina si chiama Personal Computer.

«Ancora nel '75» – afferma Pietro Inchino, professore di diritto del lavoro a Milano – «si poteva pensare di formare un saldatore con l’idea che avrebbe lavorato per 25–30 anni sullo stesso tipo di macchina. Mentre ora il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate varia da 1–2 anni a 2–5 anni e investe oltre che la macchina anche il prodotto. Oggi ci si forma per un periodo più breve e si deve essere disponibili a una nuova qualificazione dopo 5–10 anni, per fare la stessa cosa o per farne una totalmente diversa»[131].

Suddivisione ottica della corrispondenza cartacea, sostituzione di essa con quella elettronica, lettura ottica dei prezzi al supermercato con comunicazione elettronica in tempo reale del venduto, sostituzione degli uffici bancari con sportelli elettronici tipo bancomat, telelavoro, computer a riconoscimento vocale, programmi software che svolgono il lavoro di medici, architetti, ingegneri, traduttori, immagini olografiche di insegnanti proiettate in classe, videoconferenze. Non sono cose di domani, ma del presente. Da questo punto di vista, il nuovo millennio era ieri. L’ipotesi che il progresso tecnico tenda irresistibilmente ad allargare la proletarizzazione e l’esercito industriale di riserva non è più dunque una malignità dei marxisti, bensì un fondato terrore degli stessi borghesi[132].

«Con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro – leggiamo ancora nel «vecchio» «Manifesto» del «vecchio» Marx –, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l’operaio. (…) Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a un livello ugualmente basso»[133].

Nel complesso, l’ultimo quarto di secolo sta quindi mostrando un volto del capitalismo che, assai più di quello del II dopoguerra, corrisponde al modello capitalistico tracciato da Marx nelle sue analisi sociali, storiche ed economiche. Il «Manifesto del partito comunista» – persino un trombone pseudo-marxista come Hobsbawm ha dovuto riconoscerlo[134] – vive tra noi; non abita nel capitalismo del tempo di Marx, come i superficiali hanno sempre presuntuosamente sentenziato, ma qui, nell’era della cosiddetta «globalizzazione», tutt’altro che una novità per i marxisti. All’entrata del nuovo millennio, ormai, quella società «fordista» – che con le sue apparentemente solide conquiste sindacali, con il suo welfare state, appariva, ed era, la fase più avanzata del capitalismo – ci si rivela oggi, con i suoi «ammortizzatori sociali», con i suoi «contratti collettivi», coi suoi «sindacati collaborazionisti», come l’ultima soglia di un capitalismo non ancora pienamente dispiegato, costretto a garantire ai suoi schiavi, per assicurare la continuità e la qualità della produzione, condizioni che avrebbero fatto l’invidia del lavoratore manifatturiero del XVIII secolo. Mai come nell’era della produzione e dell’occupazione «flessibile» si invera infatti la visione di Marx di una società in cui
«si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti», una società che «si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato»[135].
Varcata la soglia della prossima recessione, il proletario di oggi, con il suo piccolo portafoglio di titoli al posto delle garanzie «fordiste» quali il sussidio di disoccupazione o la cassa integrazione, con la «casa di proprietà» ipotecata dal mutuo invece che in affitto, scoprirà alla fine cosa significa essere «senza riserve».

Rispetto al capitalismo di cinquant’anni or sono, quello che oggi ci delizia coi suoi pretesi trionfi presenta senza tema di smentite un carico di contraddizioni tanto violente e minacciose che non ci sentiano di scommettere un soldo bucato sul fatto che l’attuale ciclo espansivo possa avere una lunga durata. Dal 1975, punto basso del ciclo precedente, ad oggi, venticinque anni sono trascorsi, quasi quanti i «trenta gloriosi». Anche a voler contare dal 1982, anno che segna una nuova minore recessione e l’inizio della fase attuale, un ventennio è ormai quasi trascorso. Con una situazione finanziaria esplosiva come quella che stiamo vivendo, il pronostico lanciato da Soros di una
«disgregazione imminente del sistema capitalistico globale»[136] è tutt’altro che ozioso.

23 – Prospettive del nuovo millennio

Troppe volte però i rivoluzionari hanno visto imminente la fine della produzione capitalistica, perché si possa ancora commettere l’errore di fare del castrofismo a buon mercato. Nella misura in cui la società del capitale riuscirà a sopravvivere e se vi riuscirà sono già visibili i suoi contorni prossimi venturi.

Innanzitutto dal punto di vista dell’organizzazione sociale: come più dettagliatamente argomentiamo in un altro articolo di questo bollettino[137], è in corso un vasto re-engineering della giornata lavorativa e dei tempi sociali destinato a cambiare i ritmi di vita allontanandoci sempre più dal modello sincronico, tuttora dominante, della società «fordista» – col suo alternarsi di lavoro e tempo libero uguale per tutti o quasi, con le sere in famiglia davanti al televisore – che un giorno ci farà l’impressione che oggi ci lasciano certi ricordi dei nonni sulle bucoliche delizie della società rurale coi suoi «filò» invernali nella stalla di famiglia. Al suo posto avanza la diacronia della società «post-fordista» che, quasi a voler riproporre su scala generale la produzione per «isole», frantuma quel tanto di coesione familiare e di gruppi sociali che ancora nella società «fordista» poteva sopravvivere, obbligando i singoli individui, come monadi che perennemente si elidono, a girare vorticosamente nella «rete» globale dei nuovi mezzi di inquadramento del lavoro e della comunicazione interpersonale: il lavoro in catena cede il passo a quello per gruppi o al telelavoro, il lavoro in giornata ai turni differenziati, le assemblee pubbliche al «popolo dei fax», la famigliola due più due al single, la sala cinematografica è sostituita dal videoregistratore, il divertimento collettivo da quello virtuale, i luoghi di incontro da internet, la coppia, l’amicizia e la famiglia dal … club dei cuori solitari.

Ma anche dal punto di vista tecnologico il capitale sta già correndo verso un nuovo modello di sviluppo. Delle grandi scoperte del secolo XX, l’energia nucleare e il DNA, sembra la seconda, attualmente, quella più promettente per il futuro del capitalismo. Se l’informatica è ormai entrata in ogni poro della vita sociale, le biotecnologie saranno il grande affare del XXI secolo.

«… l’abilità di isolare, identificare e ricombinare i geni fa del pool genetico una nuova materia prima per l’attività economica futura. Le tecniche del DNA ricombinante e altre biotecnologie consentono agli scienziati di individuare, manipolare e sfruttare le risorse genetiche per fini economici specifici. (…) Il nostro scopo ultimo è quello di rivaleggiare con la curva della crescita dell’era industriale. Producendo materiali viventi con una rapidità superiore a quella della natura e poi di convertire la materia vivente risultante in una cornucopia economica. (…) Stiamo diventando gli ingegneri della vita stessa. Stiamo iniziando a riprogrammare i codici genetici degli organi viventi per soddisfare i nostri desideri e i nostri bisogni culturali ed economici. (…) Nell’industria mineraria, i ricercatori stanno sviluppando nuovi microorganismi capaci di rimpiazzare i minatori e le loro macchine (…)»[138].

«L’intera agricoltura potrebbe trovarsi nel bel mezzo di una grande transizione, con una quantità sempre maggiore di cibo e di fibre fatta crescere con l’aiuto di batteri all’interno di giganteschi bagni di coltura, il tutto a un prezzo molto inferiore a quello delle varietà che crescono nel terreno. (…) milioni di contadini, sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli già sviluppati, potrebbero essere sradicati dalla loro terra, incentivando uno dei più grandi sconvolgimenti sociali nella storia del mondo»[139].

Il contrasto tra UE e USA al WTO di Seattle sui cibi transgenici illustra meglio di qualsiasi esempio l’importanza di quanto andiamo dicendo.

Accanto alle biotecnologie, il cui sviluppo prodigioso è una conseguenza dell’informatica che ha permesso di gestire i milioni di informazioni necessari alla comprensione dei geni, è una branca generata anch’essa dall’informatica, l’altra mecca del futuro capitalismo: intendiamo riferirci alle telecomunicazioni, destinate ad avere per l’umanità un ruolo analogo a quello dell’invenzione della stampa: come quest’ultima aveva reso immensamente più economica la diffusione della conoscenza sottraendola per altro agli innumerevoli errori e alle numerose interpolazioni o censure arbitrarie dell’emanuense e del copista, come la carta stampata ha contribuito a combattere l’analfabetismo aprendo le porte al mondo moderno, così la «rete intelligente», estensione elettronica e cibernetica delle capacità mentali e comunicative dell’uomo, è destinata non solo a modificare i sistemi produttivi, svincolandoli sempre più dalla concentrazione fisica, ma a creare nuovi bisogni sociali: come il libro non esisteva prima di Gutenberg, così nuove merci scaturiranno dal «grande fratello» che avvolge «in tempo reale» il mondo intero.

Un altro impulso verso nuovi settori e nuove produzioni viene al capitalismo dalla sue contraddizioni stesse: i teorici de «I limiti dello sviluppo»[140] e del Club di Roma avevano predetto la fine del sistema industriale a causa dell’esaurimento delle risorse. Al contrario, la «crisi energetica» ha spinto alla scoperta di fonti alternative e all’approntamento di tecniche per il risparmio energetico e per rendere economiche le fonti fino allora non sfruttate, col risultato che il petrolio è lungi dall’essere esaurito ed il suo prezzo in dollari costanti non è oggi molto divero da quello del 1973, prima della «crisi del petrolio». I demografi avevano predetto un incremento della popolazione tale da esaurire le risorse alimentari del pianeta e, al contrario, ci troviamo sommersi da produzioni eccedentarie che non trovano acquirenti mentre qualcuno prospetta addirittura la «fine dell’agricoltura» a causa della sua sostituzione con procedimenti industriali biotecnologici. In pari tempo, il trend di incremento della popolazione è diminuito notevolmente nei paesi occidentali rendendo indispensabile il ricorso all’immigrazione. È lecito a questo punto supporre che altri giganteschi problemi dello sviluppo capitalistico, quali l’effetto serra, l’inquinamento e il sovraffollamento delle città possano trovare – nella misura in cui ne scaturiscano nuove branche suscettibili di offrire un profitto – una relativa soluzione.

È per noi marxisti chiaro che queste controtendenze del capitalismo all’aggravarsi delle sue contraddizioni non risolvono, e a termine aggravano, la contraddizione fondamentale del capitale, ossia il conflitto tra lo sviluppo sociale delle forze produttive e l’appropriazione privata dei frutti del lavoro: questa inceppa infatti ogni produzione, ogni tecnica, nei limiti della produzione di profitto, anzi di una massa crescente di esso. Ciò di necessità si traduce in ultima analisi nello sforzo di risparmiare lavoro, cioè in un aumento – pur contrastato da numerose tendenze opposte – della parte costante del capitale (impianti, macchinari, materie prime, ecc.) rispetto a quella variabile, ossia al monte salari, il che significa in sostanza diminuire la resa, il tasso di profitto, di ogni capitale addizionale investito. Tendenza a cui il capitale non può reagire che con la razionalizzazione della produzione e ancora aumentando la massa delle merci, fino al momento in cui il meccanismo – dopo una titanica lotta tra capitali per sbaragliarsi – si blocca, e subentra la crisi. La nostra prospettiva «per il nuovo millennio» rimane quindi fermamente quella della rivoluzione internazionale della classe operaia, la prospettiva del comunismo.

Ma non bisogna commettere verso il concetto della caduta del saggio di profitto l’errore dei catastrofisti borghesi verso i «limiti dello sviluppo»: non esistono limiti assoluti contro cui il capitale possa andare a sbattere. E, come la crisi non è per il capitale solo una minaccia, ma anche una scommessa di rigenerazione, così la caduta del saggio di profitto non è che il rovescio della medaglia della massa crescente dei profitti prodotti.
«Caduta del saggio di profitto ed acceleramento della accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva»[141].

Anche per questi motivi, una visione «economicistica» della crisi storica del capitale, che tutto facesse dipendere dai cicli (brevi o «lunghi») della congiuntura, e dalla pancia finalmente vuota della maggioranza della classe operaia, sarebbe del tutto inadeguata alla comprensione della complessa dinamica capitalistica. Non a caso, nel «Capitale» Marx si occupa solo marginalmente del problema dei cicli: quello che gli interessa non è la determinazione anticipata e astratta dei momenti favorevoli alla rivoluzione, bensì la critica del movimento del capitale complessivo sociale nella sua totalità. Egli non ci parla infatti soltanto di accumulazione e di caduta del saggio di profitto, ma di merce e denaro, di esercito industriale di riserva, di sproporzioni fra le diverse sfere, di rotazione e circolazione del capitale, di rendita fondiaria, di credito, di concorrenza. È a tutti questi aspetti nel loro insieme organico che Marx chiede la condanna storica del sistema presente. Il capitale non morirà perché ogni trenta o cinquant’anni la sua produzione cala violentemente per un periodo più o meno lungo, ma perché, crescano o meno la produzione e il credito, le sue contraddizioni permanenti, le sue crisi, le sue guerre lo renderanno insopportabile all’umanità. E la classe proletaria non è rivoluzionaria perché sia quella che soffre di più o l’unica a soffrire, in termini di salari, ritmi di lavoro e disoccupazione, degli effetti distruttivi del ciclo capitalistico. Lo è perché è l’unica il cui antagonismo col capitale sia inconciliabile, perché rappresenta l’avvenire. Il capitale non morirà solo perché ogni trenta a cinquant’anni abbassa i salari e licenzia, bensì perché fa questo dopo aver creato una permanente situazione di incertezza e disagio sociale sotto molteplici punti di vista.

Il determinismo da operetta che tutto riduce all’attesa messianica di una matematica catarsi, anzi di una nemesi è una contraffazione volgare dei poderosi sforzi di comprensione del complessivo corso del capitalismo storicamente messi in piedi dalla scuola marxista. Occorre dunque rifuggire dalle semplificazioni sbandierando le quali si rendono ridicoli tanti suoi infantili epigoni, e opporre ad esse lo
«studio dei fenomeni particolari dello svolgimento capitalistico, da cui, dato il carattere del metodo, deve incessantemente trarsi la verifica ed il controllo della teoria generale e la prova della sua efficacia»[142].

24 – Novecento, secolo della «controriforma» capitalistica

Si può – sulla base di questo sintetico excursus, nel quale abbiamo trascurato sicuramente molti aspetti importanti selezionando quelli che ci sono parsi più significativi – tentare di delineare un bilancio utile alla comprensione del secolo trascorso e, ancor più, al prossimo avvenire?

In primo luogo è giocoforza constare, purtroppo, che a distanza di più un secolo dalle previsioni di Engels ricordate all’inizio di questo lavoro e ad ottant’anni abbondanti dalla rivoluzione russa, non solo la prospettiva della rivoluzione non si è avverata, ma che la sua realizzazione non è nel novero delle possibilità vicine. A partire dal 1927 infatti – dopo un secolo che, culminante nella rivoluzione russa, fu di ascesa complessiva malgrado temporanee battute d’arresto – il movimento della classe operaia in quanto movimento rivoluzionario, in quanto movimento indipendente, è andato progressivamente scemando. Sullo scorcio di questa fine secolo, dunque, la rivoluzione russa, più che l’inizio dell’era della rivoluzione mondiale, ci appare oramai come il grande movimento annunciatore del futuro che chiude un periodo storico, il grande evento che riassorbe e riassume in sé in caratteri di tutta un’epoca della storia europea contrassegnata dall’impulso proletario alle trasformazioni del tessuto sociale. Trasformazioni che a conti fatti hanno spianato la strada al dominio del capitale e maturato, ad est come ad ovest, nel 1848 come nel 1917, le condizioni della società borghese. Nell’ambito di quei movimenti, tuttavia, la classe operaia – una classe operaia, oggi possiamo dirlo, ancora per certi versi legata al passato se confrontata col «nuovo» proletariato dell’era della «globalizzazione» – ha condotto, sull’arco di cento anni, le sue prime, grandiose esperienze, elaborando le forme della lotta economica e politica (sindacato, partito e dittatura del proletariato), la tattica verso le altre classi e organizzazioni politiche, verso la guerra imperialista, verso gli istituti democratici come verso la dittatura aperta della borghesia e lo statalismo, nei confronti del problema nazionale ed agrario. Gli insegnamenti della rivoluzione russa e del primo dopoguerra, ossia del più recente e grandioso dei movimenti proletari autonomi, si riassumono così nell’impossibilità della vittoria senza la compattezza e l’intransigenza del partito rivoluzionario e della monopartitica dittatura di classe, cosiccome nel rifiuto dei «fronti» con le forze politiche opportuniste e della sinistra istituzionale, nonché del fronte «antifascista» e della falsa alternativa «democrazia-fascismo».

Esaurito il grande slancio che sembrava schiudere al secolo ventesimo la prospettiva del comunismo, la reazione capitalista, nelle sue diverse forme stalinista, fascista e democratica procedeva alla più gigantesca ondata controrivoluzionaria della storia del capitalismo, combinando gli effetti delle violenza e dell’annientamento fisico con quelli della corruzione parlamentare e di una completa degenerazione dottrinaria ed organizzativa del movimento operaio.

La reazione borghese non si è svolta però solo sul piano politico, bensì anche su quello sociale e della riorganizzazione dell’apparato statale, integrando i metodi istituzionali, le istanze riformiste e quelle totalitarie e dando vita ad un meccanismo di controllo sociale immensamente più attrezzato nella gestione lungimirante e «forte» delle leve del potere, sia nella sfera politica che economica.

Nel campo economico, appunto, le grandi convulsioni della prima metà del '900 hanno avviato una gigantesca riconversione mondiale del capitalismo che, celebrando i trionfi del produttivismo e della società «fordista», conseguiva attraverso un periodo inusitato di crescita una trasformazione «forte» della società tutta.

La crisi di questo «modello di sviluppo», come lo chiamano i borghesi, alfine sopraggiunta, non fu così forte da sciogliere la classe rivoluzionaria dai ceppi del sindacalismo collaborazionista e del riformismo borghese. Ad essa i lavoratori arrivarono dopo che l’accumularsi delle sconfitte della prima metà del secolo e degli effetti ipnotici dei «trenta gloriosi» avevano cancellato la tradizione di classe. La reazione proletaria, limitata nei suoi aspetti tradunionisti, se vi fu, venne stroncata sul nascere.

La nuova fase di ristrutturazione del capitale avviata con la crisi del «fordismo», pur peggiorando in modo generalizzato alcuni parametri della condizione proletaria, non ha portato ad una recrudescenza della lotta classista: creando un mercato del lavoro differenziato tra lavoratori stabili e vaste fasce precarie, chiudendo in alcuni settori le grandi officine, proletarizzando strati di tecnici e impiegati, immettendo in modo sempre più massiccio mano d’opera migrante, rendendo superflua con l’automatizzazione la professionalità residua di interi settori del proletariato, dissolvendo e trasformando una quota considerevole della vecchia classe operaia sindacalizzata, essa creava un’ulteriore spirale depressiva del movimento operaio, giungendo ad azzerare sui luoghi di lavoro anche la tradizione tradunionista e il livello di base degli stessi sindacati ufficiali.

Per tutti questi motivi il XX secolo rappresenta, a partire dal 1927, un’autentica controriforma del capitalismo, ossia non un fenomeno controrivoluzionario passeggero, ma una complessa azione di ammodernamento delle anchilosate strutture e di recupero delle energie sociali: come la Chiesa cattolica del Concilio di Trento seppe reagire a quel primo assalto premonitore della futura società borghese che va sotto il nome di «riforma» con un profondo svecchiamento delle sue strutture oltre che con i mezzi della spietata repressione, così la società borghese ha saputo, dopo l’Ottobre rosso, rigenerare il suo organismo aggredendo con nuovi e più potenti anticorpi la grave mallatìa che l’aveva investita.

Di per sé una crisi, anche grave, non assicura affatto una ripresa di classe. Lo stesso dicasi della guerra. Per i motivi già detti, il proletariato come forza attiva della storia fu assente tanto dopo il '29 quanto in occasione della seconda guerra mondiale e della crisi del '73-'75. A maggior ragione, quand’anche fosse relativamente vicina – cosa per nulla impossibile visto che il ciclo espansivo americano, già inusitatamente lungo, è destinato comunque a finire – la prossima inevitabile onda recessiva del capitalismo non garantirebbe affatto né una immediata, né una sicura ripresa della lotta di classe. Dopo una così lunga latitanza storica infatti, essa non potrà che essere lunga e penosa. Chiunque cerchi gratificazioni e risultati farà dunque bene, per lungo tempo, a tenersi distante dal movimento comunista, e a frequentare i bordelli della politica à la page, i fronti pacifisti antiamericani, le associazioni di volontariato, il settore no-profit.

25 – Dove va la classe operaia?

Le conferme del marxismo sull’arco del secolo trascorso sono tuttavia così schiaccianti sul piano generale da far ritenere non evitabile, a più o meno lunga scadenza, il conflitto tra lavoro salariato e capitale. Certo, questo conflitto assumerà aspetti nuovi, riflesso della trasformazione subita nel corso del XX secolo dalla configurazione del proletariato. Accanto alle classiche e mai tramontabili rivendicazioni sul salario e l’orario di lavoro la classe sarà portata, per la stessa necessità di reagire alla sua attuale stratificazione, ad avanzare richieste unificanti e tutelative degli strati precari e più «flessibili» della mano d’opera, cosiccome a trovare un terreno di organizzazione che le possa consentire di unire trasversalmente – ossia al di sopra di luoghi di lavoro e categorie diverse – proletari con problematiche affini quali i lavoratori «atipici» («cooperative», maestranze dei «terzisti», lavoratori a tempo determinato, ecc.). Difficile invece il ripresentarsi di quelle forme di mobilitazione specifiche della proletariato «fordista», quali le lotte articolate, a «gatto selvaggio», assai vantaggiose per i lavoratori allorquando le fermate reparto per reparto comportavano il blocco di tutta la catena della produzione, ma che diventano difficili e comunque meno efficaci nell’ambito della produzione «toyotista» a «isole»; forse, lo stesso destino avranno quelle peculiari forme organizzative, quali i consigli di fabbrica dei delegati, che da quelle lotte scaturivano. Non è detto che in futuro non siano proprio organizzazioni a carattere territoriale e non di reparto, azienda o di categoria, ad assumere un ruolo trainante.

Ciò che è successo a Seattle – dove hanno sfilato 1200 organizzazioni di 85 paesi – anche se ha poco a che fare con la classe operaia, mostra quali dimensioni internazionali un movimento possa assumere in breve tempo, e la reazione violenta dell’ordine costituito contro una mobilitazione democratica fa comprendere come oggettive contraddizioni del sistema possano esplodere in forme incontrollate.

I 140 giorni di sciopero dei tecnici e degli ingegneri della francese ELF per salvare 1500 dei 4000 posti di lavoro legati alla ricerca e alla gestione informatica, a loro volta, facendo scendere in campo lavoratori privilegiati che sono tra l’altro azionisti della ditta, ci rendono edotti sulle potenzialità di allargare il fronte della lotta di classe dischiuse dalla progressiva proletarizazione dei ceti intermedi.

Un esempio delle vie che la lotta operaia potrebbe in futuro prendere ci viene poi dalle maestranze dell’UPS, la gigantesca azienda americana (6 % del PIL, 338 000 dipendenti, di cui 200 000 negli USA) che controlla l’80 % del trasporto pacchi del proprio paese e possiede numerose filiali all’estero. Qui il tentativo di coordinare la maggioranza dei dipendenti, il 60 % dei quali precari, in una lotta per aumenti salariali e una maggiore stabilità dell’impiego è stata coronata nel 1997 per la prima volta da un relativo successo[143]. Malgrado alcuni aspetti ambigui di una mobilitazione che ha ricevuto per motivi contingenti l’appoggio dei bonzi sindacali ufficiali, si tratta della prima vertenza di grande ampiezza che abbia interessato il nuovo proletariato dell’era del «capitalismo globale»[144].

La scomparsa della tradizione organizzata di classe, sia sindacale che politica, rende purtroppo probabile nel futuro movimento proletario la confusione tra i due piani: così è stato nell’ultima stagione di lotte del proletariato occidentale, a cavallo tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70; in forme certo diverse da quelle di allora, collegate al predominio di quello che fu chiamato «l’operaio massa» di matrice «fordista», il problema si ripresenterà. In virtù della profonda deturpazione dell’immagine del comunismo operata dai paesi «socialisti» e dai «comunismi» nazionali vi si aggiungeranno altre suggestioni antimarxiste, magari di matrice piccolo borghese, anarchica, operaista. Ciò costringerà i comunisti a confrontarsi con una situazione senza precedenti nella storia, dove elementi già superati dal movimento operaio si mescoleranno a impulsi positivi all’azione di classe.

In ogni caso è fuori discussione una pura e semplice riproposizione di ciò che il movimento operaio è stato nel passato. Chi attende le bandiere rosse e la tuta blu dalle maniche rimboccate che canta l’Internazionale innalzando ritratti di Lenin rimarrà deluso. La stessa nuova dimensione che la lotta internazionale proletaria assumerà in conseguenza della sua estensione a nuove aree del mondo sui cinque continenti contribuirà alla varietà e al progresso delle sue forme: come il «barbaro» proletariato russo creò i Soviet così le giovani classi proletarie dei paesi «in via di sviluppo» arricchiranno l’esperienza internazionale della lotta di classe. Persino dal punto di vista simbolico l’irruzione dei proletari africani, asiatici, latino americani nella storia introdurrà nel conflitto lavoro salariato-capitale linguaggi, slogan, atteggiamenti che, se da una parte cercheranno di riallacciarsi (dovranno!) alle tradizioni passate del movimento operaio, dall’altro si avvarranno di materiali tratti dall’humus sociale e «culturale» delle diverse aree geostoriche, fondendoli – qualora la ripresa rivoluzionaria assuma sufficiente ampiezza – con i sentimenti e le aspirazioni peculiari del contemporaneo proletariato «globalizzato» delle metropoli industriali.

Quest’ultimo, indubbiamente, rimarrà la forza determinante della futura ondata rivoluzionaria, ma se il movimento operaio che dal XIX secolo al primo dopoguerra ha lasciato la sua impronta sulla storia del capitalismo fu soprattutto europeo ed occidentale. Quello del XXI sarà mondiale e perciò più complesso. Esso si porrà dunque di bel nuovo il problema di una tattica internazionale che per quanto possa e debba contenere quella tendenza all’unitarietà che l’esperienza della Terza Internazionale non poté portare a buon fine, e in mancanza della quale la vittoria è impossibile, nondimeno dovrà misurarsi con la complicata e differenziata struttura di cinque continenti che per vie diverse, e in ben diversa misura, e in talune aree senza superare le stimmate precapitalistiche e coloniali, sono entrati a far parte del sistema e del mercato mondiale. Non si tratterà di «arricchire» il marxismo, i cui postulati rimangono validi per tutto il corso storico del capitalismo, con «nuove scoperte», bensì di comprendere ad esempio che la questione agraria non è in Asia la stessa che in Africa, e che il problema nazionale si pone – o non si pone ancora – nel continente nero in modo nettamente differente da quello dell’America Latina. E in nessuno di questi casi la marcatamente «occidentale» esperienza passata del movimento proletario, che pure continuerà a costituire la base irrinunciabile di ogni progresso della lotta di classe, potrà di per sé sola fornire risposte esaurienti.

26 – Errare humanum est, perseverare diabolicum

Lo svolgimento del novecento, rigorosamente rispondente ai dettami della teoria marxista, ha tuttavia offerto sviluppi della lotta di classe che avrebbero stupito Marx, Engels e Lenin. Una stasi del movimento operaio quale quella che ci avvolge da ottant’anni è un inedito della storia. Nulla di strano che errori di prospettiva siano stati commessi:
«la storia non si fa, una volta ancora, ed è saltuaria fortuna decifrarla. (…) Anzi non se ne decifra nemmeno la via sicura, il che potrebbe concludere al fatalismo, che inorridisce l’impotente nato (…): se ne stabiliscono solo alcuni legami tra date condizioni e corrispondenti sviluppi»[145].
Rifiutarsi però di ammettere – di fronte alle lezioni della storia – che per il capitale non esistono crisi in assoluto senza via d’uscita; rifiutarsi di ammettere, davanti all’evidenza dei fatti, che l’attesa crisi storica del capitale è ancora di là da venire, significa contraffare il marxismo, non essere in grado – come lo fu la sinistra comunista degli anni '50 – di ammettere la sconfitta e di rielaborare la certezza della vittoria.

Coloro che, di fronte alla complessità dei fenomeni sociali, di fronte ai rovesci subiti, di fronte al perdurare della sconfitta, se ne vengono innanzi baldanzosi con la loro riduzione del marxismo in pillole, con la loro ricettucola che tutto ha previsto, dove tutto sta scritto, come diceva Lenin
«dovrebbero essere tempestivamente proclamati puri imbecilli»[146].
Grigia è la teoria, che arranca faticosamente a lenti passi dietro ai sismi della storia, ma verde è l’albero della vita, su cui costantemente prolificano le innumerevoli forme della vita sociale. Chiudere gli occhi di fronte ad esse significa ridurre la teoria ad un mantra buddista la cui ripetizione dona consolazione allo spirito mentre la carne soffre. Solo guardare ai fatti impugnando l’implacabile arma della dialettica che corrode ogni forma irrigidita, ogni pregiudizio, ogni semplificazione, è atteggiamento degno del marxismo rivoluzionario.

«Ad eccezione di alcuni pochi capitoli, ogni periodo importante degli annali rivoluzionari (…) porta come titolo: Disfatta della rivoluzione! Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone illusioni, idee progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato (…) e da cui poteva liberarlo (…) solamente una serie di sconfitte. In una parola: il progresso rivoluzionario (…) si fece strada (…) facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario.»[147]

Saprà il movimento operaio futuro far tesoro dei propri errori?

Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. F. Engels, «Prefazione» all’edizione tedesca del «Manifesto del Partito Comunista» del 1890, in K. Marx-F. Engels, «Manifesto del Partito Comunista», Einaudi, Torino, 1962. [⤒]

  2. Engels a Bernstein, 22–25 febbraio 1882, cit. in F. Andreucci, «Socialdemocrazia e imperialismo», Roma, Ed. Riuniti, 1988, p. 94. [⤒]

  3. F. Engels, «Introduzione» del 1895 a «Le lotte di classe in Francia» di Marx, Roma, Editori Riuniti, 1962. [⤒]

  4. F. Engels, «Il partito socialista e la pace», in F. Engels, «La politica estera degli zar», Milano, La Salamandra, 1978, pp. 94–95. [⤒]

  5. Cfr. M. Dobb, «Problemi di storia del capitalismo», Roma, Ed. Riuniti, 1991, pp. 327 e segg. [⤒]

  6. Nota di Engels al XXX cap. del «Capitale» di Marx, Roma, Ed. Riuniti, 1970, 3 (2), p. 182. Engels aveva però aggiunto prudenzialmente:
    «Può darsi però che si tratti soltanto di un prolungamento della durata del ciclo» (ibid.).
    È dalla «grande depressione» di fine '800, dunque, e non da quella successiva del '29, che il ciclo capitalistico, con le sue periodiche crisi, presenta un andamento perturbato. [⤒]

  7. A. Agosti, «Le internazionali operaie», Torino, Loescher, 1973, p. 21. [⤒]

  8. V. I. Lenin, «La III Internazionale e il suo posto nella storia», Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1965. [⤒]

  9. P. Broué, «Rivoluzione in Germania», Torino, Einaudi, 1971, pp. 10–20. [⤒]

  10. P. Broué, «Rivoluzione in Germania», Torino, Einaudi, 1971, pp. 10–20. [⤒]

  11. P. Broué, «Rivoluzione in Germania», Torino, Einaudi, 1971, pp. 10–20. [⤒]

  12. V. I. Lenin, «Progetto di risoluzione della sinistra di Zimmerwald», «Opere complete», vol. 21, p. 317. [⤒]

  13. M. Dobb, «Problemi di storia del capitalismo», Roma, Ed. Riuniti, 1991, pp. 339–342. [⤒]

  14. E. Bernstein, «I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia», Bari, Laterza, 1974. [⤒]

  15. V. I: Lenin, «Il socialismo e la guerra», ibid., p. 283. [⤒]

  16. Cfr. la ricostruzione del dibattito in P. M. Sweezy, «La teoria dello sviluppo capitalistico», Torino, Einaudi, 1951, pp. 247 e segg. [⤒]

  17. R. Luxemburg, «L’accumulazione del capitale», Torino, Einaudi, 1960. [⤒]

  18. K. Kautsky, «Teorie delle crisi», Firenze, Guadagni ed., 1976. [⤒]

  19. V. I. Lenin, «L’imperialismo, fase suprema del capitalismo», Opere Complete, vol. 22, p. 266. [⤒]

  20. V. I. Lenin, «Il socialismo e la guerra», op. cit., p. 275. [⤒]

  21. V. I. Lenin, «Il fallimento della II Internazionale», Opere complete, vol. 21, p. 233. [⤒]

  22. In A. Agosti, «La Terza Internazionale», Roma, Ed. Riuniti, 1974, vol. I, 1, pp. 23–30. [⤒]

  23. E. J. Hobsbawm, «Il secolo breve», Milano, Rizzoli, 1997, p. 112. [⤒]

  24. Nel gold exchange standard la misura degli scambi internazionali non era più l’oro, ma sostanzialmente sulla sterlina ancorata all’oro. [⤒]

  25. Una ricostruzione della politica finanziaria tra le due guerre in G. Alvi, «Il secolo americano», Milano, Adelphi, 1996. Una disamina della politica economica generale nel testo del 1936 di O. Bauer, «Tra due guerre mondiali?», Torino, Einaudi, 1979. [⤒]

  26. Cfr. M. Dobb, «Problemi di storia del capitalismo», Roma, Ed. Riuniti, 1991, p. 359. [⤒]

  27. Già nel 1922, il romanzo «Babbit» di Sinclair Lewis (Milano, Corbaccio, 1993) descrive un protagonista felice di poter godere di «prodotto standard reclamizzati, dentifrici, calze, penumatici, macchine fotografiche, scaldabagni» e soprattutto l’automobile, «poesia e tragedia, amore ed eroismo» (pp. 105, 30). [⤒]

  28. S. Guarracino, «Il novecento e le sue storie», Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 144. [⤒]

  29. Si noti come il ciclo capitalistico sia per Marx la successione di almeno quattro stati dell’economia, e non una mera successione boom-crisi. [⤒]

  30. K. Marx, «Il capitale», II, Roma, Ed. Riuniti, 1970, 1, pp. 192–193. [⤒]

  31. «Relazione sulla crisi mondiale e sui nuovi compiti dell’Internazionale comunista», 1921, in L. Trotsky, «Problemi della rivoluzione in Europa», Milano, Arnoldo Mondadori, 1979, pp. 152–53. [⤒]

  32. «Relazione sulla crisi mondiale e sui nuovi compiti dell’Internazionale comunista», 1921, in L. Trotsky, «Problemi della rivoluzione in Europa», Milano, Arnoldo Mondadori, 1979, p. 361. [⤒]

  33. Cfr. l’intervento di Bucharin al VII Esecutivo allargato dell’IC sul «Bullettin communiste» n. 131del 7/12/1926. [⤒]

  34. Cfr. M. Dobb, «Problemi di storia del capitalismo», Roma, Ed. Riuniti, 1991, p. 348. [⤒]

  35. Per una sintesi delle più rappresentative analisi borghesi sulla crisi del '29 cfr. G. Are, «La grande depressione degli anni '30», «Storia contemporanea» n. 1/99, pp. 29–60. [⤒]

  36. Cfr. M. Dobb, «Problemi di storia del capitalismo», Roma, Ed. Riuniti, 1991, pp. 356–358. [⤒]

  37. E. J. Hobsbawm, «Il secolo breve», Milano, Rizzoli, 1997, p. 112. [⤒]

  38. O. Bauer, op. cit., pp. 23–24, 28. [⤒]

  39. L’affermazione ricorrente nella pubblicistica borghese (fatta propria ad es. da Milton Friedman) che il crollo della fine degli anni '20 sia da attribuirsi alla politica monetaria restrittiva dei governi, e che una crisi «tipo-'29» non possa ripetersi è smentita dalle analogie tra la «grande depressione» di fine '800 e quella degli anni '30 di questo secolo. In realtà sono proprio le condizioni dell’economia capitalistica matura, basata su un «immane sistema creditizio» (Bauer) a rendere inevitabili tali crisi. Ne riparleremo oltre a proposito della più recente storia dell’economia capitalistica. [⤒]

  40. «Economist» del 18/3/1939, cit. in M. Dobb, op. cit., p. 361. [⤒]

  41. Con questo non intendiamo associare la figura, pur ambigua, di Gramsci con quella, pienamente controrivoluzionaria, del regime e della politica staliniana. [⤒]

  42. F. Pollock, «Osservazioni sulla crisi economica, in Teoria e prassi dell’economia di piano», Bari, De Donato, 1973, p.169. [⤒]

  43. «Il comunista» del 17/11/1921. [⤒]

  44. «Rapporto del PCd’I al IV Congresso dell’IC», «La correspondance internationale» del 22/12/1922. [⤒]

  45. «Roma e Mosca», «Il lavoratore» del 12/1/1923. [⤒]

  46. «Rapporto della sinistra del PCd’I al V Congresso dell’IC», «Protokoll des V. Weltongresses der Kommunistischen Internationale», seduta del 2v luglio 1924. [⤒]

  47. «Rapporto della sinistra del PCdI al VI Esecutivo allargato dell’IC», 1926. [⤒]

  48. «Che cosa vale una elezione», «L’Unità» del 16 aprile 1924. [⤒]

  49. A. Paczkowski, «Polonia, la ‹nazione nemica›», in AAVV, «Il libro nero del comunismo», Milano, Arnoldo Mondadori, 1997, p. 344. [⤒]

  50. E. J. Hobsbawm, «Il secolo breve», Milano, Rizzoli, 1997, p. 59. [⤒]

  51. S. Guarracino, «Il novecento e le sue storie», Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 160. [⤒]

  52. S. Guarracino, «Il novecento e le sue storie», Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 68. [⤒]

  53. Nel considerare l’evoluzione dell’Unione Europea non si deve mai dimenticare che il (parziale) sacrificio dei particolari interessi nazionali in essa implicito va sempre paragonata alla situazione di sudditanza nei confronti di Washington. [⤒]

  54. Cfr. G. Pala, «Il fondo monetario internazionale», Napoli, Laboratorio politico, 1996. [⤒]

  55. S. Guarracino, «Storia degli ultimi cinquant’anni», Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 21–24. [⤒]

  56. J. Fourastié, «Les trente glorieuses, ou la révolution invisible», Paris, Fayard, 1979. [⤒]

  57. S. Guarracino, «Storia degli ultimi cinquant’anni», Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 135–140. [⤒]

  58. E. J. Hobsbawm, «Il secolo breve», Milano, Rizzoli, 1997, p. 307. [⤒]

  59. Il «rapporto Morris» premesso ad uno studio della Chase Econometrics, affermava nei primi anni '70 che «il periodo di stabile crescita economica che va dal 1954 al 1973 sarà giudicato per quello che realmente è stato: una aberrazione» (cit. in L. Maitan, «La grande depressione (1929–32) e la recessione degli anni '70», Roma, 1976, p. 103. [⤒]

  60. G. Arrighi, «Il lungo XX secolo», Milano, Il saggiatore, 1996, p. 388. [⤒]

  61. R. Luxemburg, «L’accumulazione del capitale», Torino, Einaudi. [⤒]

  62. E. J. Hobsbawm, «Il secolo breve», Milano, Rizzoli, 1997, p. 306. [⤒]

  63. A titolo di esempio, in Giappone la popolazione contadina è passata dal 52,4 % del 1947 al 9 % del 1985 e al 5 % circa attuale (ibid., p. 342; «Il libro dei fatti 2000», Roma, Adnkronos Libri, 1999. p. 319). [⤒]

  64. E. J. Hobsbawm, «Il secolo breve», Milano, Rizzoli, 1997, p. 365. «Il libro dei fatti 2000», op. cit., p. 318. [⤒]

  65. «Teoria e azione nella dottrina marxista», «Bollettino Interno» del Partito comunista internazionale n. 1 del 1951. [⤒]

  66. Si veda in proposito il lavoro di Sweezy, che rivaluta la posizione di Kautsky, «La teoria dello sviluppo capitalistico», cit. [⤒]

  67. H. Grossmann, «Il crollo del capitalismo», Milano, Jaka Book, 1971. Se ne veda la confutazione di A. Pannekoek intitolata «La teoria del crollo del capitalismo» in D. Authier-J. Barrot, «La sinistra comunista in Germania», Milano, La salamandra, 1981. [⤒]

  68. N. Kondratiev, «I cicli economici maggiori», Bologna, Cappelli, 1981. [⤒]

  69. J. A. Schumpeter, «Il processo capitalistico. Cicli economici», ed. ridotta a cura di R. Fels, Torino, 1977. [⤒]

  70. Cit. in G. Garvy, «La teoria dei cicli lunghi di Kondratiev», in N. Kondratiev, op. cit., p. 219. [⤒]

  71. Citazione da «Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx», «Il Programma Comunista» n. 23 del 1957. Il lungo studio si rintraccia sulle pagine dello stesso giornale a partire dal n. 16 dello stesso anno e, senza continuità , prosegue sino al n. 7 del 1959. [⤒]

  72. «Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx», «Il Programma Comunista» n. 23 del 1957. [⤒]

  73. Cit. in D. Giachetti e M. Scavino, «La Fiat in mano agli operai – l’autunno caldo del 1969», Pisa, BFS Edizioni, 1999, p.7. [⤒]

  74. S. Guarracino, «Storia degli ultimi cinquant’anni», Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 21–24. [⤒]

  75. G. Arrighi, «Il lungo XX secolo», Milano, Il saggiatore, 1996, pp. 389–390. Molti autori (cfr. ad es. G. Soros, «La crisi del capitalismo globale», Milano, Ponte alle Grazie, 1999, p.146) fanno risalire l’esplosione del mercato dell’eurodollaro, ossia gli inizi della «globalizzazione» allo «shock petrolifero» che a partire dal '73 mise nelle mani dei paesi produttori di petrolio ingenti disponibilità finanziarie (i famosi «petrodollari»). [⤒]

  76. E. J. Hobsbawm, «Il secolo breve», Milano, Rizzoli, 1997, p. 305. [⤒]

  77. S. Guarracino, «Il novecento e le sue storie», Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 209. [⤒]

  78. G. Soros, «La crisi del capitalismo globale», Milano, Ponte alle Grazie, 1999, p.159. [⤒]

  79. Cfr. J. Halevi, «Usa e Giappone, amici-nemici», «La rivista del Manifesto», 1/12/1999. [⤒]

  80. R. Batra, «Il crack finanziario 1998–1999», Sperling & Kupfer, 1998, p. 95. [⤒]

  81. «Mappamondo 1984», Ed. Herodote; «L’état du monde1988–1989», Paris, Ed. la découverte. [⤒]

  82. I. Warde, «Dow Jones, una bolla troppo gonfia», «Le Monde Diplomatique», n. 10, ottobre 1999. [⤒]

  83. «L’état du monde 1994», Paris, La dècouverte, pp. 560, 574. [⤒]

  84. I. Warde, «Dow Jones, una bolla troppo gonfia», «Le Monde Diplomatique», n. 10, ottobre 1999. [⤒]

  85. E. N. Luttwak, «La dittatura del capitalismo», Milano, Arnoldo Mondadori, 1999, p. 241. [⤒]

  86. F. F. Clairmont, «La nuova mappa del potere mondiale», «Le monde diplomatique, il manifesto», dic. '99. [⤒]

  87. Galapagos, «Off-shore, finanza incontrollata», «Il Manifesto» del 7/12/99. [⤒]

  88. Si scoprì allora che lo LCTM aveva debiti che superavano di 100 volte il capitale proprio (I. Warde, «Dow Jones, una bolla troppo gonfia», «Le Monde Diplomatique», n. 10, ottobre 1999.). [⤒]

  89. P. Krugman, «Il ritorno dell’economia della depressione», Garzanti, 1999, in particolare cap. 7. [⤒]

  90. Cfr. M. Deaglio, «L’Italia paga il conto, Terzo rapporto sull’economia globale e l’Italia», Torino, Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi, che contiene un capitolo di dettagliata analisi della crisi asiatica. [⤒]

  91. G. Soros, «La crisi del capitalismo globale», Milano, Ponte alle Grazie, 1999, p.159. [⤒]

  92. R. Batra, «Il crack finanziario 1998–1999», Sperling & Kupfer, 1998, p. 95. [⤒]

  93. Cit. in E. Carretto, «Grande crescita sincronizzata», «Corriere economia» del 4/10/99. [⤒]

  94. Cfr. M. Revelli, «Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo», in «Appuntamenti di fine secolo», Roma, Manifesto-libri, 1995. [⤒]

  95. E. N. Luttwak, «La dittatura del capitalismo», Milano, Arnoldo Mondadori, 1999, p. 129. «Il libro dei fatti 2000», op. cit., pp. 101–102. [⤒]

  96. K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista», Torino Einaudi, 1970, pp. 103–104. [⤒]

  97. L. Thurow, «Testa a testa. Usa, Europa, Giappone. La battaglia per la supremazia economica nel mondo», Milano, A. Mondadori, 1992. [⤒]

  98. La Pirelli, ad es., ha appena attivato un nuovo processo di produzione degli pneumatici sulla base di
    «minifabbriche (…) in grado di produrre uno pneumatico ogni tre minuti», con «aumenti di produttività nell’ordine dell’80 % e di efficienza degli impianti del 23 %. I consumi di energia vengono ridotti di un terzo. Il costo totale del prodotto diminuisce quindi del 25 % e la redditività aumenta di oltre il 40 %. Le lavorazioni passano da 14 a tre ed è possibile cambiare articolo secondo le richieste in 20 minuti». Le minifabbriche sono «altamente flessibili, collocabili in modo modulare sul territorio secondo le esigenze del mercato di riferimento».
    Gli impianti «tascabili» occupano spazi inferiori dell’80 % rispetto a quelli tradizionali e possono perciò essere piazzati con facilità dove servono (S. Bocconi, «Pirelli, la rivoluzione in fabbrica», «Il corriere della Sera» del 22/12/1999). [⤒]

  99. Cfr, A. Negri, «La costituzione del tempo. Prolegomeni», Roma, Manifesto-libri, 1997; M. Hardt, T. Negri, «Il lavoro di Dioniso», Roma, Manifesto-libri, 1995. [⤒]

  100. K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista», Torino Einaudi, 1970, p.103. [⤒]

  101. «The Economist», «Il mondo in cifre 2000», «Internazionale», Roma, 1999. [⤒]

  102. Gli stessi borghesi più avveduti si sono accorti che i parametri statistici in uso non sono più adatti a descrivere e comprendere l’architettura attuale della produzione e reclamano una revisione dei criteri. Cfr. ad es. R. R. Reich, «L’economia delle nazioni. Come prepararsi al capitalismo del duemila», Milano, «Il Sole 24 Ore», 1993. [⤒]

  103. «L’Europa in cifre 1999», Uff. delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Il sole 24 Ore, 1999, pp. 184–185. [⤒]

  104. Una utile messa a punto del dibattito sul «post-fordismo» in A. Bihr, «Il post-fordismo: realtà o illusione?», «Vis-à-vis», n. 7, 1999. [⤒]

  105. Cfr. AAVV, a cura di M. Bergamaschi, «Questione di ore – Orario e tempo di lavoro dall’800 ad oggi», Pisa, BS edizioni, 1997. [⤒]

  106. M. Hunter, «Tempo di vita, nuovo sogno americano», «Le Monde diplomatique», novembre 1999. [⤒]

  107. K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista», Torino Einaudi, 1970, p.104. [⤒]

  108. Recentemente negli USA si è verificata, in connessione con il ciclo espansivo, una ripresa del potere d’acquisto dei salari, come mostra anche il grafico. Si deve tener presente però che la condizione generale della classe operaia è notevolmente influenzata dall’alta percentuale dei nuovi lavoratori precari. [⤒]

  109. A. Bonomi, «Modello renano nel caos sociale», «Corriere economia» dell’8/11/99. [⤒]

  110. Cfr. A. Sacchi, «La contrattazione collettiva in Europa tra corporativismo conflittuale e corporativismo consociativo», «altreragioni», n. 7 del 1998. [⤒]

  111. Cfr. AAVV, a cura di M. Antoniolo e L. Ganapini, «I sindacati occidentali dall’800 ad oggi in una prospettiva storica comparata», Pisa, BS edizioni, senza data. [⤒]

  112. W. McTell, «Dinamica della crisi politica e mutamento della composizione di classe negli Stati Uniti», «altreragioni», n. 5 del '96, p. 101 [⤒]

  113. Cfr. F. Graziani, «Modelli organizzativi e relazioni industriali», «altreragioni» n. 4 del 1995. [⤒]

  114. E. N. Luttwak, «La dittatura del capitalismo», Milano, Arnoldo Mondadori, 1999, p. 129. «Il libro dei fatti 2000», op. cit., pp. 110–12. [⤒]

  115. M. Hunter, «Tempo di vita, nuovo sogno americano», «Le Monde diplomatique», novembre 1999. [⤒]

  116. E. N. Luttwak, «La dittatura del capitalismo», Milano, Arnoldo Mondadori, 1999, p. 129. «Il libro dei fatti 2000», op. cit., p. 122. [⤒]

  117. S. Guarracino, «Il novecento e le sue storie», Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 405. [⤒]

  118. U. Venturini, «Un’altra frontiera americana», «Corriere economia» del 22/11/99. [⤒]

  119. Cfr. G. Arrighi, «Il lungo XX secolo», Milano, Il saggiatore, 1996.
    Se teoricamente un tale sviluppo non può essere escluso, in via fattuale ci troviamo di fronte ad una differentia specifica fra i precedenti passaggi del testimone alla guida dell’economia mondiale e l’eventuale soppiantamento degli USA: l’Asia, a differenza degli Stati Uniti, non costituisce una nazione unica. E per quanto la Cina possieda dimensioni paragonabili a quelle americane, essa non può vantare nel proprio continente quell’entroterra indiscusso che uncle Sam ha trovato nelle americhe. In ogni caso uno sviluppo come quello suggerito da Arrighi non potrebbe porsi al dio fuori di uno scenario di guerra per la definizione dei rapporti di forza mondiali. [⤒]

  120. K. Marx, «Storia delle dottrine economiche», Roma, Newton Compton, 1974, p. 475, n. [⤒]

  121. K. Marx, «Il capitale», Torino, 1970, 3 (1), pp. 305–312. Corsivi nostri. [⤒]

  122. «Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx», «Il Programma Comunista» n. 7 del 1958. [⤒]

  123. K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista», Torino Einaudi, 1970, p.108. [⤒]

  124. «Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx», «Il Programma Comunista» n. 7 del 1958. [⤒]

  125. Postfazione dell’editore a AAVV, «‹Ditelo a Sparta› – Serbia ed Europa – Contro l’aggressione della Nato», Genova, Graphos, 1999, p. 237. [⤒]

  126. Tipico di questa impostazione il volume di Catone, Losurdo, Moffa, Taboni, «Dal Medio Oriente ai Balcani. L’alba di sangue del ‹secolo americano›», Napoli, La città del sole, 1999. [⤒]

  127. Su questi aspetti cfr. Valter Zanin, «Nato e Jugoslavia: il Protettorato delle idee», «altreragioni», n. 9, 1999. [⤒]

  128. F. F. Clairmont, «La nuova mappa del potere mondiale», «Le monde diplomatique, il manifesto», dic. '99. [⤒]

  129. E. N. Luttwak, «La dittatura del capitalismo», Milano, Arnoldo Mondadori, 1999, p. 129. «Il libro dei fatti 2000», op. cit., p. 309. [⤒]

  130. Cit. in M. S, Sacchi, «A lavoro flessibile, servizi inesistenti», «Corriere economia» del 6/9/1999. [⤒]

  131. Cit. in M. S, Sacchi, «A lavoro flessibile, servizi inesistenti», «Corriere economia» del 6/9/1999. [⤒]

  132. Su questi aspetti J. Rifkin, «La fine del lavoro», Milano, Baldini & Castoldi, 1995. [⤒]

  133. K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista», Torino Einaudi, 1970, pp.109, 111. [⤒]

  134. Si veda l’«Introduzione» di Hobsbawm al «Manifesto» edito da Rizzoli nel 1998. [⤒]

  135. K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista», Torino Einaudi, 1970, pp.104, 101. [⤒]

  136. G. Soros, «La crisi del capitalismo globale», Milano, Ponte alle Grazie, 1999, p.141 [⤒]

  137. Cfr. «Evoluzione del modo di produzione capitalistico, giornata lavorativa e saggio di profitto», («Spunti di riflessione sulla riduzione dell’orario di lavoro»). [⤒]

  138. J. Rifkin, «Il secolo biotech», Milano, Baldini & Castoldi, 1998, pp. 35 e segg. [⤒]

  139. J. Rifkin, «Il secolo biotech», Milano, Baldini & Castoldi, 1998, p. 26. [⤒]

  140. «I limiti dello sviluppo», Rapporto del System Dynamic Group del Massachusetts Institute of Tecnology al Club di Roma, Milano, EST-A. Mondadori, 1972. [⤒]

  141. K. Marx, «Il capitale», III, Torino, 1975, p. 339. [⤒]

  142. «Elementi dell’economia marxista», «Prometeo, ricerche e battaglie marxiste», n. 6 del 1947, p. 282. [⤒]

  143. Cfr. Amici di Marino van der Lubbe, «C’è del marcio negli Stati Uniti: la vertenza negli Stati Uniti», «Collegamenti Wobbly», 4–5 nuova serie 1997–98. [⤒]

  144. Cfr. «Lo sciopero all’UPS – ‹Part-time America won’t work!›», «Sindacalismo di base» n. 6 del marzo 1998. [⤒]

  145. «Struttura economico-sociale della Russia d’oggi», Milano, Ed. il programma comunista, 1976. [⤒]

  146. V. I. Lenin, «Sulla nostra rivoluzione», in «Lettera al Congresso», Roma, Ed. Riuniti, 1974. [⤒]

  147. K. Marx, «Le lotte di classe in Francia», Roma, Ed. Riuniti, 1970, p. 89. [⤒]


Source: «Partito Comunista Internazionale (Bolletino)», N° 28, Febbraio 2000,

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