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EVOLUZIONE DEL MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO, GIORNATA LAVORATIVA E SAGGIO DI PROFITTO


Content:

Evoluzione del modo di produzione capitalistico, giornata lavorativa e saggio di profitto – Spunti di riflessione sulla riduzione dell’orario di lavoro
L’evoluzione del capitalismo e i regimi d’orario
Le tendenze attuali
Plusvalore assoluto e plusvalore relativo
Il saggio di plusvalore
Il saggio di profitto
Diminuzione dell’orario di lavoro e aumento del saggio di profitto
Diminuzione dell’orario di lavoro e aumento del plusvalore assoluto
Conclusioni
Appendice – Esempi numerici
Notes
Source


Evoluzione del modo di produzione capitalistico, giornata lavorativa e saggio di profitto – Spunti di riflessione sulla riduzione dell’orario di lavoro

«Guardati tu non indugi in domane quello che puoi fare immantinente, e spezialmente il bene. Per continua sollecitudine si vince ogni cosa».

(Paolo da Certaldo, «Il libro dei buoni costumi», sec. XIV)

L’epoca moderna sostituisce, come ha detto A. Ja. Gurevič[1], il tempo del chierico con quello del mercante, introduce l’orologio, la contabilità del tempo che contribuisce, nel corso dei secoli successivi, a regolare precisamente la successione dei fatti sociali: lo scambio di equivalenti sul mercato, ossia lo scambio di valori, basato sul tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione delle merci, è impossibile senza misurazione del tempo.
«Ricordati» – afferma B. Franklin«che il tempo è denaro».

Il sistema capitalistico, secondo la terminologia usata da Marx, comporta l’espropriazione dei produttori diretti, che devono essere privati dei propri mezzi di produzione. In questo modo, essi vengono espropriati anche del proprio tempo, e sottomessi al capitale. In un primo momento questa sottomissione è solo formale, giacché permangono le vecchie procedure di lavorazione artigianali o manifatturiere, ove l’abilità del lavoratore, conseguita in un periodo di apprendistato relativamente lungo, gli consente ancora di opporsi come individuo o all’interno di un gruppo ristretto all’illimitata brama di sfruttamento del capitale. In seguito tempo e ritmo di lavoro saranno dominati dalle macchine e la resistenza individuale o di mestiere del lavoratore, la cui abilità soccombe davanti alla macchina, diverrà inefficace. Siamo a quella che Marx chiama sottomissione reale del lavoro al capitale, che comporterà per tutta un’epoca uno smisurato aumento della giornata lavorativa, finché la resistenza operaia, questa volta collettiva, tradunionista, invertirà la marcia.

La legislazione sulle fabbriche e la riduzione dell’orario di lavoro sono state, storicamente parlando,
«il prodotto di una guerra civile fra la classe dei capitalisti e la classe degli operai»[2].
Infatti,
«l’istinto immanente della produzione capitalistica è di appropriarsi lavoro durante tutte le ventiquattro ore del giorno»[3].
Il capitale,
«nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo»[4].
Così facendo tuttavia, il capitale compromette, insieme alle condizioni di riproduzione della classe operaia, il suo stesso sviluppo futuro.

«Astrazion fatta da un movimento operaio che cresce sempre più minaccioso di giorno in giorno, la limitazione del lavoro nelle fabbriche è stata dettata dalla stessa necessità che ha sparso il guano sui campi d’Inghilterra. La stessa cieca brama di rapina che aveva esaurito la terra in questo caso aveva colpito alla radice nel primo caso l’energia vitale della nazione (…) Con il prolungamento della giornata lavorativa, la produzione capitalistica (…) non produce dunque soltanto il rattrappimento della forza-lavoro umana (…) ma produce anche l’esaurimento e la estinzione precoce della forza-lavoro stessa. Essa prolunga il tempo di produzione dell’operaio (…) mediante l’accorciamento del tempo che questi ha da vivere. Il valore della forza-lavoro include però anche il valore delle merci necessarie per la riproduzione dell’operaio o per la perpetuazione della classe operaia. Dunque, se il prolungamento contro natura della giornata lavorativa al quale tende per necessità il capitale nel suo sregolato istinto a valorizzare se stesso, abbrevia il periodo vitale degli operai e con esso la durata della forza-lavoro, diventa necessaria una più rapida sostituzione degli operai logorati, quindi diventa necessario sottoporsi a maggiori spese di logoramento nella riproduzione della forza-lavoro (…). Quindi sembra che il capitale sia indotto dal suo stesso interesse a una giornata lavorativa normale»[5].

Perciò, oltre ad essere una misura di tutela della classe lavoratrice, la riduzione dell’orario di lavoro appare in determinate circostanze ed entro certi limiti una necessità del capitalismo stesso. C’è di più: benché sinora gli sia stata di regola imposta dalla lotta di classe, la riduzione dell’orario di lavoro costituisce addirittura un elemento di stimolo e di progresso storico del modo di produzione capitalistico.

«… (la) rivoluzione industriale« – spiega ancora Marx –, «che avviene spontaneamente, viene accelerata artificialmente dalla estensione delle leggi sulle fabbriche a tutti i rami d’industria dove lavorino donne, adolescenti, fanciulli (…). (alle) forme intermedie tra manifattura e lavoro a domicilio e per quanto riguarda quest’ultimo, viene a mancare (…) il terreno sotto i piedi quando si pone un limite alla giornata lavorativa e al lavoro dei fanciulli. L’unico fondamento della loro capacità di resistenza alla concorrenza è costituito dall’illimitato sfruttamento di forze-lavoro a buon mercato (…). La legge sulle fabbriche fa così maturare come in una serra gli elementi materiali della fabbrica, (…) (e) accelera contemporaneamente, attraverso la necessità di un maggior esborso di capitale, la rovina dei maestri artigiani e la concentrazione del capitale»[6].

L’evoluzione del capitalismo e i regimi d’orario

Il regime di fabbrica non è però soltanto questione di tempo ma anche di organizzazione del lavoro: vuole che i tempi siano rigidamente calcolati, che ci si rechi a lavorare alla stessa ora, che si attenda puntuali il pullman che porta al luogo lavorativo. Esso distrugge cioè i tempi naturali e individuali propri dei precedenti modi di produzione.

Uno dei grandi passaggi storici del modo di produzione, dopo l’introduzione del macchinismo, fu il ben noto taylorismo, la catena di montaggio. La grande fabbrica taylorista ha costituito per decenni il massimo del modo di produzione capitalistico. Le sue esigenze, ossia la concentrazione di grandi masse di lavoratori in città ed in industrie giganti, hanno modellato per altrettanti decenni la vita sociale, facendo acquisire determinati stili e abitudini di vita: col taylorismo il sincronismo trionfa alla scala sociale, e tutti gli uomini, come burattini mossi dalla mano gigantesca di un Leviatano, si alzano alla stessa ora, si recano al lavoro, mangiano nello stesso momento, godono delle stesse ore di svago e delle stesse giornate festive, si recano in vacanza nello stesso periodo. È questa la condizione che ha permesso la diffusione dell’industrializzazione e che ha foggiato la vita dell’uomo moderno a immagine della fabbrica. Un tempo la pignola puntualità con cui siamo abituati a regolare, non solo i nostri impegni di lavoro, ma anche quelli sociali, sarebbe sembrata pura follia. A che pro trovarsi «in punto» al calar del sole?

Dopo aver sottomesso al lavoro salariato le moltitudini maschili, il capitale sottomette quelle femminili. Il saggio di profitto cresce perché ora un salario non basta più, e le condizioni di esistenza della classe operaia ne richiedono due, segno che il valore della forza lavoro si è corrispondentemente svalutato. Questo valore consta infatti dei beni necessari alla produzione ed alla riproduzione della forza lavoro (abitazione, cibo, vestiario, istruzione dei figli, ecc.), che rimangono sostanzialmente i medesimi malgrado l’aumento delle ore complessivamente lavorate nell’ambito della famiglia proletaria[7].

Anche per il crescente impiego della manodopera femminile, la «fame di tempo» – che è una delle caratteristiche fondamentali dell’epoca contemporanea – cresce, paradossalmente, malgrado la riduzione giornaliera dell’orario lavorativo, la conquista delle otto ore. Scuole e asili devono sostituirsi al lavoro domestico femminile mentre le donne si trovano in fabbrica a produrre. Dopo i servizi essenziali e d’emergenza quali gli ospedali, i pompieri, ecc.; dopo quelli funzionali alla fluidità del mondo produttivo quali mense e ristoranti, dopo i servizi del tempo libero quali cinema, sale da ballo e così via, anche i negozi, gli uffici del comune, i servizi, non più fruibili dai lavoratori, devono essere desincronizzati. L’introduzione in essi di turni o di aperture in nuovi orari non comporta, di norma, in aumento degli addetti, dal momento che prima il personale dei servizi doveva essere calibrato in modo da poter fronteggiare le giornate e le ore di punta (ad es. la sera dopo le 17 o il sabato mattina). Per contro consente risparmi di tempo sociale (code, ingorghi, ecc.) che aumentano la produttività sociale globale del lavoro e permette lo snellimento delle strutture (ora la stessa banca può servire un maggior numero di clienti), con un risparmio di investimenti considerevole.

Ma di fronte al prodigioso sviluppo del capitalismo, alla creazione di branche sempre nuove e diverse, all’aumento della massa di salariati, alla spaventosa dimensione raggiunta dalle megalopoli contemporanee, agli sprechi di tempo che vi sono connessi in termini di spostamenti e affollamento, nemmeno la desincronizzazione dei servizi è più sufficiente: anche nella produzione di beni, i regimi di orario a ciclo continuo e a turnazione, che sinora erano rimasti confinati in certi settori particolari, si estendono ad ogni branca industriale: mentre il padre accompagna i bambini a scuola e prepara il pranzo, la madre fa il turno dalle 6 alle 2; all’uscita andrà a prendere i bambini, darà loro da mangiare, li aiuterà nei compiti, farà la spesa, preparerà la cena. Dopo le 22, al ritorno del padre, tutti a letto, pronti a ricominciare domani, quando il padre dovrà recarsi agli uffici del Comune a fare un certificato, in banca a comprare i BOT o le azioni, in ospedale a ritirare i referti. Il sabato, il padre, che fa il «6 x 6», lavora; la domenica di questa settimana, la madre, che fa l’infermiera, lavorerà. Uno potrà andare in ferie a giugno, l’altro a settembre. Ecco che il sincronismo sociale, messo sotto accusa per i suoi aspetti da incubo urbano, mostra ora, rispetto alla situazione che si va affermando, alcuni vantaggi: ad es. è compatibile con qualche momento da dividere con gli amici, i figli, la famiglia. Dietro il miraggio di un tempo più flessibile, di periodi di ferie differenziati per evitare le code, dietro la stessa riduzione giornaliera dell’orario di lavoro si fa luce, in modo sempre più evidente, la stessa mano di prima, il deus ex machina capitale che libera tempo solo per meglio asservire il tempo di tutti a bisogni suoi propri. Bisogni che nulla hanno a che fare, nemmeno quando la fatica è ridotta, con quelli umani. Il tempo della riduzione d’orario, che ci si illudeva di impiegare per sé, è fagocitato dagli itinerari sempre più lunghi per andare sul lavoro, dai tempi sempre maggiori impiegati a trovare un posteggio, dalle mille e mille cure di una vita sempre più complessa, per affrontare la quale il lavoratore non può far affidamento sui servizi che il capitale, per rialzare il suo tasso di profitto, non vuol finanziare. Non è la desincronizzazione a vincere, bensì un sincronismo più complesso e sfaccettato, ma forse più invasivo e opprimente.

I rumori abitano il nostro sonno e la nostra veglia, le luci artificiali rischiarano le notti, sul lavoro e fuori i movimenti si fanno più frenetici: come si potrebbe, nelle condizioni odierne, in fabbrica e fuori, reggere alle ore di lavoro dei nostri nonni? Esse tengono, certo, in contesti particolari, ma globalmente, pena l’esaurimento della forza lavorativa della popolazione, essi devono lasciare il posto a orari di lavoro più brevi.

Le tendenze attuali

Proprio in questa fase stiamo assistendo, non per iniziativa della classe operaia, ma per iniziativa borghese, ad un rivoluzionamento dei regimi di orario programmato secondo le esigenze del capitale.

«A partire dai primi anni '80 il modello standard di orario di lavoro comincia a entrare in crisi per più motivi. Innanzitutto si assiste, all’interno del settore industriale, a forti e diffusi investimenti in tecnologie dell’automazione (…). Il fine è quello di ricorrere al potenziale di flessibilità delle tecnologie informatiche per ridurre il ruolo organizzativo e il peso economico della forza lavoro nel processo produttivo, per diminuire i costi di produzione, per aumentare la qualità dei prodotti. Tuttavia, i pesanti investimenti tecnologici risultano remunerativi solo alla condizione che aumenti la durata di funzionamento degli impianti e che vengano introdotti, di conseguenza, orari di lavoro articolati su più turni. (…) Il fenomeno interessa dapprima i settori industriali più maturi, come il settore tessile. (…) Nell’ambito della grande distribuzione commerciale, a partire dalla seconda metà degli anni '80, vengono introdotte trasformazioni temporali che mettono in crisi il tradizionale modello standardizzato di orario di lavoro a tempo indeterminato, e fanno sorgere in nuce elementi di un nuovo modello di orario di lavoro che si sono successivamente estesi ad altri settori lavorativi e che si ritrovano nei cambiamenti dei primi anni '90. Si tratta di un sistema di orari di lavoro, risultante da interventi combinati sulla struttura dell’orario di lavoro e sul rapporto di lavoro, che vede la compresenza, nell’ambito di una stessa azienda, di uno stesso reparto e, addirittura, di uno stesso ruolo, di una pluralità di orari: lavori a tempo pieno sia giornalieri che a turni, part-time sia verticali che orizzontali e misti, lavori stagionali e lavori a tempo determinato, sistemi di turnazione stabiliti secondo sequenze fisse e altri stabiliti in modo tendenzialmente irregolare. (…) È importante sottolineare che (…) si tratta quasi sempre di variabilità eterodiretta, cioè decisa per rispondere a esigenze aziendali e non per accogliere esigenze poste dai lavoratori»[8].

Siamo nel pieno di quello che è stato chiamato il re-engineering della giornata lavorativa.

«… fioccano« – leggiamo sul «CorrierEconomia» del 22/2 di quest’anno in un articolo dal significativo titolo «Le 35 ore piacciono agli imprenditori»«accordi aziendali che prevedono orari non di 35, ma addirittura di 32 (in certo casi meno) ore settimanali. (…) gli imprenditori hanno scoperto di avere impianti sottoutilizzati e di non poter risolvere il problema solo con gli straordinari (…). Così sono nati una serie di accordi che scambiano flessibilità (con turni di lavoro notturni e/o al sabato e alla domenica) contro riduzioni d’orario. (…) (nel tessile) esistono orari che oscillano tra le 28 e le 33 ore, con tipi di turnazioni molto differenziati ma con incrementi dappertutto notevoli dell’utilizzo degli impianti (…). (…) sono le stesse imprese che, quando devono spingere l’acceleratore sulla produttività, sollecitano la trattativa col sindacato. Al tempo stesso si ammette che la concertazione fra sindacato e imprese crea frizioni all’interno d’una classe operaia che appare sempre meno omogenea (…). Ciò implica infatti un cambiamento radicale di abitudini e modi di vita, il che rappresenta una sfida particolarmente difficile per le donne».

Occorre precisare, a questo proposito, che la riduzione della giornata lavorativa legale non è necessariamente in contraddizione con il suo aumento reale in determinate branche o in determinati periodi dell’anno e che anzi, come molti studi documentano, le due tendenze sembrano, se così si può dire, convivere o addirittura essere complementari. Certo è che la tendenza alla riduzione «flessibilizzata» dell’orario di lavoro è stata ovunque preceduta, a partire dai primi anni '80, da un tendenza contraria (aumento degli straordinari, sabati lavorativi, doppio lavoro, ecc.) ancora oggi prevalente.

Entrambe le tendenze convergono nel contenuto della parola d’ordine oggi scandita dai capitani d’industria, dagli economisti e dal governo: la flessibilità di cui tanto si parla, che viene attuata anche dove la riduzione d’orario non c’è. Ad esempio l’ultimo contratto dei metalmeccanici prevede l’istituzione di una «banca del tempo» per la gestione degli straordinari, che potranno essere pagati (il che equivale ad un prolungamento dell’orario) o recuperati (riducendo l’orario in dati periodi).

Le modificazioni in corso nei regimi di orario non sono un fatto episodico: basti pensare all’esempio della Volkswagen in Germania e alla riduzione decisa in Francia. In altri paesi, come l’Olanda, il 36,5 % della forza-lavoro è impiegata a part-time, mentre negli Stati Uniti molti lavoratori sono occupati solo per un parte dell’anno. Sono modi diversi, in dipendenza della diversa struttura produttiva e della diversa strutturazione dei servizi sociali nei vai paesi, di fronteggiare una tendenza storica in atto. Non è certo un caso se un «illuminato» come Rifkin propone la riduzione dell’orario di lavoro come panacea contro «la fine del lavoro»!

Questa rivoluzione dei regimi di orario è in stretta relazione con quella del modo di produzione, che proprio in questi anni, in seguito all’introduzione su vasta scala dell’informatica e della «qualità totale», si è sempre più allontanato dal taylorismo per abbracciare il cosiddetto toyotismo o post-fordismo, nato in Giappone.

«… il sistema di produzione giapponese« – afferma J. Rifkin«è organizzato in modo da incoraggiare il continuo cambiamento e miglioramento come parte integrante dell’attività quotidiana. (…) In fabbrica, ai gruppi di lavoro viene concesso un ampio margine di discrezionalità sul processo di produzione. (…) I macchinari delle fabbriche americane sono inattivi per il 50 % del tempo, mentre quelli giapponesi solo per il 15 %. Il modello di lavoro basato sul gruppo genera maggiore efficienza perché incoraggia lo sviluppo di competenze molteplici nel lavoratore»[9].

La caratteristica fondamentale del toyotismo è evidentemente quella di garantire un maggior utilizzo degli impianti unito ad una maggiore intensità di lavoro, mentre i presunti vantaggi per le maestranze (lavoro più vario, maggiore professionalità, diminuzione dell’«alienazione» e così via) si rivelano ad un’analisi più approfondita assai discutibili. Innanzitutto, la «produzione intelligente» basata sull’informatizzazione, la stessa che permette al salariato medio di accedere ad un livello decisionale minimo che prima gli era precluso dall’andamento «stupido» della catena di montaggio, svaluta e rende superfluo il lavoro dei quadri intermedi (ragionieri, periti, ecc.), sostituiti o proletarizzati dal ricorso massiccio ai computers. In secondo luogo l’aumento dei ritmi e della responsabilizzazione porta con sé un notevole aumento dello stress psicofisico del lavoratore medio, il quale d’altra parte, proprio perché «polivalente», è ancor più sostituibile di prima dai suoi compagni di lavoro o da nuovi assunti; d’altronde la pretesa specializzazione, data la semplificazione dei processi produttivi indotta dai nuovi macchinari informatizzati, ha per contenuto una competenza infima che può essere tranquillamente rimpiazzata in breve tempo. Dice un operaio della FIAT di Melfi, avanguardia italiana della «qualità totale»:
«Quei giorni in aula (…) (al corso di formazione professionale) sono stati per lo più un lavaggio del cervello, per mettere le persone in condizione di sopportare: non ci si può ribellare. Ti fanno illudere che la cosa è diversa, che le postazioni sono più leggere, che c’è lavoro di gruppo. Ma quando vai sulla linea, ti rendi conto che ci vorrebbero più persone…»
«Anche la voglia di lottare ti fanno passare» – afferma un altro –. «Ti fanno abituare ai loro ritmi, ti fanno organizzare la tua vita in rispetto alle loro esigenze. Oggi non sei più libero, devi sottostare alla fabbrica, a loro. Non posso fare una scampagnata con la mia famiglia perché di notte devo lavorare. Devo fare 18 giorni di lavoro consecutivi per avere tre giorni di riposo»[10].

Plusvalore assoluto e plusvalore relativo

L’apparente contraddittorietà della compresenza di riduzione e aumento d’orario scompare non appena si ponga mente al fatto che entrambe le tendenze prendono le mosse dalla necessità del capitale di reagire alla caduta del saggio di profitto:

aumentando la velocità di rotazione del capitale (il che si ottiene, dove non sono possibili turnazioni, solo aumentando la giornata lavorativa);

aumentando il plusvalore assoluto, o prolungando il tempo di lavoro o intensificandolo con l’ausilio di un orario giornaliero più «leggero».

Secondo la teoria economica di Marx, come abbiamo già accennato, lo scambio delle merci sul mercato avviene in un rapporto di equivalenza, in base al valore di scambio, che corrisponde al tempo di lavoro in media socialmente necessario a produrle. Il profitto del capitalista non si realizza perciò grazie alla vendita; proviene invece dal lavoro non pagato all’operaio: il capitalista compra sul mercato la forza lavorativa dell’operaio, il cui valore corrisponde alle merci necessarie al suo sostentamento e alla sua riproduzione; ma l’operaio impiega solo una minima parte della sua giornata lavorativa per la produzione dei beni il cui valore di scambio sul mercato copra l’ammontare del suo salario. Il resto della sua giornata lavorativa egli lavora gratis per il capitalista.

Supponiamo che l’operaio, nel corso di 10 ore lavorative, impieghi 2 ore a produrre il valore della propria forza lavoro, ossia il proprio salario: come tutti sanno Marx chiama questo tempo tempo di lavoro necessario. L’operaio cede poi le altre 8 ore al capitalista (in linguaggio marxista pluslavoro) il quale, realizzando sul mercato i relativi beni, otterrà un plusvalore corrispondente. Evidentemente, costringendo l’operaio a lavorare per un’altra ora senza aumento di salario, il padrone otterrà un’ora in più di pluslavoro, otterrà un plusvalore maggiore.

Il plusvalore deve essere considerato sotto due punti di vista:
a) Plusvalore assoluto: considera il plusvalore secondo una quantità assoluta di misura; è il plusvalore che resta una volta tolti al valore di scambio di una merce il capitale variabile (la parte di valore destinata a coprire il fondo salari) e il capitale costante (ossia la parte di valore che serve a coprire le spese per l’ammortamento dei macchinari, il consumo di materie prime ed energia, ecc.).
Secondo l’esempio precedente: supponiamo che l’operaio, per ogni ora di lavoro, produca una quantità di beni il cui prezzo sul mercato corrisponda a 10 000 Lire. Supponiamo che in 10 ore egli utilizzi 100 000 Lire di capitale costante. In 10 ore di lavoro avrà prodotto una merce che costa 200 000 Lire. A queste sottraiamo il valore della forza-lavoro espresso in un salario di 20 000 Lire (corrispondenti a 2 ore di lavoro necessario) e 100 000 Lire di capitale costante. Restano, considerate da un punto di vista assoluto, 80 000 Lire di plusvalore (corrispondenti a 8 ore di pluslavoro). Se l’operaio lavora un’ora in più alla stessa intensità e per lo stesso salario di prima, il plusvalore, sempre da un punto di vista assoluto, sarà di 90 000 Lire (cfr., anche per gli esempi successivi, l’appendice). È evidente che – a parità di ogni altra condizione – il plusvalore assoluto aumenta solo quando crescono le ore lavorate. Vedremo poi a quali condizioni questa rigidità può essere messa in discussione.
b) Plusvalore relativo: è il plusvalore che deriva dall’accorciamento del lavoro necessario, dalla trasformazione del tempo di lavoro necessario in pluslavoro; in altre parole da quell’aumento del plusvalore che non deriva dall’aumento dell’orario di lavoro, bensì dalla diminuzione del tempo in cui l’operaio lavora per riprodurre il proprio salario. Questo, a livello sociale complessivo, è possibile diminuendo il tempo di lavoro indispensabile a produrre le merci che entrano nel consumo della classe operaia.
Se adesso le merci quotidianamente necessarie all’operaio non costano più 20 000 Lire come nel nostro primo esempio, bensì 10 000, un’ora di lavoro basterà a pagare il suo salario. A parità di ogni altra condizione, il plusvalore assoluto di una giornata lavorativa di 10 ore ammonterà perciò adesso a 90 000 Lire, vale a dire quanto prima una giornata di 11 ore.

Il saggio di plusvalore

Vediamo ora le cose da un altro punto di vista, quello del rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile (salario) impiegato, che Marx chiama saggio di plusvalore o di sfruttamento:

    p (plusvalore)
s =  

    v (capitale variabile)

Secondo questo punto di vista, nel primo esempio da noi fatto ad un plusvalore di 80 000 Lire (10 ore di lavoro) corrisponde un saggio di plusvalore del 400 % (80 000/20 000), ad un plusvalore di 90 000 (11 ore di lavoro) un saggio del 450 %. È evidente che aumentando il plusvalore assoluto, anche il saggio di sfruttamento lievita.

Consideriamo ora invece gli effetti di un incremento del plusvalore relativo. Si tratta di agire sul rapporto p/v dal lato del capitale variabile, diminuendo il lavoro necessario al mantenimento, il valore della forza lavoro impiegata, cioè il capitale variabile v. Nel secondo esempio da noi fatto, il saggio di plusvalore, risultante dal rapporto 90 000/10 000, è del 900 %.

Non appena la giornata lavorativa riceve un limite legale, al capitale non resta dunque che intensificare il plusvalore relativo. Ciò gli riesce grazie alle risorse della tecnica e all’impiego di macchinari sempre più potenti e sofisticati che rendono il lavoro più produttivo. La diminuzione del lavoro necessario è insomma, come l’abbondanza di merci sul mercato, conseguenza dello sviluppo del capitalismo.
«(…) Appena la ribellione della classe operaia (…) ebbe costretto lo Stato ad abbreviare con la forza il tempo di lavoro (…) il capitale si gettò a tutta forza e con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine«[11].

Il continuo rivoluzionamento dei modi di produzione, l’uso sistematico della tecnica finalizzata al risparmio di lavoro umano nella produzione, la socializzazione di quest’ultima, la concentrazione del capitale e la creazione di un sistema internazionale globale costituiscono precisamente il lato rivoluzionario, storicamente progressivo del capitalismo, che nel suo sviluppo crea le condizioni per una superiore produzione sociale pianificata in cui l’esistenza delle classi sociali sia superata.

D’altronde solo attraverso l’uso sistematico del macchinismo, ossia l’estorsione di plusvalore relativo, il capitale raggiunge la sua maturità, sostituendo completamente i vecchi modi di produzione.

Il saggio di profitto

Abbiamo detto che la riduzione dell’orario di lavoro è una potente molla del progresso capitalistico e che comporta l’aumento del saggio di sfruttamento. Una delle contraddizioni fondamentali del capitalismo sta però in questo: che l’aumento del saggio di plusvalore, se è conseguito attraverso il solo aumento del plusvalore relativo, lasciando intatto il plusvalore assoluto, comporta di norma una diminuzione del saggio di profitto. Quest’ultimo concetto sintetizza infatti, non più, come nel caso del saggio di plusvalore, il rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile, ma quello tra il plusvalore e il totale del capitale investito:

P = Plusvalore = p


Cap. cost. + cap. var. C+v

L’introduzione di macchinari al fine di aumentare il saggio di sfruttamento, il plusvalore relativo, comporta storicamente l’aumento degli investimenti fissi e, in proporzione al lavoro impiegato, del consumo di materie prime ed energia. Comporta in sostanza un accrescimento di C molto più rapido di quello di v, ossia della forza lavoro impiegata, benché anch’essa, con lo sviluppo capitalistico, aumenti a causa dell’estendersi del capitale in tutte le branche della produzione ed al nascere di settori capitalistici sempre nuovi.

Torniamo al nostro operaio. Dapprima egli, lavorando 10 ore, e mettendo in moto un capitale complessivo di 120 000 Lire (100 000C +20 000v), lavorava 8 per il capitalista, che realizzava un saggio di sfruttamento del 400 %, corrispondente ad un plusvalore di 80 000. In questo caso il saggio di profitto (80 000/120 000) ammonta al 66,66 %.

Ora invece, abbiamo detto, l’operaio lavora per sé solo un’ora, con un saggio di plusvalore del 900 %. Questo risultato è stato ottenuto però – diversamente da quanto avevamo supposto precedentemente (es. 5 dell’Appendice), dove per semplificare il valore di C era immutato – aumentando considerevolmente gli investimenti ed il consumo di materie prime, ovvero raddoppiando C, che ammonta adesso a 200 000 Lire. Il saggio di profitto (90 000/200 000+10 000) è passato quindi al 43 %.

Vi sono molte controtendenze alla caduta del saggio di profitto, ma non è questo il luogo di sollevare il problema complessivo, trattato in altra parte di questa pubblicazione. Per il momento ci basti dire che, secondo Marx, la tendenza alla caduta del saggio di profitto è storicamente inarrestabile, costituendo una barriera storica alla sopravvivenza del capitalismo in quanto vi può reagire solo parzialmente e soprattutto a prezzo di enormi distruzioni di forze produttive, attraverso crisi periodiche (durante le quali il capitale si svaluta) e guerre (nel corso delle quali una parte del capitale viene distrutta) che possono e debbono determinare la ribellione delle classi oppresse e di conseguenza una profonda rivoluzione sociale.

Quello che vogliamo qui dimostrare è che, a determinate condizioni la diminuzione dell’orario di lavoro può comportare, a) un aumento del saggio di profitto; b) addirittura un aumento del saggio di sfruttamento.

Diminuzione dell’orario di lavoro e aumento del saggio di profitto

Il nostro capitalista è un autentico benefattore. Preti ed economisti lo hanno chiamato «datore di lavoro» ed egli è entrato nella parte. Vuole assumere altri operai ma non ha soldi sufficienti per ampliare la sua fabbrica. Pensa e ripensa. Eureka! Pensa di introdurre tre turni di lavoro, moltiplicando così per tre l’occupazione. Naturalmente, siccome abbiamo supposto che i salari pagati ai suoi operai corrispondessero al valore della forza lavoro, egli non li può abbassare, altrimenti la forza lavoro si esaurirebbe. Egli sa che moltiplicando per tre la produzione guadagnerà in ogni caso di più. Però, da bravo capitalista, vorrebbe aumentare il tasso di profitto o almeno mantenerlo al livello precedente. Vediamo cosa succede.

Adesso egli ha tre operai e quindi pagherà al giorno 30 000 di salari. Il capitale costante, che per 10 ore lavorative ammontava a 200 000 Lire, ora, per 24 ore sarà di 480 000 Lire. Gli operai, lavorando ciascuno 8 ore al giorno, produrranno un plusvalore di 210 000 Lire (240 000 – 30 000 di salari). Il saggio di sfruttamento è del 700 %, cioè è calato. Come stanno le cose riguardo al saggio di profitto? Esso ammonterebbe ora al 41 % (210 000p/480 000C+30 000v). Dunque sarebbe calato. Ma in Marx il saggio del profitto, a parità di ogni altra condizione, è proporzionale al tempo di rotazione, ossia al tempo impiegato da un capitale investito per essere realizzato e ritornare a valorizzarsi nella produzione. Ciò significa, ad es., che un capitale uguale ad un altro ma con un tempo di rotazione della metà, darà annualmente un saggio di profitto doppio.

Come stanno le cose per il nostro capitalista? Supponiamo che egli produca una merce di tipo continuo, mettiamo una nave; che con 10 ore lavorative giornaliere, il capitale complessivo precedente (210 000) avesse bisogno di un anno per compiere una rotazione. Il nuovo capitale, che ammonta a 510 000 Lire, con 24 ore di lavoro giornaliere porta a termine la sua rotazione 2,4 volte più velocemente di prima. Detto in altri termini, ora il capitale anticipato compie in un anno quasi due rotazioni e mezzo. Il saggio del profitto annuo del nostro capitalista è dunque ora del 41 % x 2,4, cioè del 98,5 %, dando al nostro capitalista la soddisfazione di essere incensato come benefattore e di aumentare non solo la massa dei suoi guadagni, ma il suo saggio di profitto. I suoi operai, poi, lavorano meno per lo stesso salario e sono contenti, non fanno scioperi, gli fanno l’inchino, salvo forse solo quello che lavora di notte, il quale però verrà tacitato (dietro suggerimento sindacale) con un piccolo aumento di salario.

Nel caso in cui la merce prodotta fosse invece altamente discontinua, supponiamo prodotta e venduta in giornata (il nostro capitalista gestisce un centralino di comunicazione telefoniche a gettone), dovremmo distinguere, nel capitale costante considerato, il capitale circolante (materie prime ed energia consumate) con un tempo di rotazione giornaliero come quello del capitale variabile, ed il capitale fisso (ammortamento impianti e macchinari). Adesso solo questa rotazione si compie ad una velocità 2,4 volte superiore. Supponiamo che il capitale fisso del nostro esempio ammontasse a metà del capitale costante, 240 000 Lire. Introducendo il ciclo continuo al nostro capitalista bastano, per il medesimo periodo, 100 000. Il calcolo del saggio di profitto sarà allora il seguente: 210 000p/240 000CC+100 000CF+30 000v, il 57 %, ossia aumentato.

Precisiamo subito che un simile risultato non è sempre possibile. Esso presuppone fondamentalmente due condizioni complementari:
la possibilità di estendere il numero delle ore lavorate, dapprima nel corso del giorno; poi nel corso della settimana, invadendo il tempo libero socialmente e storicamente costituito (notte, fine settimana, festività, ecc.);
un alto saggio di sfruttamento (detto altrimenti: un’incidenza relativamente assai bassa del capitale variabile sul capitale complessivo) il che è possibile solo nelle condizioni di una tecnica molto evoluta. Insomma un alto plusvalore relativo.

Se supponiamo che il nostro capitalista sia il capitale complessivo sociale, e che dunque, organizzando il lavoro di tutta la società, non su tre, ma su quattro turni, si possano costruire quattro volte meno impianti industriali, strade, pullman, ospedali, ferrovie e servizi in genere, ci si rende conto quali colossali risparmi di capitale fisso sociale possano essere realizzati attraverso la creazione, storicamente realizzata dal capitalismo, e ora in globale vertiginoso aumento, di un tempo artificiale sociale distinto dal tempo naturale. Se pensiamo poi all’utilizzo dei giorni festivi, e quindi ad un’ulteriore estensione delle ore lavorative annue, diviene evidente che a determinate condizioni l’aumento del saggio di profitto non è incompatibile con una certa riduzione dell’orario di lavoro, e con un dato tipo di riduzione dell’orario di lavoro, anche a parità di salario.

Diminuzione dell’orario di lavoro e aumento del plusvalore assoluto

Il nostro capitalista però non è soddisfatto: egli vuole a tutti i costi divenire immortale come benefattore dell’umanità e decide di introdurre 4 turni di 6 ore ciascuno su 6 giorni lavorativi. Dato che il valore della forza lavoro non è mutato, l’operaio attuale che lavora 6 ore per 6 giorni riceverà settimanalmente lo stesso salario prima percepito dall’operaio che lavorava 5 giorni per 8 ore; il suo salario giornaliero risulterà diminuito insomma di 1/6, pari a 10 000 x 5/6 = 8333 Lire, che moltiplicate per 6 giorni danno un monte salari di Lire 50 000 per operaio, per 4 operai, 200 000 Lire. Giornalmente, ogni operaio produce ora un plusvalore di 10 000 x 6 = 60 000 – 8333 = 51 667, che settimanalmente dà un plusvalore di 51 667 x 4 operai x 6 giorni = 1 240 000.

Nel caso di una merce continua che, come prima esemplificato, abbia un tempo di rotazione annuale sulla base di 10 ore giornaliere, con 24 ore di lavoro per 6 giorni il tempo di rotazione sarà diminuito, come prima, di 2,4 volte per effetto del ciclo continuo giornaliero e di un ulteriore sesto in virtù del fatto che le macchine funzionano ora un giorno in più la settimana. Il capitale costante sarà come prima di 480 000 giornaliere per 6 giorni, 2 880 000 Lire. Il saggio di profitto, su base settimanale, risulterà allora 1 240 000p/2 880 000C+200 000v x 2,4 x 6/5, vale a dire il 116 %. Aumentato ancora, dunque.

Nel caso di una merce discontinua come la precedente, solo il capitale fisso sarà diminuito di un ulteriore sesto per effetto dell’aumento della velocità di rotazione, mentre sarà aumentato di un sesto in quanto impianti e macchinari si logorano per un giorno in più alla settimana; esso equivale allora a Lire 100 000 x 5/6 x 6 = 500 000 la settimana; il capitale circolante ammonta 240 000 x 6 = 1 440 000. Il calcolo del saggio di profitto su base settimanale sarebbe allora il seguente:
1 240 000p/1 440 000CC+500 000CF+200 000v = 57 %.

Stavolta la ristrutturazione dell’orario di lavoro si sarebbe risolta esclusivamente in maggior gloria del capitalista. Ma egli si chiede: possibile che non riesca a guadagnarci? Se non volesse o non potesse aumentare l’orario di lavoro, potrebbe cercare di inventare, con la consulenza dei sindacati magari, un orario di lavoro più complicato che gli consentisse di produrre anche la domenica, ma il guadagno per l’accelerata rotazione sarebbe poco rilevante (1/7) e in parte annullato, diciamo, da un’ulteriore riduzione d’orario, tale da giungere alle fatidiche 35 ore settimanali. In ogni caso, una volta che le sue macchine lavorassero 7 giorni su 7 per 24 ore al giorno, non ci sarebbe scampo, per aumentare il saggio di plusvalore si potrebbe agire solo dal lato del plusvalore relativo, con le conseguenze ben note sul saggio di profitto. Per sfuggire alla caduta di quest’ultimo la strada della maggior utilizzazione degli impianti sarebbe ormai sbarrata. Ma probabilmente, a questo punto, la soluzione gli sarebbe chiara, anzi si sarebbe già realizzata. Egli avrebbe scoperto infatti da tempo il modo di estrarre anche più plusvalore assoluto dallo stesso tempo di lavoro. Dice Marx:

«… anche senza un prolungamento della giornata di lavoro, l’impiego delle macchine fa aumentare il tempo di lavoro assoluto e quindi pure il plusvalore assoluto. Questo si ottiene attraverso la cosiddetta condensazione del tempo di lavoro, un fenomeno grazie al quale ogni frazione di tempo viene riempita di lavoro più che in passato e cresce l’intensificazione del lavoro. In seguito all’impiego delle macchine cresce, in ogni determinato periodo di tempo, non solo la produttività (quindi la qualità), ma anche la quantità del lavoro. Gli intervalli di tempo, per così dire, si restringono per la compressione del lavoro. In seguito a ciò un’ora di lavoro equivale, forse, alla quantità di lavoro di 6/4 di ora di lavoro medio, durante il quale non s’impiegano le macchine o se ne impiegano di meno perfezionate (…). Ad un certo grado di sviluppo della produzione si deve perdere in intensità di lavoro quello che si guadagna grazie all’estensione. E viceversa. (…) adesso l’operaio spende regolarmente durante la settimana la stessa quantità di lavoro per 10 o 10,5 ore e non sarebbe fisicamente in condizione di fare altrettanto per 12 ore. Qui emerge la necessità di ridurre la giornata lavorativa normale o completa in seguito alla maggior condensazione del lavoro, che comporta un maggior consumo di energia intellettuale, una maggior tensione nervosa e insieme una maggior tensione fisica, Con la crescita dei due momenti, cioè della velocità e del volume (massa) delle macchine cui sono addetti gli operai, si giunge necessariamente ad un punto critico, dopo il quale l’intensità e l’estensività del lavoro non possono aumentare contemporaneamente; esse si escludono a vicenda inevitabilmente. In questo caso il pluslavoro non solo può rimanere lo stesso, ma anche aumentare nonostante, nonostante la riduzione del tempo di lavoro assoluto. (…) Un’ora di lavoro più intenso (…) non viene mai considerata per ciò che essa realmente rappresenta, non viene mai vista cioè come una maggiore massa di lavoro o come tempo di lavoro più compatto, diverso da quello più diluito. (…) Si spiega così il motivo, per cui con l’entrata in vigore della legge sulla giornata lavorativa di dieci ore è aumentata non solo la produttività di quei settori dell’industria inglese, dove è stata applicata la legge, ma anche la massa del loro valore, mentre il salario ha registrato una flessione, piuttosto che un aumento. (…) La giornata lavorativa inglese, della durata di 10,5 ore, non solo è più produttiva, ma contiene anche, probabilmente, la stessa quantità di lavoro compresa in 24 ore lavorative effettuate nelle fabbriche tessili di Mosca. Il sistema di produzione capitalistico, in generale, rende più denso il tempo di lavoro, aumenta la quantità di lavoro spesa in un determinato intervallo di tempo, cioè la massa di lavoro che viene effettivamente spesa nel corso di un’ora o di 12 ore. (…) Qui si parla dell’aumento della tensione del lavoro, che accompagna lo sviluppo della forza produttiva (…) In questo caso si crea non solo plusvalore relativo, ma anche plusvalore assoluto, fino a quando il dato grado di intensità non diventa generale. Quest’ultimo caso, tuttavia, presupporrebbe anche la riduzione generale dell’orario di lavoro. Del resto, sia la durata che l’intensità del lavoro hanno dei limiti. Questi limiti si manifestano nel fatto che ad un certo livello l’intensità può essere elevata solo se diminuisce la durata del lavoro. (…) Se con questo sviluppo delle forze produttive fosse connesso un nuovo aumento della densità del lavoro, sì da far crescere la massa di lavoro spesa in uno stesso intervallo di tempo, e non solo la sua produttività, si arriverebbe presto ad una situazione in cui dovrebbe essere di nuovo ridotta la giornata lavorativa»[12].

Riducendo l’orario di lavoro, in sostanza, il nostro capitalista dispone di forze di lavoro più fresche, regolari, veloci. Diminuisce o annulla le pause, aumenta i ritmi. Recupera perciò in termini di plusvalore assoluto dovuto all’intensità almeno una parte di ciò che perde in estensività e durata del lavoro. Da una parte un simile risultato è ottenuto grazie alla modernizzazione dei processi di produzione, al progresso dell’analisi del ciclo produttivo, che consentono di realizzare una produzione più fluida. Dall’altra è la stessa riduzione dell’orario che permette di adottare i metodi produttivi più moderni e più intensi. Dall’altra ancora è l’eccesso del ritmo di lavoro e di vita a tutti i livelli che impone una riduzione dell’orario, pena l’esaurimento della forza lavoro troppo intensamente sfruttata da un lato, l’impossibilità di sfruttare tutte le possibilità offerte dalle tecniche moderne dall’altro.

La produzione fordista richiedeva, insieme ad un’elevata componente sincronica, una notevole immobilizzazione di scorte e un numero di lavoratori adeguato ai momenti di maggior domanda. In caso contrario gli impianti sarebbero rimasti inattivi per lungo tempo. La produzione informatizzata consente di produrre senza scorte, just in time, come si dice, realizzando un ulteriore risparmio di capitale, ovvero, in termini marxisti, una più veloce rotazione dello stesso: un esempio clamoroso in questo senso è dato dalle casse dei supermercati che, grazie ai visori ottici, permettono, in tempo reale, non solo di fare il conto, ma di aggiornare il magazzino.

E ancora: la produzione post-fordista facilita l’inserimento nel processo produttivo di una larga fascia di lavoratori atipici con contratti «di formazione», «a tempo determinato», «part-time», precari a vario titolo, ecc., che sono il complemento della produzione «just in time», ossia secondo le mutevoli esigenze del mercato[14]. Non a caso gli ultimi anni hanno visto una crescita massiccia della «mobilità» lavorativa in uscita ed in entrata dall’impiego[15]. In questo modo si mantiene sempre il rapporto più favorevole possibile tra capitale costante e capitale variabile.

La posizione che vede nelle proposte di riduzione di orario avanzate da parte sindacale o di qualche preteso «partito operaio» un bluff è insufficiente a disegnare l’attuale tendenza storica del capitale.

Conclusioni

In questo senso vediamo agire, all’interno della tendenza generale della produzione capitalistica alla depressione del saggio di profitto, un’importante controtendenza la quale, pur non potendo invertire la tendenza generale, ne limita però storicamente gli effetti, riuscendo magari, in periodi di veloce rivoluzionamento dei modi di produzione, a bloccarla. Questa opera sulla velocità di rotazione del capitale finché la produzione capitalistica non ha invaso tutte le 24 ore e tutti i 7 giorni della settimana (limite che il capitalismo non ha ancora raggiunto), dopodiché può agire solo in condizioni assai più problematiche, laddove i nuovi regimi di orario permettano un’intensificazione del lavoro maggiore della sua riduzione.

Perché solleviamo con enfasi questo problema? Come Marx, che nel Libro III del «Capitale» apre il capitolo sulle tendenze antagonistiche alla caduta del saggio di profitto indicando che, di fronte all’enorme sviluppo delle forze produttive, il vero problema non è spiegare la caduta del saggio di profitto, ma perché essa non sia stata molto più veloce; così noi, oggi, di fronte all’inaspettata capacità del capitalismo di sopravvivere dopo essere stato dato più volte per morto o in crisi agonica, riteniamo necessario spiegare i motivi di questa tenuta. Lanciando ogni giorno il vaticinio della caduta del capitalismo e creando costantemente l’attesa che essa sia prossima, forse da un lato si accendono le speranze, ma dall’altro ci si espone a delusioni ben più cocenti e pericolose allorquando la famosa rivoluzione dovesse, com’è accaduto sinora, mancare all’appuntamento. Non sarebbe allora la fiducia nel capitalismo a morire, ma quella nella capacità del marxismo di spiegare e in certa misura prevedere i fatti sociali, il percorso in divenire. Per essere convincenti quando si afferma che il capitalismo cadrà, bisogna saper contemporaneamente spiegare, in modo scientifico, perché caduto non è ancora, perché potrebbe anche, contro le nostre speranze, non cadere tanto presto. Non si tratta di inventare una nuova teoria del «crollo» del capitalismo dai profili assoluti, che si determinerebbe non appena portata a termine l’invasione delle 365 giornate di cui un anno è composto.

«Naturalmente occorre sempre ricordarsi» – dice Marx nel testo sulle macchine da noi già citato – «che quando ci troviamo di fronte ad un fenomeno economico, non dobbiamo applicare in modo semplice e immediato le leggi economiche generali. (…) è indispensabile considerare una molteplicità di circostanze, che hanno una vaga relazione con l’oggetto del nostro studio e la cui spiegazione sarebbe persino impossibile senza indagini preliminari relative a connessioni più concrete di quelle di cui ci occupiamo»[13].

Sono ancora troppi i compagni che applicano in modo meccanicistico e sterile alcune verità della teoria marxista per trarne auspici e previsioni che si rivelano immancabilmente errati e velleitari. Nessuna di queste verità è stata forse più travisata in senso antidialettico della caduta tendenziale del saggio di profitto, sulla base della quale si sono disegnate curve di crollo del capitalismo rapide e irreversibili (pensiamo ad esempio a Bucharin e a Grossmann), senza tener conto a dovere delle controtendenze. Proprio contro tali teorizzazioni semplicistiche abbiamo cercato di sviluppare, qui, un suggerimento di Marx che sinora, per quanto ne sappiamo, è stato trascurato.

• • •

V'è da considerare, per concludere, che le trasformazioni da noi indicate – assieme ad altre quali l’aumento di una immigrazione sottopagata e l’aumento del tasso di disoccupazione – hanno avuto anche l’effetto, tutt’altro che trascurabile, e che è uno dei segni distintivi di questi anni, di disgregare i fondamenti stessi su cui si reggeva l’esistenza dei sindacati di categoria. «Flessibilità» e «qualità totale» sono il sinonimo di una nuova grande divisione, all’interno della classe operaia, fra lavoratori stabili e precari, fra squadre di lavoro che rispettano gli standard e quelle che non ce la fanno, fra lavoratori all’interno della squadra che deve autocontrollarsi. Questi anni hanno dunque visto il deperimento del vecchio sindacalismo e dell’organizzazione di base dei lavoratori sul luogo di lavoro.

La rinascita della lotta di classe, quando si manifesterà, dovrà quindi in parte assumere forme nuove. Si porrà il problema di come superare le barriere alla solidarietà poste dalla nuova organizzazione del lavoro, di come lotteranno insieme, con rivendicazioni comuni, lavoratori «stabili» e precari o temporanei, di come coinvolgere nella lotta i lavoratori delle cooperative, di come contrastare la flessibilità, di come prendere posizione di fronte alla tendenza a diminuire l’orario di lavoro secondo le esigenze del capitale, di come farne nascere una lotta per accompagnare la riduzione del tempo di lavoro con la liberazione di tempo umano. Una lotta che sappia collegare l’aspetto immediato di un concreto miglioramento delle condizioni dei lavoratori con il fine propriamente comunista di una massiccia e radicale riduzione del tempo di lavoro.

In ogni caso, quand’anche fosse possibile, grazie ad un’ampia mobilitazione di classe, imporre una riduzione generalizzata del lavoro senza «flessibilità», ossia nelle condizioni più favorevoli al proletariato, con ciò avremmo sì fatto un passo avanti, ma non avremmo assolutamente tolto al capitale la capacità e la possibilità di ristrutturarsi e di continuare a vivere. Solo la lotta politica e la conquista del potere porranno le basi per il superamento del modo di produzione capitalistico, che non si estinguerà da solo finché la macchina dello Stato apparterrà alla classe che si appropria del plusvalore.

Appendice – Esempi numerici

Plusvalore assoluto e relativo

1 operaio x 10 ore lavorative, 2 ore per produrre v. 8 ore p.

1 operaio x 11 ore lavorative, 2 ore per produrre v. 9 ore p

1 operaio x 10 ore lavorative x 10 000 = 100 000 c + 20 000 v + 80 000 p = 200 000

1 operaio x 11 ore lavorative x 10 000 = 100 000 c + 20 000 v + 90 000 p = 210 000

1 operaio x 10 ore lavorative x 10 000 = 100 000 c + 10 000 v + 90 000 p = 200 000

Saggio di plusvalore

    p (plusvalore)
s =  

    v (capitale variabile)

3) 1 op. x 10 ore lav. x 10 000 = 100 000 c + 20 000 v + 80 000 p = 200 000, s = 400 %

4) 1 op. x 11 ore lav. x 10 000 = 100 000 c + 20 000 v + 90 000 p = 210 000, s = 450 %

5) 1 op. x 10 ore lav. x 10 000 = 100 000 c + 10 000 v + 90 000 p = 200 000, s = 900 %

Saggio di profitto

P = Plusvalore = p


Cap. cost. + cap. var. C+v

1 op. x 10 ore lav. x 10 000 = 100 000 c + 20 000 v + 80 000 p = 200 000, s = 400 %

80 000 p

100 000 C + 20 000 v = 66,66 % P

1 op. x 10 ore lav. x 10 000 = 200 000 c + 10 000 v + 90 000 p = 200 000, s = 900 %

90 000 p

200 000+10 000 = 43 % P

Diminuzione dell’orario di lavoro

a) tre turni x 8 h x 6 gg.

v = 3 x 10 000 = 30 000

C = 200 000 x 2,4 = 480 000 Lire.

p = 3 op. x 7 h = 210 000

s = 210 000 p = 700 %

30 000 v

 

P = 210 000 p = 41 % x 2,4 = 98,5 %

480 000C+30 000v

oppure

P = 210 000 p = 57 %

240 000 CC+100 000 CF + 30 000v

b) 4 turni x 6 h x 6 gg

v = 6 h x 8333 = 50 000 x 4 op. = 200 000

p = 60 000 – 8333 = 51 667 x 4 op. x 6 gg = 1 240 000

CF = 100 000 x 5/6 x 6 gg. 500 000

CC = 240 000 x 6 = 1 440 000

P = 1 240 000p = 116 %

2 880 000C+200 000v x 2,4 x 6/5

oppure

P = 1 240 000 p = 57 %

500 000 CF + 1 440 000CC+200 000 v

Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. A. Ja. Gurevič, «Il mercante», in J. Le Goff (a cura di), «L’uomo medievale», Milano, Laterza, 1987. [⤒]

  2. K. Marx, «Il capitale», Roma, Ed. Riuniti, I° (1), p. 326. [⤒]

  3. K. Marx, «Il capitale», Roma, Ed. Riuniti, I° (2), p. 279. [⤒]

  4. K. Marx, «Il capitale», Roma, Ed. Riuniti, I° (2), p. 289. [⤒]

  5. K. Marx, «Il capitale», Roma, Ed. Riuniti, I° (1), p. 260–295. [⤒]

  6. K. Marx, «Il capitale», Roma, Ed. Riuniti, I° (1), pp. 186–189. [⤒]

  7. A quanto ci consta, questo semplice ed indiscutibile fatto, e i suoi potenti effetti rivitalizzanti del saggio di profitto, è stato quasi completamente trascurato. Se ciò è comprensibile per quanto riguarda la pubblicistica borghese, che non ha interesse a farne menzione, è assai curioso nella letteratura rivoluzionaria: gli studi che in essa si trovano sulla caduta del saggio di profitto, forse per il desiderio di enfatizzare i limiti invalicabili della produzione capitalistica, dimenticano di considerarlo. [⤒]

  8. G. Cerruti, «Il tempo di lavoro tra fordismo e postfordismo: dall’orario di lavoro standard all’orario variabile», in «AAVV», «Questione di ore – Orario e tempo di lavoro dall’800 ad oggi», Centro Ricerche Giuseppe di Vittorio (Mi), Pisa, Biblioteca Franco Serantini soc. coop. a r.l., pp. 163–186. [⤒]

  9. J. Rifkin, «La fine del lavoro», Milano, Baldini & Castoldi, 1995, pp. 166–167. [⤒]

  10. L. Queirolo Palmas, «Toyota City e River Rouge nel cuore della Lucania. Voci operaie sul post-fordismo», «Altreragioni», n. 5 del 1996, pp. 70–71. [⤒]

  11. L. Queirolo Palmas, «Toyota City e River Rouge nel cuore della Lucania. Voci operaie sul post-fordismo», «Altreragioni», n. 5 del 1996, p 114. [⤒]

  12. K. Marx, «Macchine. Impiego delle forze naturali e della scienza» (dal Quaderno V del Manoscritto 1861–63), in «Marxiana», n. 2, ottobre 1976, pp. 39–59. [⤒]

  13. Tra il 1995 e il 1997 in alcune zone del Veneto oggetto di indagine il 60 % delle assunzioni riguardava posti di lavoro «precari» («La Repubblica Affari & Finanza» dell’ 8/3/1999). [⤒]

  14. Nel Veneto «un lavoratore su 4 viene assunto e uno su 4 cessa di lavorare ogni anno (esclusi i primi ingressi e i pensionamenti)». «Il 50 % cambia o se ne va entro 6 mesi, il 65 % entro un anno e mezzo, il 75 % entro tre anni» («La Repubblica Affari & Finanza» dell’ 8/3/1999). [⤒]

  15. «La Repubblica Affari & Finanza» dell’ 8/3/1999) p. 56. [⤒]


Source: «Partito Comunista Internazionale (Bolletino)», N° 28, Febbraio 2000,

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