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OPPORSI ALLA TERZA GUERRA IMPERIALISTA IMPLICA LA DENUNCIA DELLA SOTTOMISSIONE PROLETARIA ALLA SECONDA


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Opporsi alla Terza Guerra Imperialista implica la denuncia della sottomissione proletaria alla Seconda
Questa la «Ballata dei tessitori»
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Opporsi alla Terza Guerra Imperialista implica la denuncia della sottomissione proletaria alla Seconda

Siamo dunque di nuovo di fronte alla guerra.

Non che non ci fossimo abituati. L’ultimo periodo di pace capitalistica, infatti, è stato caratterizzato da continui ed incessanti focolai di guerre e di sterminii in tutti gli angoli del globo ed il costo di questa tragedia, in vite umane e sofferenze, è stato ben superiore a quello patito durante l’ultimo conflitto interimperialistico.

A dire il vero i focolai di guerra del periodo della «pace» capitalista, consacrata dal secondo massacro mondiale, si accesero ancor prima che la guerra, vinta dalle potenze democratiche, fosse portata a compimento. Ne fu un esempio funesto la campagna militare inglese contro il proletariato e la popolazione povera di Grecia.

Indocina, Corea, Algeria, Vietnam, Congo, Mozambico, Guinea Bissau, Medio oriente, Corno d’Africa, Afghanistan, Iran/Iraq, Guerra del golfo, Cecenia, Iugoslavia, sono solo alcuni, anche se tra i più vistosi, esempi della catena di morte con la quale la civiltà capitalistica ha strangolato l’umanità intera.

Ogni volta che queste guerre «locali», questi sterminii circoscritti, sono scoppiati l’imbonimento democratico, affiancata dai traditori del comunismo, si affrettava a tranquillizzare il proletariato delle metropoli imperialistiche affermando che questi «detestabili» episodi non avrebbero però compromesso la pace e la stabilità sancite dalla vittoria della democrazia sul nazi-fascismo e salvaguardate dall’ONU. Si rammenti la definizione data da Lenin alla Società delle Nazioni: «Covo di ladroni».

Quello che i democratici ed i social-traditori non hanno mai chiaramente affermato è che quelle guerre 'limitate» non erano che valvole di sfogo al ribollire dei contrasti e delle tensioni che caratterizzano la fase imperialistica del dominio del capitale. Il fuoco della guerra poteva cessare, come di volta in volta è localmente avvenuto, ma per divampare altrove o per covare sotto le ceneri. Il sangue delle moltitudini indigene e dei proletari-soldati metropolitani mandati al macello poteva temporaneamente cessare di scorrere, ma solo per essere succhiato dalla implacabile pompa aspirante dello sfruttamento capitalistico. Però le ragioni profonde della guerra permarranno finché nel regime di profitto sangue e fame continueranno la loro macabra danza, e la vittima designata sarà sempre la medesima: il proletariato, sia esso in tuta la lavoro o in casacca militare.

Era appena terminata la seconda guerra mondiale quando i nostri compagni, sulla scorta della dottrina marxista, potevano in tutta lucidità affermare:
«L’avanguardia rivoluzionaria del proletariato intende chiaramente che alla situazione di guerra è succeduta una situazione di dittatura mondiale della classe capitalistica, assicurata da un organismo di collegamento dei grandissimi Stati che hanno ormai privato di ogni autonomia e di ogni sovranità gli Stati minori ed anche molti di quelli che venivano prima annoverati fra le ‹grandi potenze›. Essa equivale, qualora riesca nel suo scopo, al maggiore trionfo delle direttive che andavano sotto il nome di fascismo e che, secondo la dialettica reale della storia, i vinti hanno lasciato in eredità ai vincitori.
La possibilità di questa prospettiva più o meno lunga, di governo internazionale totalitario del capitale, è in relazione alle opportunità economiche che si prestano alle impalcature pressoché intatte dei vincitori – primissima quella americana – di attuare per lunghi anni profi-cui investimenti della accumulazione capitalistica follemente progressiva nei deserti creati dalla guerra e nei paesi che le distruzioni di essa hanno ripiombato dai più alti gradi di sviluppo capitalista ad un livello coloniale.
La prospettiva fondamentale dei marxisti rivoluzionari è che questo piano unitario di organizzazione borghese non può riuscire ad avere vita definitiva, perché lo stesso ritmo vertiginoso che esso imprimerà alla amministrazione di tutte le risorse e attività umane, con lo spietato asservimento delle masse produttrici, ricondurrà a nuovi contrasti e a nuove crisi, agli urti fra le opposte classi sociali, e, nel seno della sfera dittatoriale borghese, a nuovi urti imperialistici tra i grandi colossi statali»
.

Già nel lontano 1954, il presidente degli Stati Uniti, Eisenhower, dichiarava con tutta franchezza quali fossero le previsioni e le aspettative del capitalismo internazionale. «40 anni di guerra fredda». È interessante vedere come per il capitalismo la «pace» non esista: il suo sistema è guerra, in alcuni periodi può essere non cruenta, o meglio, non generalizzata, ma sempre di guerra si tratta, e stabilirne la temperatura è tutto compito del termometro capitalista. Il secondo massacro mondiale – che noi avevamo definito «il più grande affare dei secolo» – e la ricostruzione post-bellica, per bocca del massimo rappresentante dell’imperialismo, avrebbero potuto solo consentire il protrarsi di questo regime in putrefazione per una quarantina di anni, dopo di che, vi sarebbe stata una nuova gravissima crisi per il capitalismo mondiale.

La guerra fredda, che Eisenhower si augurava durasse 40 anni, è stata la guerra di produzione, di mercati, di concorrenza e di saturazione di merci: di benessere per il capitale e la classe borghese, di sfruttamento, miseria, fame, morte per il proletariato. «Guerra fredda» è stato sinonimo di coesistenza pacifica», durante la quale la società capitalistica mondiale ha ritrovato un nuovo fervore di liberi commerci e vertiginosa produzione che, in nome dell’abbattimento delle frontiere, della fratellanza e della pace universale ha invaso e saturato il mondo.

Solo grazie alle continue emorragie di sangue proletario ed alle distruzioni causate dalle guerre nelle aree geografiche periferiche, il capitalismo è riuscito a superare perfino le sue aspettative più rosee: i 40 anni di guerra fredda.

Ma adesso, giusta la nostra previsione del 1945, i mercati sono di nuovo saturi di merce, nuovi sbocchi non esistono. Come cani rabbiosi gli Stati capitalistici si contendono i miseri avanzi di quello che fu un florido mercato; la guerra commerciale -la «fredda» – deve inevitabilmente ridiventare calda: macerie e sangue sono indispensabili. Per il capitalismo si pone ora il problema impellente di una nuova ripartizione delle aree di sfruttamento e rapina, della drastica distruzione di mezzi di produzione e di merci per potere allungare l’agonia del mostro capitalista e procrastinarne ancora la morte certa. Oltre a ciò un’altra necessità impone ai capitalismo di dare di nuovo la parola alle armi e cioè quella di distruggere decine, se non centinaia, di milioni di proletari, sia perché anch’essi, da un punto di vista contabile borghese, altro non sono che sovraprodotto di merce forza lavoro, sia perché essi storicamente rappresentano i becchini di questa società in decomposizione.

In occasione del IV anniversario della rivoluzione di Ottobre, Lenin affermava:
«Il problema delle guerre imperialiste, di quella politica internazionale del capitale finanziario che domina ora in tutto il mondo e che genera inevitabilmente nuove guerre imperialistiche, aggrava in misura inaudita l’oppressione nazionale, il brigantaggio, l’oppressione delle nazioni deboli, arretrate, piccole, da parte di un gruppetto di potenze «avanzate», è il problema di vita o di morte per decidere di milioni di uomini. Nella futura guerra imperialistica saranno uccisi invece di 20 milioni, come nella prima, 40 milioni di uomini: mutilati 60 invece di 30 (…) E' impossibile tirarsi fuori dalla guerra imperialista, e dalla pace imperialista che inevitabilmente la genera, è impossibile tirarsi fuori da tale inferno altrimenti che con la lotta bolscevica e con la rivoluzione bolscevica (…) Sappiano questi signori che un primo centinaio di milioni di uomini sulla terra è stato strappato alla guerra imperialista dalla prima rivoluzione bolscevica. Le successive rivoluzioni strapperanno tutta l’umanità a simili guerre, a simile pace».

Marx, fin dal 1848, aveva sconfessato l’ideologia pacifista che prospettava la fine delle guerre a seguito del ravvedimento umano quando si fosse constata la loro barbarie ed «inutilità». Gli stessi socialisti della II Internazionale, come Lenin ebbe ripetutamente a rinfacciar loro, avevano dichiarato che la guerra sarebbe stata evitata con la mobilitazione internazionale del proletariato; e neppure i loro rappresentanti più destri avevano mai pensato di fermare i conflitti fra Stati facendo ricorso ai valori «morali» ed alla persuasione. Impedire la guerra significava impedire l’irreggimentazione del proletariato negli eserciti borghesi, significava prendere il potere per fondare lo Stato socialista dell’unita Europa.

Il marxismo si rifiuta nella maniera più assoluta di scendere sui terreno borghese che vorrebbe distinguere da quale parte sta l’aggressore e da quale l’aggredito, da quale parte la ragione e da qual’altra il torto. Scendendo su questo terreno arriveremmo a trarre la stessa conclusione che i partiti socialdemocratici trassero nel 1914 quando ognuno di loro vide nella difesa della propria rispettiva nazione il legittimo comportamento e l’interesse del «proprio» proletariato. Ma abbandonarono il terreno di classe e mandarono i lavoratori al macello ad esclusivo vantaggio degli interessi capitalistici nazionali e mondiali.

Solo chi, come in Russia, propagandò fin dall’inizio il disfattismo rivoluzionario e la guerra alla guerra poté cercare di salvare il proletariato dei proprio paese ed abbreviare le sofferenze della guerra a quello internazionale.

La risposta da dare alle classi borghesi è che i proletari non hanno patria e che il partito comunista persegue l’obiettivo della rottura dei fronti interni e della fraternizzazione fra i proletari degli opposti eserciti. Negando ogni adesione alla guerra cade qualsiasi discriminante tra guerra di difesa e guerra di offesa, viene meno ogni pericolo che da tali false distinzioni possa passare la giustificazione al passaggio dei comunisti alla adesione ai fronti nazionali.

In questi giorni i mezzi di informazione, ed in special modo le televisioni, rincretiniscono un proletariato senza più organizzazione di classe e terrorizzato con gli spettacoli commoventi di migliaia e migliaia di proletari e nullatenenti che, sotto il fuoco di aguzzini e «liberatori», sono costretti ad abbandonare le loro case, i loro averi, a varcare le frontiere (facendo ancora una volta arricchire i trafficanti di carne umana) per essere richiusi in lager di «accoglienza» in vista di un loro, più o meno prossimo, sterminio. Le televisioni dell’altra parte mostrano, invece, le immagini di distruzione e di morte, frutto di quegli «aiuti umanitari» che la NATO fa piovere dai cielo. Da una parte e dall’altra si specula sulla morte degli innocenti per legare le sorti del proletariato agli interessi nazionali a dimostrazione che la sua eventuale salvezza consista nel fare fronte unico con la propria borghesia.

A proposito del «mercato» delle atrocità di guerra, mezzo secolo fa scrivevamo:
«Non è mai stato possibile chiudere con una sentenza accettabile il dibattito su questo punto: chi dei due contendenti sia stato il più crudele, il più feroce. Vi è sempre da ribattere, non se la fanno franca nemmeno Gandhi e Tolstoi. Ma il guaio è che il suddetto uomo della strada non si rende conto che si tratta di una ricerca inutile e che, ammesso che sia possibile discriminare tra le frottole propinate e credute da una parte e dall’altra, non è affatto detto che convenga optare contro chi sta dalla parte, nel passato nel presente e nel futuro, dei mezzi più duri, e che la quistione sta sempre altrove.
Nelle guerre di una generazione addietro, era una gara dalle due parti a scoprire nelle carni dei propri feriti le palle dum-dum. I proiettili ammessi dalle convenzioni internazionali del civile mondo capitalistico dovevano essere conici ed uscire da canne rigate, non dovevano produrre infezioni o devastazioni dei tessuti bastava che mandassero legalmente all’altro mondo. Allora non si parlava ancora di aviazione, gas asfissianti, bombe atomiche e simili giocherelli. Il clou della battaglia polemica parallela a quella dei cannoni nella guerra 1914 fu intorno alle mani mozze dei bambini belgi e alle atrocità delle orde cosacche dello zar, che non facevano prigionieri […] Montagne di carta stampata [ora, invece, non importa leggere, basta la TV] sono rovesciate sul mondo e costituiscono anche un buon affare [poiché] il pubblico si getta tremendamente ‹incannaturito› sulle pagine che ricavano le leggi della scienza storica dalle descrizioni abilmente anatomiche sugli interrogatori di terzo grado a base di unghie estirpate, mutilazioni oscene e vivisezioni di cavie umane […] Molte di queste infamie possono non essere inventate, a chiunque si attribuiscano, ed è impossibile andare a fondo in queste ricerche. Ma, più che impossibile, è inutile, come in nessun caso il raccontarle può servire a fini meno che loschi di organizzazioni propagandistiche tendenziose»
(«Battaglia Comunista», n. 10, marzo 1949).

Non è certo un caso che perfino la Germania di Hitler, nel corso della II guerra mondiale facesse ricorso allo stesso metodo di denunciare le atrocità del nemico. E materiale documentario non gliene mancava!

Oggi quelli che hanno la spudoratezza di farsi chiamare comunisti non solo non denunciano alle masse proletarie questa turpe propaganda, ma smobilitano il proletariato in belanti manifestazioni pacifiste illudendolo di potere, con queste, impedire lo sbocco armato della politica imperialistica, come se questo non fosse un aspet-to della sua intima essenza. E nel loro scopo di far giungere le masse oppresse, disarmate ed impotenti, al momento della generale mobilitazione, lanciano appelli non alla riscossa ma alla sopportazione passiva evitando ogni iniziativa che possa avere il minimo sapore di classe. Gli interlocutori di questi figuri non sono i proletari, ma i capi di Stato, i rappresentanti politici, gli uomini di «cultura» e, soprattutto, gli spacciatori dell’oppio dei popoli: i preti. La religione non ammette la disobbe-dienza civile, il disfattismo e la guerra di classe e, di conseguenza, i comunisti non hanno niente da spartire con essa.

Noi, come Lenin, come tutta la genuina tradizione marxista rivoluzionaria, non imploriamo la pace né dai governi né da dio; guerra e dominio del capitale è situazione altrettanto fetida che pace e dominio del capitale. Noi non siamo pacifisti poiché auspichiamo la diffusione da un paese all’altro dello sciopero militare, la fraternizzazione dei proletari in divisa attraverso i fronti, la guerra di classe.

Pacifisti sono coloro che, preti neri e preti «rossi», consegnano disarmati i proletari nelle mani dei mattatoi capitalisti. E sono pacifisti non della guerra fra Stati, ma della nostra guerra di classe, che rappresenta la liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dalla morte.

Nel 1844 Marx esaltava la rivolta dei tessitori della Slesia affermando che
«nessuna delle sollevazioni operaie di Francia e di Inghilterra aveva avuto un carattere così cosciente quanto la sollevazione dei tessitori silesiani. Ci si ricordi anzitutto della canzone dei tessitori (…tessiam Germania, il lenzuol funebre tuo, che di tre maledizioni si ordì) questo ardito grido di guerra proclama immediatamente, in maniera aggressiva, implacabile e violenta la sua opposizione alla società della proprietà privata».

Sappia il proletariato internazionale, ritrovato il suo istinto di classe, come i tessitori silesiani del 1844 prepari il sudario per questa società di bruti.

• • •

Questa la «Ballata dei tessitori»:

«Noi tessiamo, Germania, il lenzuol funebre tuo, che di tre maledizioni si ordì.
Noi tessiamo, noi tessiamo!
Una maledizione a Dio che noi preghiamo nel freddo inverno e nelle avversità della fame. Noi abbiamo invano sperato e aspettato. Egli ci ha sempre schernito, canzonato e si è beffato di noi.
Noi tessiamo, noi tessiamo!
Una maledizione al Re. Il Re del Reich che non ha attenuato la nostra miseria, che ci ha estorto i nostri ultimi soldi, che ci ha lasciato sparare come a dei cani.
Noi tessiamo, noi tessiamo!
Una maledizione alla falsa Patria, dove soltanto l’infamia e la vergogna prosperano, dove ogni fiore è precocemente reciso, dove putrefazione e corruzione nutrono i vermi.

Noi tessiamo, noi tessiamo!…»


Source: «Il partito Comunista», n.267, maggio 1999, p.4

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