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IL MARXISMO E LA QUESTIONE SINDACALE


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Il marxismo e la questione sindacale
Ieri
Oggi
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Sul filo del tempo

Il marxismo e la questione sindacale

Ieri

Quando la cosiddetta stampa operaia sostiene oggi che ogni attentato al diritto di organizzazione sindacale e di sciopero è un attentato ai principii della democrazia e che lo si combatte difendendo la costituzionalità dei presenti regimi parlamentari, l’impostazione di questa vitale questione dell’azione di classe è semplicemente rovesciata, con la abituale conseguenza di disorientamento e disfattismo della preparazione proletaria.

I regimi borghesi parlamentari alla loro origine si opposero con ogni energia al diritto di coalizione operaia e agli scioperi, con feroci leggi criminali. Solo nel 1871 il parlamento inglese, che aveva secoli di vita, soppresse le leggi che consideravano reato la costituzione dei sindacati di lavoratori, delle trade unions, senza per questo cessare di essere, come Marx dice, una trade union di capitalisti. La rivoluzione francese con una legge del 1791 vieta e punisce le associazioni di operai. Nel pensiero liberale classico queste fanno rinascere le feudali corporazioni eliminate dalla rivoluzione borghese.

I termini sindacato e sciopero rispetto ai termini libertà e democrazia stanno dai lati opposti della barricata. Nel perfetto stato liberal-democratico come lo definisce il pensiero borghese ogni cittadino è tutelato dalla legge e dal sistema elettivo, ogni associazione a difesa di interessi economici è inutile essendovi lo Stato padre comune di tutti, ed è anzi da condannare come lesiva della illimitata libertà personale, di cui la più importante, secondo i borghesi, è quella di vendersi alle condizioni di libero mercato del lavoro allo sfruttatore capitalista.

Il metodo del sindacato e l’arma dello sciopero hanno tuttavia fatta una enorme strada nello svolgimento dell’epoca capitalistica dopo quelle prime radicali resistenze.

Il movimento rivoluzionario proletario le ha sempre giustamente considerate in primo piano nella esplicazione della lotta di classe in quanto sono la via maestra per condurre la classe operaia dinanzi alla necessità della lotta unitaria contro il fondamento stesso del regime capitalistico, che è lotta politica per il potere, restando ben chiaro che il governo e lo Stato borghese che consentano il sindacalismo operaio lo fanno per loro fini di classe e sono parimenti da combattere e da abbattere quanto quelli che lo vietano.

Prima della guerra europea prevalevano due interpretazioni del metodo sindacale. Quella considerata allora di sinistra voleva ridurre tutta l’azione di classe al campo economico, proclamava l’azione diretta e lo sciopero generale come totale contenuto della lotta rivoluzionaria. L’azione diretta, ossia competizione senza intermediari tra il padrone industriale e la sua maestranza si contrapponeva all’abuso dei capi moderati e opportunisti del movimento operaio della mediazione di autorità, del patrocinio di uomini politici e deputati presso prefetti e governi borghesi. Costoro avevano costruita tutta una prassi di sindacalismo riformista che si fondava da una parte sui parlamentari e dall’altra sui funzionari sindacali e che parimenti escludeva il partito politico ed ogni programma rivoluzionario. Tendevano ad un compromesso sociale e politico col regime capitalistico basato non più sulla tolleranza, ma sul riconoscimento costituzionale dei sindacati e sull’arbitrato obbligatorio che riducesse al minimo le aperte vertenze tra operai e datori di lavoro, costruendo il miraggio di uno Stato neutrale tra essi.

I sindacalisti rivoluzionari avevano ragione nel porre il sindacato non sotto il patronato dello Stato ma contro di esso. Non vedevano però che per la distruzione del potere statale l’azione economica non basta, occorre un programma politico, un partito, la conquista e l’esercizio rivoluzionario del potere.

Il metodo dei sindacalisti riformisti (in Italia Cabrini, Bonomi, Rigola e così via) in effetti si continuò nel metodo fascista. Guardando agli uomini pare di vedere una opposizione che non vi fu, come è falsa prospettiva quella che porta in primo piano il divieto con leggi di polizia dello sciopero e della serrata padronale, cui tende ogni forma di revisionismo socialista evoluzionista e conciliatore, tra le quali va classificato il nazionalcomunismo stalinista ad uso interno ed esterno.

Oggi

Mano mano che l’organizzazione operaia viene impastoiata nello Stato come è oggi tendenza generale in tutti i paesi, sia con forme di coazione che con forme di subordinazione dei capi sindacali ai partiti borghesi, di cui la seconda evidentemente è peggiore, il problema dello svolgimento delle lotte economiche e degli scioperi in senso rivoluzionario diviene più complesso e arduo. Non basta che tali lotte vengano sostenute e promosse da partiti che sono in opposizione a quello al potere, come oggi avviene in Italia nella contingente situazione. Esse possono raggiungere anche notevole ampiezza senza per ciò rispondere alla esigenza di schierare il proletariato contro il principio e il regime capitalistico, e senza nemmeno condurre ad un miglioramento nelle condizioni immediate di lavoro.

Quando il partito che maneggia tali movimenti pone come obiettivo la difesa di pretese conquiste democratiche e costituzionali di cui si sarebbe avvantaggiata la classe operaia, ammette in pieno il metodo di trattare con gli intermediari del regime politico dominante e non solo non esclude la partecipazione al potere in regime borghese ma ne fa uno dei postulati della lotta, le energie di classe del proletariato sono deviate a tutto benefizio della collaborazione di classe e della conservazione del regime.

Si parla oggi di un nuovo metodo di lotta operaio, la non collaborazione. Non si potrebbe meglio in modo formale, quanto purtroppo è sostanziale, idealizzare lo scopo della collaborazione tra padroni e lavoratori.

Non abbiamo mai saputo che nelle intraprese industriali si collaborasse. Questo lo scrivevano gli economisti apologisti del regime attuale. Nelle fabbriche lavorano solo i proletari e i padroni sfruttano il loro lavoro. Ingenuamente abbiamo definito la faccenda sempre così. Adesso viene considerato regime normale di fabbrica quello in cui i due fattori della «produzione» collaborano insieme. Di più, si lotta per difendere questo supremo obiettivo capitalistico, la «produzione». Si sospende la collaborazione ponendo alle masse operaie per la ripresa di essa una serie di obiettivi veramente edificanti che, per tacere del fondamentale problema economico dell’industria alimentata dallo Stato, culminano nella collaborazione politica e ministeriale al governo dei partiti che pretendono di rappresentare quelle masse in lotta.

L’azione diretta che fa tanta paura al governo di De Gasperi è bella e sepolta. Non si tratta più di vedersela direttamente coll’industriale, che tante volte è il primo interessato ad evitare la «liquidazione» della sua azienda, ma di agire con delegazioni di intermediari politici presso il governo centrale per avanzargli proposte non bene definibili la cui sola consistenza è un compromesso tra capi operai e capi industriali, tra partiti di opposizione e partiti di governo.

Questo stesso problema era quello che il fascismo si poneva. Ma se lo poneva in verità molto più coerentemente poiché proclamava una economia autarchica e una politica imperiale, sia pure superiori alla realtà delle sue forze.

Oggi si gioca allo stesso gioco di fare i giannizzeri, ma il nostro personale politico si divide in tre gruppi: giannizzeri già affittati ad Occidente, giannizzeri già affittati ad Oriente, giannizzeri in attesa di decidere come affittarsi.


Source: «Battaglia Comunista», n. 3, 19-26 gennaio 1949

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