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CORPORATIVISMO E SINDACALISMO


Content:

Corporativismo e sindacalismo[1]
Ieri
Oggi
Notes
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Sul filo del tempo

Corporativismo e sindacalismo

Ieri

Dal tempo fascista si è fatto gran discorrere di «corporativismo», di sistemi di rappresentanza delle professioni e degli interessi sociali, di organi dello Stato fondati su questo criterio. È interessante che, dopo caduto il fascismo, quei gruppi stessi che nel succedergli si atteggiarono a seppellitori e distruttori di ogni sua vestigia, ritornano tuttavia con insistenza alla richiesta di continuare a ricostruire molti degli organi di quel sistema sociale come i Consigli del lavoro e della economia.

Il corporativismo e la repubblica delle professioni non li avevano certo inventati i fascisti, ed oltre a costituire antichissime idee e modelli storici o utopistici di società, in epoca recente, e con la confluenza di tendenze spurie ma talvolta vivaci del movimento proletario, erano stati elevati a programma, prima che nella Carta del lavoro di Mussolini (che per lo meno come stesura di pezzo letterario sovrasta di molto le stenterellesche articolazioni della attuale carta costituzionale postfascista), dai dannunziani, per non citar che un esempio tra tanti, della costituzione del Carnaro.

Questi statuti del tempo moderno, basati sulla classificazione per figura sociale del cittadino, sono fatti risalire a torto marcissimo alle tradizioni del corporativismo medioevale con cui nulla hanno di comune.

Le corporazioni del Medioevo inquadravano artigiani che davano tutti il proprio contributo anche materiale alla produzione, sia pure alcuni – più provetti, più intelligenti o semplicemente di maggiore età – quali capi di piccole aziende, gli altri come apprendisti o garzoni o aiutanti del maestro. Estranei a questo inquadramento si svolgevano gli ordini della nobiltà e del clero, non fondati su un apporto alla vita economica e all’attività produttiva, ma sulla nascita e il grado militare o ecclesiastico. La Chiesa e le fraterie, come la cavalleria e l’aristocrazia, non erano corporazioni parallele ed opposte a quelle artigiane, e il peso stesso del loro sfruttamento economico non era sulle spalle della classe artigiana ma soprattutto su quelle dei lavoratori della terra, servi e privi di diritto anche corporativo, privi di «stato». Era dunque quello dei secoli di mezzo un corporativismo uniclassista, non interclassista, in quanto la classe dei datori di lavoro non esisteva come elemento decisivo del regime. Lo potremmo dire corporativismo monopolare, contrapposto a quello bipolare che si va determinando in regime di salariato.

Oggi

Il regime borghese liberale, e anche ripeterlo le mille volte è utile, negò e superò sotto la spinta delle nuove prorompenti forze produttive e degli interessi dei capitalisti ogni divisione dell’agglomerato sociale in caste non solo ma anche in ordine a diversa disciplina giuridica. Proclamò la legge uguale per tutti, nobili o plebei, chierici o laici, costruì la figura, quanto mai fittizia, del cittadino atomo sociale con un egual legame per tutti all’impalcato statale, e mascherò sotto questa serie di poderose balle un nuovo, peggiore, più costruttore di miseria, dominio di classe.

Resasi inarrestabile l’organizzazione degli interessi economici dei nuovi sfruttati, gli operai salariati, la legge come altra volta rammentavamo, dovette ammettere il principio sindacale, che si estese a tutte le categorie e finalmente divenne arma degli stessi gruppi capitalistici.

Il modernissimo tipo di ordinamento che non solo vuole riconoscere ma introdurre costituzionalmente nello Stato questi organismi associativi è un prodotto originale del mondo capitalistico e non ha nulla a vedere col ritorno alle corporazioni.

Questo corporativismo capitalistico è bipolare, esso vede di fronte due strati, due facce dell’economia possibili solo nel mondo moderno, i datori di lavoro e i lavoratori, i prestatori d’opera, quelli a cui nulla è dato possedere oltre la loro attitudine a produrre. Esso non organizza le persone dei cittadini classificati per ordine professionale o categoria e ceto sociale, ma organizza gli interessi che nell’economia borghese non sono più persone fisiche singole, ma forze che tendono a divenire anonime.

Gli «immortali principii» borghesi del 1789, se vengono ancora una volta convinti della loro vuotaggine filosofica, non sono traditi in quanto avevano al loro proclamarsi di sostanzialmente rivoluzionario e quindi di antimedioevale: datore di lavoro, operaio, funzionario o professionista si diventa, non si nasce, a tenore dei codici.

Se non abbiamo creduto al trucco dell’arma che gli ingenui borghesi avrebbero dato ai loro dipendenti col meccanismo democratico – sono molto più numerosi gli elettori proletari che quelli possidenti, stendano la mano e avranno pacificamente il potere – ancora meno ci può sfuggire dove sta la magagna in quello totalitario e corporativo. Gli operai, diciamola maccheronicamente, votano per quanti sono, e anzi votano per tutti loro i capi sindacali – i padroni votano per «il volume di interessi economici» che rappresentano nelle loro aziende, ossia per quanti operai hanno, e per un tanto di più che corrisponde al capitale fisso oltre alla massa salari…

Eppure tutto questo aggeggio ha sedotto molti nel campo operaio, che sono caduti in confusioni pietose col sindacalismo di classe, con le varie costruzioni economistiche, e quindi monche della organizzazione e della lotta rivoluzionaria, come la rete dei consigli d’azienda, perfino coi Soviet della Rivoluzione Russa di Ottobre, dimenticando che questi ridiventavano – ma anche qui non è il Medioevo che riemerge… per tutti gli dei! – monopolari, ossia il padrone di azienda non vi compariva un bel cavolo né contato per il numero dei suoi lavoratori né per il fesso giuridico che è tutto solo.

Tutto questo sembra tanto semplice e chiaro eppure vediamo un grande arrabattamento per tale rappresentanza degli interessi di categoria che tutti i contemporanei soloni sono disposti ad ammettere.

Il dissenso tra corporativisti rossi e bianchi nel mettere giù questa copia peggiorata e scorretta della carta fascista sta in punti secondari, se i consiglieri li deve designare lo Stato tra i suoi funzionari, i sindacati tra i loro, o un’ennesima consultazione e fessificazione di corpi elettori «alla base».

Si tratta invece di un processo sostanziale del modo di ordinarsi del regime capitalistico, che con questi inquadramenti coatti tende alla soppressione dei sindacati autonomi e all’abolizione dello sciopero, di cui i sinistri da veri gonzi vogliono nella costituzione quella evidente premessa che è – vedi Mussolini – il divieto della serrata.

La questione delle rivendicazioni, in sede di leggi costituzionali per gli organi economici dello Stato, vale quella per la Suprema Corte Costituzionale – più in alto resta solo il buon dio.

Anche qui vaghe richieste che sia «designata democraticamente» senza capire che si tratta di una magistratura e quindi della forma più squisitamente conservativa che possa darsi, strumento diretto della classe al potere, con facoltà di distruggere perfino ogni espressione dei corpi «elettivi» delle stesse combines dei vari partiti, fin quando ci saranno. Per conto nostro…

Le «battaglie» dei partiti «della classe operaia» valgono tutte lo stesso: siano condotte colla fine distinzione di Terracini che con la trivialità scurrile di Di Vittorio.

Notes:
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  1. Un altro titolo di questo testo è «Corporativismo e socialismo». [⤒]


Source: «Battaglia Comunista» n. 6 del 1949

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