Epidemia mondiale di processi politici… Per tacere di quelli non politici di cui la stampa abbevera la insaziata clientela di lettori avida di giallismo e sempre più sottoposta in grande stile alla educazione «democratica» del trionfante americanismo, rispetto ai sistemi del quale le divulgazioni fasciste e naziste erano capolavori di sincerità e decenza.
Da un piccolo secoletto a questa parte i socialisti marxisti dicono che ogni processo politico è una superidiozia e deridono parimenti l’impiego attivo e passivo di un tale espediente.
L’8 febbraio del 1849 un giovane dottorino in legge, tal Carlo Marx, dinanzi ai giurati di Colonia, difendeva sé e i suoi compagni dalla accusa di eccitamento alla rivolta. Naturalmente egli, come anche i suoi allievi di tempo meno remoti, non tralasciò di scendere alla schermaglia sulla dizione formale della legge concreta per prendere per lo strascico della toga il procuratore generale di servizio. Ma il succo del suo discorso fu la dimostrazione che ogni applicazione dei principi e dei metodi giudiziari al conflitto politico è una vuota commedia in cui le parti sono distribuite sempre al rovescio, come un palcoscenico su cui un primo amoroso in gonnella recitasse la scena madre alla donna barbuta.
La dimostrazione data è che il comune denominatore della legalità tra le parti in conflitto politico e storico non esiste, e che in questo contrasto il giudice che detta la sentenza è uno solo: la forza.
L’imputato marxista può dunque prendere in castagna i maneggiatori inabili dell’apparato legale contingente, ma non piange né protesta mai per la legalità e costituzionalità conculcate, per le offese alla libertà e alla giustizia, ed anzi delle crisi che sconvolgono dalle loro basi tali istituti si compiace e ne fa le basi della sua critica implacabile.
Nel torno di tempo del processo di Colonia erano tre le forze in gioco sul piano storico: la Corona prussiana, l’assemblea parlamentare sorta a Berlino dalla costituzione strappata coi moti del 1848, i gruppi rivoluzionari di avanguardia fondati sulla nascente classe operaia tedesca. I rapporti di forza, disse Marx in sostanza, sono in due anni rapidamente cambiati: la costituzione e il diritto hanno subito un vero terremoto e la storia ha fatto volare all’aria i «pezzi di carta». Il problema è di vedere quale delle forze ha battuto le altre e quale potrà muovere nell’avvenire alla riscossa, non quale sia la normativa a cui tutte dovrebbero per una comune intesa sottostare.
La nostra impostazione che deriva il diritto dalla forza e non viceversa, nei momenti cruciali della storia risulta essere accettata anche dagli altri. Nel 1847 il monarca prussiano assoluto saldo sul piano legittimista dichiarava altamente che non avrebbe posto tra sé e il suo popolo nessun pezzo di carta. Ma dopo le barricate del marzo del 1848 giurava fedeltà ad una costituzione liberale. Dopo un lungo conflitto con l’assemblea nel 1849 la Corona riesce a ristabilire il potere assoluto; indi il processo al gruppo estremista renano che aveva incitato il popolo ad insorgere contro la Corona. L’accusatore presenta come legale il primo e il secondo trapasso, pretendendo che il re avesse di sua iniziativa «sospeso» un suo diritto e poi se lo fosse ripreso. Lo ridicolizza facilmente l’accusato mostrando che nel primo caso il re nulla concesse, ma il suo potere fu infranto ed egli ne abbandonò una parte nel tentativo di salvare il rimanente, nel secondo caso vinse la controrivoluzione e non esitò a lacerare la nuova legalità istituita. Chi dunque ha infranto la legge? Tutti lo hanno tentato, e quelli che vi sono riusciti processano gli altri: determinante suprema è la forza, rivoluzionaria o controrivoluzionaria. Il gruppo operaio, spiega Marx, ha lottato per mandare innanzi la infingarda e vile borghesia di Germania, non per vivere con lei all’ombra di un nuovo stato di diritto, ma per procedere ben oltre: la chiusa è questa.
«Il risultato necessario di tutto questo intreccio non può essere altro che o la vittoria completa della controrivoluzione o una nuova rivoluzione vittoriosa».
Le droghe non si usavano ancora, ma sembra chiaro che il dottor Marx aveva confessato. Fu assolto.
Sicurezza dello Stato, difesa della legalità costituzionale, tribunali speciali, tribunali del popolo, corti per i criminali di guerra, tutto questo armamentario ammorba le atmosfere dall’alba all’occaso. In America processano i comunisti (e magari lo fossero!) seguitando ad elaborare il brillante istituto di diritto liberale secondo cui ogni opinione e organizzazione politica è ammessa, a meno che non vi sia in programma l’abbattimento del sistema statale in vigore. Al che gli stalinisti invece di rispondere che con questo si ritorna al puro legittimismo capitalista, perfettamente analogo a quello feudale di Federico di Prussia, reagiscono col dichiarare una calunnia il loro proposito di preparare la classe operaia alla lotta armata per la sua dittatura, che rivendicano la legalità e insorgerebbero, se mai, solo a difesa di questa contro la «provocazione» reazionaria. E di chi mai, in quel felice paese, dove non si dispone di uno straccio di Asburgo di Borbone o di Hohenzollern? Forse di Montezuma o di Bisonte Nero?
Nella grande Rivoluzione Russa il magnifico gruppo bolscevico marxista che ristabilì la linea della visione comunista nelle decisive polemiche sul terrorismo contro i rinnegati della nostra scuola, poiché appunto ebbe in sorte dalla storia di attuare a Leningrado e a Mosca quello che il giovane Marx tratteggiava per Colonia e per Berlino, ossia due rivoluzioni che incalzano alle reni due controrivoluzioni, dovette sorbirsi una nauseante eredità storica di giustizia rivoluzionaria e tribunali di popolo. Marxisti del calibro di un Lenin, di un Trotzky, di un Bucharin erano ansiosi di liquidare per sempre questa bassa paccottiglia letteraria e lo si vide anche nel famoso cosiddetto processo ai socialisti rivoluzionari passati alla opposizione e alla cospirazione contro il potere dei bolscevichi. Queste non sono pratiche per pseudo magistrati ma per comitati di azione della classe rivoluzionaria del potere rivoluzionario o – inorridite pure – del partito.
Quando il partito che conduce la lotta al potere proclama e teorizza senza infingimenti la dottrina storica della forza e dichiara senza ipocriti scandalismi che solo l’esito della lotta armata ha nella storia stabilito chi debba prendere il seggio di giudice chi di accusatore e chi lo scranno del re, annunzia l’uso della violenza non come una ritorsione ma come un mezzo di indispensabile iniziativa politica, e denunzia per sempre il riconoscimento di principii e di magistrati vecchi e nuovi neutri nel conflitto, solo allora si va verso una vittoria rivoluzionaria che oltre ad aprire la via ad una società nuova chiuderà la catena delle rappresaglie e delle vendette inutilmente e crudelmente sanguinarie. Questo il non dissimulato Terrorismo dei marxisti.
Oggi che tutti proclamano programmi di tolleranza, di libertà e di democrazia, vuoi parlamentare, vuoi popolare, vuoi progressiva, tutti si mostrano pronti a colpire spietatamente il vinto, anche ridotto all’impotenza; tutti processano condannano fucilano impiccano.
Qui si protesta perché quelli hanno condannato il cardinale, quelli stessi strillano per troppo lieve condanna al comandante fascista, insieme hanno plaudito le forche di Norimberga e di Tokio.
Tutti sono ferventi paladini di legalità da rispettare e indignati dei tradimenti all’ordine costituito dello Stato. Ma è Stato popolare e di diritto? E chi lo stabilisce? Ciò che è sicuro è solo che si tratta del potere di fatto, in quanto ha potuto catturare chi rompeva le scatole e metterlo in gabbia. Una giustificazione legale è alla portata di tutti. Siete marxisti? Vi piace per caso un marxismo che cambia ogni diecina di anni? Prendiamo un Engels del 1885, maturo, no?
«I partiti ufficiali rinfacciano al partito socialista di essere rivoluzionario, di non riconoscere il terreno legale creato nel 1866 e nel 1871, e che perciò si pone fuori del diritto comune. Ma che cosa è mai il terreno legale del 1866 se non un terreno rivoluzionario? Allora si ruppe il patto federale e si dichiarò guerra ai collegati. No; risponde Bismarck, furono gli altri a rompere il trattato federale. Al che si può rispondere che un partito rivoluzionario deve essere abbastanza balordo se esso non trova per ogni levata di scudi dei motivi giuridici per lo meno tanto plausibili quanto quelli di Bismarck nel 1866.»
La borghesia seppe deflorare ogni legittimità, i falsi capi operai di oggi non blaterano di altro che di legalità. La discussione sul diritto di Francesco Giuseppe, di Bismarck e dei socialisti tedeschi vale quella sulla legalità dei governi di Mussolini, Badoglio o De Gasperi, degli ufficiali fascisti repubblichini o partigiani.
Di processo in processo e di caccia ai traditori in caccia ai traditori, la forza rivoluzionaria degli operai va alla rovina. Andiamo verso il processo alla volante rossa e la polemica si fa sulla tesi di libertà costituzionale e – ma udite! – di moralità sociale!
La classe operaia in Italia e negli altri paesi è battuta e tradita se non riesce a portare la sua battaglia fuori dalle graveolenti aule giudiziarie, se non rifiuta ogni magistrato sovrano e ogni giustizia che non sia quella che si farà colle sue mani.
Deve dichiarare di lottare contro e fuori della costituzione, degna quella italiana di oggi, più di ogni altra, della definizione del dottor Marx in quel discorso:
«questa astratta bagattella italica, il pezzo di carta».