Dal 1882 al 1914 l’Italia è stata nella Triplice Alleanza con l’Austria e la Germania, con gran dispetto di tutti i democratici italiani. Questi però ce la fecero a stracciare la cambiale e allo scoppio della Prima Guerra Europea nell’agosto 1914 impedirono l’intervento a termini del trattato finché nel «radioso maggio» del '15 le forze popolari della democrazia pacifista – alla testa D’Annunzio e Mussolini – riuscirono a travolgere le resistenze di monarchia governo e parlamento, attuando la guerra dall’altra parte, a fianco dell’Intesa della Francia e dell’Inghilterra.
Su questo schema storico parte la campagna della opposizione odierna al Patto Atlantico, all’alleanza di guerra dello Stato italiano con il capitalismo americano.
È comodo per la propaganda, fatta secondo il facile avvio di oggi «a braccia», buttare avanti di questi paralleli e buttarsi sullo slogan che la storia si ripete.
Ma se è indubitato che il materiale della storia è fondamentale guida alla politica dell’oggi, due cose sono necessarie, che entrambe danno fastidio ai demagoghi da baraccone: adoperare una storia non falsificata, ed inquadrare lo sviluppo dei rapporti dalla loro vecchia disposizione a quella nuova.
Che i democratici italiani mal gradissero la politica triplicista e la battessero con valanghe di retorica in prosa e in versi è vero ed è perfettamente spiegabile. L’unità nazionale, mezzo per il consolidamento nella penisola del potere della borghesia liberale, si era fatta con guerre contro l’Austria e aveva lasciato indietro la rivendicazione irredentista di toglierle ancora il Trentino e la Giulia, regioni in parte di lingua italiana. Vero che la Prussia aveva aiutato nella terza guerra a sanare le batoste di Lissa e Custoza, vero che la Francia ove non fosse stata battuta dalla stessa Prussia a Sedan nel '70, avrebbe impedita la conquista di Roma. Ma tutto l’armamentario politico ed ideologico della democrazia borghese confluiva sempre al di sopra di queste contraddizioni nelle simpatie ardenti per i regimi e la storia liberale classica di Francia e d’Inghilterra sullo sfondo di tinte massoniche ed antivaticane, di smaccate ammirazioni parlamentaristiche.
Le carte dei democratici di mezzo secolo sono dunque in regola. Ma che debbano servire di passaporto a movimenti di oggi che pretendono di richiamarsi alla classe proletaria e al socialismo, è altra cosa.
Per tal gente è articolo di fede che il socialismo altro non è che una sottospecie della democrazia, il proletariato oggi dovrebbe agire secondo le direttive delle forze democratiche come una frazione di esse, naturalmente avanzata e progressiva.
Ma questo era già un falso nella situazione della Triplice e già allora quelli che impostavano la quistione mobilitando la sulla scia irredentista e interventista, dopo aver tentato di incanalarvela colla prima fase di neutralismo e pacifismo, meritarono senza appello la condanna di rinnegati e traditori.
I ricalcatori di quella strada nella situazione di oggi meritano quindi in pieno la definizione di allievi di Mussolini, già guadagnata loro a tutti voti per la politica fatta nella guerra recente.
Nel 1914 la classe operaia ed il partito socialista lottarono in modo risoluto contro la politica borghese di alleanze di blocchi e di guerra non soltanto quando si trattò di impedire che avesse effetto l’impegno triplicista, ma anche quando il governo borghese, la monarchia, gli stessi nazionalisti della guerra per la guerra (coerenti anche loro) abbracciati all’ombra del tricolore coi democratici classici e coi pochi traditori delle nostre file, si buttarono sconciamente nell’interventismo anglofrancofilo.
Questa decisa opposizione del proletariato avente senso di classe ad entrambi i mercati imperialistici della borghesia, mantenuta anche durante la guerra, determinò una situazione utile e attiva per le forze rivoluzionarie, anche se non si svolse storicamente (per ragioni oggettive e di indirizzo insufficiente del movimento) nella trasformazione della guerra delle nazioni in guerra civile, che gloriosamente realizzarono i bolscevichi. Essa doveva preludere, se altre deviazioni e tradimenti non avessero intossicato la via al movimento della classe operaia, alla aperta impostazione di questi problemi non secondo gli interessi del Paese della Patria e della Nazione, ossia della borghesia che ci opprime, ma sulla sola base delle prospettive rivoluzionarie internazionali.
A parte la condizione disgraziatamente involutiva e degenerativa del movimento classista, è palese che la situazione in cui dinanzi alle prospettive di una guerra generale si trova lo Stato borghese italiano, non ha nulla a che fare con quella del 1914 e anche con quella del 1939 perché, pur risalendo sempre la causa delle guerre agli sviluppi dell’imperialismo capitalista, ben diverso peso e dinamica ha il governo di Roma nel quadro mondiale.
Questo governo di servitori e di scagnozzi non può fare né interventismo né neutralismo, può solo seguire degli ordini e obbedire ad imposizioni e minacce. Non ha una forza di guerra autonoma da mettere in vendita speculando sul sangue dei lavoratori, oggi per dollari come ieri per sterline e per marchi, nemmeno può fare campagne basate su fantasie egemoniche o subegemoniche conquistate con avventure di guerra.
Nulla muterebbe, se la opposizione fosse al potere, in questa condizione di impotenza. Tutti i partiti dell’attuale parlamento hanno contribuito a questa situazione – e se essa potesse avere sviluppi rivoluzionari noi gioiremmo che essa calpesti l’orgoglio nazionale – col loro atteggiamento bloccardo durante la guerra ultima, in politica interna ed estera. È inaudito che i ciarlatani della attuale opposizione osino definire come la terza aggressione dell’America quella che si prepara. Certe bocche sporcano la verità; sono le bocche di quelli che fremevano di gioia agli sbarchi in Africa e in Francia solo perché li avvicinavano ad una divisa di ministri borghesi, sognata tra i patemi dell’esilio e i veti del duce.
Nel 1914 gli stessi piccoli Stati europei, in conseguenza delle caratteristiche della economia e della stessa tecnica militare, potevano avere un peso nello spostare l’equilibrio del conflitto. Comunque gli Stati Uniti si disinteressavano della politica europea e non avevano peso militare adeguato a quello economico, l’Inghilterra viveva l’ultimo atto della sua funzione di isolamento arbitrale nel mondo, nelle forre continentali si facevano calcoli abbastanza scemi quanto quelli dei nostri oratori parlamentari di oggi sul numero di corazzate e di divisioni di almeno cinque potenze militari di comparabile ordine di grandezza, raggruppate due di qua tre di là nei classici blocchi. Poi tra giri di valzer, assoldamento di socialisti rinnegati e crociata ideologica per la civiltà democratica, non bastarono la liquidazione sfrontata dello splendido isolamento britannico e della dottrina di Monroe e perfino la discesa in campo del lontanissimo Giappone a far fuori senza sforzi supremi la Germania.
Ne uscì una situazione nuova, e già allora si cominciarono a formare le regioni di soggezione dei piccoli Stati ai grandi poteri, soprattutto fra i rottami dell’Impero d’Austria (una delle meno indecenti amministrazioni pubbliche che abbia potuto offrire la storia del capitalismo). Si urtarono, nel piano egemonico in Europa sulle varie Cecoslovacchie nate fantocci, prima Francia e Inghilterra; poi avvenne quello che avvenne e lo sanno tutti i non lattanti.
La seconda Germania fu rovesciata da una generale coalizione e la povera Italietta non riuscì a piazzare sulla carta buona un secondo mercimonio e una migliore edizione del tradimento. Naturalmente quelli che ci hanno speculato nel diventare grandi uomini in piena luce di riflettori amici o nemici (non conta molto) hanno il toupet di dire che Hitler l’hanno fregato loro colla guerra partigiana e poi con la leonina dichiarazione postarmistiziale.
Nella situazione che ne è seguita, gli stessi centri di Parigi e di Londra hanno barattato influenza ed autonomia e sono di fronte a due soli colossi. Il problema con chi si allea il governo di Roma è un problema sottofesso. La grossa questione è di stabilire se nel possibile mostruoso urto debba vedersi un’alternativa storica su cui vadano giocate tutte le forze del proletariato.
Questo in Italia seppe dir di no al signor Mussolini, dovrebbe saper dire lo stesso al signor Nenni, ben scelto a gettare questo ponte imbroglione tra l’antitriplicismo 1914 e l’antiatlantismo 1949.
Affittando il proletariato all’antitriplicismo borghese si volle aggiogarlo al militarismo e alla guerra, allearlo a nazionalisti e a fasci interventisti di combattimento. Da questo verminaio nacquero i tumori del fascismo e dell’antifascismo londrista ed atlantico. L’onorevole signor Nenni, mai visto sulla strada del socialismo, sta come degnissimo simbolo su tutte queste cantonate di successivo affitto a ben forniti avventori.
Notes:
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Un altro titolo di questo testo è »Borghesia italiana fellona«. [⤒]