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TENDENZE E SCISSIONI SOCIALISTE


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Tendenze e scissioni socialiste
Ieri
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Sul filo del tempo

Tendenze e scissioni socialiste

Ieri

Ha detto anche Nenni che la storia del socialismo italiano sta in quella delle scissioni e divisioni del partito, e questo in parte è vero, sebbene Nenni stesso non sia venuto fuori da nessuno di questi processi selettivi e sia invece venuto dentro, non si sa bene come, da file repubblicane agrarie intervento-fasciste e non certo da crisi del marxismo, e sebbene da quando vi è Nenni il partito socialista italiano non abbia più avuto nulla da dire storicamente di suo nemmeno per questa strada.

Tali crisi hanno avuto un significato sicuro in quanto ogni volta si è trattato di scegliere su problemi di metodo nell’azione del proletariato; e l’urto di metodi opposti, o la dichiarazione di incompatibilità di un metodo determinato, affermata da destra o da sinistra, hanno dato luogo a vive discussioni sulla dottrina e a chiarificazioni successive dell’indirizzo della lotta di classe, del cammino verso il socialismo.

Nel 1892 al Congresso di Genova avvenne la divisione dagli anarchici, poiché questi rifiutavano di accedere al metodo della partecipazione alle elezioni adottato dal partito: ma la divergenza si portava su tutta la questione del potere politico come mezzo rivoluzionario per la trasformazione economica socialista, e sulla funzione del partito di classe, grande questione che aveva determinato nel 1871 la rottura tra Bakunin e Marx, non certo perché il secondo avesse velleità parlamentari.

Nel 1907 si staccarono i sindacalisti, anche essi a-elezionisti se non anti-elezionisti, ma soprattutto assertori della azione puramente economica come mezzo di lotta e di direzione della società rivoluzionaria e svalutatori del compito del partito politico. Il distacco era in relazione al diffondersi di tale tendenza in Francia, in Ispagna e in qualche altro paese con la fondazione di sindacati autonomi scissi dalle confederazioni affiancate ai partiti.

Nel 1912 si scissero dal partito i riformisti di destra, fautori della partecipazione a governi borghesi che il partito vietava nella sua maggioranza, problema che si poneva urgentemente in molti paesi, sebbene seguitassero a restare insieme nel partito due tendenze, la intransigente rivoluzionaria analoga a quella dei marxisti radicali ortodossi tedeschi e quella riformista che si avvicinava alle vedute dei revisionisti del marxismo che, con Bernstein alla testa, scorgevano uno svolgimento evolutivo graduale dal capitalismo al socialismo e l’avvento legalitario del proletariato al potere.

Senza vere e proprie scissioni il P.S.I. nel 1914 ributtò dal suo seno i massoni ed ogni fautore di blocchi con partiti borghesi anche per scopi contingenti, e in seguito gli interventisti fautori della guerra democratica e nazionale. Questo secondo storico processo si collegò alla rottura dei marxisti rivoluzionari dai socialpatrioti, che nei vari paesi avevano fatto lega con la borghesia in guerra, conducendo a Zimmerwald e poi alla Terza Internazionale di Mosca.

Sulla base della rivoluzione di Russia e del leninismo i marxisti di sinistra precisarono le loro posizioni sui punti che resero impossibile ogni convivenza di partito con i socialdemocratici, anche quando come quelli italiani alla Turati non erano rei di socialpatriottismo. L’impiego della forza armata per la conquista del potere da parte della classe operaia, la dittatura di questa per attuare il socialismo contrapposta alla democrazia parlamentare borghese, le condizioni stabilite dal II Congresso di Mosca nel 1920, furono a base della scissione di Livorno nel 1921 e della fondazione del Partito Comunista d’Italia. Rimasero dall’altra parte non i soli socialdemocratici dichiarati, ma tutti quelli che pur dicendosi rivoluzionari e «massimalisti» a parole (dalla vecchia distinzione tra programma massimo e programma minimo del socialismo) non capivano la fondamentale esigenza di rompere con i pacifisti della guerra di classe, con gli illusi della conquista incruenta del socialismo.

Da allora il partito socialista italiano va praticamente alla deriva. Il troncone lasciato fuori a Livorno ebbe altre crisi, poiché non solo ne uscì un altro gruppo terzinternazionalista accettato dal Comintern (Maffi, Serrati, Riboldi ecc.), ma i massimalisti si divisero ancora dai Turatiani che formarono, prima ancora dell’avvento fascista, il Partito Socialista Unitario.

Tre gruppi di diversa metodologia, dinanzi a fatti storici come il fascismo e la Seconda Guerra Mondiale, avrebbero dovuto dare posizioni ben distinte tra loro. Non ne fu nulla. Non seguiamo qui la crisi del movimento comunista italiano e internazionale, ricordiamo che di fatto non solo i tre partiti ritennero di doversi unire su una stessa linea per combattere il fascismo all’interno e poi per appoggiare all’estero la guerra antitedesca, ma su tali obiettivi costituirono un blocco generale con tutte le forze borghesi «democratiche» nel quale praticamente si confusero fino alla «Vittoria».

Oggi

Al Congresso del Partito Socialista si è rilevato che, dopo quell’evento, ossia in cinque anni, ve ne sono stati ben sei, in ognuno dei quali si sono scontrate almeno tre tendenze, e vi è stata una scissione, quella dei Saragattiani. Questa scissione non è riuscita a darsi una fisionomia di principio, poiché a sua volta il nuovo P.S.L.I. ha anime multiple, e alcuni dicevano di essere usciti perché decisamente socialdemocratici e possibilisti, e contrari alla violenza e alla dittatura di classe, altri perché critici di deviazione a destra dei partiti socialista e comunista.

In sostanza non occorre ricordare come dopo la guerra socialisti e comunisti sono stati nel governo con tutti i partiti antifascisti e poi col partito democristiano. Entrambi i partiti hanno proclamato di impegnarsi ad azione legalitaria e costituzionale. I Saragattiani sono usciti quando l’accordo di governo si è rotto, non per questioni di metodo di azione proletaria, che rifiutassero la via legale e denunziassero l’ordine costituzionale del paese, ma per i noti rapporti internazionali di accettazione dell’influenza economica e politica dei paesi occidentali e dell’America.

Nell’attuale situazione del partito socialista il problema centrale sembra quello dei rapporti col partito comunista. I effetti i cosiddetti sinistri del partito non dicono nulla di diverso dai comunisti sulle questioni italiane e mondiali, anzi talvolta si esprimono assai più crudamente. In piena manovra propagandistica sull’effetto pacifistico da parte di Mosca, e in piena fase di distensione della guerra fredda, i vari Basso non esitano a dire che non solo lo Stato russo rappresenta la classe operaia, ma le sue forze militari lotteranno per la rivoluzione in tutti i paesi come nelle guerre che seguirono la Rivoluzione Francese.

In effetti oggi non vi è nessuna ragione di dottrina o di metodo che discrimini il partito comunista da quello socialista, e se ci mettiamo sul terreno artificioso del richiamo di tutti gli esponenti alla classe operaia e perfino alla lotta di classe nel senso marxista, nessuno li discrimina dalla stessa tendenza di destra e dal partito saragattiano.

Confrontando i vari gruppi colle vecchie questioni cruciali del movimento nessuna di queste li divide. Tutti sono per il metodo elettorale e l’azione legalitaria. Tutti hanno dimostrato di non escludere per motivi di principio la salita al potere insieme a partiti borghesi. La grande questione dell’insurrezione armata e della violenza è per essi tutti priva di senso; mentre tutti escludono di ricorrervi nella lotta politica attuale in Italia, basta l’ipotesi di un neo-fascismo, o di quello che piacerebbe presentare alle masse come tale, da levante o da ponente, per vederli tutti ridivenire fautori della guerriglia e della resistenza.

E, se per un momento si pone da parte la eventualità della terza guerra mondiale, si mostrano tutti egualmente nemici della autonoma, radicale, classista azione proletaria per rovesciare il potere capitalista ovunque esso regni. Tutti si dichiarano democratici, tutti progressivi, tutti evoluzionisti. Nel più fiero dei suoi discorsi antiamericani, quello della sedutissima, Togliatti ha definito inequivocabilmente il metodo politico e del suo partito e dello Stato russo. «Collaborazione di tutte le grandi e piccole potenzealla costruzione di un’Europa in cui tutti i popoli siano liberi, indipendenti e si aiutino reciprocamente senza farsi la guerra». «Con questa linea sono coerenti tutte le dichiarazioni dei capi della politica sovietica, particolarmente quando essi modificando in parte precedenti affermazioni per tener conto dei fatti come sono ora (non vi pare il caso di dire: abbiamo i revisionisti confessi?) affermano che i due sistemi, il socialista e il capitalista, possono coesistere pacificamente, non devono per forza farsi la guerra». Non è dunque l’apologia e l’offerta della pace tra gli Stati, ma della pace tra le classi. Chi mai potrà romitare, chi saragattiare di più? Che resta della lotta di classe e del marxismo? Un momento, seguitiamo a leggere e lo sapremo. «Naturalmente questo non vuol dire che il socialismo non debba progredire; questo non vuol dire che il capitalismo non debba difendersi. Ma lo facciamo senza fare la guerra, e cioè attraverso quei sistemi di competizione e di emulazione che non mettano in pericolo l’esistenza stessa di qualunque civiltà». Udite dunque: ha detto competizione, emulazione e civiltà.

Ed aggiunge che «nessuno ha mai dimostrato che diversa da questa sia la dottrina e la pratica degli uomini che dirigono l’Unione Sovietica». Ma noi vogliamo dimostrare che è proprio questa, e non è più dichiarata una pratica abile per sgarrottare l’avversario, ma una dottrina. Avevamo ben ragione di sostenere rabbiosamente che non vi è pratica obliqua che non diventi inevitabilmente dottrina. La dottrina della emulazione, dieci volte peggio della dottrina della collaborazione. Non propongono più soltanto ai proletari di collaborare, ma di imitare la borghesia.

Il contrasto, la battaglia, il sostituirsi al potere delle classi sociali non è più prendere un mondo e mettergli la testa dove aveva il piede, ma è un’emulazione pacifica e civile. Non è la sola dottrina della rivoluzione operaia ma tutta la visione della storia ad essere ridotta ad una sciacquatura tiepida di parti basse. Lo sappiamo bene che tanto candore potrebbe celare il colpo proibito: armi sottomarine in fondali da bidet.

Dove i Lelii vedono un nuovo tragico '93 con le termopili di Russia e dei sanculotti l’epiche colonne, il frigido Palmiro dipinge un minuetto danzato da Marat tra languide movenze con la signora di Montespan, e pone questo modello sufficiente a disonorare la storia della borghesia alla rivoluzione del proletariato.

Tre partiti, tre tendenze, sei congressi, venti oratori; la dottrina dell’emulazione può tutto spiegarvi; competizione ed emulazione civilissima, nell’offerta di servigi all’ordine infame del capitale.


Source: Da «Battaglia Comunista» n. 20 del 18–25 maggio 1949

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