Mezzo giornale ingiallito di mezzo secolo: «Il Mattino» del 30 giugno 1901.
Tante notizie cui il tempo dà quel tale strano sapore; come si divide l’estrema sinistra: 29 socialisti, 29 repubblicani, due sezioni o tre di radicali: 18 con Marcora, 13 con Sacchi, 9 dispersi. – La corazzata Andrea Doria incagliata nella sabbia a Gallipoli nelle manovre. – Entusiasmi italo-francesi in una gita universitaria a Montpellier. – Il Ministro Giusso revoca dalla carica di funzionario alle Ferrovie il deputato Tedesco che ha criticato il bilancio L.L.P.P.
Ma una notizia viva e precisa che val la pena di riportare:
«Ci telegrafano da Roma, 30. -- L’‹Avanti!› ricostruisce, in una corrispondenza da Rovigo, la scena dolorosissima svoltasi al ponte di Albersan, presso Berra, fra gli scioperanti delle bonifiche e le truppe comandate dal Tenente Di Benedetto. Eccone un riassunto:
Le bonifiche si stendono alla destra del Po. Vi lavorano ordinariamente contadini romagnoli e del Polesine; sono 22 000 ettari a perdita d’occhio; ampia distesa di pane ironizzante sulle miserie degli affamati. Appartengono alla Banca di Torino.
Solidali, i lavoratori del Polesine si erano uniti con i ferraresi: le due province di Rovigo e Ferrara sono separate dal Po, ma unite ora da una fede e da un patto comune.
A tre chilometri da Berra è il ponte Albersan, sul Canal Bianco, che segna il confine di bonifica. Ivi succede l’eccidio. La località è un quadrivio: la strada da Berra a Serravalle; la strada dal Po al Canal Bianco che incrocia.
Il ponte di Albersan è occupato alla entrata di sinistra da un plotone di fanteria (2° compagnia, 40°) al comando del tenente Lionello di Benedetto, napoletano. Un altro plotone è sull’argine destro del canale.
La colonna degli scioperanti, proveniente dalla strada di Berra, volge a destra per imboccare il ponte. A venti passi si ferma. Il tenente fa suonare i tre squilli.
I contadini agitano i fazzoletti bianchi in segno di pace, e Calisto Desvò, il cappello in mano, tranquillo si avanza verso il tenente.
‹Domando la parola!›
Ma il tenente Di Benedetto esplode tre colpi di revolver a bruciapelo sulla testa di Desvò, che cade morto.
Prima, dietro il plotone, era il proprietario Baruffa, che gridava: -- Ecco gli assassini! Fuoco!
Ma non c’è bisogno dell’ordine del padrone; ed il Di Benedetto ordina il fuoco, mentre un altro tenente, che era sull’opposta riva del fiume e un vice-brigadiere dei carabinieri lo scongiurano di far ritirare le armi.
Sei volte l’ufficiale comanda il fuoco.
I contadini fuggono, ma sono colpiti alle spalle. Cade morta, tra gli altri, Cesira Nicchio; quattro agonizzanti: cinquanta si disperdono feriti.
Ecco i nomi dei morti: Calisto Desvò, aveva 38 anni, due figli, era presidente della Lega di Villanova Marchesana. Ebbe sette ferite, al petto ed alla fronte.
Cesira Nicchio, madre di due figli; aveva 24 anni. Alcune palle le hanno scoperchiato il cranio. Ferruccio Fusetti, di anni 32, di Berra. Livieri Sante, di anni 30, di Villanova. Nanetti Augusto, di anni 21, di Berra. Gardellini Albino, di anni 31, di Berra.
I feriti sono circa 50. Sono feriti alle parti posteriori: segno evidente che stavano ritirandosi.
Ferruccio Fusetti, trapassato al polmone dalla schiena al petto, barcollò e gridò: Coraggio compagni! Viva il socialismo!
Il tenente Di Benedetto dice di essere stato nella piena coscienza di sé medesimo quando ha fatto fuoco.
Egli, nel tragico mattino, aveva l’aspetto di una persona stanca, affranta da veglia emozionante.
Dicesi che due giorni prima dell’eccidio esclamava:
‹Per questa gente ci vuol del piombo!›
Il corrispondente afferma che il cadavere di Desvò caduto al di qua del ponte fu trascinato dai soldati fino a mezzo ponte, d’ordine del tenente. Egli avrebbe voluto così dimostrare che il Desvò aveva violentato il cordone.
Il comando di tutto il servizio era affidato al capitano De Blasi.
Dopo l’eccidio vi furono altre provocazioni. Mentre la strada era piena di gente eccitata il proprietario Baruffa gridava a Nicchio e Marini che passavano in bicicletta:
‹Pochi sono i morti; ci vorrebbero delle palle ancora per i capi!›»
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«Ci si telegrafa da Venezia, 29, sera: -- L’‹Adriatico› ha da Berra questi particolari dell’eccidio colà avvenuto:
Pare che il tenente Di Benedetto, con la sciabola abbassasse le canne dei fucili ai soldati che sparavano in aria.
Presentemente il tenente si trova disarmato in una stanza a Berzano, sotto sorveglianza. Domani verrà cambiata la truppa.
Un vice brigadiere disse al tenente:
‹Non ordini il fuoco.›
Il tenente infuriato rispose:
‹Si ritiri altrimenti faccio fuoco su di lei.›
Anche il sottotenente sconsigliò il fuoco e i suoi soldati spararono in aria.
Il morto Desvò era capo della Lega di Villanova: amato dal paese egli consigliava la calma.
Mentre telegrafo si tumulano i cadaveri».
Il '98 di Pelloux e Bava Beccaris è passato e così il '900 di Gaetano Bresci. Il '22 di Mussolini deve ancora venire.
Le lezioni del principio del secolo hanno dato la vittoria alla sinistra. La democrazia trionfa e siamo al ministero Zanardelli-Giolitti.
Eco violenta alla Camera. Bissolati e Ferri insorgono, Giolitti arido e incolore spiega senza dar presa. Ponza di San Martino, Ministro alla Guerra reagisce, insulta l’estrema, poi si ritira, gli ufficiali lasciano la tribuna. Duello tra Ponza e Bissolati o Ferri? Bissolati ha gridato:
«Questa lezione terribile esce dai fatti per le classi proletarie, che certe conquiste non si possono ottenere che col mezzo del sangue! (Altissimi rumori)».
Quel Bissolati stesso espulso poi nel '12 per monarchismo e possibilismo, patriota e volontario nel '15, social-pacifista e collaborazionista di classe fino alla morte!
Sciatta la forma, è però notevole il contenuto delle dichiarazioni di Giolitti. Nel Ferrarese, per ragioni di bonifica, prevale ancora il latifondo, i salari dei lavoratori agricoli sono insufficienti. Tuttavia i proprietari locali hanno concesso aumenti, rifiutati dalla sola grande Società delle Bonifiche ferraresi, con capitali bancari torinesi, la quale ha cercato di far venire operai in concorrenza dal Piemonte. Il Governo riconosce il legale diritto alla Società di così procedere, pure avendo fatto dei passi verso la stessa pregandola di rinunziare al suo piano dato anche che gli operai piemontesi le costano più di quello che costerebbero i locali concedendo gli aumenti.
Tuttavia, poiché i dimostranti tentavano l’assalto alla tenuta della Società, il Governo ha dovuto tutelare la libertà di lavoro e l’ordine, avvalendosi a buon diritto delle armi.
Nei cinquant’anni trascorsi partiti borghesi e partiti che si dicono proletari hanno preteso di dedicare lungo studio ai problemi sociali della terra, ma non deve pensarsi che la impostazione del problema abbia avanzato dalla cristallina chiarezza con cui esso si pone da decenni e decenni, in termini di lotta di classe tra imprenditori capitalisti e lavoratori salariati. Alla gestione e al possesso del latifondo ferrarese non troviamo i leggendari signori feudali, i baroni dal piglio medioevale citati in tutte le chiacchiere a proposito dell’arretratezza sociale dell’agricoltura in Italia.
La grandiosa opera di bonifica è stata attuata rovesciando nella terra ingenti capitali di intrapresa, sottoscritti da azionisti persino svizzeri, ed il più intransigente, fra i datori di lavoro, è l’Istituto torinese il quale organizza sistematicamente il crumiraggio.
Passeranno anni e anni, le forze dello Stato democratico capitalista seguiteranno ininterrottamente a disperdere col piombo l’insorgere dei lavoratori agricoli del Nord e del Sud, e si seguiterà a ripetere che questo non accadrebbe ove il regime italiano, oltre ad essere di perfetta democrazia politica, raggiungesse sul terreno economico un compiuto sviluppo capitalistico.
Proprio a Torino una deviata scuola dei partiti proletari dipingerà tutto un quadro dell’antitesi tra un’Italia arretrata agraria e una Italia moderna degli imprenditori e degli industriali borghesi, e al sorgere del fascismo passerà a piangere sulla fine della democrazia giolittiana mitragliante contadini ed operai, descrivendo quello come espressione politica delle forze sociali dell’agraria in contrapposto a quelle della borghesia industriale.
Tale tendenza si svolgerà fino al fronte generale di collaborazione nazionale non solo con i partiti della borghesia moderna, ma con gli stessi agrari e con le correnti clericali, nel periodo successivo alla sconfitta di guerra dei fascisti.
Si svolge oggi, malgrado le apparenze dei contrasti di politica interna, sempre più palesemente nel disfattismo e nel disarmo di tutti gli slanci verso la battaglia di classe che sorgono incessanti dalle campagne italiane. Anche recentemente i contadini della valle del Po, i contadini nullatenenti e braccianti, hanno combattuto e sono andati direttamente, per istinto di classe, contro le caserme dei carabinieri, mentre per l’ennesima volta sono stati deviati dalla battaglia socialista, anti-borghese e anti-statale, alla imbelle, stupida richiesta di una distribuzione di terre in proprietà, nel quadro conformista dell’economia nazionale e della legalità costituzionale.
Tutti i centri grandi e piccoli d’Italia sono pieni di lapidi che ricordano i nomi dei disgraziati trascinati al macello in tutte le battaglie egualmente criminali dell’Isonzo o del Don e caduti lanciando l’ultima imprecazione contro il regime di militarismo sanguinario ed impotente della patria borghesia.
Ricorda qualcuno, dopo cinquant’anni, i nomi dei massacrati di Berra, cui dovrebbe seguire l’interminabile elenco dei caduti nei periodici eccidi che si contano a centinaia, soprattutto prima del ventennio fascista?
Calisto Desvò, di cui poco importa il nome all’anagrafe, è il tipo dei mille e mille capilega aventi per solo stipendio il mezzo litro davanti al quale alla sera, nell’osteria del paese, spiegavano le tesi marxiste con rigore teoretico se non totale, certo di mille cubiti superiore a quello delle odierne accademie moscovite.
L’ingenuo resocontista dell’«Avanti»! del tempo era probabilmente uno studentello della città vicina cui non era pagato, oltre il biglietto di terza classe, il quotidiano pacchetto di sigarette da sei soldi. Ma egli seppe raccogliere il grido del lavoratore, che battendosi forse per cinquanta centesimi di aumento salariale volle, cadendo, gridare la vittoria del socialismo.
Oggi capi e gerarchetti irridono cinicamente alle conquiste supreme; mandano tuttavia egualmente i proletari al massacro, ma solo per realizzare i fini corrispondenti ai loro bassi servizi di parte.
I redattori della stampa dei partiti di sinistra vantano oggi di essere disincantati smaliziati e scanzonati quanto i gagarelli borghesi agli angoli dei marciapiedi.
Se la rossa vallata padana, il «dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina» non è ancora il cuore di una repubblica proletaria, la causa sta, tra le forze dell’imperialismo capitalista, sovrattutto in quelle organizzate in forma di partiti socialisti e comunisti, da quando si osò chiamare movimento socialista e comunista quello che difende interessi ed istituti nazionali, militari e popolari, ossia anticlassisti.