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PROLETARIATO E RIFORMA AGRARIA


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Proletariato e riforma agraria
Ieri
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Sul filo del tempo

Proletariato e riforma agraria

Ieri

Riforme di struttura: difficile condensare meglio in tre parole il rinnegamento della teoria socialista. Questa mania dei motti e delle frasi sintetiche ad effetto è indubbiamente antica; ne usò ed abusò Mussolini e abbarbicò questa moda tra noi, ma gli imitatori sono ben lontani dal possedere l’innegabile geniaccio e l’istintiva eloquenza di costui, e volendo scimiottarne i ruggiti, che per lo meno erano divertenti a sentire, escono in loffe.

Le regole le leggi le norme giuridiche che inquadrano la vita sociale si dicono nel comunismo e socialismo critico «forme» di produzione. I rapporti di proprietà sui beni immobili e mobili tutelati dalle leggi dello Stato non sono che forme della produzione, limiti in cui si svolge e si disciplina l’economica attività. Il diritto scritto e codificato di un’epoca, non meno che la tacita accettazione di certe norme comuni per effetto di consuetudine, di costume, di «senso morale», fanno parte di tali forme, e sono indagati e studiati non come proiezioni del divino o dell’umano spirito, ma come strutture sovrastanti ai rapporti economici. Sorse il moderno metodo socialista quando si ravvisò in tutte quelle impalcature la mutevole, storicamente, sovrastruttura del reale tessuto economico-produttivo della società.

Nella sottoposta struttura della produzione si destano, coll’apparire di nuove risorse tecniche, forze produttive – a volta a volta la forza muscolare dell’animale domato, del nemico schiavizzato, i mezzi di trasporto e di avvicinamento a lontani prodotti, il capitale monetario commerciale industriale, la macchina, il motore meccanico, il lavoro artigiano e contadino, il lavoro in massa salariato e via via – che alla fine vengono in contrasto con le forme e la loro tradizionale struttura. Cadono allora le pretese eterne giustificazioni di queste, religiose filosofiche o pseudo scientifiche, appare l’epoca rivoluzionaria, il contrasto tra nuove forze e vecchie forme esplode e salta la menzognera interessata sovrastruttura.

Dottrinetta socialista, sia pure, ma vecchia e assodata.

Adoperare adunque la vecchia «sovrastruttura» legale per cambiare la struttura economica e il rapporto di proprietà divenuto intollerabile, significa pretendere che si liberino le forze produttive nel quadro delle vecchie forme senza infrangerle, senza superarne i limiti, vale dunque la diametrale negazione del socialismo.

O si vuole scendere alla struttura, e si è rivoluzionari, si pone il problema di rompere colla forza le sovrastrutture che la incatenano – o si è riformisti e si opera nel quadro delle sovrastrutture tradizionali (morale, diritto, legalità, azione dell’ordine amministrativo e statale costituito e dei partiti al potere) ed allora alla struttura sottostante e reale non si arriva e i termini imposti alle forze di produzione restano immutati.

O si agisce «nel sistema» (diceva il duce giustamente dinanzi ai problemi del mondo capitalista moderno: crisi «nel regime» o «del regime»?) ed allora si conserva la struttura, e si fanno riforme che le prolungano la vita con acconci adattamenti, o si agisce «contro il sistema» e con le forze che vogliono rompere l’antica struttura urtando contro i freni e i ceppi che le stringono e le strozzano; e allora si fa lotta rivoluzionaria, anzitutto contro lo Stato politico presente e il suo ordinamento.

Parola quindi più bestia di quella della riforma di struttura, che accomuna cristiansociali e nazionalcomunisti, non può coniarsi.

Ha ricordato don Luigi Sturzo, strana figura di Ninfo Egerio fuori della macchina del potere e dell’amministrazione tenuta dai suoi (e certamente nei circoli del partito e della chiesa si domandano come mai uno che si è, col suo passato e colla sua verginità da contatti mondani in ogni campo, garantito un posto di carrozza letti per il paradiso, sotto tutti i profili, con passaporto ricco dei visti di tutte le materiali e spirituali gerarchie, non si dia una maggiore premura di andarlo ad occupare tra incensi di chierici e di angioli) nell’esporre alcune verità a proposito della demagogica (lo dice lui) riforma agraria, che il motto delle terre ai contadini fu lanciato nel 1916 da Salandra «alle truppe in guerra».

Il richiamo è quanto mai decisivo, come esattissimi sono i rilievi del vecchio prete alla inconsistenza e sicura irrealizzabilità della promessa oggi rinnovata, sulla base delle reali premesse tecnico economiche del programma e dei dati della situazione agraria italiana.

Naturalmente ben diverse dalle nostre sono le deduzioni di lui. Deciso fautore della piccola proprietà e piccola azienda privata agricola, cardine da 45 anni del movimento per il partito popolare e la democrazia cristiana, egli accusa Salandra di demagogia pericolosa perché avrebbe provocato le occupazioni di terre del 1919 e '20 e l’alleanza degli agrari coi fascisti. Ma Salandra non aveva promesso officine, eppure anche quelle furono occupate e anche gli industriali si allearono coi fascisti. Anche questi usarono della demagogia antilatifondista, e col fine diretto di incitare ad un nuovo macello bellico.

È dunque solo nella onesta esposizione della realtà economica che il solitario di Caltagirone può essere seguito. Come a proposito del succhionismo dei capitalisti e dei complessi industriali a carico dello Stato, egli denunzia la falsità della legislazione per le bonifiche e la sproporzione tra la promessa panacea di una ridistribuzione dei possessi giuridici e le premesse dei mezzi tecnici ed economici mobilitati per rendere attuabili le quotizzazioni dei grandi possessi. Dice di aver chiesto da anni per la bonifica agraria italiana 700 miliardi, ossia 700 mila lire ad ettaro per un milione di ettari. Sono questi forse troppi sui 2 milioni ottocentomila di superficie agraria, comunque è giusto dire che la cifra unitaria è bassa, che il problema, nei limiti dell’attuale economia privata, non è problema di riforma giuridica, ma di investimento di capitale.

Inutile, dice in buona sostanza don Sturzo, raccontare balle per fini politici ed elettorali, fino a che non si trovano i 700 miliardi e non si investono in bonifiche idrauliche e montane, strade, case, irrigazioni etc. Ora la verità è che il bilancio dello Stato non può dare che briciole e le promesse ERP si riducono anch’esse a rigiri senza effetto.

È non meno giusto che la cifra è bassa. Uno sguardo ai dati economici, arrischiato al volo in questa sede, della agricoltura italiana, lo comprova. In agricoltura giocano queste forze di produzione: terra vergine, su cui non vi è stato investimento di lavoro (per i borghesi di capitale) che dà la rendita minima «ricardiana». Capitale investito in fabbricati rurali ed impianti diversi. Popolazione rurale lavoratrice. In ordine di potenza vediamo poi i tre tipi: allevamento pastorizio; coltura detta autositica, in cui l’uomo lavora parte della terra, e parte a rotazione la lascia in riposo; coltura continua, in cui col sussidio di mezzi più efficienti la terra è coltivata permanentemente, che nei casi migliori diviene irrigua e di alto reddito.

Buttiamo lì cifre all’ingrosso in lirette di oggi. Tipo naturale. Valore fondiario totale 100 mila per ettaro, investimenti in fabbricati nulla o meno di un decimo, agricoli su cento ettari 15, colle famiglie 45. Tipo autositico o estensivo. Valore 250 mila ad ettaro. Investimenti fissi 70 mila, agricoli di ogni sesso ed età su cento ettari 35. Modesto tipo intensivo. Valore per ettaro 800 mila. Investimenti fissi: fabbricati 450 mila, con altri impianti vari circa 650 mila. Un agricolo per ettaro, cento per cento ettari.

L’ideale di don Sturzo del piccolo podere in proprietà assoluta di una famiglia in ragione di un ettaro a persona, richiede dunque le sue 400 mila lire da spendere sull’ettaro di attuale latifondo o pascolo non dissodato o malarico. Poiché tuttavia per il primo impianto occorrono grandi bonifiche in monte e in piano, dissodamento meccanico iniziale, anni di attesa di reddito, e così via, oggi egli deve chiedere almeno un milione per ogni ettaro e quindi mille miliardi. Può cessare di disturbarsi.

Dove noi non lo seguiamo è nel considerare optimum economico la piccola azienda familiare, specie nel Mezzogiorno. Anche lui segue qui un optimum politico, sia pure non di bassa lega e per le elezionacce di domani, ma dettato da fini di conservazione sociale, di continuità delle soprastrutture giuridiche.

I grandi pascoli del Mezzogiorno e le cosiddette terre incolte prima di passare al terzo tipo di agricoltura di dettaglio, devono per necessità di cose passare al secondo tipo, che è per natura estensivo, e che per la rotazione coi riposi non permette il piccolo podere: riposa la terra un anno o due, ma non può riposare lo stomaco di chi la lavora. Tanto più che non può parlarsi, per ragioni geofisiche insuperabili, di irrigazione dovunque; occorre pensare al tipo di vasto aridopodere estensivo, il solo possibile. Contentiamoci di mezzo milione di ettari e di un 150 mila lire di investimento. 75 miliardi appena: se taluno li regala o «investe» nel derelitto Sud, ci mettiamo all’opera. Raddoppieremo almeno il numero di agricoli che lavora e mangia.

Ma se i 75 miliardi di capitale non ci sono, allora la giusta conclusione tecnica ed economica è che è meglio non farne nulla. Poiché, nel caso generale, l’esercizio a pastorizia o a grandissima tenuta con alternanza di qualche seminativo a bassa produzione, è il solo attivo e possibile. Questo restando ai dati tecnici.

Per passare al terzo tipo di piccolo possesso occorre l’utopistico investimento Sturzo. Non vi è, ma se anche ci fosse, si farebbe sempre preferire un tipo di grande azienda a carattere di agricoltura industriale con lavoro associato e specializzato e non parallelo per tutte le famiglie agricole.

Il piccolo possesso purtroppo esiste e dilania il Mezzogiorno, in diretta simbiosi col latifondo. Il suo bilancio economico non quadra mai, la fame la miseria e l’abbrutimento ne sono le insegne.

Oggi

Non era certo povera di episodi di pagliaccismo la storia politica italiana, perché De Gasperi dovesse inscenare il suo recente viaggio in Sila. Si era visto Zanardelli scoprire la Lucania viaggiando su un carro tirato da buoi, ma allora deve ammettersi che negli uomini di Stato vi era un certo grado di acume, di equilibrio e di preparazione, che ha lasciato il posto, nella attuale fase del regime borghese, al più sciatto dilettantismo, ai più sguaiati espedienti da mestierante.

Il Capo supremo del governo visita l’altopiano silano e in una notte vede capisce e valuta una serie di piani tecnici, per i quali chi ci sa leggere e sa qualcosa dei metodi adottati ultimamente e ancor più dopo il fascismo dalla nostra burocrazia tecnica, ha bisogno di lungo studio per scoprire le magagne dei carrozzoni affaristici, attraverso cui l’intrapresa capitalistica maneggia le leve dei pubblici servizi. Tutto bene! ha detto, piani grandiosi e audaci già pronti! E in quindici giorni si dà per fatta la riforma di urgenza per la Calabria. Ministri, deputati giornalisti e lettori passano sopra al fatto che si cucina una sola minestra di due ingredienti diversissimi. La Sila è un massiccio montuoso di aria saluberrima e foreste magnifiche che hanno resistito ai saccheggi dei liberatori. Su 27 mila ettari di boschi 7 mila sono non baronali ma demaniali. Vi è un Consorzio dedito ai problemi della economia forestale progredita e che si occupa di sistemazione e di bacini montani in quanto è sempre possibile vendere agli stranieri legname da costruzione ed energia elettrica rincarandoli e razionandoli ai consumatori indigeni. Il capitale affaristico vi affluisce e vi sono perfino lussuosi alberghi di soggiorno. Ma tra l’altopiano, che dal lato del litorale tirreno precipita bruscamente, e la costa ionica (duemila anni fa il paese più avanzato del mondo abitato) si ha il rovescio della medaglia e il problema che non ha nulla a che fare con quello silano: bassura, malaria, allagamento e siccità alternati, fame miseria e fucilate sui contadini in rivolta.

Arriva il De Gasperi e si accorge che le vallate hanno aspetto diverso da quelle sue trentine! Il primo cittadino d’Italia ne sa veramente molto della geografia fisica e della storia economica del paese per fare di tali scoperte! Il Trentino, per tacere della posizione geografica illustrabile dagli scolaretti di seconda classe, ha una economia agraria al margine del sistema germanico e di quello latino, la polverizzazione del possesso è superata beneficamente al nord dal regime di ricomposizione, a sud dalla esistenza di molti organismi di gestione collettiva e consorziale. Nella disgraziata Calabria, in poche parole che costava poco far cercare in biblioteca da uno del milione di impiegati statali «il latifondismo e la frammentazione del possesso si intersecano talmente da non potersi sceverare forse nemmeno con statistiche di circondario, e si ha pure alta proporzione di pascoli e boschi. Anzi numerosi territori hanno così frammentati possesso e coltura da rendere coloro che vi partecipano poco più di semplici nullatenenti, il che, congiunto alla frequente povertà dei terreni, determinò, come negli Abruzzi, la cospicua emigrazione dei passati decenni…».

Secondo le balle odierne della legge per direttissima si fabbricheranno altri cinquemila piccoli possessi su 45 mila ettari, allogando ventimila lavoratori e quindi 60 mila con le famiglie. Se anche le promesse fossero mantenute i conti non tornerebbero. Ci vuole un milione a fissare un agricolo su un ettaro, quindi 45 miliardi e 60 pei ventimila lavoratori. In ciò non si comprende l’indennizzo di esproprio in capitale agli antichi proprietari.

L’esame di come vede il problema la «opposizione» di S.M. la Repubblica ci porterebbe lontano, nel bilancio dell’affare tra lavoratore, Stato, e proprietario. La sostanza è che la miseria dell’agricoltore calabrese e meridionale non si poggia sulla troppo grande estensione di terra intestata ad unica ditta, ma sui risultati della storica e sociale collaborazione delle due facce della patria borghesia. Possidenti di terra ed affaristi vanno a fare su questi miliardi di Pantalone altri grossi affari. La legge passa, e probabilmente coi voti degli «estremi», e bande di succhiatori corrono al Sud, si fanno «silani». Si apre una pappatoria di più sotto il bel cielo nostrano. I contadini rientrano nei ranghi sotto le bocche dei mitra, col visto del voto parlamentare. Giù a fondare Enti Società e Compagnie per la redenzione della Calabria. Giù ad assicurarsi il più che arrotondabile emolumento di liquidatore di indennità! Il grano si mieterà tra dieci anni forse, ma i mandati delle pubbliche tesorerie correranno tra sei mesi. Subito gli stipendi di capi-cooperative e sezioni O.N. Combattenti!

Tutti insieme gridano a gran voce, per coprire questa lurida «sottostruttura», la nobile consegna di spezzare il latifondo. Tutti promettono terra.

Don Sturzo ha toccato un tasto tremendo. Chi promette «terra» promette «guerra».

Il bracciante agrario italiano se fosse guidato da un partito di classe rifiuterebbe i fittizi quadratini «picchettati» sulla piana pestifera e maledetta, respingerebbe la trappola della lottizzazione, e la montura di fantaccino. Le terre picchettate su invito dei Salandra, dei Mussolini, o dei De Gasperi, si zappano col fucile.


Source: Da «Battaglia Comunista» n. 45 del 1949.

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