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SOCIALISMO E GESTIONI COLLETTIVE


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Socialismo e gestioni collettive
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Sul filo del tempo

Socialismo e gestioni collettive

Ieri

Base della prospettiva socialista è il raggrupparsi, il concentrarsi dei mezzi produttivi e per conseguenza degli uomini addetti alla produzione. Nella complessità delle speciali situazioni da paese a paese e da epoca ad epoca e delle ripercussioni ad onde e contronde delle lotte sociali, quel dato tecnico economico è la piattaforma su cui tutta la costruzione riposa. Più rapidamente le forze di produzione si addensano e concentrano, più rapidamente ci avviamo alle premesse che consentiranno di conseguire le rivendicazioni proletarie e socialiste; se quel processo fosse compromesso non si potrebbe trovare rimedio nella intelligenza nella coscienza nella volontà degli uomini, nell’impegno a lottare di singoli o di gruppi di avanguardia.

Spezzare e disperdere le forze produttive significa dunque andare in senso inverso alla rivoluzione, ed ecco perché, pure essendo chiaro che il nemico storico del proletariato socialista, nel campo aperto della guerra sociale finale, è il grande capitalismo signore di quelle concentrate forze, il peggiore avversario teorico e pratico dei marxisti va ravvisato in quelle tendenze che sostengono lo sminuzzamento della organizzazione produttiva ed hanno per ideale la figura dell’artigiano, del piccolo contadino, del minuto esercente, come i repubblicani e mazziniani, i radicali piccolo-borghesi, sotto l’aspetto propagandistico i fascisti, e soprattutto i cristiano-sociali che dopo ciascuna delle grandi guerre hanno prosperato come tendenza generale di tutti i grandi paesi, e infine il gaietto sciame degli opportunisti e revisionisti del comunismo marxista.

L’avversione all’impiccolirsi dell’unità economica trova conferma ad ogni passo nei testi marxisti; prendiamone ad esempio uno a proposito della Russia. In uno scritto del 1894 su Cose sociali della Russia Engels cita queste parole di Marx tratte da una lettera del 1877: «La Russia aspira a divenire una nazione capitalistica secondo il modello dell’Europa occidentale (e negli ultimi anni ha spesa molta fatica in questa direzione) ma non vi arriverà senza aver prima tramutato una buona parte dei suoi contadini in proletari e quindi, una volta gettata nel vortice della economia capitalistica, dovrà sopportare le inesorabili leggi di questo sistema, appunto come avviene negli altri popoli».

La pienissima evidenza ha oramai reso di dominio comune che i prodotti industriali moderni, a soddisfazione di una gamma infinita di esigenze tra loro sempre più fittamente intrecciate, non si saprebbero ottenere senza la produzione in grande, i mezzi meccanici, il suddiviso intervento di tutta una serie di operatori e di manovratori di macchine operatrici. Può ancora tentarsi l’apologia della originalità, della finezza, e del valore artistico di alcuni manufatti usciti dalla paziente diligenza del singolo, ma l’argomento non ha portata quantitativa e sociale.

Una difesa meno disperata si tenta della minuta agricoltura con motivi assai noti e in base alle notevoli difficoltà di applicazione a tutti i tipi di gestione agraria delle risorse meccaniche.

Nessuno contesta, in condizioni favorevoli, la migliore resa della grande azienda agraria rispetto alla piccola, e la posizione degli sminuzzatori si vuol riferire più che alle dimensioni dell’esercizio a quelle della giuridica attribuzione in proprietà, che può non accompagnare la vastità di estensione e di patrimonio con una più sviluppata tecnica produttiva, e che molte volte nell’effettivo esercizio non è che un conglomerato di piccoli poderi e anche minimi dati in fitto o a mezzadria con grave sfruttamento dell’agricolo lavoratore.

L’impossibilità tecnica di smistare il grande possesso in piccole aziende «stabili» esiste tuttavia nella maggior parte dei casi, poiché il colono può bensì gestire un dato pezzo di terra nel senso che vi lavora per un intero ciclo e vi raccoglie i prodotti, ma non vi può soggiornare permanentemente e deve abitare in un centro lontano, senza essere d’altra parte autonomo in tutte le operazioni di coltivazione.

Ed allora alla proposta veramente regressista della parcellazione si sostituisce quella della gestione collettiva degli agricoli al posto di quella del proletario primitivo, della divisione dei latifondi in poderi di media estensione da affidare a cooperative e a comunità agricole, di cui si hanno tipi antichissimi e moderni.

Se col socialismo non ha nessuna parentela la proposta di spartire l’azienda tra tutti coloro che vi prestano la loro opera, assurda in partenza per le officine industriali, dura a morire tra i tenimenti agrari, quale contenuto socialista si ravvisa nell’altra formula di gestione da parte di una società composta ad ugual titolo da tutti i prestatori di opera? Anche questo è un punto importantissimo. La proposta affiora tanto per la fabbrica che per la terra, e trova alimento nell’esistenza, per lo stesso campo di gestione padronale, delle sempre più numerose società anonime, in cui al titolare unico della azienda classica si è sostituito un insieme di azionisti anche per piccole frazioni del capitale totale. Poiché in tesi generale la fabbrica funziona senza che all’organizzazione tecnica ed amministrativa la gran maggioranza degli azionisti prenda parte o abbia competenza veruna, è ovvio ipotizzare una fabbrica che, con i suoi direttori ingegneri e ragionieri funzionari, proceda a meraviglia dopo che le azioni del capitale siano state distribuite non più tra estranei, ma tra lo stesso personale direttivo impiegatizio e operaio dell’azienda. In ciò un altro non nuovo miraggio e un’altra cacofonica dizione: l’«azionariato sociale», la partecipazione dei lavoratori al capitale, la figura del lavoratore-capitalista dia esso opera manuale o intellettuale, ed altri non recenti entusiasmi di demorepubblicani, fascistoidi, socialcristiani, colla convergenza su tali posizioni dei vari movimenti per la esaltazione dei consigli operai di fabbrica rivendicanti prima il controllo della produzione, poi l’intervento nella gestione, infine l’impossessamento e il diritto di proprietà sulla fabbrica: di qui le abusate formule delle «ferrovie ai ferrovieri», le «miniere ai minatori», le «navi ai naviganti» e via via.

Non ci vogliamo certo qui spingere nella analisi del capitalismo per anonime che è il capitalismo concentrato e avanzato più di ogni altro nel senso di una dittatura sociale borghese, della figura degli «amministratori», del gioco moderno tra gruppi capitalistici e loro cerchie dirigenti e economia di Stato, in cui la parte dei lavoratori e prestatori di «vera» opera produttiva tecnica diviene sempre più bassa e scialba. Nemmeno si tratta della tesi marxista generale che l’espropriazione dei mezzi produttivi delle singole aziende li deve trasferire non al gruppo di lavoratori delle stesse ma «alla società», alla collettività, il che significa qualcosa solo quando la classe operaia organizzata ha saldamente preso il potere politico, totalitariamente. Il principio della concentrazione del lavoro seguita ad applicarsi; come la bottega artigiana si era disciolta nella vasta forma aziendale della grande fabbrica, la privata e autonoma azienda si scioglierà nella macchina produttiva unitaria sociale, tutta la società lavoratrice sarà inquadrata e scientificamente organizzata in una azienda sola. I fatti sono quantitativamente diversi non meno che qualitativamente: se colla spartizione del patrimonio tra i lavoratori si avrebbe, in genere, una resa economica per ogni singolo in certi casi «minore» di quella di partenza, essendo la dispersione degli sforzi più dannosa di quanto sia utile l’aver spartito il prelievo parassitario del padrone unico; mentre il riparto agli operai dei dividendi degli azionisti ne eleverebbe il salario di una piccola frazione, ad esempio il dieci per cento; la sostituzione dell’ingranaggio socialista al disordine della privata economia, che tutto subordina alla finalità di estrarre un profitto e perpetuarne la estrazione, decuplicherà almeno la resa produttiva e il benessere generale.

Si può essere in economia di altro parere, indubbiamente: esistono infatti, e sono molti, gli antisocialisti. E in molti sono tra quelli che del profitto borghese beneficiano, o sono dai borghesi assoldati.

Qui vogliamo solo, in tema agrario, dare uno sguardo alla proposta di quanti dicono: è giusto che la ulteriore frammentazione della terra in Italia significa inasprire un male già tremendo, è giusto che per motivi tecnici il latifondo non è parcellabile: ma la riforma agraria è in tempo borghese egualmente possibile, a condizione di creare aziende più vaste e darle in gestione a collettività, a cooperative di contadini.

Ora, se in Italia esiste largamente il minuto possesso, e i veri competenti, in verità ben pochi, sulla nostra agricoltura ne descrivono i nefasti e ne hanno terrore, anche la gestione agricola collettiva ha i propri esempi. Tuttavia gli economisti di indirizzo moderno, francamente liberale borghese, hanno avuto buon gioco nel dimostrare la superiorità di resa della terra data in proprietà singola, in grandi e medie aziende moderne, rispetto a questi tipi di gestione. L’esame interessantissimo di queste forme e della loro evoluzione dal Nord al Sud, quasi sempre è negativo agli occhi del tecnico: esse si adattano non a una vera coltivazione ma al comune sfruttamento di boschi pascoli e terreni a bassa coltura, in cui gli aderenti alla comunità tendono «a trarre dal bene comune quanto più è possibile, senza rendervi nulla». Nel centro d’Italia e negli Stati ex pontifici queste istituzioni erano numerosissime, varie leggi le hanno liquidate e smistate. Nel Sud non ne mancano, e così nelle isole, e corrispondono in genere a terre malissimo condotte: siccome ogni terreno non privato si dice «demanio», che in senso proprio vuol dire proprietà pubblica, l’agricoltore meridionale «quando trova un fondo mal ridotto o esaurito per coltivazione sfruttatrice ed irrazionale usa esclamare che è un 'demanio’!». Una migliore istruttoria trova poche «partecipanze» in terra fertile dell’Emilia, basate sul reparto ventennale in piccole strisce, che si assegnano stabilmente a chi ha saputo farvi una casetta. Ma ecco dove culmina il bilancio apologetico che uno scrittore, il Niccolini, fa delle floride partecipanze ferraresi di Cento, al tempo dell’altra guerra: devesi attribuire alle partecipanze la mitezza d’animo del popolo e il fatto di essersi mantenuto refrattario alle lusinghe del socialismo! dall’una e dall’altra parte della barricata, siamo d’accordo che non è quella la via del socialismo e della lotta di classe.

Se al posto delle tradizionali comunanze vogliamo immaginare una gestione cooperativa di terra con mezzi moderni e attrezzatura completa, non solo ne troveremo nell’Italia di oggi rari esempi, ma dovremo riconoscere che per attuare una tale organizzazione su terre scadenti occorrono investimenti da piena bonifica, non meno costosi di quelli calcolabili per la sognata lottizzazione in proprietà. Con l’attuale andazzo della pubblica burocrazia e del dilagante affarismo tutelato dall’amministrazione a fini sociali e di partito, è poi facile prevedere che se i mezzi si trovassero e l’organizzazione si impiantasse, le chiavi di tutto il movimento resterebbero a pochi maneggioni e promotori, abili sfruttatori del clima da «legge speciale», ossia da bassa cuccagna, e i veri lavoratori della terra sarebbero non meno sfruttati, e forse peggio che nelle aziende capitalistiche attuali, ove almeno possono porre direttamente le loro rivendicazioni economiche.

Oggi

Nello stesso tempo che le forze internazionali hanno collocata in Italia la F.A.O., ossia l’organizzazione che presiede alla circolazione dei prodotti agricoli (che il capitalismo più recente considera con sempre maggiore tenerezza speculativa), la stampa estera ha fatto del facile fabianismo sulle condizioni deplorevoli del contadino italiano e specie meridionale, mostrando al solito di attribuirle ad insufficiente diffusione tra noi della civiltà borghese. Convocati i giornalisti esteri il presidente del Consiglio ha fornito delle scuse, e al solito gli hanno fatto fornire delle cifre.

Lo scopo è di dimostrare che il governo «non ci culpa», e potrebbe passare poiché il governo dello Stato italiano dovrebbe salire vari scalini per assurgere alle possibilità di colpa; ma anche di sostenere che con provvedimenti estesi a pochi anni si metteranno le cose a posto. Puro ciarlatanismo.

Uno sguardo alle cifre. In Italia gli ettari di terreno agrario non sono 16 milioni, ma 28. Diventano 16 se si considerano solo i seminativi e le colture arboree speciali, ossia i terreni di buona produzione ove sarà il caso che i coloni non mettano le mani. Gli altri 12 milioni che De Gasperi lascia fuori, sono boschi, prati, pascoli, incolti produttivi, ossia è tra questi che si devono cercare le terre incolte incriminate da passare sotto riforma. Parlare quindi di un milione e mezzo da trasformare – don Sturzo già largo diceva un milione – significa incriminare non più il dieci, ma solo il cinque per cento delle terre produttive, e quindi anche se la riforma riuscisse la resa agricola, l’alimentazione nazionale e le condizioni degli agricoli non cambierebbero dal giorno alla notte, come si ciancia.

Le proprietà che sono maggiori di 200 ettari (tale estensione è quella di un quadrato di 1400 metri per 1400) occuperebbero con 8500 titolari circa tre milioni e ottocentomila ettari. Ma, ancora una volta, esse si trovano su tutti i 28 milioni di terra coltivabile e non solo sui 16 milioni, e prevalentemente tra boschi, pascoli e pessimi seminativi.

Nella versione ad uso stampa estera gli agricoli italiani sono 8,5 milioni, e su essi 2,5 milioni sono braccianti. Poiché si tratta solo di individui atti al lavoro l’intera popolazione agricola è molto maggiore; questo punto dà luogo sempre ad equivoco, poiché il modo di annotare il rapporto tra individui professionali, e abitanti di tutte le età e sesso non è uniforme nelle diverse classi, ad esempio proprietari e salariati.

Due milioni e mezzo sono un magnifico blocco proletario che si vorrebbe intaccare. Esso è potentemente rappresentato al Sud. Lo stesso Einaudi, ridivenuto per un’ora professore, da capo che è dello Stato, ha dato qualche monito sull’impiego delle statistiche, ricordando che la proprietà più massiva non prevale al Sud, ma nell’Italia centrale e nella verdeggiante Toscana… Comunque sul milione e mezzo di ettari che vuole trasformare, De Gasperi attirerebbe volentieri a suo dire 250 000 famiglie, e quindi più di un milione di abitanti, forse 600 000 lavoratori, scaricati dal blocco dei due milioni e mezzo… Ma già avemmo agio di dire, seguendo don Sturzo, che le relative opere di trasformazione fondiaria impegnerebbero un milione per ettaro o un milione per agricolo, e De Gasperi può scegliere tra mille e millecinquecento miliardi… Ha dopo vagamente parlato, tra bilanci di ministeri, fondi lire e fondi dollari, di poche decine di miliardi. Tra un secolo può passare dal confessore e lavarsi di ogni colpa.

Così erudito, il capo del governo ha saputo affermare che sarebbe ripetere errori antichi limitarsi alle semplici lottizzazioni. All right. Si aiuterà la baracca con le gestioni collettive? Ai fini delle gerarchie di galoppini elettorali ministeriali, indubbiamente, sì. Applausi sui banchi dell’opposizione.


Source: Da «Battaglia Comunista» n. 47 del 1949

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