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BATTAGLIA NELLA PAPPA


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Battaglia nella pappa
Ieri
Oggi
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Sul filo del tempo

Battaglia nella pappa

Volge all’epilogo la guerra in Corea e sembra ai più che il sinistro spettro-vampiro della guerra universale abbia un poco sollevate le fuligginose e membranose ali dal suolo su cui una grigia umanità trascina il suo passo, tra le ombre dell’incertezza.

Le gazzette nostrane chiamano l’attenzione su di un’altra battaglia, che in campo più limitato starebbero per darsi con tutte le loro forze i grandi partiti politici italioti. La battaglia di autunno: le alte guide selettive e digestive del pubblico interesse e della pubblica informazione ammoniscono di passare, dalle trattazioni estive sulle miss due-pezzi e i movimenti delle divisioni corazzate, a quelle da mezzo tempo sui seni risaltati da sapienti sweaters e gli scontri parlamentari tra ridondanze oratorie e dessous di corridoio.

Dall’Iliade dunque alla Batracomiomachia. Una strana Iliade, a ripensarci un momento; una vera Troia moderna assediata dieci anni e caduta in dieci minuti in cui, o vecchio e sempre giovane reporter Omero, cieco sì ma non pagato per esserlo, il fragore dei colpi di asta e di spada sugli scudi e le loriche è quasi sempre coperto dalle stentoree apostrofi che gli eroi, prima dello scontro, si lanciano dall’alto carro di guerra, cantandosi ad altissima voce le corna.

Non occorre essere teorici della scienza (o arte che sia) militare per dubitare molto di quanto si è raccontato su questa guerra, e ritenere di essere in uno dei casi classici in cui la vecchia illusione, che la verità esce dal contraddittorio di due versioni di parte, cade nel vuoto perché i due avversari hanno interesse a dire fesserie comuni.

Non era stato molto difficile dire che Corea e Formosa erano, se pensate come decisioni ed iniziative russe giusta la tesi strombazzata della aggressione nordista, due mosse sbagliate rotondamente. Chiunque abbia mosso la prima pedina (anche svuotando questo conflitto estivo di molta della importanza che gli si è data), non si può ridurre tutto come di moda, a puro fine di «propaganda», ossia di balle da far credere, di qua per la democrazia salvata contro il totalitarismo, di là per la spontanea eroica emancipazione popolare, in cui tutti accorrono volontari e convinti, a fini al tempo stesso nazional-patriottici e sociali dettati dagli alleati interessi di almeno… quattro classi, tutte rivoluzionarie e progressive, alla Mao Tse-tung.

Se l’apertura è stata russa, è stata un’apertura infelice. Era chiaro che in una penisola come la Corea avrebbero deciso le flotte e le aviazioni, con la base così vicina come il Giappone, per poco che valessero le fanterie sudiste e yankee. Si doveva quindi prevedere il clamore americano e americanoide quando le truppe, che si urlava stavano per essere gettate in mare, sono in un balzo tornate al 38° famoso parallelo. Se Anteo riprendeva forza toccando la terra, l’imperialismo capitalista riprende forza toccando il mare; come Ercole strozzò quello levandolo dal suolo, Baffone dovrebbe attrarre il suo nemico lontano dal mare, se si trattasse di una lotta alla morte.

Quanto a Formosa, essa era proprietà giapponese dalla guerra del 1896, ma MacArthur aveva dovuto limitarsi a sentirne l’odore, perché l’ipocrisia nazionunistica costrinse a darla alla «libera Cina» dopo averla tolta al Mikado. Quale migliore pretesto del conflitto ultimo per presidiare Formosa, ove si era ridotto il male in gambe Ciang, con le grinfie del «lupo» MacArthur, e la formula della «volpe» Truman: Formosa resta cinese (come Tokyo e Yokohama sono restate giapponesi!), ma le forze americane sono lì solo per «assicurarne la neutralità».

Apertura debole della partita, «gambetto» dell’avversario su Corea-Formosa; perdita di entrambi i pezzi; scacco al Re, che per l’occasione è il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, il quale ha di comune con l’altro eroe popolare Tito, e per motivi di topografia, il vezzo di passare l’inverno al monte, ma l’estate al mare.

Militarmente si è capito poco nelle cronache di una campagna che, a due settimane di distanza, da una guerra di posizione in cui le «quote» cambiavano di mano sei volte, è divenuta manovrata al punto che le divisioni sudiste fanno centoventi chilometri in un giorno.

Politicamente era naturale che i filoamericani dessero fiato alle trombe, e che i democristiani nostri perdessero la misura fino a dire che, al posto dei tedeschi, generali e soldati statunitensi avrebbero presa Stalingrado. Nel che i poveri filotempisti non sanno a quali ricordi risalire: se a quelli della campagna 1944 lungo l’Appennino, in cui si è visto ad occhio nudo come le armate americane combattono, o meglio non combattono, e in quanti mesi una di esse liquida un battaglione tedesco – oppure a quelli di un anno prima, quando tutti ammettevano che Stalingrado aveva deciso della permanenza del Papa in Vaticano, perché potesse benedirvi il ritorno di Alcide e di Palmiro.

Occorrevano le cronache della guerra in Corea per fare del soldato americano il primo del mondo, in aggiunta ai primati dell’acciaio, del dollaro, della pubblica corruzione, del cafonismo intellettuale e del trastolantismo politico. E occorreva il controcoro dei filorussi sulla tremenda disperata e partigiana guerra di mezza estate, per dare forza al frottolame dei corrispondenti di guerra.

La persona da senno legge con minore disagio la storia del cavallo di Troia che le corrispondenze di guerra delle agenzie di America, ossia le intere fedeli prime pagine estive della nostra grande stampa italiana. E si chiede pensosa: quale la vera Troia?

Ieri

Tornati come Ulisse dopo vari sviamenti al lido natio, vediamo questi approcci di novità di politica interna, dopo le varie villeggiature dei nostri uomini di Stato.

Anche qui vi è una complicità da sottosuolo tra gli avversi campioni nel sopravvalutare l’accanimento della lotta, nel dipingere a tinte fosche il pericolo, che starebbe nella vittoria dell’altro. E di questo gioco piuttosto smorto si dolgono oramai gli stessi «partiti piccoli» che si vedono contesa ogni fettina di notorietà e popolarità dal campeggiare dei «due grandi».

La battaglia politica nei primi periodi della lotta operaia tra noi era, malgrado certe ingenuità, mille volte più diritta e decisa.

Il monito di Marx che ogni lotta sociale è lotta politica ha avuto svariate letture, e applicazioni inadeguate e inattese, nella convulsa storia di un secolo. Venuto in luce accecante negli episodi della Comune del 1871 e della Rivoluzione del 1917 se ne sono avute nei periodi intermedi, da gente che pure ha preteso e pretende richiamarsi ad esso, versioni disgustose.

Un buon socialista del principio del secolo, disinteressato e leale, mettiamo un vecchio compagno, personalizziamolo G. A., lungamente segretario di Leghe e Camere del Lavoro, avvocato, candidato più volte, fedele al partito, sfottuto dalle polizie vita natural durante, morto poi finalmente onorevole ma poverissimo sempre, faceva la sua brava propaganda ragionando in questo modo.

Vi chiamiamo ad eleggere i vostri rappresentanti e vi vedete proposti nomi o liste di partiti, per farvi scegliere tra i quali vi si spiegano complicati programmi, e sistemi di opinioni e di teorie. Dovreste pronunciarvi dopo esservi preparati su difficili problemi filosofici o confessionali, se ad esempio credete in Cristo o meno, se vi pare nel primo caso che i preti ne seguano i dettami o abbiano deviato, se il reggimento monarchico è preferibile a quello repubblicano, se il diritto di voto debba essere solo degli alfabeti o di tutti, se vada dato alle donne ecc. ecc. Nulla di tutto questo vi diciamo noi. Non dovete fare un lungo corso di studi e di notturne letture per farvi una personale opinione, tra tante propostevi, e secondo tale elaborazione mentale prendere il vostro posto in un partito o dare il voto a un candidato. La politica non è lotta di idee ma di interessi. Gli interessi di ognuno sono diversi a seconda della sua posizione economica. I proprietari di terre hanno interessi comuni tra loro e contrastanti con quelli degli altri ceti, così gli industriali, i bottegai, e così voi, lavoratori. Ad ogni strato sociale e ai suoi interessi corrisponde un partito che nel campo politico li difende e cerca di farli prevalere sugli altri, quando è degli altri più forte. Tu operaio voterai per il partito nero? È quello degli agrari, saresti un fesso. Per il verde? È quello dei padroni di fabbrica. Per il bianco? È quello dei commercianti e bottegai che ti vendono caro. Il nostro, il rosso, è il partito degli operai, che in ogni questione sostiene ciò che ne migliora le condizioni di vita, più alti salari, provvidenze sociali, tasse sui ricchi, basso costo della vita ecc. Tu, operaio, non devi pesare teorie ma interessi, vedere il tuo interesse che è quello dei tuoi compagni, votare per noi.

Nel dare questa debole, ma non indecente, versione del marxismo, convinti di essere sulla linea di un socialismo «legalitario» opposto agli anarchici nelle polemiche della Prima Internazionale, questi propagandisti, la cui voce su per giù in quella maniera echeggiò le mille volte in cento piazze italiane, non si limitavano al voto ottenuto, ma, essendo al tempo stesso dei forti organizzatori nei sindacati e nel partito, giungevano a tracciare la prospettiva della lotta di classe e della trasformazione sociale, che sarebbe sorta alla fine da questo preciso schieramento di interessi economici.

Per questi agitatori e propagandisti 1890–1914 non era molto chiaro il senso della critica di Marx a Bakunin sull’autorità e lo Stato, ovvero non ritenevano di primo peso il discutere la questione «davanti alla massa».

Piano piano quindi sdrucciolarono, non tutti certo, nell’errore socialdemocratico, ammettendo implicitamente la tesi che
«il meccanismo di democrazia parlamentare può accogliere la rappresentanza di tutti gli interessi di classe e la esplicazione della lotta di classe fino al socialismo».

Marx aveva chiarito contro Bakunin un affare tutto diverso da questo. La rivoluzione non è solo la rottura violenta e con mezzi armati di un antico Stato e di una antica autorità, ma è per sé stessa «un fatto autoritario» ed esige la costituzione di un organo politico di lotta (partito), e dopo la vittoria di un organo politico di potere (Stato proletario, dittatura proletaria). Marx e Bakunin dicevano entrambi che lo Stato borghese democratico, come i regimi che lo precedettero, cadrà solo con una rivoluzione armata e violenta e non per convinzioni o per voti (ma Bakunin, se affermava questa tesi, era ben lungi dal capirla a fondo e nel senso storico di Marx). Divergevano nella possibilità, ammessa dagli anarchici, di evitare ogni organizzazione politica: di partito, per la lotta contro la borghesia dominante; di Stato, per la lotta contro la borghesia spossessata.

Il marxismo può dunque essere detto teoria autoritaria perché anche la rivoluzione del proletariato, secondo Marx, avrà forme autoritarie – l’equivoco nacque dalla espressione legalitaria, perché questa si riferiva non alla dottrina del processo rivoluzionario, ma alla tattica del tempo, che, a differenza di quella sostenuta dai libertari, ammetteva la partecipazione alle lotte elettorali. Marx antivide una legalità operaia rivoluzionaria sorta dalla lotta spietata e distruttiva contro la legalità odierna borghese, i cattivi interpreti parlarono di una autorità e legalità unica, entro i cui limiti le opposte classi potessero lottare per i loro interessi, entro i cui limiti potesse farsi un passaggio dalla economia capitalistica al socialismo.

Dimentichi del punto ben digerito che non si trattava di dare alla classe lavoratrice e alle masse una cultura ed educazione per la scelta delle «libere opinioni», ma di dare via al gioco degli interessi che determinano all’azione, essi perdettero di vista il centro del marxismo, per cui la lotta politica, se può essere in dati tempi e momenti polemica e discussione, è nella fase decisiva guerra guerreggiata nel campo sociale, alla quale si prepara di lunga mano e con continuità di teoria e coerenza di azione l’organismo di minoranza che è il partito rivoluzionario. Mentre sul piano di questa azione le masse saranno sospinte non da lezioncine o discorsetti o articoletti, ma dallo storico svolgimento, il partito deve in ogni momento del lungo ciclo innestare alle lotte contingenti e agli urti di interessi l’avvio al suo finale illegalismo, la preparazione alla rottura dei limiti costituzionali odierni.

La giusta posizione ritornò nella piena luce coi grandi anni di Lenin; non pochi tra quei vecchi propagandisti dal lungo stato di servizio vennero alla Terza Internazionale – il resto andò alla deriva.

Tuttavia quel linguaggio spicciolo non era stato privo di effetti, quando aveva insegnato che gli interessi di classe si difendono da sponde opposte, e che fare lotta politica significa seguire il proprio interesse sociale, non andare in controsenso ad esso, o nel senso degli interessi dell’altra classe, per moniti ideologici che risalgono a dettami di chiesa, di patria, di nazione, di vago umanesimo, a invocazione di «valori» supraclassisti e interclassisti…

Oggi

L’espressione: parteggia o vota per chi ti farà guadagnare un poco di più o perdere un poco di meno, è incompletissima, ma è sempre meno triviale dei motivi invocati tra i partecipanti alla corsa partitesca e politica nell’arena attuale della vita italiana.

Questi motivi sono tanto più duplici mentiti ed odiosi in quanto, traverso bassi abilismi di propaganda, dalle opposte parti pretendono di ridursi agli stessi valori «supremi». A disposizione di ogni sfelenzo che aspiri a fare l’assessore di Borgocollefegato, i sacri valori che danzano di preferenza sono quelli dell’interesse nazionale e della umana civiltà. Era più seria la «campagna» per la vespasiana nella piazza del paese!

I vecchi partiti operai erano in massima pacifisti. Se il lavoratore sta male in pace perché sgobba e mangia poco, peggio sta in guerra quando ci rimette addirittura la pelle e tutto fa prevedere che verrà maggior miseria a guerra sia perduta che vinta. Semplice. Ma allora erano pacifisti anche i partiti borghesi. Per costoro erano finite le guerre sante, avventure nazionali che avevano coinciso col periodo dell’abbattimento dei regimi feudali e col trionfo del capitalismo industriale. In Italia almeno non vi era un aperto partito militarista e nazionalista, ove questi movimenti vi erano in funzione legittimista facevano ridere. Vi era l’irredentismo sì, covato più o meno confusamente da borghesi di sinistra e radicaloidi. Vennero le guerre di Africa: le opposero non solo il partito socialista ma anche le sinistre borghesi.

In Italia e altrove divampò nel 1914–15 la prima guerra imperialista. Tutta la grande questione del leninismo sta qui: nessun operaio preso da solo ha interesse alla guerra in nessun paese dei due gruppi; nessun interesse vi ha la classe lavoratrice come insieme; vi hanno interesse i gruppi superindustriali, plutocratici, imperialisti, e i loro vari strati di mantenuti. I partiti operai si porranno contro la guerra, «voteranno» contro, ma questo non basterebbe: per impedire che vi siano guerre generali non vi è altra via che abbattere il potere borghese tentando la insurrezione appena possibile, durante la guerra, dopo di essa. Quindi non solo condanna e deplorazione della impresa imperialista, ma disfattismo pratico e sfruttamento della sconfitta. Anche semplice.

La parte maggiore del movimento nei principali paesi aveva preso altro dirizzone, cadendo nell’inganno della difesa della patria. Il contrasto di interessi, la lotta di classe, l’antagonismo sociale generano movimento politico in tutta aderenza, in tempo di pace; appena scoppiata la guerra si pretese che tutto ciò dovesse sparire dalla realtà e dalla storia, per un fronte unico sacro e nazionale di borghesi e proletari.

Mettete una tale tesi in piedi e non resta più nulla del socialismo e del marxismo determinista e classista. Se l’economia determina la politica lo fa per i rapporti interni e per quelli internazionali; se invece ad ogni passaggio da quelli a questi deve la lotta antagonistica porsi a dormire, tutta la nostra versione determinista è una fesseria.

Togliete questa antitesi tra difesismo patriottico e cammino proletario e subito evapora tutto Lenin, tutta la fondazione della Terza Internazionale, tutta la Rivoluzione Russa di Ottobre.

Ammettete che, pure conducendo freddamente quella tale antitesi di interessi di classe nei fatti contingenti interni, vi siano, sull’orizzonte dei rapporti tra gli Stati, interessi nazionali che si profilino nello stesso modo per le opposte classi; lo stesso avviene senz'altro: la stessa andata in fumo del comunismo.

Oggi, ancora una volta, i rapporti internazionali tra gli Stati sono in febbre, e la guerra sarebbe all’orizzonte. Dove batte tutta la contesa? Nel salvare nel miglior modo, non gli uni l’interesse operaio e gli altri quello borghese, ma entrambi, a gara, l’interesse nazionale. Leggete articoli, sentite discorsi social-comunisti: Patria; Nazione; Italia; libertà, difesa, indipendenza, benessere del «Paese».

Ottanta anni di propaganda di classe per arrivare al «Paese»! Ma che accidenti è questo Paese? Che altro può significare questa concorde invocazione degli stessi «valori» dalla destra alla sinistra, se non una identità di interessi, oramai di natura professionale, tra tutti i gruppi di dirigenti politici annidati nei corpi parlamentari e statali?

Gli ideali non sono per noi agenti economici, ma il potere concreto è una forza economica, perché è una visibile macchina di violenza, virtuale o in azione. Siamo quindi in grado di definire uno Stato italiano, precisa e complessa macchina reale in moto nei suoi vari organi ed ingranaggi. Tutti quei limiti, quei vincoli, quei doveri, non li possiamo riferire che allo Stato organizzato. Razza italiana? Non è una entità molto definibile, tra aborigeni pre-romani, e quaranta secoli di arrivi dai quattro punti cardinali di gente di pelle chiara e scura, cranio a palla e a popone. D’altra parte Stati unitari che fanno lo stesso altoparlare di patria e nazione ve ne sono dove le razze sono cento, come in Russia, e dove non ve ne è nessuna, perché l’hanno dissanguata come in America. Poco dunque da rizzare sul pilone razza. Lingua? Certo, abbiamo il toscano nazionale da poco prima di babbo Dante e non abbiamo molta gente di altra lingua ufficiale, cavandocela con poche autonomie alpine, ma conosciamo molti solidi Stati polilingui dove la propaganda è su per giù la stessa che quaggiù con le stesse balle nazionali. E nazione, nel senso di unità storica sotto lo stesso Stato? Evvia, non ha nemmeno un solco intero di tradizione, non ha le origini limpide dei grandi Stati nazionali europei, e si è formata per una serie di giocate uscite bene alla Sisal delle guerre europee e dei reclutamenti mercenari o – peggio padre – volontari. Il capitalismo europeo, schifezza somma che ci è indispensabile traversare, sarebbe in piedi senza la avventura nazionale unitaria italiana.

E intanto si dovrebbe prendere sul serio che ogni richiamo a questi miti e a questi ricordi di un comune linguaggio e passato commuova nella stessa misura il triviale Scelba o il fine Terracini?

La posizione dei partiti di questi signori va messa in rapporto alla politica dello Stato italiano, nella possibilità di guerra.

Avemmo dopo la Prima Guerra e la fallita avanzata proletaria sul terreno internazionalista e rivoluzionario, il partito borghese apertamente militarista e nazionalista: il fascismo. Nessun partito della difesa capitalista più spinta dichiarerà mai finalità di classe; i fascisti si dissero più di tutti nazionali e popolari. La formula della unità nel popolo e nella nazione delle classi sociali si rivela in ciò come formula propria ai borghesi e ai conservatori del privilegio di classe; basterebbe tanto a sfuggirla nella propaganda contro di essi. Ma, mentre i fascisti subissarono i loro oppositori della qualifica di antinazionali ed antiitaliani, la opposizione (che si sarebbe avviata sulla via giusta rivendicando tale posizione e dicendo: finché lo Stato italiano e nazionale è nelle mani della vostra classe, si può abbatterne la forza politica solo su un piano antinazionale) si calò nella torbida palude delle proclamazioni di italianità, di patriottismo, perfino di guerraiolismo antitedesco.

Vana speranza, far capire agli stalinisti che battono il grugno contro le portaerei giganti e i carri armati ultrapesanti, che hanno essi costruito tutto ciò imponendo al proletariato che li seguiva il blocco con l’America.

Non meno vana quella di far intendere quali sono state le conseguenze della politica dei comitati di liberazione nazionale, oggi evidentissime: il sistema fascista, proprio del capitalismo moderno, è da noi del tutto in piedi, sebbene il «monopartitismo» sembri non esserci. Nella economia sociale tutto il sistema di brache mantenute al capitale, costruito nel ventennio (e prima) non fa che dilagare. La polizia è più forte di quella di Mussolini almeno nel rapporto in cui quella di Mussolini era più forte di quella di Giolitti. Siamo già alla milizia politica contro gli antinazionali.

Le portaerei, i tank e le milizie di sicurezza nazionale, le avete fatte voi, signori del Cominform, colla vostra supervantata «manovra».

È dunque un sogno che al posto della battaglia nella pappa e per la pappa tra delegati d’America e delegati di Russia, possa delinearsi l’antitesi delle posizioni di classe? E non la sculettata di De Gasperi ai lavoratori, di Togliatti ai borghesi, per il posto di miss Italia?

Lo Stato italiano e il gruppo che lo detiene si lasciano armare per potere appoggiare la pressione e la futura impresa dell’imperialismo americano. Quel gruppo dichiara altamente che la sua politica è di pace e di garanzia contro la meditata aggressione della Russia.

Due sono le possibili ipotesi, su una replica di classe.
Prima ipotesi: La Russia è uno Stato proletario e l’America uno Stato capitalista. Scoppiato il conflitto l’Italia va tagliata in due: i borghesi sosterranno l’America e lavoreranno per la sua vittoria; i lavoratori nel senso opposto.
Seconda ipotesi: La guerra sarà una nuova guerra imperialista. In tal caso non interessa al proletariato stabilire chi sia il primo ad aggredire. Gli interessa fruire della guerra per sgarrottare il «suo» Stato ossia quello che governa in casa sua.

Non serve di più per far il peggiore dei servizi alle armate di Pacciardi e ai birri di Scelba. Passino pure per più pacifisti e più italiani di tutti: l’interessante è fregarli.

Che li si freghi col predicare che la Russia vuole la pace e la libertà italiana, potrà crederlo al più la prima camerista di M.me Molotov.


Source: «Battaglia Comunista», № 19 del 1950

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