Negli scritti di Marx e di Engels gli strali contro il generico pacifismo borghese e i movimenti per evitare la guerra ricorrono incessanti.
Marx nel 1864 fu costretto a mettere negli statuti e nell’indirizzo inaugurale dell’Internazionale, che correvano il grave pericolo di essere redatti da Mazzini, le parole di morale civiltà e diritto, e la frase che le stesse norme giuridiche ed etiche che regolano i rapporti tra gli individui dovevano essere applicate ai rapporti tra i popoli. Non era né la prima né l’ultima volta che i marxisti si vedevano costretti nell’azione politica al maneggio di termini e proposizioni teoricamente scorrette. Marx lo spiega nel suo epistolario e dice che mise quelle vuote parole dove meno potevano nuocere. Stupirsi di questo come di una doppiezza significa appunto credere che davvero le regolette etiche possano valere qualcosa a indirizzare i rapporti tra gli uomini, nell’insieme o soli…
La prima articolazione del marxismo basta a far mettere tra i ferri vecchi il principio della «non violenza» attribuita da millenni a Cristo malgrado egli avesse detto: non son venuto a portare la pace ma la guerra! (ed era nel suo quadro storico una guerra contro oppressori sociali); e in tempo moderno rappresentato da Tolstoi e da Gandhi, le cui dottrine tuttavia confessano la certezza del sanguinoso scontro.
I pacifismi astratti, tra individui, tra classi, tra Stati, si equivalgono per il marxista, che pone al loro posto l’analisi storica della «teoria della forza».
Nella polemica contro Bakunin nel 1871 Marx ricorda le origini della sua organizzazione anarchica, chiamata con una confusione di termini molto simile a quella di oggi «Alleanza della Democrazia Socialista», dal seno dello spregevole movimento pacifistico borghese.
L’Alleanza «è di origine assolutamente borghese. Essa non è nata dall’Internazionale, ma è il rampollo della Lega della Pace e della Libertà, società nata morta dei repubblicani borghesi».
Bakunin, entrato in tale società, ne propose un «fronte unico» con la Internazionale dei Lavoratori, ma questa al Congresso di Bruxelles rigettò la proposta. Solo questo determinò la rottura tra i bakuninisti e la Lega borghese, cui seguì la rottura dei primi con i marxisti.
Non può aversi diversa opinione sul presente movimento dei «Partigiani della Pace» cui vanno ad aderire borghesucci e filistei che levati…
L’orrore marxista per il pacifismo letterario e demagogico è tale, che è stato, come andiamo mostrando, troppe volte sfruttato con falsificazioni abili dai socialguerrafondai. In tutte le edizioni dell’«Antidühring», fino al 1894, Engels nulla ha trovato da modificare alla sua confutazione della «non violenza» scritta nel 1878, dunque nel periodo successivo alla Comune. Non solo rinfaccia al Dühring di non avere una parola che ricordi il concetto marxista sulla violenza come levatrice di ogni società nuova, e di gemere perché
«ogni uso di violenza avvilisce colui che la usa» – ma gli grida: «e questo, di fronte all’elevato slancio morale ed intellettuale che è stato il risultato di ogni rivoluzione vittoriosa».
E mostra di non pensare solo alle rivoluzioni, ma anche alle stesse guerre, con le parole, assonanti alla posizione che a fondo illustrammo, che testualmente riportiamo:
«E questo in Germania, dove una violenta collisione, che potrebbe anche essere imposta al popolo, avrebbe almeno il vantaggio di estirpare lo spirito servile che, a causa dell’avvilimento conseguente alla Guerra dei Trent’anni ha permeato la coscienza nazionale».
I signori opportunisti sono insuperabili nell’arte di falsare; preferiamo tuttavia che ci cucinino un Engels guerrafondaio invece che rimbambirlo a «partigiano della pace». Farebbe meno scandalo con l’aquila o la svastica, che con la sfruttatissima «colomba» o il ramoscello di ulivo.
Marx lo si dice oscuro, Engels è molto più comprensibile, attenti tuttavia che nessun vino, per quanto schietto, può essere bevuto come acqua fresca.
Troveremo in Lenin la chiarezza cristallina e la sistemazione di tutto il problema. Ciò tuttavia non toglie che anche di lui pretendano avvalersi i falsi predicatori, i chiercuti del politicantismo margniffone.
Lenin non può introdurre la spiegazione marxista dei rapporti tra socialismo e guerra, senza liberarsi in partenza dell’equivoco pacifista, e da questo problema muovono le classiche sue tesi del 1915, dirette a colpire di irreparabile infamia i socialisti guerraioli di tutti i paesi.
«I socialisti hanno sempre condannato le guerre tra i popoli, come cosa barbara e bestiale. Ma il nostro atteggiamento di fronte alla guerra è fondamentalmente diverso da quello dei pacifisti borghesi e degli anarchici».
La guerra è una cosa barbara e bestiale, sebbene le bestie e i barbari non abbiano mai offerto spettacoli comparabili a quelli della azione militare del nostro tempo capitalistico. Nella maggior parte dei casi gli animali, specie se non affamati e non disturbati, e così gli uomini primitivi, sono inoffensivi. Doveva venire la moderna e cristiana civiltà, per leggere sulla compiaciuta stampa filoamericana che in Corea funziona a meraviglia il «tritacarne», ossia la polverizzazione scientifica delle formazioni combattenti avversarie. Le bestie e i barbari vorranno scusare Lenin e noi. Artiglieri e avieri capitalistici tritano carne, a differenza di loro, dopo i pasti. Versano sangue dopo essersi dissetati con il whisky. Né il lynx né il cannibale li capirebbero.
Le diversità tra marxisti e pacifisti non sono le stesse nei riguardi della dottrina anarchica e di quella pacifista borghese. Gli anarchici ammettono come noi
«pienamente la legittimità, il carattere progressivo e la necessità di guerre civili, delle guerre cioè della classe oppressa contro quella che opprime, degli schiavi contro i padroni di schiavi, dei servi della gleba contro i proprietari fondiari, degli operai salariati contro la borghesia».
Tuttavia, così gli anarchici, come i pacifisti borghesi si discostano da noi a proposito della guerra, in quanto noi «dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx riconosciamo la necessità dell’esame storico di ogni singola guerra nel suo carattere specifico». Qui Lenin vuol dire di ogni guerra non solo sociale, tra le classi, ma anche di ogni guerra nazionale, tra gli Stati. Le prime sono tutte comprese ed accettate dal marxismo, dalla parte della classe dominata e sfruttata, ed evidentemente nemmeno gli anarchici, di fronte a tali guerre, seguirebbero le parole di pace, conciliazione, disarmo, date da borghesi e traditori socialdemocratici. Ma quando si passa alla guerra tra gli Stati la cosa cambia. Mentre il borghese nazionalista e militarista avrà l’audacia di giustificare la guerra come mezzo di diffusione del suo sistema sociale, o come mezzo di conquista di spazi vitali per un paese che abbia poco spazio per i troppi uomini o i troppi capitali, o arriverà addirittura alla esaltazione della guerra come «igiene del mondo» – il borghese tartufeggiante, il piccolo borghese puritano, condannerà «qualunque guerra» in nome degli ideali della «pace universale» e del «disarmo», propugnerà la soluzione arbitrale delle questioni internazionali che sorgano tra Stati e Stati, costruirà cioè sul piano mondiale la stessa illusione che ha accreditata su quello politico col sistema parlamentare: nazioni eguali nel mondo, cittadini eguali nella nazione. Con questo geniale sistema, è chiaro che si aboliranno «tutte le guerre» come si aboliscono, da quando vi è lo sceriffo e la Corte suprema, tutte le cazzottate, e le fregature… Una tale porcheria, su per giù, contro cui Lenin ha scritto le più potenti pagine, diviene
«la teoria leniniana-staliniana sulla eguaglianza delle nazioni!».
L’anarchico a sua volta, che ha fatta salva con noi la guerra civile, abolirà in ogni tempo e sotto ogni cielo la guerra tra gli Stati e la considererà, senza discriminazione, di effetto deleterio, per il solo fatto che ogni operazione militare comporta autorità totale e subordinazione di uomo ad uomo, e la sua veduta della emancipazione anche sul piano sociale lo porta a vedere il singolo liberato nella sua ideologia e nella sua «coscienza», prima che la macchina oppressiva e sfruttatrice sia intorno a lui ovunque spezzata. La decifrazione del divenire storico si riduce, anche per l’anarchico, all’essere per o all’essere contro. Egli è per la pace contro la guerra; tutto è fatto.
Diversamente da queste posizioni incomplete il marxista, come mostrammo trattando delle guerre nazionali nei vari periodi, ammette che
«nella storia sono più volte avvenute guerre (ripetiamo: Lenin dice guerre di Stati) che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi ad ogni guerra, sono state progressive, che cioè sono state utili all’evoluzione dell’umanità contribuendo a distruggere istituzioni particolarmente nocive e reazionarie (per esempio l’autocrazia o la servitù della gleba) e i più barbari dispotismi (quello turco e quello russo)».
Lenin sulla soglia dell’esame marxista della guerra 1914, che condusse a stabilire che essa non era da nessun lato «guerra progressiva», ma puro conflitto tra sfruttatori imperialisti, sicché il dovere di tutti i socialisti era di lottare contro tutti i governi in tutti i paesi e in tempo di guerra, Lenin tiene a stabilire che questo dovere non sorgeva da un’astratta posizione di «condanna di ogni guerra», come è accessibile ad ideologi conservatori o libertari.
Ma vi è di più. Non solo noi ci differenziamo dai pacifisti borghesi perché essi negano l’impiego di armi nella lotta tra le classi sociali, e per la loro incapacità all’apprezzamento storico delle guerre, ma per un altro punto, sul quale Lenin mostra di pensare che anche gli anarchici siano con noi, così come su quello della guerra civile.
Ci divide dai pacifisti borghesi il nostro concetto dell’
«inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi nell’interno di ogni paese«, e della «impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi ed edificare il socialismo».
Questo passo, che noi per motivo di propedeutica abbiamo citato per ultimo, è il primo della tesi sul pacifismo, ed è il più importante.
Esso distrugge ogni possibile ospitalità nel marxismo-leninismo di movimenti che abbiano a finalità la soppressione della guerra, il disarmo, l’arbitrato o la eguaglianza giuridica tra le nazioni (Lega di Wilson, O.N.U. di Truman).
Il leninismo non dice ai poteri capitalistici: io vi impedirò di fare la guerra, o io vi colpirò se fate la guerra: esso dice loro, so bene che fino a quando non sarete rovesciati dal proletariato voi sarete, che lo vogliate o meno, trascinati in guerra, e di questa situazione di guerra io profitterò per intensificare la lotta ed abbattervi. Solo quando tale lotta sarà vittoriosa in tutti gli Stati, l’epoca delle guerre potrà finire.
Si tratta di una posizione generale. Il marxista non può essere pacifista o «antiguerrista» poiché ciò significa ammettere che si possa abolire la guerra prima della abolizione del capitalismo. Non basta dire che ciò sarebbe un errore teorico. Esso è un tradimento politico, poiché una simile illusione non facilita il convogliamento delle masse ad una lotta più vasta, bensì ne agevola l’asservimento, non solo al capitale, ma anche alla guerra stessa. Le masse proletarie guidate da cattivi marxisti, che si erano sempre detti pacifisti, hanno dovuto fare la guerra contro i tedeschi, perché i loro capi hanno detto che quelli soli minacciavano la pace, come la hanno dovuta fare contro i russi per lo stesso motivo: hanno marciato due volte e marceranno forse la terza, e dai campi opposti, a combattere una guerra «che dovrà mettere fine alle guerre».
Si tratta, diciamo, di una posizione generale. Il marxista non è pacifista, per ragioni identiche a quelle che non ne fanno, ad esempio un anticlericale: egli non vede la possibilità di una società di proprietà privata senza religione e senza chiese, ma vede finire chiese e credenze religiose per effetto della abolizione rivoluzionaria della proprietà.
L’ordinamento della schiavitù salariata vivrà tanto più a lungo quanto più a lungo i suoi complici faranno credere che, senza sovvertirne le basi economiche, sia possibile renderlo immune da superstizioni religiose, o eliminarne la eventualità di guerre, e togliergli gli altri suoi caratteri retrivi, o brutali.
Nel periodo in cui era evidente che le guerre di sistemazione nazionale erano finite, la borghesia si tutelò largamente dalla radicale azione proletaria di classe con i movimenti di «partigiani del libero pensiero» che dilagarono alla fine del secolo. Successivamente, nel periodo delle guerre imperialistiche, si tutelò coi movimenti ibridi di «partigiani della difesa nazionale» e oggi di «partigiani della pace».
Sostituire, dinanzi all’avvicinarsi di nuove guerre, al criterio dialettico di Marx e Lenin – tanto nella dottrina che nell’agitazione politica – lo sfruttamento plateale dell’ingenuità delle masse nei riguardi della santità della Pace e della Difesa, non è altro che lavorare per l’opportunismo e il tradimento, contro i quali Lenin si dette a costruire la nuova Internazionale rivoluzionaria super hanc petram; su questa pietra: capitalismo e pace sono incompatibili.
Dedichiamo ai pacifisti di oggi una lapidaria tesi del Terzo Congresso (33.ma, sulla «Situazione internazionale e i compiti dell’Internazionale Comunista»):
«Il pacifismo umanitario antirivoluzionario è in fondo un ausiliario del militarismo».
Stalin, nella sua recente intervista, ha fatto largo impiego dei concetti di pace, di guerra di difesa, e di guerra giusta.
Quando le due parti si dicono reciprocamente: le vostre affermazioni sono di natura puramente propagandistica; e quando queste affermazioni sono formalmente le stesse, la discussione è in un vicolo cieco. Attlee ha accusato il governo russo di aver iniziato preparativi di guerra nel periodo in cui i suoi alleati di Occidente, vinta la Germania e il Giappone, avevano completamente smobilitato; e da ciò vuole trarre la prova che la Russia vuole provocare una guerra. Stalin risponde che il governo russo smobilitò a sua volta dopo il 1945, e che il fatto che Attlee mentisca su tale punto prova che sono gli occidentali ad ingannare i loro popoli per trascinarli
«nella nuova guerra mondiale preparata dai circoli dirigenti degli Stati Uniti d’America».
I termini sono categorici e gravi, dato che non parla un secchio qualunque. Nessuno, in tutto il pianeta, sta in un osservatorio da cui si possa misurare se si sta armando di più, e da prima, in Russia e paesi annessi o in America e aggregati atlantici. Ma un tale risultato non sposterebbe la questione. Dal momento che un qualunque governo, di qualunque tipo, a torto o a ragione, considera un conflitto altamente probabile se non certo, esso può bene condurre una politica con il doppio obiettivo di evitare o rinviare lo scoppio delle ostilità; e di arrivarvi più preparato. La intensità e il tempo delle misure di preparazione militare, prima che in ragione della «volontà aggressiva», che non significa nulla, sono in ragione della attrezzatura produttiva e degli interessi che in questa desta il lavoro di guerra. Chi ha meno attrezzatura produttiva di industrie e di comunicazioni, e meno riserve di prodotti, ha un molto maggiore «tempo di preparazione» e quindi, anche se fosse un convinto «difesista» e un «pacifista» a tutta prova, comincia prima, se non è fesso. Supponiamo provato che la Russia abbia smobilitato più lentamente, e ripresa prima la preparazione militare; con ciò non sarà provata l’innocenza di quei «circoli» americani che Stalin mette sotto formale accusa, aprendo un processo per noi già da anni giudicato.
Il capo del governo sovietico ha voluto dare argomenti non propagandistici ma «scientifici»; i suoi avversari non hanno molto raccolto tale sfida. La Russia, Stalin afferma, non solo destina centinaia di miliardi (in lire, diecine di migliaia di miliardi) alla ricostruzione dei territori distrutti dai tedeschi, e diecine di miliardi ad opere colossali come le nuove centrali idroelettriche sul Volga e l’Amu Daria, ma pratica la riduzione dei prezzi interni di consumo che, se effettiva, significa da un lato migliore tenore di vita, dall’altro minore accumulazione per opere nuove e minore spesa nella macchina amministrativa. Se al tempo stesso esaltasse le spese per l’industria bellica e l’esercito
«non potrebbe non correre il rischio di una bancarotta».
L’argomento è forte, ma comporta il quesito: che cosa vuol dire la bancarotta in un’economia socialista? Non potrebbe voler dire che caduta dei lavoratori nella estenuazione per poco cibo e troppo sforzo. Ma bancarotta vuol dire incapacità dello Stato a saldare il suo debito, e ha senso in regime di capitalismo nazionale: la proprietà pubblica cade preda dei capitalisti privati, esteri se non interni. Nella parola detta da Stalin, non deve credersi a caso, è contenuta una prospettiva di compromesso (un’offerta vorrebbe dire meno, l’offerta come l’intenzione, la volontà, o la manovra pesano poco al saggio del marxismo). L’imperialismo occidentale, che per minori danni alla sua attrezzatura, miglior tenore di vita medio, maggiori riserve, controllo di fonti di materie prime e di reti di comunicazioni mondiali (non mettiamo troppo in conto il miglior grado di scienza e di tecnica applicata), può maggiormente accumulare ed investire, potrebbe aprire un credito internazionale al governo russo, con gli stessi impegni che dovrebbe destinare alla guerra.
Chi pesa la ipotesi di bancarotta, si considera esposto alle oscillazioni di un mercato, di una borsa comune al suo contraddittore, al suo concorrente.
Dove dalla scienza economica si ricade nella agitazione, che secondo noi non solo non è più agitazione rivoluzionaria e di classe, ma è agitazione di scarso frutto anche sul piano della competizione nazionale, è quando si assicura la vittoria alle truppe che sentiranno di battersi per la causa giusta. Un conto è dire che per i marxisti vi sono guerre giustificate, un conto è echeggiare il motivo borghese «la causa giusta vince sempre». L’esempio della lotta in Corea non calza, oggi che i rossi indietreggiano. I soldati americani considerano quella guerra ingiusta? Stalin, per sua fortuna, non avrà mai avuto tra i piedi i soldati americani, animali extrafilosofici per eccellenza. Che si direbbe allora dei soldati tedeschi, che hanno combattuto fino all’ultimo in condizioni schiaccianti di inferiorità, con un rendimento militare massimo al mondo?
Le guerre di oggi non sono vinte né dalla convinzione né dal fanatismo. La importanza del fattore politico nell’opportunismo di guerra, che Lenin staffilò, non sta nel fatto che i soldati dei vari eserciti avessero davvero bevuto l’innocentismo pacifista e difesista dei loro governanti e generali; stette nel fatto che una forza che poteva tagliare i garretti agli Stati Maggiori alle spalle del fronte, quella delle organizzazioni proletarie, fu dai capi affittata alla guerra, e quanto meno essa stessa sabotata. Il soldato, se potesse seguire la sua idea e convinzione, se ne tornerebbe a casa; se si trova in ballo nell’ingranaggio militare segue tanto più la macchina gerarchica quanto più la sente attrezzata decisa ed aggressiva.
Esattissimo è dire che l’O.N.U. è una organizzazione che agisce al servizio degli aggressori americani. Ma il marxismo è stato buttato via quando si è ammesso che l’O.N.U. stessa potesse essere «baluardo e salvaguardia della pace», e solo dopo fondata sia divenuta uno strumento per scatenare una nuova guerra mondiale.
Sapevamo già alla data 1919 (Primo Congresso di Mosca) che
«la propaganda per la Società della Nazioni è il mezzo migliore per confondere la coscienza rivoluzionaria della classe operaia».
Con la tardiva scoperta di oggi, si ammette di avere consumata una tale colpa, di avere, con le parole di quello stesso testo, lanciato
«in luogo della parola d’ordine di un’Internazionale delle repubbliche operaie rivoluzionarie, quella di un’associazione internazionale di pretese democrazie, che dovrebb'essere raggiunta mediante una coalizione del proletariato con le classi borghesi».
Anche qui, era Lenin che scriveva, incitando alla lotta contro l’idea della Società delle Nazioni,
«associazione di rapina, sfruttamento e controrivoluzione imperialista».
Si trattava di ben altro che di dare nell’O.N.U. il voto alla Cina, o toglierlo alla Repubblica Dominicana.
La politica staliniana è combattuta dai marxisti di sinistra proprio in quanto ha distrutto e distrugge le sole energie che potrebbero minare e battere la potenza imperialista e militarista: quelle di classe.
Tale posizione sta agli antipodi di quella di tutti i comunisti e socialisti di destra che si lasciano trascinare verso la tesi che l’America è pacifica e l’Unione Sovietica bellicista. È inutile cavarsela col dire a questi transfughi che sono pagati dal capitalismo atlantico: è certo che per un simile bel risultato sono stati spesi più rubli che dollari.
Il cardine di una posizione marxista sulla congiuntura attuale non può essere che questo.
La campagna sulla salvaguardia della pace e contro i provocatori della guerra non ha, da nessuna parte, alcun serio contenuto.
Solo fatto provocatore di guerra è l’esistenza e la tolleranza del regime capitalistico.
Il governo russo presente non ha evidentemente interesse, volontà od intenzione di fare una guerra di attacco.
Il governo americano si prepara alla guerra come alternativa alla marcia verso il controllo capitalistico di tutta l’economia mondiale, pronto tuttavia ad acquistarlo con una transazione diplomatica, o societaria, che apre egualmente prospettive immense alla superindustria e alla superfinanza e può essere meno costosa della guerra vinta.
Ove la guerra generale scoppiasse per forza di eventi, o comunque per provocazione americana, e magari per provocazione russa (dato che novantanove cervelli umani su cento hanno bisogno di sapere dov’è l’aggressore), la cosa al tempo stesso meno probabile e più desiderabile è lo sfasciamento del centro statale e militare americano, per rivoluzione interna o per rovescio militare.
La più probabile alternativa opposta conduce allo stesso punto che una «salvezza della pace», e avvia al fermentare di nuove conflagrazioni intercapitaliste, se il movimento autonomo e rivoluzionario di classe non riesce a risorgere.
A queste poco facilmente scrutabili prospettive di un avvenire tempestoso, non cambia proprio nulla il dettaglio che un governo italiano stia di qua o di là, che il suolo italiano abbia ad essere calpestato, per affitto o per invasione, da forze armate di oriente o di occidente.