Nel movimento proletario del principio del secolo, in pieno fiore della Seconda Internazionale Socialista i partiti dell’occidente e dell’oriente europeo erano ben diversamente preoccupati delle questioni delle nazionalità.
I partiti che operavano entro Stati oramai sistemati territorialmente, con unità di lingua e di nazione, e d’altra parte con istituzioni politiche liberali e parlamentari consolidate, vedevano oramai pieno contrasto tra aspetti economici sociali e politici della lotta proletaria di classe contro i borghesi interni – ed ogni effetto di tradizioni, ideologie, postulati o prospettive nazionali. Il marxismo aveva loro chiaramente insegnato che la sistemazione politica nazionale era un portato ed una necessità del capitalismo, come lo era stata la rivoluzione antifeudale, e quindi quel processo era stato incoraggiato e sostenuto dai primi gruppi proletari indipendenti e coscienti, ma appunto in quanto solo su tale base si poteva dare pieno corso alla lotta di classe, dalle prime rivendicazioni economiche fino al rovesciamento dei poteri borghesi.
Nessuno poneva in dubbio, ad esempio, che in Italia dovesse esservi un partito socialista unico, e che i pochi ebrei o poniamo ladini o valdostani vi appartenessero in modo assolutamente indistinto; tutti gli operai di qualunque lingua o razza dovendo allo stesso titolo lottare contro la classe borghese e lo Stato nazionale, suo strumento.
Una eccezione la presentava l’Inghilterra ove non si riusciva a contenere bene in un partito unico operai inglesi, scozzesi e soprattutto irlandesi. Ma la questione diveniva molto difficile nei paesi plurinazionali, e nello stesso tempo ancora più o meno organizzati in modo politico feudale: Russia; Turchia; Stati Balcanici; e nel tipico caso dell’Austria-Ungheria.
I socialisti austriaci da un lato erano molto collegati al potente sviluppo organizzativo e teorico della socialdemocrazia germanica, ortodossa e classista almeno nella ostentata ideologia, sebbene avesse le sue gravi incertezze, sui problemi di centralismo o federalismo regionale e di lotta contro lo Stato prussiano e la sua egemonia, tante volte stigmatizzate da Marx e da Engels. D’altra parte, i socialisti dell’impero asburgico non riuscivano a contenere in una organizzazione unica tedeschi, magiari, boemi, polacchi, sloveni e così via. E non sapevano risolvere il problema della prospettiva storica: si pone senz'altro il problema della lotta politica del proletariato socialista di tutto l’impero contro lo Stato monarchico di Vienna e Budapest; ovvero si deve prima condurre la lotta per liberare i vari territori nazionali «oppressi», rivendicazione sentita da strati borghesi e piccolo borghesi di quelle zone, e da contadini ed operai?
La scuola marxista austriaca tentava, intorno al 1910, di dare a tale problema una soluzione da inserire nel programma socialista; ne esponevano sistemazioni elementi marxisti di destra, o almeno di centro, come Springer e Bauer.
In quel torno la questione interessava molto anche i socialisti russi, il cui movimento era illegale nel paese dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905, e i centri lavoravano all’estero. La socialdemocrazia russa era divisa nei due partiti, bolscevico e menscevico; e per i bolscevichi importava molto non solo la lotta contro i destri e «liquidatori», che volevano desistere dalla lotta illegale e insurrezionale, ma anche contro i movimenti di socialismo nazionale di polacchi, finlandesi, caucasici, e soprattutto il Bund, partito socialista degli operai ebrei.
E famosa una lettera di Lenin a Gorki del febbraio del 1913 in cui si accettava con gran lode uno studio su tale tema, dovuto a «un meraviglioso georgiano», il bolscevico Stalin, che lavorava in Russia col nome di Koba, e che dopo la breve parentesi che gli consentì di scrivere i tre articoli per la rivista del partito era caduto nelle mani della polizia zarista.
Stalin in tale studio prende decisa posizione contro le conclusioni degli austriaci, ai cui errori si avvicinano le deviazioni di menscevichi e bundisti. La formula di Bauer-Springer era, nell’organizzazione, l’ammettere partiti singoli delle nazionalità federati tra loro (tali partiti finivano con l’aderire direttamente e per proprio conto alla Internazionale socialista di Bruxelles, il che suscitava le meraviglie, se non altro, di noi marxisti di sinistra di occidente); Stalin sostiene il partito unico nel territorio dello Stato, che accoglie allo stesso titolo operai e compagni di ogni lingua e razza. Gli austriaci vogliono che si ponga nel programma socialista la «autonomia nazionale-culturale» da garantirsi anche nel regime borghese da apposite leggi – Stalin respinge con ogni vigore questa formula, e la sua è: autodecisione dei popoli, fino al separatismo territoriale. Egli imputa, con ragione, alla formula austriaca di essere evoluzionista e non rivoluzionaria, e di condurre al nazionalismo sostituito all’internazionalismo e al classismo.
Il tema è delicato, e può condurre ad una confusione dell’argomentare di Stalin, che appare radicale e marxista nella parte distruttiva della formula che respinge, ma che nella parte positiva potrebbe dimostrare parentele con la posizione democratica delle varie «Leghe per la pace e la libertà», a chi non intendesse la esatta posizione. Oggi infatti gli stalinisti sono completamente sdrucciolati, in principio, su quel terreno anti-marxista; Stalin stesso ha avuto, vivente Lenin, qualche iniziale slittata verso un nazionalismo georgiano; ma allora, di fronte a quegli avversari, la sua formula, se rettamente intesa, era in piena battaglia contro la deviazione revisionista ed opportunista. Non lo si vede facilmente, perché anche allora la mentalità dello scrittore era fortemente «concreta» pur trattando di «posizioni di principio» e prudente in fatto di generalizzazioni; anche perché gli scritti dovevano riuscire a circolare all’interno della Russia. Ma vi sono decise intuizioni sull’avanzare (erano appena finite le guerre balcaniche) della guerra imperialista generale, e vi è la decisa premessa della internazionalità delle lotte che ne seguiranno.
Nell’analisi del fatto nazione Stalin si distacca da Bauer in quanto dà minore rilievo al fatto razziale (etnografico) e linguistico; e maggiore a quello territoriale, e soprattutto storico. La definizione che Stalin dà della nazione, è ben diversa da quella di Bauer. Questi dice:
«Assieme di gente riunita in una comunità di carattere sulla base della comunità di destino».
Stalin invece dice:
«La nazione è una comunità di uomini, stabile e formatasi storicamente, sorta sulla base della comunità di lingua, di territorio, di vita economica e di struttura psichica, che si manifesta nella comunità della cultura».
Bisogna sempre riportare le passate polemiche al loro quadro. All’esame frettoloso le due formule potrebbero sembrare poco divergenti; invece è proprio la prima che fa scivolare nel «nazionalismo» ossia nelle varie ideologie per cui i «valori nazionali» sono naturali, insuperabili ed eterni, e quindi ogni lotta economica, sociale e politica dovrà tenere conto di essi, e vi sarà «sempre» e «ovunque» un certo grado di interessi comuni a tutte le classi economiche che costituiscono una nazione; sarà sempre una follia dire che per l’operaio salariato il padrone è «uno straniero». Ora è proprio su questo scivolo, che vanno sempre più giù gli attuali stalinisti.
La nazione come processo storico ha, per Stalin, principio, durata e fine. Lo dice chiaramente, e la sua formula non è che quella di Marx e di Lenin: la nazione «è la categoria storica dell’epoca del capitalismo ascendente». Avvenuta tale ascesa del capitalismo industriale come base dell’economia, Stalin ribadisce la posizione del «Manifesto». La lotta nazionale è sempre, nella sua essenza, lotta borghese, di una borghesia più potente contro un’altra; sorge dal fatto che ogni borghesia lotta per avere un mercato, e per averlo deve avere un territorio; ogni movimento nazionale comincia così:
«La borghesia della nazione oppressa fa appello al proprio popolo minuto, e si mette a strillare tirando in campo la patria, presentando la causa propria come causa di tutto il popolo».
Si domanda quindi lo scrittore:
«Si porrà il proletariato sotto la bandiera del nazionalismo borghese? Ciò dipende dal grado di sviluppo delle contraddizioni di classe, dalla coscienza e dalla organizzazione del proletariato. Questo ha la sua propria provata bandiera; non ha nessun motivo di porsi sotto la bandiera della borghesia».
Le tesi di principio sono dunque al sicuro, esse corrispondono alla formulazione che dà Lenin:
«Le nazioni sono un inevitabile prodotto e una forma inevitabile dell’epoca borghese dello sviluppo sociale». «Lo sviluppo del capitalismo pone in luogo degli antagonismi nazionali quelli di classe». «E perciò assolutamente vero che nei paesi capitalisticamente sviluppati gli operai non hanno patria».
Da una parte resta stabilito, quindi, che è anti-marxista, anti-leninista e… antikobista, ogni politica che, come quella ad esempio dei comunisti staliniani d’oggi in Italia, pone valori, tradizioni, destini nazionali comuni ad operai e classi abbienti, alla sola condizione che si accettino certi postulati «popolari» e pacifistici, ammettendo che un governo italiano «sulla base di questa costituzione» possa in politica estera volgersi ad una od altra coalizione per altro motivo che l’interesse della locale borghesia. Dall’altra parte, messi quei capisaldi vitali al sicuro, si può valutare la critica alla soluzione dottrinale e programmatica della «scuola austriaca» di quarant’anni or sono.
La proposta costituzionale che derivava dalla tesi della «autonomia nazionale culturale» era questa: lo Stato plurinazionale restava unitario, ma accordava ad ogni comunità nazionale nel suo interno una autonomia nei fatti culturali: lingua, scuola, stampa, teatro ecc., non delimitando le regioni territoriali, ma consentendo ad ogni cittadino, secondo la sua razza e lingua, di scegliere di inscriversi alla anagrafe di una specie di «curia nazionale». Anche gli abitanti di un piccolo centro sarebbero stati e avrebbero votato in diverse curie, se ebrei, slavi, tedeschi, italiani ecc. (per fissare le idee si pensi a Fiume). Che ne conseguiva? Questo Stato era accettato come un modello della futura società socialista, che anche essa sarebbe stata smistata in comunità nazionali. Ciò combattono Marx, Lenin e lo Stalin di allora: lo stesso capitalismo oblitera le differenze di razza e lingua e nazione; ove i suoi istituti sono al vertice, le varie nazionalità possono avere lo stesso stato giuridico: vedi la Svizzera. Ciò è constatazione polemica, non apologia (questo si tratta di capire) e non toglie, come ricorda lo stesso testo di Lenin poc’anzi utilizzato, che
«la forma più libera e progressiva dello Stato borghese, la repubblica democratica non elimina affatto questa realtà (lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento dei salariati da parte del capitale, giusta Engels) ma ne cambia soltanto la forma (legame dello Stato con la borsa, corruzione indiretta e diretta dei funzionari statali e della stampa, e così via)».
Il socialismo proletario, dunque, nel suo programma supera la nazione, non la organizza in forme nuove; prende atto che la stessa forma capitalista sviluppata è capace di superarla.
Che la formula Bauer conduca all’opportunismo, Stalin lo provava con gli esempi dei molti partiti operai nazionali che nei loro parlamenti, diete e dume in certi casi bloccarono coi partiti borghesi della stessa nazionalità contro i marxisti. Quel blocco, che Togliatti offre all’on. De Gasperi e Di Vittorio al dott. Costa, purché si stia fuori del Patto Atlantico. Altra grave critica era l’essere arrivati a sindacati operai di nazionalità, che reciprocamente si facevano da crumiri negli scioperi.
Quanto al Bund ebreo, esso fu travolto fino al punto di rivendicare la festa del sabato, voluta dalla religione israelita, e la lingua yiddish (specie di gergo ebreo-tedesco) al posto della russa. Alla lingua russa letteraria Stalin ci ha sempre tenuto; del resto aveva allora ragione. Egli derideva la ipotesi di comunità culturali e linguistiche nel Caucaso, dove si dovrebbero farne più di mezza dozzina tra popoli assolutamente primitivi e privi di ogni cultura che non sia la superstizione religiosa o pagana: mingrelli, abkhasi, adgiari, svani, lesghi, osseti, kobuleti ecc., ecc.
Resta da capire la formula dei marxisti di sinistra in quel tempo e quei paesi: autodecisione dei popoli, che stanno in un certo comune territorio. Questa formula proclama un diritto e una uguaglianza delle nazioni, e ciò, come abbiamo molte volte mostrato con le tesi di Marx e di Lenin, non ha senso nella nostra teoria. Si tratta di intendere il senso politico. Per pensare in modo concreto alla autodecisione bisogna avere delimitato una linea chiusa entro cui una certa autorità svolga una consultazione, un plebiscito: chi stabilirà la linea e dirigerà la votazione? E che senso avrà la maggioranza, nel quadro indiscriminato di locali borghesi, intellettuali, lavoratori?
Ma non si tratta qui dei plebisciti, di cui è piena la storia dei risorgimenti nazionali, e che del resto sancirono sempre l’esito di lotte armate, che erano nel fondo lotte tra classi. Si tratta di opporsi vigorosamente alla «superstizione dello Stato» che hanno da un lato i revisionisti tedeschi, dall’altro i menscevichi russi. I primi parlano di evoluzione graduale, i secondi escludono le «azioni audaci e risolute», gli uni e gli altri manipolano sciocche formule programmatiche che si possono inserire nella legislazione statale senza mutare i rapporti di potere tra le classi, e i territori governati. Dire che la nazione ha diritto di decidere sulla sua sorte e che nessuno ha quello di imporgliela dall’esterno, indubbiamente è una formulazione propagandistica e un poco letteraria che non si adagia sulla dottrina del determinismo marxista. Ma il senso è chiaro: esso condanna ogni legittimismo, ogni repressione di insurrezione, ogni espediente che tenda, nel caso di urti irresistibili sorti da separatismi ed indipendentismi nazionali, ad accoppiare due degenerazioni del movimento operaio: una in certe fasi storiche tollerabile, ossia la solidarietà nella rivolta di borghesi e lavoratori; l’altra disfattista e reazionaria, ossia la solidarietà dei socialisti collo Stato della nazionalità dominante nel sostenere che la cosa si può sistemare legalmente, e quindi va represso il ricorso alle armi. In questo senso era rivoluzionario Marx nel 1848 nel dire che si appoggiava in Polonia quel partito operaio che voleva la liberazione dagli Zar; furono traditori gli allievi di Bauer-Springer nel sostenere la guerra austro-ungarica nel 1914 contro la rivolta slava; come furono invece buoni marxisti e rivoluzionari i socialisti serbi che seppero essere contro la guerra, malgrado il caso di «difesa».
Autodecisione, dice dieci volte Stalin in quel testo, non vuol dire favorire che il Caucaso si separi per andare sotto i mullah feudali e teocratici, non vuol dire favorire in una Finlandia indipendente il potere della borghesia e non quello degli operai, e così via.
Favorire i separatismi voleva dire dare forti colpi alle compagini statali russa o austriaca, facilitando i colpi di classe che dall’interno avrebbero dato i lavoratori della nazionalità maggioritaria. Come in Russia accadde, pur dovendo Lenin battersi ancora a fondo per evitare che un nazionalismo risorgesse sotto la suggestione che al potere zarista se ne era sostituito nel febbraio 1917 uno «legale»; e come avrebbe potuto accadere con successo in Ungheria, Baviera, Sassonia, Polonia, e così via, se meno tremendo effetto avessero avuto le devastazioni dell’opportunismo nella prima guerra mondiale.
Quindi quella dottrina, al fine di raccogliere nemici alla legalità costituzionale borghese, opponeva alle cupidigie di classe delle più avide borghesie imperialiste, l’appoggio allo svincolamento da esse di nazioni e colonie oppresse e, dialetticamente diceva che, pur tendendo alla lotta di classe contro le borghesie padrone e serve, il proletariato non è indifferente a quelle forme di oppressione e tende a distruggerle per superare ogni motivo di antagonismi nazionali. Non può essere confusa con una rinunzia al programma internazionalista integrale. Non può essere tradotta in una edificazione di valori e di destini nazionali, interclassisti, per cui taluno possa dire che le contese di classe si subordinano alla difesa di un superiore interesse di nazione, e in ogni paese, capitalisti ed operai debbano entrambi difendere conquiste – tanto note a noi contemporanei! – come la «produzione», l’«investimento», l’attività del commercio estero, del bilancio dello Stato, e della circolazione…
Dinanzi ad un simile interlocutore e falsificatore, Lenin, come Marx ed Engels, avrebbe fiammeggiato di sdegno. Quanto a Koba, tipo meno discorsivo, avrebbe trovato, frugando nelle ampie tasche, una bomba spicciola per farlo fuori.
L’attenzione del mondo è rivolta alla Persia, e al suo petrolio.
Si dà del principio di autodecisione questa versione: ogni popolo è sovrano nel suo territorio ed è padrone del suolo, del sottosuolo e degli impianti che sono nelle sue città e campagne. Qualunque sia il regime ed il governo, esso ha bene la facoltà di «espropriare» e di «nazionalizzare» non solo i giacimenti del suo sottosuolo minerario, ma anche gli impianti di estrazione e gli stabilimenti per la lavorazione o l’arredamento dei porti di imbarco. In questa richiesta, uno stesso interesse lega tutto il popolo dell’Iran: monarchi, feudatari, sacerdoti, pastori del deserto, piccoli contadini della poca zona fertile, operai delle miniere e stabilimenti, burocrati, e, per quanto ve ne sono, borghesi nazionali: industriali, banchieri e commercianti persiani. Quindi le grandi dimostrazioni di Teheran o di Abadan sono un moto nazionale rivoluzionario, che la Russia appoggia e che la classe operaia mondiale deve guardare con simpatia.
Senza menomamente assumere che si debba guardare con simpatia la Anglo-Iranian e l’affarismo capitalista inglese e di altri paesi, interessa rilevare che questa questione nazionale e questa rivendicazione di autodecisione presenta caratteri nuovi e suggestivi, se lumeggiati coi dati del materialismo storico. Non solo gli elementi razziali linguistici culturali e psichici, e tutti quelli derivati dalla tradizione, scompaiono quasi davanti alle grandi forze motrici del contrasto acutissimo odierno, ma indietreggiano gli stessi elementi storici di Stalin, primeggiando solo, ma allo stato incandescente di trasformazione, quelli che si traggono dalla «vita economica».
Come razza, mentre anche in Persia se ne incrociano di diversissime, aborigene ed importate, ariane e mongoliche, nulla spiegherebbe la lotta degli iraniani contro gli inglesi più che contro i russi o, poniamo, gli americani, che finiranno collo sfruttare la faccenda.
Lingua, cultura e carattere spirituale persiano, con profonde radici di tradizione storica, se ne possono rinvenire largamente: ma quale contributo a questi caratteri trasmessi da millenni ha dato il petrolio, noto da cinquant’anni? I persiani furono un popolo di avanguardia della civiltà e della cultura prima dei Greci, quando non sapevano di avere il petrolio! e tanto meno che cosa fosse e a che cosa servisse. Radici di una tradizione ne troviamo quante ne vogliamo nella lingua, una delle prime e più perfette, ma senza… il vocabolo petrolio. Ne troviamo sotto forma di una delle più alte letterature e filosofie; come troviamo una storia gloriosa di conquiste vittorie ed organizzazioni di popoli, con città che pare fossero assai più grandi e belle delle attuali. Ma a che cosa di tutto questo attinge l’affare attuale? A nulla.
I persiani si spinsero alla conquista del mondo mediterraneo, e si servirono nelle loro imprese di truppe occidentali scelte, anche se non erano… paracadutiste o motorizzate. E quando «Daréiou kai Parusàtidos gignôntai pàides dùo», ossia nacquero da Dario e Parisatide i due rivali Ciro ed Artaserse, il pomo della fraterna contesa non furono i pozzi di petrolio, ma gli immensi armenti, le masse di schiavi, e le città babeliche. La cronaca ce la fece Senofonte, tipo di giornalista moderno, direi, borghese e commerciale, ma nella ritirata coi suoi diecimila se gridò «thàlatta, thàlatta» alla vista del mare, non si rese conto di aver percorso la strada del moderno oleodotto che va dal Persico all’Eufrate ed al Mediterraneo, e nella sua Anàbasi non se ne trova parola né egli vanta la proprietà intellettuale di quel progetto!
Tradizione e destino della comunità nazionale iraniana sembravano aver vissuto tutto il loro ciclo da quando l’orgoglio dei grandi Re, sapienti e sacerdoti, aveva dovuto piegare davanti alle armi di greci, di romani, di islamici, e di fronte ai moderni imperialismi russo ed inglese che si serravano come morsa spietata.
La comunità di vita economica era povera cosa da quando il contenuto non era la costruzione di enormi cinte urbane e di dighe sui sacri fiumi col lavoro dei milioni di schiavi. Paese con una densità di popolazione che non raggiunge dieci persone per chilometro quadro, privo, fino alla scoperta del prezioso minerale liquido, di ferrovie; la stessa agricoltura copriva piccola parte del territorio e vi aveva sovrapposto un immobile ordinamento feudale culminante nella monarchia e nello Stato, in quanto la zona semidesertica e sterile era ancora percorsa da tribù nomadi, non uscite dallo stato di barbarie, dedite all’armentizia ma incapaci di fissarsi in sedi stabili sul suolo inospitale. Nessunissima tendenza quindi ad una vita nazionale moderna, nessuna esigenza di costituzioni politiche nazionali come quella che provoca il sorgere delle forme moderne di produzione, dell’industria e del capitalismo.
Tutto è sopraggiunto, in pochi decenni, dal di fuori e dall’oltremare: la scoperta del liquido prezioso, la nozione che esso è utile come combustibile, la tecnica che consente di estrarlo, di purificarlo, di trasportarlo, di utilizzarlo, la rete organizzata per collocarlo venderlo e trarne profitto. Tutto ciò ha sconvolto il paese, ma non ancora e non certo in modo pari tutta la comunità nazionale. I rivolgimenti profondi si sono avuti sulla cornice costiera del fondo del Golfo Persico, lungo la quale sono geologicamente schierati i giacimenti, e che ha consentito agli stranieri colonizzatori e imprenditori di aprire porti e stabilire poco lontano raffinerie e depositi, mentre vi adducevano la imponente moderna flotta petroliera, con navi di tipo tutto speciale.
Mentre secoli e secoli non sono bastati a cambiare la faccia di regioni europee, mentre città antichissime come, poniamo, Napoli, che non trovano via e mezzi per menomamente modificare la vetustà della loro fabbricazione e il loro organismo anacronistico e malato di miseria, tutto è recentissimo in quelle agglomerazioni costiere, e gli affaristi o tecnici che vi arrivano in aereo pochi minuti dopo sbarcati in modernissimi aeroporti trovano, dove dieci anni fa forse il gregge calpestava la sabbia, alberghi di lusso, giardini, serre, luoghi di divertimento e anche di corruzione.
Gedda sulla costa araba del Mar Rosso, è uno di questi centri di sfarzo e di lusso febbrile. Si dice che l’affitto di una villa completa costi dieci milioni di lire italiane all’anno e molti le chiedano. E nei pressi della zona dell’Aramco: società del petrolio arabo-americana. Pochi chilometri entro la costa, si trova nient’altro che la Mecca, la misteriosa capitale religiosa dei maomettani, e non sappiamo quali reazioni si destino tra questa modernissima orgia di affari e di piacere, e la severa tradizione del profeta.
Questa nuova versione del diritto nazionale, esaltata nella disdetta del governo persiano all’Anglo-Iranian, merita di essere studiata dai marxisti.
Per le semibarbare tribù vaganti la terra non è ancora di nessuno, è una nutrice poco fertile e obbliga dopo poco a sloggiare per trovare altro alimento. Viene la civiltà, e le organizzazioni umane vi si fissano: la terra è del conquistatore, del Re. Passano i millenni e fino a tutto il tempo feudale la terra è ancora del Re, che ne investe i suoi generali e signori. La borghesia moderna unisce il suolo al capitale, fa della terra articolo di commercio e separa proprietà da sovranità. Nulla vieta che il proprietario di un certo tratto di terra sia cittadino di uno Stato lontano e straniero: avrà gli stessi diritti, la stessa tutela.
Fin da Marx sappiamo che i regimi borghesi non sono affatto alieni dalla nazionalizzazione della terra, che non comporta la collettivizzazione delle imprese e la fine del capitalismo.
La terra e il sottoterra diverrebbero una trama comune del monopolio che la borghesia imprenditrice mondiale esercita sui mezzi di produzione, e sui prodotti del lavoro sociale in tutto il mondo.
Che la nazionalizzazione iraniana del petrolio significhi vincolo al profitto ed extraprofitto capitalista britannico, e conquista per il benessere dei poveri lavoratori del petrolio o dei poveri contadini servi della gleba e pastori vaganti persiani, ecco l’immensa menzogna che l’analisi marxista deve sventare.
Per essa è fatto utile e rivoluzionario che chi sa, può ed è attrezzato a estrarre e sfruttare tecnicamente petrolio si installi oltre i mari ove il petrolio si scoprirà, ed il suo diritto deriva come tutti i diritti da forza e da risorse produttive ed economiche, ma non vale meno del pronipote di Artaserse o del primo ministro dello Scià, o del romantico pastore errante nell’Asia.
Non è consegnando i pozzi, perché si insabbino, ad un regime impotente, o passandoli ad altra occhiuta banda esercente, che si miglioreranno le condizioni delle masse povere persiane, ma con la lotta internazionale contro i centri di potere delle metropoli imperiali, cui si possono strappare le concessioni solo distruggendo quelle sul suolo delle contee inglesi o degli Stati americani, il cui complesso forma il potere politico capitalistico; e non già bloccando in compartimenti stagni l’intreccio grandeggiante della organizzazione mondiale del lavoro.