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PROFITTATORI DELL’ANTICOMUNISMO


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Profittatori dell’anticomunismo
Ieri
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Sul filo del tempo

Profittatori dell’anticomunismo

Ieri

La storica e classica polemica di Lenin e Trotzky contro i traditori della seconda internazionale stette alla base della costruzione della Internazionale Comunista e accompagnò la Rivoluzione Russa.

Questa il gigantesco fatto storico, il tremendo urto materiale di forze, che si manifestò nella organizzazione a scala mondiale del proletariato, si proiettò nella ricostruzione della dottrina rivoluzionaria.

L’opportunismo di tutti i paesi fu soprattutto personalizzato nel Rinnegato Kautsky tra i tanti social-sciovinisti di ogni nazione. È che fu utile colpire la degenerazione in quelli che erano stati i capiscuola della sinistra marxista, Carlo Kautsky in Germania, Plechanov in Russia, Mussolini, come capofrazione se non come teorico, in Italia.

Non era una questione personale di rivalità di capi, e nemmeno una disputa astratta tra studiosi, esperti nel bizantineggiare sui palinsesti delle biblioteche marxista. La quistione non era posta dalla fredda ricerca, ma da la viva storia. Nelle ripetute sferzate alla erudizione di Kautsky, Lenin non fa che mettere in rilievo che l’accusa non è di ignoranza, ma di falsificazione, di voluto occultamento delle tesi di principio del marxismo che quello aveva, cento volte ripetute, nel suo «schedario» di lavoro. E, ad esempio, nella spiegazione magistrale – contrapposta alla smaccata apologia della «democrazia pura» quale «tutela della minoranza» – della repressione e del denegamento dei diritti della classe controrivoluzionaria, aspetto essenziale della dittatura, Lenin pone in chiaro come questo non sia stato applicazione di un «versetto» dei sacri testi, ma risultato attivo della lotta storica.
«Come ho già indicato», Lenin scrive, «il fatto di privare la borghesia dei diritti elettorali non costituisce un indice necessario ed obbligatorio della dittatura proletaria».
Neppure in Russia i bolscevichi, che già molto prima di ottobre avevano proclamato la parola d’ordine di questa dittatura, non avevano parlato in anticipo della soppressione dei diritti elettorali per gli sfruttatori. Questa parte integrante della dittatura non è nata «da un piano» di un partito qualsiasi, ma è sorta spontaneamente nel corso della lotta.

I Soviet, ricorda Lenin, sorsero prima di ogni costituzione scritta, e per più di un anno non ne ebbero. La lotta stessa della borghesia per contrastarli, dopo la fase di alleanza contro lo zarismo, determinò la esclusione della borghesia da essi.

Dopo questa possente lezione della storia i rivoluzionari dei futuri periodi sapranno, anche prima della lotta, che la forma del potere proletario sorto dal violento abbattimento del potere statale borghese esclude da ogni facoltà, diritto, rappresentanza di individui, i «cittadini», i gruppi che socialmente sono borghesi e non lavoratori.

L’imbroglione Kautsky aveva cercato di travisare il senso della Dittatura proletaria in Marx. Si tratta di una parolina, ein Wörtchen, sfuggita al maestro e che i bolscevichi si sono fatti venire in mente! Nel 1924 Zinoviev, che con Lenin in «Controcorrente», fin dal 1915, avevano svergognato Kautsky, commise la colpa di dire che la disgraziata parola del «Governo operaio» non era che un sinonimo ed un pseudonimo della «Dittatura del proletariato», e sostituiva presso le masse slave la difficile parola latina.

Troppo tardi apparve a Zinoviev e agli altri che il gioco sulle paroline e gli pseudonimi preparava la totale, ultrakautskiana, diserzione dai principi oggi trionfante.

In Italia avevamo avuto il traduttore Cicciotti, altro già-sinistro, che nel passo in cui Lenin discute (dalla famosa lettera di critica al programma di Gotha) aveva fatto stampare così:
«Il cui Stato non può essere altro che la tattica (sic: il latinissimo Diktatur che diviene in italiano tattica!!) rivoluzionaria del proletariato».
Veggasi per credere a pagina 18, ultimo fascicolo del II volume, Ed. Avanti! 1914.

Una parolina! Si abbattono sul mistificatore le fondamentali opere «Stato e Rivoluzione»«La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky»«Terrorismo e Comunismo» – e diviene chiaro per i lottatori proletari di tutto il mondo che non è un dettaglio terminologico, ma il contenuto centrale della rivoluzione è in gioco.

«Presa alla lettera, la parola dittatura significa soppressione della democrazia». Fatta tale constatazione, il rinnegato tenta di trovare che l’impiego occasionale della parola si concili, in Marx, col presupposto del potere politico si debba ottenere solo «per consenso della maggioranza», come vuole la «democrazia pura», e che solo dopo si tratterà di dare un certo regime legale alla minoranza borghese, senza dimenticare il sacro dovere di «tutela delle minoranze»!

Non dobbiamo ripetere ancora una volta la dimostrazione di Lenin, anzitutto sul cosciente occultamento di cento altri passi di Marx e di Engels che martellano il punto della dittatura e la questione centrale dello Stato, per definire l’organismo non di tutela ma di repressione e quindi sul fatto che la spiegazione Kautsky elimina tutto il marxismo: non solo la storica necessità del «rivolgimento violento», ma la «lotta di classe», la spiegazione classista della società e della storia, la critica materialista degli istituti borghesi e dell’idealismo giusnaturalistico, che solo può condurre ad un obbligo di «rispettare» e peggio «tutelare» il nemico di classe, sia esso maggioranza o minoranza, sia in piedi o sia già abbattuto.

Il contraddittore aveva tentato di dire che la Comune di Parigi, della cui analisi e difesa Marx trasse la conferma storica della dottrina sull’impiego della violenza, la rottura della macchina legale dello Stato, la fondazione di un nuovo organismo di Stato proletario, era sorta da una elezione di suffragio universale! Ma Lenin lo sbaraglia sul terreno storico: che ci frega lo «stato giuridico» del glorioso potere dei proletari parigini, quando, nella realtà dal rapporto di forze
«il fiore della borghesia, il suo Stato maggiore, era fuggito a Versailles, e con essa il socialista democratico Louis Blanc; la Comune governo di Parigi combatteva, quale governo operaio della Francia, contro il governo borghese di Versailles. Che centrano qui la democrazia pura e il suffragio universale, quando Parigi decideva delle sorti della Francia? Allorché Marx deplorava che la Comune avesse commesso l’errore di non impadronirsi del tesoro della Banca appartenente a tutta la Francia, partiva forse dai principi e dalla prassi della democrazia pura?»

I comunardi non avevano scritta la tesi della dittatura del proletariato. Ma essi erano la dittatura del proletariato. Come i Soviet dell’Ottobre rosso furono la dittatura del proletariato; e la dottrina proletaria svolgendosi dal procedere storico potette scrivere per sempre quale è il programma del partito rivoluzionario marxista sulla questione dello Stato. È Lenin che per tutto l’avvenire, pur non misconoscendo mai l’analisi dei necessari precedenti trapassi, ci da le formule esatte.
«La dittatura è un potere che si appoggia direttamente sulla violenza, e non è vincolato da nessuna legge».
«Tutte le forme di governo sotto il capitalismo non sono che aspetti dello Stato borghese cioè della dittatura della borghesia».
«Ogni partito dominante nella democrazia borghese garantisce la tutela della minoranza unicamente ad un altro partito borghese».
«La dittatura rivoluzionaria del proletariato è un potere conquistato e difeso dalla violenza del proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da nessuna legge».

In questo era tutto.
Ma dopo, ignominioso, cominciò il rinculo.

La politica degli stalinisti, che tuttavia stampano i testi cui attingiamo, non si può definire diversamente che con le parole proprio di Kautsky, per stritolare le quali Lenin ha scritto tutta la dimostrazione, e meglio ha preso dalla storia rivoluzionaria la invincibile dimostrazione.

Ed eccole, le cominformiste parole di Kautsky.
«La dittatura del proletariato era per Marx uno stato di cose che scaturisce necessariamente dalla democrazia pura se il proletariato costituisca la maggioranza».

Oggi

Engels in una speciale situazione storica, quando il grandeggiante partito operaio tedesco, in assenza di una democrazia borghese radicale, aveva dinanzi a sé uno Stato dinastico tradizionalista, non ancora liberato dagli istituti feudali del primo ottocento che il ciclone mondiale dell’imperialismo disperse anche nel ricordo, ostile a riforme legale ed economiche, che oggi sono propugnate persino dalla cattedra di San Pietro, aveva scritto:
«Il suffragio universale è l’indice della maturità della classe operaia. Non può essere e non sarà nulla di più nello Stato attuale».
Lenin rinfaccia ai rinnegati che puntano sul primo verso del distico di aver sempre taciuto il secondo, e lo sottolinea.

I compagni bolscevichi russi, dopo aver dovuto assistere al dissestarsi delle masse popolari russe alla coca-cola elettorale di cui lo zarismo aveva costruita una secolare nostalgia (noi abbiamo la pestifera, nata dal ventennio fascista) dettero molta importanza a quello, tra gli altri indici. Grande importanza ha per un potere di fatto, dotato di armi non più solo dottrinali, ogni indice delle forze nel quadro mondiale dell’assalto rivoluzionario, da cui finché visse non distolse Lenin lo sguardo.

Udite ancora un altro passo conclusivo dello stesso testo, che è del novembre 1918. È un passo potente.
«La rivoluzione proletaria matura a vista d’occhio non solo in tutta l’Europa ma in tutto il mondo, e la vittoria del proletariato in Russia l’ha favorita, affrettata, appoggiata. Tutto ciò non basta per la completa vittoria del socialismo? Certo, non basta! Un solo paese non può fare di più. Tuttavia, per merito del potere sovietico questo paese da solo ha fatto tanto che, se anche domani l’imperialismo schiacciasse il potere sovietico russo, mediante un accordo, poniamo, tra l’imperialismo tedesco e l’imperialismo anglo-francese, anche in questo caso, il peggiore tra tutti, la tattica bolscevica sarebbe tuttavia stata di grandissima utilità per il socialismo, ed avrebbe promosso lo sviluppo dell’invincibile rivoluzione mondiale».

E cioè perché «il bolscevismo ha reso popolare in tutto il mondo l’idea della ‹dittatura del proletariato›, ha tradotto questi termini prima dal latino in russo (ahi, Gregorio!) e poi in tutte (corsivo di Lenin) le lingue del mondo».

Ahi di voi, proletari che seguite gli stalinisti, gonfi di idee e di termini democratici, progressisti, pacifisti e kautskisti, in tutte le lingue del mondo!

L’orgia dei risultati elettorali non serve più oggi di «indice» per misurare la possibile imminenza dell’attacco, dato che in altre situazioni abbia potuto a ciò servire.

La conta disgustosa dei numeri schedaioli oramai in pochi paesi può interessare gli stessi stalinisti, essendo chiaro che (a parte quelli della cortina totalitaria ove evidentemente gli indici non contano nulla: l’indice è che può oscillare tra diverse letture, non quando in partenza è fermo; su ciò non saremo noi a lacrimare; non ci servivano le unanimità fasciste dei si' per sapere che in Italia allora come oggi ditta la borghesia) solo un paio di Stati vi sono partiti stalinisti elettoralmente forti. In Italia abbiamo niente po’ po’ di meno che il secondo partito comunista del mondo, dopo il russo. Graduatoria si capisce quantitativa; e poi c’è quello di Francia, che non merita nemmeno l’aggettivo ex-comunista.

Ci hanno tante volte rotta la testa con l’ultima prefazione di Engels del 1895:
«siamo oramai ad una distanza dal potere che si può calcolare»,
e Lenin li aveva azzittiti per sempre, o almeno noi lo credemmo. Adesso saremmo daccapo. Fuori i diagrammi dei voti 1945–1951, e calcolate tra quanti anni si potrà prendere il vagone letto per il Quirinale o l’Eliseo.

Non occorre essere veggenti per escludere (per le due sorelle latine) queste varie prospettive: un pacifico accesso al potere dei cominformisti (dovevamo anzi cominciare: un accesso per forza di armi) per maggioranza di suffragio – una conquista per gli stessi della maggioranza di suffragio – una conquista di maggioranza di suffragio con blocchi elettorali in cui accedano altri partiti, tipo preteso governo operaio – un accesso ad alcuni posti di potere in governi di unione democratica nazionale che, come un democristo ha ben detto, hanno fatto il loro tempo.

In Francia vi è stato nelle elezioni generali politiche il regresso, sia pure non decisivo, nel numero dei voti assoluto e relativo. Poco importa il regresso molto maggiore nel numero dei seggi. Ciò che invece è decisivo elemento è la equivalente inverosimiglianza di un blocco parlamentare con qualunque degli altri partiti notevoli; socialdemocratici, democristiani, radical-borghesi o gaullisti.

Col moccolo elettorale nulla dunque da fare: Chanteclair non lo scambierà più per il sole che sorge. Certo i cominformisti hanno altri moccoli; ma appena si diffonderà la certezza che si è spento quello elettorale, sarà finita per loro, come logica conseguenza del loro metodo. E questo è fattore comune all’Italia. Dopo la bassa euforia dell’arrivo delle truppe americane, la spinta ad una ripresa di posizioni delle masse in patiti di rivoluzione o di semplice opposizione è stata deviata, al 999 per mille in un’ondata di capoccia di provincia e di rione verso il partito, o meglio la ganga, che «comanderà domani». La strada sarebbe stata sgombrata prima dai bombardamenti e dalle forze motorizzate, poi dal gavazzo elettorale e parlamentare: la dittatura nera aveva assetato quell’ambiente spregevole di successo personale e di potere. I vantaggi del nuovo stato ruzzolano dal supremo comando di occupazione giù giù agli ultimi chierichetti delle sacrestie periferiche. Mano mano che queste speranze di gustare i calici magari più piccoli evaporano si diradano gli effettivi.

Resta da fare il punto sull’indice italiano. A prima vista sarebbe più difficile, sia perché si incrociano le più contrastanti valutazioni, sia perché (non caviamo di tasca certo il fazzoletto) ci manca il dato di una consultazione alla scala nazionale. Parliamo forbito?

Ora vediamo un poco. Dopo l’esito abbastanza spassoso delle elezioni 1946 col famoso referendum per la repubblica che ci scappò per poco, nel 1948 guardando molto dall’alto il campo elettorale era possibile dire che giù per su un terzo delle forze le avevano i socialcomunisti, un terzo i democristiani, e un terzo tutti gli altri. Il risultato confermò il rapporto per la sinistra, ma ebbe un netto vantaggio la democrazia cristiana sfiorando la maggioranza assoluta. Che perciò? Era passatoi abbastanza tempo per deludere quel raro animale che è il medio elettore, non organizzato, non comandato e non commerciabile, a proposito della illusione che come legislatori, amministratori, e quanto di asinità e immoralità, i nuovi uomini fossero qualcosa di diverso da quelli fascisti. Ma tutti i partiti C.L.N. avevano governato ed erano, sotto questo profilo del malcontento sterile, alla pari, giocò il fenomeno per cui i voti vanno dove è probabile che siano molti, una «legge di massa» come quella per cui in economia e magari al tavolo della roulette il denaro tende a finire dove ve ne è già un bel mucchio. Il partito più quotato presso il nuovo padrone passò avanti.

Che cosa hanno detto le amministrative del 1951, tuttavia parziali? A parte la destrezza (quante diavole di volte avete tentato di farci capire che in politica la destrezza è tutto?) per cui a parità di voti i sinistri si sono visti togliere una serie straordinaria di posizioni locali, i «fortilizi» che si piangeva Serrati, pare che i voti cominformisti siano nella stessa misura di un terzo. Sono però saliti a scapito di quelli democristiani i voti dei partiti minori loro alleati e in ogni caso succubi degli americani, ed anche quelli dei partiti di destra: roba da poco.

Molto forti i socialcomunisti? Guardiamo per un solo momento l’indice prescindendo dalla qualità. Nelle elezioni del 1919 il partito socialista non era scisso: ebbe 156 deputati su 508: ebbe 1850 mila voti su 5800 mila votanti, ossia il 32 per cento. Nel 1921 la borghesia aveva presa una decisione offensiva, era avvenuta la scissione di Livorno. Su sei milioni e mezzo di votanti i socialisti ne ebbero 1570 mila; i comunisti 292 mila; i deputati su 535 furono 123 e quindici le percentuali di voti circa 24 e mezzo e 4 e mezzo per cento. Da notare che i popolari ebbero 108 posti e i fascisti, tanto vicini al potere, restarono in minoranza.

Il piccolo partito comunista formato di recente, e dedito alla politica rivoluzionaria a preferenza che le elezioni, aveva circa 40 mila tessere e elettori sette volte tanto: se è vero che oggi gli organizzati nel P.C.I. sono due milioni, restano pochi anche otto milioni di voti, tanto più se raggiunti in uno al P.S.I.

Non essendo dunque a parlare di un traguardo per un blocco che raggiunga il 50 per cento; e non volendo tenere in alcun conto del fatto che il fascismo prese il potere essendo ben lontano da tale maggioranza; considerando che l’azione popolare si minaccia solo laddove, avendo raggiunto alla Kautsky il 51, il governo si permettesse di non far «scaturire» il potere cominformista; i vari Nenni si danno a promettere alle masse la possibilità di un arrivo al potere (ciò in effetti significa promettere al chiericume la possibilità di una serie di posti di quarta fila alla greppia dell’amministrazione pubblica) con la bella formula di un’intesa con tutti i movimenti che in qualunque modo si collegano al popolo, socialpiselli, repubblicani e simili, come già è stato detto su queste colonne.

Ma se la sostanza fosse nella consultazione degli indici di elezioni, se le varie unità-elettori fossero eguali, mestier non era che Lenin gridasse a Kautsky: non potrai mai capire che lo sfruttato non è uguale allo sfruttatore! Dove comincia e dove finisce il «popolo», in seno all’elettorato?

Il senso dell’apparente estensione di influenza dei socialcomunisti dal tempo antifascista ad oggi sta nella serie incessante di passi indietro, nel successivo gettito di parti essenziali del programma di una volta. Non sono gli elettori che aumentano, ma il fatto è che il «tono» sociale e politico del movimento degrada a tappe successive verso strati sempre meno classisti e proletari. Tuttavia non si riesce nemmeno numericamente a passare lo standard del vecchio partito. Eppure questo, fino al 1919, respingeva radicalmente posizioni patriottiche, partecipazioni ministeriali, era più rigido assai dei cominformisti di oggi su tutte le questioni: sindacali, legislative, religiose, ecc. ecc.

Dopo il naufragio dell’indistinto pasticcione antifascista liberalnazionale (vantato come furbissima manovra per passare avanti agli altri partiti per meriti resistenziali e partigiani) allorché i nuovi eventi hanno condotto a segnare una linea tra ministeriali ed oppositori, i getti di zavorra sono stati incessanti per salire di quota.

Allora se il pallone opportunista gettando zavorra su zavorra non sale di quota, ma a stento la conserva, ciò vuol dire che corre al naufragio.

Anzitutto: via Livorno! e mano tesa non solo a Nenni, che al tempo di Livorno era conosciuto a qualunque frazione, bensì ai socialdemocratici di scuola turatiana che solo in seguito si vanno sfaldando. Eppure, in ben altra atmosfera, si resta all’altezza dell’indice elettorale 1921 dei gruppi corrispondenti. Ma ben altra zavorra si è gettata fuori bordo, per acchiappare i voti: si è stati ministeriali anche in tempo monarchico, si è amoreggiato con la religione e la chiesa, con la polizia e la giustizia. Si è fatto il blocco sindacale con quelli che erano una volta i «gialli» e i «bianchi»…

Anche dopo la rottura ministeriale, sindacale, diremo religiosa, poiché ogni tanto si prova a far fare al ciarlatano Nenni la mossa dell’anticlericalismo massonico (come lo si tiene adatto a fare a volta a volta quella sia dell’irredentismo triestino, sia del «neutralismo» 1914, sempre per raggiungere più ampi strati popolari) si è fatto ricorso ad altri gettiti: invito a pacifisti di tutti i colori, di tutte le classi, a borghesi benpensanti, bottegai, proprietari, agricoltori – e non basta; ad ogni passo dichiarazioni di distensione ripetuta offerta a sedere in poltrona di ministri…

Quando diviene zavorra il cibo, il vestiario, lo strumentario indispensabile (né alludiamo al farsi sequestrare i depositi di armi e bagnare le mai asciutte polveri), quando il successo si paga a così alti prezzi, l’indice che lo conferma, se non si è proprio fessi, dovrebbe salire almeno al settanta per cento.

Invece siamo sempre lì.

Prima della campagna elettorale, è tanto più se oggi siamo alla vigilia del mondiale Inno di grazie alla Pace, vedremo calare ancora altre brache.

Scommetteremmo che, scese queste sui talloni, l’indice delle grandi consultazioni a più del terzo non arriverà. Spettacolo non edificante.

Dopo questo poco di roba pare che il discorso, non pubblicato ancora mentre scriviamo, del capo comunista al comitato centrale abbia rilevato, dopo adeguato commento statistico, che «la polemica anticomunista cala di tono».

Bravi! Questa è l’ultima delle vostre disgrazie. I borghesi finiranno coll’ammettere che di rivoluzione e di comunismo in questi movimenti non vi è più nulla. In fatti, per le masse proletarie deluse, non vivono che come una vuota crisalide, luccicante degli insulti nemici.

Noi non siamo nemici della Russia, ma del comunismo: hanno detto i capi americani, o lo hanno fatto dire da MacArthur per essi.

Man mano che la Russia e i partiti cominformisti buttano via comunismo, e l’astro della pace si leva sull’orizzonte, il tono della polemica, con la sua strapotente regia intracontinentale e superoceanica si attenua.

Ed allora, libera caccia elettorale nel campo beota delle classi medie, e libera gara con socialdemocratici e social-cristiani o social-fascisti.

Ma la massa dei lavoratori finalmente riprenderà il cammino per tornare sulla via, la via di Lenin, quella della invincibile rivoluzione mondiale.


Source: «Battaglia Comunista», № 14, 11–26 luglio 1951

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