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OLIMPIADI DELL’AMNESIA


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Olimpiadi dell’amnesia
Ieri
Oggi
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Sul filo del tempo

Olimpiadi dell’amnesia

Il precedente «Filo», dal titolo «Politique d’abord», prese avvio da un vero olimpionico dell’opportunismo e del versipellismo, Nenni, dimostrando che ogni volta che imperiosamente si chiedono soluzioni «veramente politiche», la bigoncia da cui si lancia il grido stentoreo si ascende mettendosi sotto i piedi il bagaglio dei principii, che cento volte si conobbero e riconobbero, si professarono e confessarono. Tale sconcio avviene… nelle migliori famiglie; e proprio quando Pietro apostolo fremeva di insofferenza per decisioni grandiose, Gesù di Nazareth gli disse a voce pacata: prima che canti il gallo mi avrai tre volte rinnegato.

Non esauriamo il tema di dimostrare come il pomposo e vuoto «indifferentismo» tra le immani forze che si scatenano nelle guerre è stato sempre e decisamente condannato e scartato dai marxisti dell’ala rivoluzionaria, da Marx ed Engels a Lenin e alla sinistra del comunismo italiano ed internazionale.

L’enunciazione della ricerca del «male minore» o del «migliore risultato» per la probabile, ma non certa, guerra tra America e Russia non poteva recare sorpresa e riuscire nuova a chi fosse stato su quella linea; e se una improvvisa repulsa si leva, ciò non è che un ennesimo caso, dei mille e mille purtroppo noti, del guazzabugliamento dei principii e dei testi di base del partito, nelle svolte in cui si leva il famoso vessillo: «politique d’abord, politique surtout, rien que politique» traducibile come: anzitutto politica, soprattutto politica, null’altro che politica. Ed in questo senso spregiato ed antimarxista politica si riduce – mostrammo – a significare soltanto rivista di marionette-uomo, balletto degli alfieri che impugnano l’asta di quel vessillo nennifero, significa fare pipì sulle tradizioni del movimento e sui canoni della dottrina e della prassi edificati in una lotta secolare. Per gente di tal risma è follia guardarsi dietro; e il determinismo storico non ha maggior sugo di una partita alle carte in cui i rapporti di forze sorgono per la prima volta all’atto che i giocatori si spartiscono il mazzo. Le sfogliate precedenti non influiscono, e vanno totalmente dimenticate: l’amnesia è la dote suprema… a meno che addirittura taluno dei più sfrontati non si sia tenuto un asso nella manica.

Ô dunque il caso di ribattere con qualche altra citazione, voltando le vecchie carte che a tanti manigoldi impedimmo di rimescolare, negli anni degli anni.

Ieri

Per una chiara visione di quello che un uomo pensa nulla di meglio che le referenze della moglie. Quando poi si tratta della moglie di Marx nessuno avrà tanto perduto la memoria da non sapere che devonsi abbassare tutte le creste. Ebbene, ecco che cosa scrive l’intelligente, valorosa Jenny, in una lettera del 21 gennaio 1877 a Sorge. Era il tempo della guerra in Oriente tra Turchia e Russia, culminata nella grande vittoria ottomana a Plevna, dopo la quale le potenze capitalistiche europee intervennero per liquidare il pericoloso conflitto, che aveva ributtato indietro gli slavi dalla tentata conquista degli stretti, col Congresso di Berlino che sistemò i Balcani incendiari fino alle due guerre del 1912. Ebbene, il grande Carlo «tifa» maledettamente per un contendente, esattamente per i Turchi.
«Mio marito, anche lui, in questo momento è tuffato in pieno nella questione d’Oriente, è ‹higly elated› (Jenny scrive e sottolinea le due parole in inglese, nella lettera stesa in tedesco; il traduttore francese annota: molto esaltato; forse è poco, Marx era eccitatissimo, trascinato – lui, il freddo scienziato dei miei platoni!), higly elated, dunque, per il comportamento fermo e glorioso dei figli di Maometto di fronte a tutti i buffoni cristiani, e agli ipocriti denunziatori di atrocità – giusta i telegrammi di oggi i Russi (i civilizzatori, a dire di Gladstone, Bright e di tutti i Liberali, Pacifisti e Lealisti) sembra che vadano malamente volgendo le terga».

Chi potrà stupirsi che in una guerra del periodo moderno, dopo la Comune del 1871, Marx aspetti e invochi un rovescio della Russia zarista, ed esulti se le legnate le appioppa uno Stato poco avanzato socialmente e politicamente quanto il feudale Islam? Marx vedeva lontano, con buona pace dell’indifferentista, che non diagnostica nemmeno quanto ha rincagnato lo sprezzante naso.

Ammetteremo chi abbia ben costrutti timpani ad ascoltare questo brano, che è poco dir formidabile. Lettera del 1 settembre 1970: prima di Sédan
«Il comportamento pietoso di Parigi nel corso della guerra – la città continua dopo le spaventevoli disfatte a lasciarsi dominare dai mammalucchi di Luigi Bonaparte e dell’avventuriera spagnola Eugenia – mostra a quale punto è necessaria una lezione tragica per rivirilizzare i Francesi. L’attuale guerra conduce, ciò che quegli asini dei prussiani non sanno vedere, ad una guerra tra Germania e Russia, tanto necessariamente quanto la guerra del 1866 conduceva alla guerra tra Prussia e Francia. D’altronde, tale guerra n. 2 agirà come levatrice della inevitabile rivoluzione sociale in Russia».

Vi sono qui le seguenti deduzioni di avvenimenti sicuri. 1. Ulteriore disastro militare francese, che si ebbe poco dopo con la giornata campale di Sédan, e la resa a Metz dell’intera armata di Bazaine. 2. Insurrezione del rivirilizzato proletariato di Parigi contro Bonaparte e contro la classe borghese, che si ebbe nel 1871. 3. Assoggettamento dell’intera Germania alla Prussia, che si ebbe dal 1871 in poi. 4. Guerra tra Germania e Russia che tanti altri passi precisano come guerra contro slavi e latini, che si ebbe nel 1914. 5. Rivoluzione russa, che si ebbe nel 1917.

Due rilievi: le date non sono state previste, se la distanza tra la guerra austro-prussiana e quella prusso-francese era stata di soli 4 anni, e la guerra russa venne solo 43 anni dopo. Il marxismo infatti dà le combinazioni dei numeri senza… la data della estrazione alla ruota della storia; sarebbe molto comodo per il gioco degli opportunisti e dei carrieristi, che amano puntare su chi vincerà prima che essi siano crepati o decrepiti; mentre il rivoluzionario non chiede per tessera un biglietto di lotteria.

L’ultima parola del passo è «sociale». Fin dal 1848 Marx «punta» disperatamente sulla rivoluzione in Russia, e in diecine di passi la prevede. Rivoluzione sociale, non dice socialista, ma anche democratica e borghese. Questa bastava a Marx per uccidere il feroce «gendarme» dell’Europa. Quella socialista non poteva a suo avviso che essere europea: ben vero egli attese che la rivoluzione proletaria europea scattasse da quella tedesca borghese del 1848, e altrettanto i marxisti hanno fatto dopo il febbraio 1917 per la Russia. Qui, se viene tra i piedi uno dei poverelli che osano trattare, non diciamo dottrina, ma fraseologia e terminologia di partito in istato di ubriachezza (non dà in questo campo la sbronza soltanto l’alcool, ma anche la fregola reclamistica e il prurito di elettorato passivo), sentiremo sballare che rivoluzione sociale e rivoluzione proletaria è lo stesso. Vedendo doppio, egli crede che la rivoluzione capitalistica sia rivoluzione «politica», e non si avvede che il marxismo consistette tutto nel dimostrare che non vi è rivoluzione politica che non sia sociale, e se ne cade nel vaneggiare democratico o anarcoide senza avvedersene, come il vecchio sbornione bamboleggia in vagiti.

Ed infatti in Russia vi è stata e continua una rivoluzione sociale; solo che oggi continua solo come rivoluzione borghese, disfatta che fu la rivoluzione proletaria europea e russa insieme.

Demmo a suo tempo altre citazioni sull’attesa che la Rivoluzione Russa scatenasse quella comunista europea; oggi rileviamo solo una feroce battuta contro i rivoluzionari verbali che professano nella comoda Ginevra le dottrine del fu Bakunin, cianciando di buttar giù, di un colpo solo e nello stesso istante, Iddio, il Padrone, e lo Stato. Ô del 5 novembre 1880:
«Questi signori sono contro ogni azione politica rivoluzionaria. La Russia deve con un solo salto mortale balzare nel millennio Ateo- Comunista- Anarchico!».

Oggi, 1952, in Russia non sono antistatali ancora, e nemmeno comunisti, e tanto meno atei. Ma ciò non toglie, o vasta cerchia degli sgonfioni di tutti i settori, che i risultati storici di una «azione politica rivoluzionaria» stanno lì: oggi significano capitalismo avvampante in Moscovia e Mongolia, domani saranno piattaforma alla rivoluzione intercontinentale comunista.

Siamo scivolati su altro punto, che pasteggiando con troppi bicchieri non si smaltisce: il risultato positivo del grande capitalismo in Russia, ed il passaggio del comando della gendarmeria mondiale dai cosacchi agli yankee.

Torniamo a Marx, tifoso inguaribile. Ne fece una tanto grossa che se possedessimo «sensibilità politica» ci stenderemmo un velo prudente. Ma data la nostra deficienza in questo, «sbrovigniamo» il nostro don Carlo con le sue stesse parole. Un’altra volta ci penserà prima di scrivere troppe lettere, o almeno ci penserà chi campa tuttora.

Data: 27 settembre 1877:
«Ho intrattenuto, in incognito, un fuoco incrociato contro il russomane Gladstone nella stampa per bene (fashionable press) di Londra («Vanity Fair» e «White Hall Review» – come chi dicesse «Europeo» ed «Oggi») come nella stampa provinciale di Inghilterra, Scozia ed Irlanda, svelandone il civettare con l’agente russo Novikov, l’ambasciatore di Russia a Londra, ecc.; e lo stesso aizzando dei parlamentari inglesi della Camera Alta e della Bassa, i quali si batterebbero le mani sulla testa se sapessero che il Red Terror Doctor, come essi mi chiamano, fa da loro suggeritore nella crisi di Oriente».

L’amico Marx, mentre tramite un amico giornalista combina questo scherzetto, gode di essere chiamato Dottor Terrore Rosso; e vada anche questo a vergogna di chi lo pretende evoluto dal terrorismo giovanile al legalitarismo.

Il marxista si sollazza quando altri crede sfotterlo: udite quest’altro riferimento pieno di mordente bonomia, del 5 novembre 1880, a proposito del primo giornale marxista sorto finalmente in Francia («Égalité» di Guesde):
«Ad ogni modo, già gli anarchici denunziano i nostri collaboratori come agenti prussiani, sotto la dittatura del ‹notorio› agente prussiano, Carlo Marx».

Quando un corrispondente, cui Engels aveva dovuto somministrare il «cazziatone» del caso per certi giochetti di falso giornalistico, si permise di alzare il tono, il buon Engels scrisse questo solo (29 giugno 1883):
«Sch… mi ha dedicata una risposta dignitosa deplorando la mia meschinità. La dignità gli è andata bene: non avrà da me altre risposte».
Accantonato e via. Storia a ripetizione in tutti i tempi e in tutti i ranghi.

Tornando alla beffa giornalistica di Marx contro Gladstone e la sua sfacciata russofilia del 1877 (la borghesia inglese si rifarà con slancio nel 1914 e nel 1941; il grande capitale ha stomaco di bronzo e assimila i rospi di tutti i colori quando gli fa profitto), qualcuno troverà che non dovrebbe essere permesso. Oggi sarebbe roba da tirata di orecchi, certo; ma vi è stacco dal 1877 al 1952, e stacco da Carlo Marx a certa specie di fessi.

Per i loro loschi appetiti di affari i borghesi trovano utile sostenere la causa dello Zar assolutista, malgrado i loro ostentato liberalismo: ma naturalmente coprono i loro fini inconfessabili fabbricando una adatta retorica «crociatistica». Nulla di più facile in quella contingenza: la cristiana, civile Europa ripete dopo secoli ancora una volta la difesa contro l’assalto mussulmano del Sud-Est, e va magnificamente a cercare in discoteca l’inno di Stefano d’Ungheria santo e re, vincitore dei turchi. Tutta questa sporca retorica, del tutto analoga a quella che sarà spolverata per la violinata democratica contro Guglielmone e Adolfaccio, e domani contro Baffone, fa ribollire Marx come un vulcano, ed egli inchioda il ministro inglese alla sua contraddizione; non potendo dalla sua povera casetta fare partire crociate che facciano piazza pulita di zar, sultani e ministri malati di «idiotismo parlamentare», ad un colpo solo, non può che far voti ardenti perché le armate della mezzaluna facciano saltare la Santa Russia, e credendo di portare avanti il Corano combattano inconsce per il «Manifesto dei comunisti». Qui la potenza del vero senso dialettico nel rapporto tra ideologia e forza materiale, che, girando milioni di volte attorno alla luce troppo splendente, una serie di farfalloni non è stata all’altezza di affissare.

Pur il piccolo trucco nella stampa ammodo esprime la potenza di visione del maestro del Terrore rivoluzionario, che segnò la strada all’incendio rosso di domani, e chiamò avanti tutti i Barbari, che rechino colpi al fortilizio della civiltà, cui si levò dinanzi come primo Nemico.

Nel dire ora, con altri riferimenti ben noti, ed evitando di ripetere quelli suggestivi di Engels negli studi sulle guerre del 1855, 1859, 1866, che lo stesso Lenin sta in pieno sul terreno di Marx, ci troveremo a ribadire un altro punto, che si sperde quando infierisce quella tale amnesia da eccesso di bevute. Esso è il punto della necessaria alleanza politica insurrezionale tra proletari e borghesi, quando si trattò di abbattere i regimi feudali o impedirne il ritorno, dottrina che sta alla radice – sempre nell’orizzonte della rivoluzione proletaria internazionale – delle tesi nazionali e coloniali di Lenin, e che forma patrimonio manifesto del nostro movimento, come ricordato tra l’altro nell’articolo Oriente, in Prometeo del febbraio 1951.

Lenin scrive nell’agosto del 1915 il suo classico opuscolo sui Socialisti e la guerra, che incardina tutta la battaglia contro i traditori sciovinisti.
«La grande rivoluzione francese ha iniziato una nuova epoca nella storia dell’umanità. Da allora fino alla Comune di Parigi, dal 1789 al 1871, uno dei tipi di guerra è stato quello delle guerre a carattere borghese progressivo, di liberazione nazionale. In altre parole, il significato storico e il principale contenuto di queste guerre è stato l’abbattimento e la distruzione del feudalesimo, l’abbattimento dell’oppressione straniera. Esse sono state perciò guerre progressive, e tutti i veri democratici rivoluzionari, nonché tutti i proletari socialisti, durante tali guerre, simpatizzarono sempre per il successo di quel paese (cioè di quella borghesia) che contribuiva ad abbattere o a minare i pilastri più pericolosi del feudalesimo, dell’assolutismo e della oppressione di popoli stranieri».
E qui Lenin – si tratta di cose notissime, ma l’amnesia riduce il professore sbronzo a ricordarne meno dello scolaretto elementare – cita l’esempio delle guerre della Francia rivoluzionaria e napoleonica, e viene a quella del 1870:
«Nella guerra franco-prussiana la Germania depredò la Francia, ma ciò non cambia il significato storico fondamentale di quella guerra che ha liberato il popolo tedesco, cioè un popolo di diecine di milioni di uomini, dal frazionamento feudale e dall’oppressione di due despoti: lo Zar russo e Napoleone Terzo».

Naturalmente allora gli opportunisti cercarono di barare su questo scambietto: risultati delle guerre, politica proletaria in guerra; e Lenin in questo e in molti altri scritti dimostra come dinanzi alla guerra imperialista del 1914, questa sia
«una repugnante deformazione delle teorie di Marx e di Engels, a profitto della borghesia».
Lenin sa benissimo che è
«un fatto che Marx ed Engels, condannando le guerre, si posero nondimeno continuamente dal 1854–55 fino al 1870–71 e al 1876–77 dalla parte di un determinato belligerante una volta che la guerra era scoppiata».
Tuttavia Lenin ricorda come fin da allora Bebel e Liebknecht su consiglio di Marx ed Engels votarono contro i crediti di guerra, a differenza dei loro successori del 1914 al Reichstag, che in piena epoca imperialistica bararono sul fatto che la Russia feudale era tuttavia ancora in piedi, e se ne doveva desiderare la caduta.

Se ne doveva infatti desiderare la caduta, ma non per questo far lega a Berlino col Kaiser, mentre il rinnegato Plechanov faceva lega a Pietrogrado con lo Zar. Solo un borghese e un cretino, dice Lenin, non capiscono che in ogni paese i rivoluzionari lavorino alla sconfitta del proprio governo. E la storia ha dimostrato che questi possono cadere «uno sull’altro».

Ed infatti è documentato anche che nella guerra imperialista del 1914 Lenin optò per una soluzione. Naturalmente quando egli, d’accordo con la legazione germanica, salì a Zurigo nel vagone piombato, per tutti era «il notorio agente prussiano Vladimiro Lenin». Poi si capì se avevano visto bene gli agenti prussiani o l’agente rivoluzionario, e lo stesso si vide a Brest Litowsk. Russia e Germania andarono a gambe per aria, entrambe.

Quando invece nella Seconda Guerra Mondiale gli stalinisti danno la sbalorditiva parola: questa è guerra di liberazione nazionale! e ordinano il disfattismo a semplice effetto, che accade? I due gruppi nemici evitano di cadere uno sull’altro, e quello vincitore mette così potenti radici sul suolo vinto che oggi vanamente gli stalinisti stessi strillano: è troppo forte! è troppo cattivo!

Dunque, come Marx coniò e noi, solito, copiammo soltanto, la espressione di «miglior risultato» di una guerra, è Lenin che ci ha dettato quella di «minor male» nella soluzione delle guerre, ed anche si capisce di quelle moderne e squisitamente imperialiste, in cui è tradimento palese l’appoggio ad un qualunque governo belligerante. In un testo per il partito russo egli il 28 settembre 1914 dice:
«Nella situazione attuale non si può stabilire, dal punto di vista del proletariato internazionale, di quale dei due gruppi di nazioni belligeranti sarebbe un minor male per il socialismo la sconfitta». Dunque già sepolto l’indifferentismo i due esiti della guerra, a cui da ambo i lati opponiamo disfattismo e rivoluzione, se restano in piedi i poteri attuali, avranno però diversi effetti sullo sviluppo storico ulteriore: quale la soluzione più sfavorevole dal punto di vista rivoluzionario?
«Per noi socialdemocratici russi (il nome del partito non era ancora stato mutato) non può esservi dubbio che dal punto di vista della classe operaia e delle masse lavoratrici di tutti i popoli della Russia il minor male sarebbe la sconfitta del governo zarista».

Il 4 marzo 1915, in una risoluzione, Lenin scrive infine:
«In ogni paese la lotta non deve arrestarsi davanti alla possibilità che il governo del proprio paese sia sconfitto. Applicata alla Russia questa tesi è particolarmente vera. La vittoria della Russia porta con sé il rafforzamento della reazione mondiale, il rafforzamento all’interno del paese, ed è accompagnata dal completo asservimento dei popoli nelle regioni già conquistate. (1915: leggi Russia; 1952: leggi America!). Per conseguenza la sconfitta della Russia rappresenta, da tutti i punti di vista, il male minore».

Come Marx, vituperando il prussianesimo, vede una via alla rivoluzione nella vittoria tedesca sulla Russia zarista, così Lenin, schiacciando i servitori socialisti del Kaiser, ribadisce la medesima prospettiva.

Oggi

Dicemmo nel precedente Filo che la conferma di questi punti centrali era stata ininterrotta nel lavoro della Sinistra comunista italiana, ed anzi era inequivocabilmente contenuta in testi del 1945 che non sollevarono alcuna contestazione ed obiezione.

Dopo aver ora ristabilita la posizione di Marx e di Lenin, diamo qualche altro elemento per mostrare che l’indifferentismo legnoso che oggi da qualche parte ritorna a galla, alla maniera serratiana del 1920, non può basarsi che su una totale ignoranza dei precedenti del movimento. Ignoranza o dimenticanza; ed abbiamo per questo parlato di amnesia. Questa si inserisce nella serie penosa delle amnesie che si sono succedute nel corso del crollo della Terza Internazionale, quando si è fatta mostra che non si era nella fase imperialista, e che di nuovo, russi e americani alleati, combattevano contro il feudalesimo e l’assolutismo risorti, per fondare o rifondare democrazia e libertà nazionali.

Resta in questi casi il solo dubbio: amnesie inconsce, o amnesie volute? Ma i marxisti non fanno processi alle intenzioni. Quanto rise Marx di un tal critico, che condannò le sue teorie, ma concesse che in un quarantennio di propaganda rovinosa le sue intenzioni erano però state buone!

Abbiamo soltanto potuto affermare che sono amnesie da ebbrezza: ebbrezza per volontà di successo, di notorietà, di potere, di quella forma passiva di esso che è la candidatura. Non discutiamo dunque di candore: dialetticamente possiamo porre a proposito degli amnetici il solo quesito: dimenticano per aver bevuto, o bevono per dimenticare? In tal caso è ancor più crudele il rinfrescare loro la memoria. Comunque la diagnosi di amnesia è provata, per tabulas.

Nella Piattaforma della sinistra del 1945 vi è (Prometeo n. 6, pag. 265) il capitolo sul Ciclo storico del movimento proletario. Eccone un brano.
«I regimi dell’Asse… rivelarono la loro soggezione di classe e il loro timore reverenziale per il principio del capitalismo plutocratico e per le sue potenti cittadelle mondiali d’Inghilterra e di America, che avevano attraversato gli ultimi convulsi 150 anni di storia senza fratture nella continuità dei possenti apparati statali».

«Il nazismo volle ricattare gli agglomerati statali nemici, perché scegliessero tra il disastro militare e la concessione all’odiato concorrente imperialista di una adeguata quota dello spazio sfruttabile del pianeta (parentesi: in Lenin questa stessa valutazione spiega la Prima Guerra, ed egli dice: gli imperialisti tedeschi avrebbero subito liberato il Belgio ecc., se gli inglesi ed i francesi avessero diviso con loro le proprie colonie, cristianamente). Ma i capitalismi di Inghilterra (soprattutto) e di America subirono impassibili i rovesci militari della guerra lampo, puntando con incredibile sicurezza e malgrado la gravità del rischio sulla lontana vittoria finale. Tale fatto storico rappresenta uno dei più mirabili impieghi di potenziale attuati nel cammino della umanità, ma nello stesso tempo il più grande trionfo del principio di conservazione dei rapporti esistenti, e la più grande vittoria storica della reazione. Gli Stati dell’Asse… non tentarono di sommergere neppure il fortilizio inglese nella secolare metropoli (posteriori pubblicazioni hanno ribadito che gli Stati Maggiori tedeschi volevano e potevano; la politica si oppose). Il crollo di questa, come sentiva la borghesia ultraindustriale governante il paese di Hitler, avrebbe sommerso il capitalismo mondiale, ovvero lo avrebbe travolto in una crisi spaventosa, mettendo in moto le forze di tutte le classi e di tutti i popoli straziati dall’imperialismo e dalla guerra, e forse invertendo tremendamente le direttive sociali e politiche del colosso russo, ancora inattivo«.

La citazione è già lunga, ma altre se ne possono fare, ed esse svolgevano in modo così aperto la tesi della diversità di effetto dello scioglimento della guerra, che la cosa non poteva a nessuno sfuggire.

Ponendo quanto abbiamo ora riportato in collegamento alla citazione data nel numero scorso da un documento non meno impegnativo (n. 3 di «Prometeo»: «Le prospettive del dopoguerra») ricapitoliamo, dando per certa un momento la terza guerra.

Guerre 1, 2 e 3. Da ambo i lati del fronte la consegna dei partiti comunisti rivoluzionari è sempre: nessun appoggio ai governi, tutto il disfattismo praticamente possibile.

Guerra 1. Il migliore scioglimento per la rivoluzione è che vadano a gambe per aria la Russia e l’Inghilterra. Il primo punto andò bene, il secondo male; vittoria per il capitalismo.

Guerra 2. Il migliore scioglimento è che vadano all’aria Inghilterra ed America. Purtroppo non si è avuto: stravittoria per il capitalismo.

Guerra 3. Il migliore scioglimento è che vada gambe all’aria l’America. Taluno potrebbe allineare argomenti per la tesi opposta, che è meglio salti la Russia, dato che se l’America tiene il primato nel conservare capitalismo, la Russia lo tiene nel distruggere comunismo rivoluzionario. La prima dà ossigeno al paziente, la seconda immobilizza il suo marxistico «affossatore».

La tesi evidentemente cretina è: non importa niente chi vince.

Ed in conclusione, per la riprova che solo una amnesia, spontanea o artefatta, ha potuto condurre a mettere in circolazione certe balle, ricordiamo, senza citare, il «Tracciato di impostazione» dato nel n. 1 di «Prometeo».

A pag. 10 capoverso 4: tesi sul capitalismo di stato come pura forma borghese. A pag. 11 capoverso 5 e seguenti: tesi sulla alleanza tra borghesia e proletariato nella prima fase di lotta antifeudale. Ed anche a pag. 14 capoverso 11. Ed infine, mentre per la Russia può confrontarsi tutto il capitolo apposito della «Piattaforma 1945» che è nel n. 1 stesso, il punto 2 finale del «Tracciato» dice:
«Dichiarazione che il regime attuale russo ha perduto i caratteri proletari, parallelamente all’abbandono della politica rivoluzionaria da parte della Terza Internazionale. Una progressiva involuzione ha condotto le forme economiche, sociali e politiche in Russia a riprendere strutture e caratteri borghesi. Questo processo non viene giudicato come un ritorno a forme pretoriane di tirannide autarchica e preborghese, ma come il raggiungimento per una diversa via storica dello stesso tipo di organizzazione sociale progredita presentato dal capitalismo di stato nei paesi a regime totalitario e in cui le grandi pianificazioni offrono la via di imponenti sviluppi e danno un potenziale imperialistico elevato».

Se certo gli studi ulteriori in ben sette anni hanno potuto meglio presentare tesi già evidenti, ecco che anche nella lettera già qui si trovano le due tendenze dello sviluppo russo, entrambe verso una forma modernissima di capitalismo, una che parte dalle realizzazioni socialiste dei primi anni, l’altra dal generale feudalismo e asiatismo del paese immenso.

• • •

A che insistere? Per la moda pubblicitaria d’oggi è pover'uomo chi muove tra le sue tesi con circospezione e prudenza, e pure in un duro, assiduo lavoro di anni ripete ad ogni passo: non mi fregate: nulla da innovare.

L’uomo politico invece non si imbarazza di cose lette, dette o scritte negli anni decorsi: è sempre lì pronto ad edificare un sistema. Quando la febbre politica urge ne sfornano anche uno alla settimana: articolisti e teorici arrivano a frotte ad esercitarsi sulla «palestra» della stampa di partito, e a derisione di chi è rimasto al passo si esibiscono nel triplo salto mortale.

Rendano questi disarticolati omaggio al vero loro caposcuola: il Pietrone.

Non conosciamo troppo Stalin in veste di sfruculiatore. Sotto così folti baffi forse più che il ghigno del despota sta il sorriso dello sfottitore. Il Pietro di cui sopra ha raccontato lui stesso, alla fine dell’articolo sulla storica intervista: Stalin mi congedò battendomi sulla spalla e disse: avete scelto una buona causa, compagno Nenni, la causa della pace.

Non sappiamo in quale lingua parlavano, ma boja de signor in romagnolo significa questo. Siete, o compagno, uno dei più valenti sceglitori di cause, senza lasciarvi commuovere dalla cronaca di quelle che sceglieste ieri e ieri l’altro. Avete sempre scelto con gusto: la repubblica; l’agraria; il fascio; il partito socialista antimosca, il partito socialista promosca, la guerra numero uno, la guerra numero due. Adesso, da esperto piazzista, avete scelto un articolo di sicuro smercio: la pace. Congratulazioni a voi! Colpetto sulla spalla, ed assegno del premio della Pace.

E Pietro rientra radioso di gioia e di sapiente amnesia. Politique d’abord!

Rientra maestro, specchio e modello ai provetti dimenticatori di umili Prometei, di tediosi Fili. Che si abbuscheranno, i discepoli?


Source: «Battaglia Comunista», n. 16 del 1952

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