Due sono le costruzioni cui più supinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io.[1]
Se noi combattiamo ferocemente tutti i culti che si fondano su questi due oggetti di generale prosternazione, non assumiamo peraltro che si riducano a pure manipolazioni della fantasia umana. Sono costruzioni reali apparse nella storia, e che hanno avuto materiali effetti di ogni natura e di massima portata, e ciò vale tanto per le varie forme e tipi di Stati di tutti i tempi, che per i grandi Capi e Maestri di tutti i popoli e di tutte le epoche.
Quel che vogliamo stabilire è che, come la teoria marxista dello Stato, dopo aver sciolto l’enigma della dinamica di questo formidabile fattore, chiude col suo invio in pensione, un processo analogo avviene per l’Io, inteso come finora l’hanno inteso i filosofi, ossia non solo come il soggetto che si troverebbe eterno ed assoluto in ogni animale-uomo, ma come l’entità immateriale e imponderabile che anima l’Uomo con la lettera maiuscola, il grande duce, il grande condottiero, l’innovatore che appare ad ogni tratto della storia ufficiale.
Come lo Stato, anche questa «forma» del capo, ha una base materiale e manifesta l’azione di forze fisiche, ma noi neghiamo che abbia funzione assoluta ed eterna: stabilimmo che è un prodotto storico, che in un dato periodo manca; nacque sotto date condizioni, e sotto date altre scomparirà.
Marx annunziò allo Stato moderno la sorte di essere fracassato e ridotto in frantumi. Engels e lui stesso definirono la sorte dello Stato rivoluzionario, che gli seguirà, come una lenta sparizione. All’Io di eccezione spetta la stessa sorte; deperire, svuotarsi, sgonfiarsi, dissolversi (sich auflösen), estinguersi, spegnersi (sich auslöschen) come in Engels. Lenin ebbe un altro termine espressivo: assopirsi.
Collegandoci al precedente Filo sul «Battilocchio nella storia», vogliamo con questo stabilire e meglio chiarire, con motivi strettamente deterministici, come la funzione del Battilocchio (abbiamo così definito il Superuomo, l’Io extra misura, l’individuo «fuori classe») che ha fin qui avuta una meccanica effettiva, debba eliminarsi insieme agli altri caratteri delle società di classe con la rivoluzione comunista.
Assopimento dei grandi uomini! L’apostrofe quindi da rivolgere ai loro ultimi esemplari è quella classica: va’ te coccà! Battilocchi, a letto. Assumiamo tuttavia una differenza. La rivoluzione proletaria deve servirsi del duro e cruento arnese dello Stato di classe, e servirsene a fondo, con una dittatura la cui utilità è in ragione del proclamato impiego, non mascherato da menzogne di tolleranze e democrazie, prima che venga lo stadio in cui lo relegheremo, giusta Engels, nel museo dei vecchiumi. Ma dell’arnese Battilocchio, divenuto davvero sudicio e repugnante, possiamo liberarcene prima della caduta del capitalismo. Appena la classe proletaria appare sulla scena della storia, essa può e deve sostituire la «forma» del Capo con quella sua propria: il partito di classe. Perciò Lenin tante volte ricorda la frase del «Manifesto»: i postulati dei comunisti non poggiano affatto sopra idee o principii, scoperti da qualche rinnovatore della società.
Non fu il manifesto di Carlo Marx, o di lui e Federico Engels, fu il «Manifesto del partito comunista». Di lì, e senza battilocchi, muovemmo. Purtroppo ne piovvero da ogni lato, e al loro effetto, antiproducente in partenza, si devono i ripetuti rovesci; tuttavia inevitabili, perché ogni forma ha la sua inerzia storica, e quella dei battilocchi resiste più che le cimici al D.D.T., si acclimata con disperata virulenza ai più drastici disinfettanti.
In quanto la pratica funzionalità degli aggruppamenti di individui, che si vengono formando da quando la specie umana è apparsa, si ingrana sulla persona di un Capo, di cui tutti gli altri elementi accettano gli insegnamenti o eseguono gli ordini? Per il filisteo solito questo è un fatto «naturale», un rapporto che si stabilirebbe ovunque e in qualunque momento, perché immediato e necessario, anche se quel gruppo fosse depositato ad un dato istante in un angolo del cosmo da una nave interplanetaria, e lasciato a sé stesso: il Capo sorgerebbe; e poco importa se eletto da Dio, o dalle urne popolari, designato dal nome gentilizio o da una sommossa plebea, favorito dalla prestanza del fisico e dalla forza muscolare, o dall’astuzia e dal fulgore dell’intelletto; Davide o Gracco, Ivanoe o Masaniello, Orlando o Richelieu…
Noi, al solito, guardiamo alla successione storica e alle basi della produzione, tra le quali si inserisce il tipo di rapporti riproduttivi sessuali. Di queste trattazioni esempio più volte ricordato e classico è il testo di Engels sull’«Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato». Il quale, si intende, è un programma di partito per arrivare alla fine della famiglia, della proprietà e dello Stato, sicuramente prevedibili. Vediamo dunque un poco la dottrina della fine e dell’origine del Battilocchio.
Volendo studiare le associazioni di esseri viventi non solo è bene risalire alle bestie, ma perfino alle piante. La scienza moderna colla sua potenza di indagine, sebbene inesorabilmente accecata dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione entro artefatte frontiere, ha già un materiale di ricerca importante in questi campi. Sulla socialità degli animali è ormai costruita una scienza che nello studiare i rapporti tra specie e specie zoologica e tra le specie e tutto il naturale ambiente è per logico effetto divenuta una scienza storica, e segue lo spostamento, il diffondersi e il disperdersi dei vari tipi animali in varie plaghe. Ma anche lo studio della flora, come della fauna, colla presenza concomitante di date specie di piante a milioni di individui in vari luoghi e vari tempi, ha ormai determinata non solo una storia delle flore (tropicali, temperate, glaciali, ecc.) sulla superficie terrestre, ma una «fitosociologia», ossia una scienza degli effetti della «associazione» e della «organizzazione» delle piante sulle vicende del tipo individuale, e la sua evoluzione di forme e processi interni. È anzi notevole (ma argomento per altra sede) che proprio queste scienze tentano di costruirsi su teorie a fondamento matematico; il che farebbe scattare tutti i benpensanti all’idea del criminoso ingresso di metodi matematici nel prevedere fatti umani, spirituali, politici…
Ormai anche la natura inanimata ha una storia, e non alludiamo solo alla geologia, che registra le trasformazioni di minerali, rocce, magmi e crosta della sfera terrestre, nel corso dei millenni, e per tempi incalcolabili prima che la vita organica sia presente o anche alla prestigiosa astrofisica, che ha dato un’età alle «impassibili» stelle. La radioattività e la scoperta dei componenti del complesso che è l’atomo, mostrano che in date serie anche esso «vive» e muta la sua specie, da quello dei metalli più pesanti a quello dei gas più evanescenti. Questi trapassi hanno a loro volta leggi di successione obbligate, e se si è in sede «filosofica» ampiamente speculato sulla riluttanza di questo ordine di fenomeni a «lasciarsi prevedere», e la loro pretesa ribellione al causalismo determinista, che vige nel campo della meccanica, terrestre e celeste (del che anche in sede «Prometeo», sul tema: «Marxismo e teoria della conoscenza»), notiamo ora solo che Einstein annunzia di aver trovato le relazioni unificatrici di tutto questo – confessandosi determinista quanto noi marxisti – colla formula: Dio non gioca ai dadi. Formula che per i materialisti storici potrebbe essere: giochino pure ai dadi, se li sollazza, gli dei e i soprauomini, in quanto senza di essi si fa per le stesse vie e con la stessa metodologia la ricerca – aspra e dura che sia – delle relazioni tra elettroni, tra atomi, tra corpi materiali, tra piante, tra animali, tra uomini, e lo stesso processo immenso di vita e di storia raccoglie il tutto, e ne traccia certi grandiosi itinerari.
Nella vecchia polemica in difesa della monogamia – che Engels dimostra essere soltanto uno dei tipi di legame familiare, non solo contingente e passeggero come gli altri, ma proprio dell’epoca dell’attuale «civiltà» capitalistica, fondata sullo sfruttamento delle masse lavoratrici – al fine di esaltarla al tempo stesso come il solo tipo ideale e naturale di rapporto tra uomo e donna, oltre ad invocare le religioni (alcune) ed il diritto (ubi tu Caius…) si pretese che anche le bestie o almeno le più a noi vicine fossero monogame. Qui ci preme il quesito se tra i tipi di organizzazione delle società animali vi fosse la famiglia, e vi fosse una forma più vasta, comportante un capo o dei capi. I primi Battilocchi avevano dunque le corna? Così pare.
La forma animale di società più avanzata è l’orda. Poche specie si presentano con individui isolati, che a grandi intervalli si accoppiano con esemplare del sesso opposto. Ma anche allora, per i vivipari, o almeno per i mammiferi, un primo tipo semplice di forma collettiva è la nidiata, in cui la madre alleva e dirige i figli durante tutto il tempo in cui non sapranno da sé provvedere a nutrimento e difesa. Dopo di che ognuno se ne va a viver solo. Dato tuttavia che in molte specie il maschio resta a sua volta nel nido o nel covo, e concorre ad allevare e difendere la prole, si è voluto dare una base naturalistica al retorico assioma: fondamento della società è la famiglia.
La maggior parte, senza dubbio, degli animali, vive raggruppata in branchi, in greggi, in colonie, in sciami, e per i più avanzati parliamo dell’orda.
Nell’orda il commercio sessuale è libero, o nell’interno di essa vi è la famiglia, e perfino la famiglia monogama, ossia ciascun maschio adulto ha la sua femmina? Anche i fautori di questa tesi al tempo di Engels ammettevano che vi era contrasto di sviluppo tra famiglia e orda. Non appena passeremo alla specie uomo, vedremo la tesi di Morgan: la prima forma storica è la gens, ossia, per così dire, un’orda senza famiglie, e con libero rapporto sessuale. Salendo dallo stato selvaggio alla barbarie e alla civiltà, si stabiliscono successive limitazioni al legame sessuale. Mano a mano che la famiglia è più forte, la comunità diviene più debole, rotta da gare, rivalità, dissidi; l’egoismo e l’individualismo bassamente ingrandiscono, e si cominciano a ricoprire degli infiniti civili orpelli ed epiteti.
Tornando all’orda di animali, ad esempio di elefanti, di antilopi, di lama, ecc., è verosimile che regni una fraternità ed uguaglianza alimentare e difensiva che si accompagna naturalmente al libero accoppiamento tra elementi dei due sessi, e ad una comune protezione degli esemplari di tenera età del gruppo. Vi è un capo? Vi sono esempi di maschi adulti e particolarmente vigorosi, ed anche di maschi vecchi ma per la stessa lunga vita «esperti» dei pericoli e della ricerca di cibo, acqua, ecc. che fanno da guida, da avanguardia, talvolta dirimono a cornate lotte tra femmine o giovani esemplari… Non troviamo nulla in contrario ad ammettere che le naturali doti designino questo presidente dell’orda, il quale si addossa un compito oneroso e forse non prende la miglior parte del pasto e la più aggraziata delle femmine per sé. Vi sono tipi di società animali in cui la funzione riproduttiva designa il capo: la femmina nelle api, un maschio nei branchi in cui questo è solo, come tra i gallinacei, e il tipo sociale di base è una poligamia.
Il problema dell’assunzione di un compito speciale del capogruppo non si risolve dunque invocando il principio di autorità, la religione e l’etica, che anche i nostri contraddittori idealisti non introdurrebbero in campo zoologico, ma rivelando i dati del problema: provvista di cibo, difesa degli esemplari viventi dagli altri pericoli oltre la morte per fame e sete, perpetuazione della specie. Anche nelle più semplici forme di associazione di viventi, per minima che sia la funzione organica e del capo, questa va passata di generazione in generazione. Non vi è biblioteca, archivio, scuola, stampa, linguaggio nemmeno, eppure questa «consegna» in qualche modo avviene.
Questa tradizione (in senso proprio vale trasporto di qui a lì, trasmissione, consegna appunto) è in partenza un fatto fisico e sta alla base della naturale selezione, evitando qui i problemi fisiologici e la lenta modifica dell’organismo individuo in quella specie data. Se vi sedete a tavola con un intelligente pastore e non sapete che pezzo prendere dal piatto comune, egli vi dice: pecora avanti, capra indietro! Che significa? Non vi spaventate quando vien citato il pastore intelligente o il gran filosofo… sconclusionato.
La pecora bruca erbe che stanno al suolo e poggia tutto il suo peso sugli arti anteriori, che sono più muscolosi e carnosi. La ingorda e furba capra ama le cime di cespugli e arbusti e si rizza per prenderli gravando sul posteriore: quindi è magra davanti e grassa dietro. Senza dover compulsare manuali e fare corsi scolastici il capretto sa che deve mangiare ramoscelli alti, e l’agnello curvarsi sulle erbette. Nella costruzione marxista della teoria della conoscenza sono funzioni analoghe quelle del deretano caprino, e la consultazione dei «Prolegomeni ad ogni metafisica futura» di Emanuele Kant. Si tratta di saper leggere nell’uno e nell’altro testo, evitando di far questioni di… lana caprina. Probabilmente, come il caprettino e l’agnellino non saprebbero enunciare le applicate leggi di gravità e di adattamento selettivo, il gran Kant sapeva sillogizzare sulla ragion pura ma non scegliere il pezzo di abbacchio o di castrato: coscia o spalla?
Passiamo in piena storia dell’animale uomo. Le prime fratrìe, di cui altra volta riprendemmo l’elogio, in contrapposto alla società borghese e cristiana, da quegli autori non battilocchi che furono Fourier, Morgan, Engels (per tacere di Rousseau), non erano spezzate in famiglie, e tutto avevano in comune. Non concepivano soggezione di uomo a uomo, fino al punto che in caso di guerra tra l’una e l’altra gens i vinti venivano tutti uccisi, non essendo pensabile trarli in servitù né ammetterli nella tribù, senza la commistione del sangue. È solo alla fine della gran corsa, quando tutti i moralisti saranno al suolo, e i battilocchi con loro, che arriveremo all’umanità, unica gens comunista. Per ora teniamoci occupati a frayer le chemin, ad aprire la dura strada, senza fare stupide smorfie. Dove si ha da passare si ha da tagliare. Non vi è prova vivente della tribù con commercio sessuale indiscriminato anche tra le successive generazioni, ma è certo che tale primissimo stadio delle orde di uomini si verificò sia per analogia con gli animali tra cui nulla osta a tale pratica, sia per le tracce che si ravvisano nei miti e nelle letterature. Ma Morgan rintracciò tra gli indiani d’America (oggi ahimé infestati ed impestati dalla sifilide, dal whisky, dalla democrazia e dalla televisione) tutti gli altri tipi di convivenza, o almeno ne trasse genialmente la descrizione della struttura dall’insieme della curiosa terminologia negli appellativi di parentela: sono papà tutti gli uomini delle tribù, mamma è quella sola, e le sue sorelle sono zie.
Introdotto il solo divieto dell’unione tra ascendente e discendente rimane libero il commercio di tutti i maschi con tutte le donne e quindi (anche sotto il togato rigore romano: mater certa, pater autem incertus, latino buono anche per Renzo) il solo rapporto familiare sicuro è quello tra i figli e la madre, cui fa capo tutta l’autorità. La donna della generazione più anziana è al vertice della discendenza. Appare logico che convivendo i giovani dei due sessi con la madre sia questa ad avere il «deposito» della tradizione da trasmettere di generazione in generazione. Questo era anche per l’animale, ma un mezzo potente si è aggiunto: il linguaggio articolato (v. «Prometeo» n. 2, prima serie: «La genesi delle idee»). Forse la madre o la nonna di più alta e suasiva voce, la più eloquente, era la maestra e consigliera di tutti. Tutte le letterature serbano traccia di questo stato sociale, detto matriarcato, o ginecocrazia, in cui riteniamo che tutto andava per il meglio. Questo sistema di rapporto riproduttivo e di organizzazione sociale spontanea e comune, senza vestigia di diritto di proprietà e di servaggio, fu anche degli antichi Germani e popoli del Nord. Marx rimproverò Riccardo Wagner di grave errore storico, per aver fatto proclamare ai personaggi dei Nibelunghi l’orrore dell’incesto tra fratello e sorella, che invece non era reputato immorale nelle stirpi prime. Del resto nella mitologia classica Giove sposa la sorella, né poteva andare la cosa altrimenti partendo noi tutti da Adamo ed Eva.
Non qui dobbiamo seguire la serie dei tipi di famiglia, ove progressivamente un costume positivo vieta le unioni tra germani, pure essendovi matrimonio tra un gruppo di maschi ed uno di femmine, non consanguinei che oltre il secondo grado.
Qui ci occupa la dirigenza delle organizzazioni umane, e non nascondiamo una larga simpatia per i tempi del matriarcato. Udite la descrizione dei costumi degli Irochesi Seneca, che il missionario Arthur Wright frequenta in tempo moderno, e spassatevi alle spalle del moderno barbassoresco capofamiglia borghese. On les aura, di bel nuovo:
«Le donne prendevano i loro uomini dagli altri clan. Abitualmente la parte femminile dominava la casa. Le provviste erano comuni, ma guai al disgraziato marito o amante troppo pigro o maldestro nel portare la sua parte alla riserva comune. Qualunque fosse il numero dei figli o delle figlie o delle cose da lui personalmente possedute nella casa, in un qualsiasi momento poteva aspettarsi di ricevere l’ordine di far fagotto. Non poteva tentare di resistere, la vita gli era resa impossibile: doveva tornare al suo clan di origine ovvero trovare… matrimonio in altro clan. Le donne erano nei clan, e ovunque, la grande potenza. All’occasione non esitavano a deporre un capo e degradarlo a semplice guerriero».
In questa società è la donna che trasmette il nome alla gens ed alla prole, ed è la donna che può fondare sola una gens nuova.
Qui non incontriamo dunque ancora in circolazione la specie battilocchius clarissimus. Qui non viene ancora tra i piedi il Superuomo. Tutt’al più la Superdonna: essa ci dà meno fastidio perché ha un bilancio materiale e palpabile: generazione e addestramento di produttori. Non ad Essa dunque poteva mai andare – è del tutto evidente – la messa in mora data in epigrafe.
La constatazione scientifica di questi primi stadi della società umana: senza famiglia, senza proprietà privata, senza Stato, e, abbiamo aggiunto senza nulla scoprire di nuovo, senza grandi Capi, dette subito molto fastidio alla scienza borghese, che si preoccupò della formidabile costruzione materialista elevata su tali basi. Analizzata, da quel primo punto di partenza dello stato selvaggio superiore, l’apparizione al tempo stesso della famiglia patriarcale poligama e poi monogama, base della proprietà fondiaria privata, della schiavitù, e poi del servaggio e del salariato; e al punto di passaggio tra lo stato di barbarie alle prime civiltà la comparsa dello Stato politico, si avevano le premesse per calcolare, sulle orbite della storia, e grazie alla teoria del determinismo economico e delle lotte di classe, la caduta di tutte queste forme, che l’attuale regime esalta in continue apologie.
Ed Engels rileva che già allora
«era diventato di moda negare quello stadio iniziale della vita sessuale dell’uomo».
Ciò non è oggi meno di moda, che sforzi giganteschi sono stati fatti per riportare la scienza del processo sociale alle vecchie dande creazioniste ed idealiste e alle forme immanenti di regole di comportamento (diritto, morale, attributi della persona umana, e simili).
I superficiali quindi anche in questo campo alzano le spalle ai dati di informazione allineati nel breve testo di Engels, sulle scoperte essenziali fatte presso vari popoli semibarbari e semiselvaggi: in Polinesia, in Asia Centrale, nei paesi artici, ecc. Costoro hanno bisogno di qualche notizia «aggiornata». Vediamo dunque qualche risultato posteriore ad Engels, per quanto quella fosse chiaramente questione giudicata, come tutte le altre del marxismo, non occorrendo materiale di conferma.
Una notizia di queste settimane dice che in piena U.R.S.S. è stata recentemente trovata una popolazione priva di contatti col mondo da secoli e secoli, chiusa tra le catene dell’Elbruz e del Casbek, nel Caucaso. I russi starebbero costruendo una strada per raggiungerla e «civilizzarla» (quella tale rete del mercato interno, che per la prima volta tutto rinnova). Vivono su case alte senza scale e vi salgono con una pertica (ideaccia per Le Corbusier!), non conoscono scrittura; ovviamente gli anziani istruiscono i giovani. Ma non sono loro i capi.
«Assai più conta l’autorità delle donne che hanno spesso più di un marito, come quelle di certe regioni del Tibet, ad esempio, ove ancora si pratica la poliandria e il matriarcato e in cui la gelosia è totalmente sconosciuta (Cfr. Engels: se un fatto rimane ben certo è che la gelosia è un sentimento sviluppatosi relativamente tardi: risposta all’argomento che i maschi animali sono gelosi, mentre si tratta solo di lotta per potersi unire alla sola femmina cercata, al dato momento, da più maschi, e che ne accetta uno solo, cui pose fine la comunità ordinata nella gens). Può capitare a chi viaggia in quel paese di ricevere, come il Kim di Kipling, offerte di matrimonio o di concubinato…».
Questo popolo non diretto da battilocchi avrebbe avuto contatti coi crociati nel Medio Evo; esso intelligentemente rispetta le condizioni del vivente lavoro: fa festa, pure essendo idolatra, il venerdì per Allah, il sabato per Jehovah e la domenica per il Cristo, il lunedì poi riposa per conto suo. Sta fresco, appena lo stakhanovizzano!
Questo articolo di terza pagina sembrerà poco serio, ed allora citiamo uno studio del 1953, veramente magistrale, del professore giapponese K. Numazawa dell’Università Nanzan di Nagoya. Egli esamina una serie di miti in cui si ha un contenuto comune: la separazione del Cielo dalla Terra, su cui primieramente premeva. In questi miti vi sono suggestivi tratti comuni, che si estendono alla versione biblica e alla mitologia greco-romana, ma che soprattutto sono paralleli per varie zone e popoli dell’Asia Centrale. Dopo il sollevamento del cielo, appare la luce del sole. Per lo più una donna compie questa liberazione, una donna che macina il riso con un pestello o lavora all’arcolaio, nel che era impedita, come schiacciate alla terra erano le mandrie di vacche e porci. Il Numazawa, che forse non si dichiara marxista, ma lo è quaranta volte di più di quelli che tali si proclamano, dopo questi dettagliati riferimenti dà l’interpretazione del mito nei due (inseparabili) campi della produzione e della riproduzione sociale. Il mito esprime il costume del «matrimonio di visita» in cui l’uomo visitava la donna, giaceva con lei la notte, e poi perduto ogni diritto all’alba partiva. La donna è la terra che da sé rimuove il cielo all’apparire del sole e della luce. Produttivamente siamo ad uno stadio in cui prevale l’armentizia e la prima agricoltura consiste nella coltivazione del riso.
«I miti hanno semplicemente trasferito ciò che avveniva al mattino di ogni giorno di lavoro al mattino dell’universo, alla sua creazione».
«I miti esaminati sono prodotti delle sfere di cultura matriarcale».
Ed infine il citato autore mostra la coincidenza geografica di massima dei numerosi miti studiati con la sfera di cultura matriarcale che risponde in origine ai versanti orientali dell’Himalaya solcati dal Gange, dal Bramaputra e dall’Irauadi. Non sapremmo trovare un migliore saggio di metodo materialista, dottrina che l’autore non menziona, limitandosi a discutere con scientifico rigore e solida conoscenza il suo tema, che indica come Background, ossia retrostruttura, sottostruttura dei miti della separazione del Cielo dalla Terra.
Urano, dio del Cielo, costringeva la moglie Gea, la terra, a tenere la prole soffocata nelle sue viscere. Gea fece venire alla luce Saturno, o Cronos (il Tempo), e questi per cominciare a scandire il suo ritmo colpì con una acuminata falce il genitore. Il lavoro, come quando Eva addentò il pomo, e l’amore, ebbero inizio, e Cronos potrà segnare il momento in cui la nuova Gea, la Rivoluzione, solleverà il cielo sinistro degli oppressori di classe, dei ladri di lavoro e di amore.
La serie dei Battilocchi comincia da quando una complessa rete di possessi fondiari, di schiere di schiavi, di eserciti in armi, rovinato il comunismo primitivo e il matriarcato, deve tradurre il suo meccanismo da una generazione all’altra, e per tanto fare abbisogna di un centro, di un vertice, di una passerella di comando, di sinedri in cui si faccia la consegna delle chiavi e dei segreti di dominio. Qui l’uomo di eccezione viene sulla scena e comincia a rappresentare la sua parte, indubbiamente al principio insostituibile.
Fin che funzione preminente è la difesa e la lotta materiale contro pericoli ed aggressioni, è chiaro che basta per capo quello più alto, dai muscoli solidissimi e dal cuore a battito formidabile; e basta a questi scegliere un giovane successore cui trasmetterà l’arte della lotta, del tiro dell’arco e della scherma. Al cospetto dei battilocchiali delusi Proci, Ulisse prova sprezzante e senza favellare la sua identità flettendo come fuscello il suo colossale arco. Stessa prova darà il figlio Telemaco, e quelli volgeranno le terga senza tentare la zuffa.
Ma oggi abbiamo la scrittura, la stampa, l’anagrafe e lo schedario della pubblica sicurezza – id est, lo Stato – e basterà ad un qualunque mozzorecchi cavare il portafoglio e sfilare la carta d’identità, senza aver menomamente a competere col possente Ulisse, e nemmeno per la sua proverbiale furbizia.
Ulisse non disse, precedendo Luigi XIV: lo Stato è il mio tricipite. Ma lo Stato apparve (Engels) presso gli Ateniesi con il potere che passa dalla agorà, assemblea di tutto il popolo (schiavi esclusi) al comandante militare o basiléus, che significa re: si tratta tuttavia di un re eletto e di un generalissimo eletto, e non ereditario. Solo dopo appaiono le oligarchie e le autocrazie. Mano a mano che la macchina diventa più poderosa, diviene però più facile fare il macchinista, a trovare il macchinista. Con la scrittura e le scuole è nata la scienza che è anche scienza del governo: i mezzi e i metodi sono racchiusi nelle costituzioni e nelle leggi: Solone e Licurgo restano altrettanto famosi dei grandi capi di Stato e di eserciti.
Non è certo pensabile dare una traccia di tutto il cammino, che mano a mano toglie questo onere formidabile del «cambio della guardia» dalla testa di un solo uomo, che davvero doveva avere una memoria ad alto potenziale. Oggi la consegna di un ministero si fa in dieci minuti, e qualunque battilocchio passa con sicumera, poniamo, dall’Agricoltura alla Marina, come nulla fosse. Ci sono degli archivi, i segretari, gli esperti, e giù giù fino alle dattilografe e alle calcolatrici.
Lo stesso accade nel campo della cultura e della scienza. Pitagora passò per un ispirato che parlava con la divinità e la sua tavola oggi la sa un bambino di cinque anni, il suo teorema uno di dieci. Anzi lo sanno tutti quei bambini. Galileo diventò matto a scorticare cuticagne aristoteliche per cui i gravi scendevano più presto quanto più pesavano, ed oggi la legge che scendono tutti al paro la sanno in prima liceo. E via, via, via.
Abbiamo poi le calcolatrici che non solo sostituiscono la tavola pitagorica e le operazioni aritmetiche, ma eseguono le integrazioni e differenziazioni, che tre secoli fa erano in Europa alla portata di due sole teste: Newton e Leibniz. Oggi sono alla portata del fesso comune. Anche le scoperte non sono più opera di singoli, ma di complesse organizzazioni di studio, ricerca e sperimentazione, cui i mezzi possono essere solo dati da capitalisti o da governanti, anche perfetti asini nella materia.
Se il monaco Schwarz – forse non è nemmeno esistito – era solo quando gli scoppiò il mortaio con salnitro, zolfo e carbone, all’invenzione della polvere, non è così andata per la bomba atomica, il cui meccanismo di azione non si basa su di un principio unico trovato da un solo scienziato. Se vogliamo, l’inizio del fatto che si possono staccare parti di atomi e farle viaggiare risale ad un cinquantennio fa ai tubi di Crookes ed alla constatazione più vecchia che la scarica elettrica traversa i gas estremamente rarefatti determinando diversi tipi di radiazioni, tra cui i raggi X, che sono dell’altro secolo. E se vogliamo, tutta l’indagine sulla costituzione complessa dell’atomo si fonda, prima ancora della scoperta del radio di Curie, sul sistema di Mendeleieff che fece ritenere che gli atomi dei vari elementi fossero fatti con qualche cosa di comune in dosi progressive, ipotesi poi che risale a Proust al primo Ottocento, quando Lavoisier lanciò l’ipotesi atomica come spiegazione dei fenomeni chimici. L’intuizione di questa risale agli atomisti greci come Democrito, Leucippo, Epicuro. Presto sarà mostrata leggendaria per il novanta per cento la storia delle invenzioni, nel suo legame a nomi singoli anziché al processo della tecnica svegliato dalle esigenze produttive.
Torniamo ai capi di Stato, uomini politici, condottieri, e se volete ai capi rivoluzionari. Fino ad oggi hanno avuto una parte negli eventi, se pure sempre riferita in modo più che distorto ed iperbolico. Tale parte non è quella di una causa primaria, di un primo motore; e non costituisce condizione necessaria, ma forse la costituì quando barbare orde furono condotte attraverso intieri continenti spostando al ciclo storico i tempi e i luoghi sotto la spinta della ricerca, non di gloria, ma di ricchezza e di cibo.
Tale parte sempre più si restringe nella diversa scala dei valori in cui si possono schierare i pugilatori e i docenti di storia della filosofia; gli estremi di efficienza sempre più convergono ad una media comune, sol che ai primi si ponga a disposizione un mitra, ai secondi una buona biblioteca.
La cosa non è diversa per il capo politico: siamo anzi arrivati al punto che quelli che vogliono fare miglior carriera se hanno qualità di rilievo le smussano e non le impiegano. Alcune volte tuttavia la storia mostra di avere un protagonista, e alcune volte ancora il suo nome diviene noto all’universo mondo, benché tale identificazione non cambi nulla, e in dati casi sia un ulteriore impaccio ed un guaio nero, come per i movimenti rivoluzionari mostrammo.
Questo singolo individuo scelto nella massa della specie può in partenza essere uno qualunque.
Nell’innesco della bomba atomica avviene questo. Si è capito che un atomo, per quanto piccolissimo, non è indivisibile, ma si compone di più particelle ancora più evanescenti. Sotto l’azione, per farla breve, di una potentissima scarica elettrica, in cui si riesca a concentrare tanta energia quanta il contatore di casa ci farebbe pagare a milioni di lire, da quest’atomo è staccata una particella (protone, neutrone nel caso più ovvio nucleo dell’atomo minimo, quello di idrogeno) e lanciata nel turbine elettrico contro un altro atomo, di cui si produce la violenta improvvisa rottura. La rottura vuol dire che le particelle di tale atomo a loro volta se ne vanno a velocità spaventose contro altri atomi, a loro volta rotti e suddivisi nei loro componenti: si produce allora tanta energia (contenuta prigione negli atomi che parevano inerti) che il contatore la pagherebbe a milioni… di dollari. La bomba è scoppiata. Nello stesso istante praticamente si è avuta la reazione «a catena», per cui ogni atomo fatto saltare ha scatenato quelli vicini.
L’atomo-battilocchio, da cui prima si è preso e svincolato il nucleo sotto l’azione della scarica a milioni di volts, superiore per potenziale a quella dei fulmini del sollevato cielo, poteva essere uno qualunque.
Vogliamo dire che, come tutti gli atomi sono identici, per una stessa specie chimica, così tutti gli individui della specie umana sono identicamente conformi? Evidentemente no, ma il nostro paragone ha voluto solo dire che, al grado attuale del corso storico, il compito del Capo è tale che si tende sempre più a poterlo assolvere scegliendo, come nel ciclotrone, un atomo qualunque quale primo atomo della catena.
È chiaro quindi che lanciando la storia, quando il suo ciclotrone sia carico nel suo perfetto isolamento (oggi il potenziale sta a terra per una serie di dispersioni da corruzione opportunista dell’isolante di classe – il vero problema tecnico del ciclotrone è stato non la massa enorme di energia ma proprio l’isolamento), l’invito agli uomini, per sapere chi vuole presentarsi a fare l’atomo fissore, risponderanno ansiosi tutti quelli che farebbero tanto bene da atomi fissi.
Fisso non sta qui per immobile, ma per «fenduto», spaccato, e in buona lingua: fesso.
Notes:
[prev.] [content] [end]
La frase è stato corretto 2018, a causa di un errore di stampa, come sospettiamo, trovato nel giornale di 1953: c’era scritto, invece di «supinamente», «suinamente». Ci sono compagni, però, che pensano che questo sia un gioco di parole di Bordiga.[⤒]