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IL DISASTRO CALABRESE, O LA COLTIVAZIONE DELLE CATASTROFI
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Il disastro calabrese, o la coltivazione delle catastrofi
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Il disastro calabrese, o la coltivazione delle catastrofi
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L'episodio ignobile del ripetersi sull'estrema Calabria, a due anni di distanza, di un sinistro che ha lo stesso procedimento, le stesse cause e gli stessi paurosi effetti, con gli stessi atteggiamenti di stupore, di ipocrita condoglianza e di stucchevole carità da parte della stampa e di tutta La «opinione» per poi passare, a cose raffreddate, alla stessa strafottente impotenza non ha affatto cause fisiche, ma soltanto cause sociali.

Il cielo, per luogo comune più sereno e bello del mondo, non avrebbe più il diritto di fare un po' d'acqua, il padreterno di aprirne le cataratte, e il papa di lasciar piovere, come nella saggezza dei nonni, quando piove?

Quando poche nuvole passano davanti al nostro ossessionante sole, come mai è previsione sicura che le fognature delle città andranno a rigurgito infangando, infettando e scalzando tutto, i fiumi tracimeranno e gli argini si apriranno, dai fianchi dei monti e delle colline fiumane di melma, travolgendo abitazioni ed impianti, rasperanno la poca terra vegetale che andrà a rendere limaccioso e buio il mare azzurro e limpido, nei cui fondali il navigatore millenario scorgeva i riflessi dei corpi delle Sirene?

Il grosso pubblico è convinto che o il volere di corrucciate divinità, per la inaudita perversione di una umanità drogata ed ebbra, o l'effetto delle prove sulle armi atomiche, svolta in ordine sparso per i continenti e gli oceani, abbia fatto sì che oggi le precipitazioni e le meteore siano decuplicate rispetto ai tempi di Saturno, di Ulisse o di Franceschiello di Borbone.

Nulla di tutto ciò. Le statistiche meteorologiche, le poche che fino ad ora non si ha interesse a manipolare, mostrano che le precipitazioni incriminate rientrano nella probabilità normale e non superano quelle che una volta si incassavano senza danno.

Facili considerazioni di energetica mostrano che le bombe atomiche, per carognesco che sia il provarle per poi applicarle all'umano carname, fanno all'involucro atmosferico del pianeta, nella sua massa e nel suo potenziale, l'effetto che farebbe il sospiro di una pulce posata sulla groppa di un rinoceronte.

La spiegazione è quindi che, nel tempo in cui il massimo bacchico furore pubblicitario è scatenato ad esaltare il progresso della scienza e della tecnica, l'effettiva attrezzatura ed organizzazione delle generali reti di servizi con cui il formicaio degli uomini tutela il suo soggiorno sulla crosta terrestre, è in indecente regressione.

Le nuove risorse se sono, in senso anche relativo al numero dei viventi e alle loro esigenze, maggiori delle antiche, sono sempre più indirizzate non alla sicurezza dei tutti, ma alla raffinata fregagione dei più.

L'ingranaggio e la prassi della pubblica amministrazione, con la pletora di personale e il crescente attrito degli intricati ruotismi, sempre più aumentano la loro inerzia passiva, e sempre più diventano adatti a cedere ad esigenze non di natura collettiva e «morale», ma solo derivate da appetiti di speculazione e da manovre dell'iniziativa capitalistica.

Ciò non deriva dal fatto che il capitalista sia divenuto più negriero e il pubblico impiegato più venale, ma dalla legge del corso storico, ed è una prova che una rivoluzione sociale incalza. E se la rivoluzione incalza, e tuttavia non è vicina, gli effetti di una simile schifosa situazione su due o tre decenni che dobbiamo vivere così, non faranno che svilupparsi clamorosamente in tal senso.

Funzionari colti ed intelligenti (ne resta qualcuno) vi diranno subito: davanti a un problema qualunque noi siamo praticamente impotenti, e sappiamo solo dirvi le centomila ragioni di legge, regolamento, prassi, procedura, bilancio e contabilità per cui non sarà risolto, o comunque tocca a ben altri risolverlo, chiudendovi facilmente la bocca. Ma se ci chiedete di fermare un qualche cosa che stentatamente un altro ramo dell'amministrazione sta attuando, allora potrete misurare la nostra genialità nel trovare il modo, i dieci infallibili modi, di bloccare a zero quella faticosa «pratica» che altri sviluppa.

Norma quindi della attuale burocrazia è non lavorare, non fare, provare con irrefutabile eleganza che non c'è da fare, da studiare e da attuare nulla, ed elevare una serie inesausta di difficoltà sul cammino di ogni procedimento.

Ciò non deriva dalla natura immanente del «sistema burocratico» e meno che mai dal divenire della burocrazia classe dominante. Una classe dominante di gelide mignatte, la storia non l'ha vista, né mai la vedrà.

Nel ciclo invece di ogni vera classe sociale, quando essa è fresca della propria rivoluzione, il suo compito integra il suo interesse di dominatrice, con quello «generale» della società, in una larga misura; integra il presente del suo grandeggiante potere e privilegio con l'avvenire, con lo sviluppo dei paesi e delle popolazioni che governa. In questa prima fase del ciclo le sue ostentazioni ideologiche di portatrice del vantaggio collettivo, false fin dal primo enunciato e nella stessa fase prerivoluzionaria in linea teorica, hanno una buona rata di contingente e concreta applicazione, e tale ciclo per l'Europa e per l'Italia possiamo al più chiuderlo alla fine del secolo scorso.

Nell'altra metà del ciclo questa funzione è esaurita: le forze produttive e le attività crescono ancora, ma decresce il vantaggio che ne trae ogni strato sociale estraneo alla classe dominatrice. Scienza tecnica potenza sempre da amministrare; amministrazione, ossia tutela, difesa e sviluppo della collettività e di ogni suo componente, sempre più da schifare.

I centri nervosi della macchina pubblica non accusano più le esigenze generali, e il suo esercito non si spreme le meningi per il gusto di vantare che i servizi vadano bene e i lavori pubblici siano studiati ed attuati al meglio, com'era una volta interesse di classe.

Tutto il sistema entra in movimento con enorme lentezza e pesantezza, e il solo intervenire di un agente esterno, la fame di profitto del capitale, avvia un'operazione o l'altra.

Per essere brevi, se un'impresa sa che facendo una strada realizzerà un forte lucro, impianta la pratica, presenta le istanze (o le fa presentare dall'ente o corpo ufficialmente qualificato), si mette sulla via delle trasmissioni del rugginoso ingranaggio, preme, spinge, sollecita, lubrifica, e in un lungo corso le ruote girano e l'opera si fa, magari se non serve a nulla, magari a mezzo, e quindi concretamente inservibile. La selezione tra opere necessarie e accessorie o superflue, la graduatoria tra opere urgenti e meno urgenti, la valutazione se si tratta di fare un passo avanti oppure di evitare semplicemente di farne uno, due o tre indietro, la burocrazia non la fa più: la fanno le imprese col loro criterio nettamente rovesciato.

Fino ad un certo punto l'amministrazione una volta la faceva, la faceva ad esempio il genio civile e ferroviario «piemontese» giunto caldo di patriottismo nella poverissima Calabria... Oggi, e fin da quando si elabora la relativa «legge speciale», il carrozzone è messo in moto dal gruppo che deve fare un affare.

Questo gruppo suda tuttavia le sue sette camicie prima di aprire definitivamente il rubinetto magico del guadagno e della pubblica spesa, contro le resistenze solite dell'inerzia amministrativa, delle carenze di bilancio, del passivo statale, della minaccia di inflazione.

Ma quando la stasi e la paralisi cronica dei normali procedimenti, il gelo dell'iniziativa di ufficio, ha dato i suoi effetti, e la sciagura si abbatte e la rovina sopravviene, la speculazione entra a bandiere spiegate nel clima della «emergenza», le procedure si abbreviano e si saltano, gli stanziamenti sono demagogicamente varati subito dai ministri accorsi a dire coglionerie e far perdere tempo, mobilitando per scorte più agenti di quelli che ancora sono dedicati a salvare qualche pericolante, le imprese entrano in azione senza formalità e per direttissima, e così si è aperta un'altra curée come quelle edilizie, che furono magnificate come salvatrici di città colossali dalla peste o dal colera.

Non vi è da distinguere in questa condanna del modo di amministrare l'Italia di oggi, tra governi e opposizioni. Ignavia, ignoranza e cecità sono comuni a entrambi, e aggravate dal sistema parlamentare sul cui sfondo equivoco fanno leva i gruppi imprenditori per violare più facilmente le labili trincee delle amministrazioni, con appoggio da un lato, con ricatto dall'altro.

Se una volta il riformismo dell'opposizione radicale e socialistoide aveva un buon contenuto e un certo effetto tecnico ed amministrativo, e le gestioni di comuni, province ed altri enti da parte dei partiti avanzati furono utili, e servirono ad aumentare il distacco di benessere del Nord rispetto al Sud (il che anche allora i rivoluzionari denunziarono come falsa difesa dei lavoratori) oggi un serio riformismo sociale che si sottragga alla dittatura dell'affarismo è possibile solo con un regime totalitario.

Il pluripartitismo vincitore (non per le sue virtù) in Italia ha fatto fare passi giganteschi alla disamministrazione. Nella bestialità di tecnica ed economia sociale gli oppositori non solo convergono coi maggioritari ma li precedono. Si è visto per la Calabria, si è visto per la riforma terriera.

I socialcomunisti vorrebbero soltanto che la legge agraria dello scorporo e spezzettamento, attuata dai democristiani, avesse estensione maggiore e più profonda, criticano la sua applicazione solo perché quantitativamente insufficiente. La loro responsabilità non è dunque che più spinta nell'errore di principio: trovare ricchezza per lo stato e per il popolo (!) non nella fisica fertilità della terra, che è in relazione al lavoro umano, ma nella finzione giuridica del suo possesso titolare, che di per sé non è nulla.

Più logica - almeno in teoria - era la legge fascista sulla bonifica integrale, che imponeva al proprietario di trasformare l'azienda sotto pena della confisca alla terra non bonificata dopo un certo periodo.

Oggi si regalano dall'erario somme ai latifondisti per lasciare la situazione colturale immutata e per gli errori tecnico-economici anche peggiorata.

Si gonfia soprattutto dai «comunisti» il peso del monopolio (!) fondiario, che è poca cosa e alla quale casomai provvederebbe una statizzazione della rendita fondiaria senza indennità. O sarebbe bastata un'imposta progressiva sulla stessa (male ottenuta con gli ingranaggi della complementare e della patrimoniale) senza toccare il grosso apparato catastale proporzionale alla superficie per ogni qualità di coltura, e sovrapponendo una tassazione extra in ragione del totale imponibile di ogni azienda, facile a trovare, non confondendo azienda con proprietà, come nella curiosa pratica del «coacervo» ditta per ditta, la cui soluzione ha fatto scempio di elementari nozioni di diritto, economia e... aritmetica della prima classe.

E vedrete mai colpire dalle opposizioni parlamentari e costituzionali la orripilante gonfiezza degli effettivi di personale che la stessa America osa incidere? Gli «statali» sono un serbatoio colossale di voti, e con essi la rete delle imprese che li manovra; e quindi corteggiatura di tutti e difesa disperata dei loro interessi e del desiderio sfrenato di nove italiani su dieci di entrare nell'amministrazione e campare sul lavoro del decimo!

Così si è potuto ignorare che la ricchezza della terra non sta in un foglio di carta bollata e in una trascrizione registrata, ma sta nel convergere dell'opera dell'uomo col risultato di lontanissimi processi fisico-geologici che acclimatarono le vegetazioni sul suolo. Ma se l'opera dell'uomo spesso mutò aride sabbie in vegetale humus, altre volte disboscando e dissodando alterò l'equilibrio antichissimo, stabile contro l'oscillazione stagionale e le ordinarie meteore, e produsse opposti effetti mutando foreste in pantani, selve di montagna in friabile ossatura di rocce nude. Da quando gli uomini furono troppi per sostituire nuova sede a quella sfruttata e divenuta inospite i poteri statali ebbero il compito di disciplinare in modi svariatissimi il rapporto dell'uomo con la terra nelle sue fisiche operazioni lavorative.

Oggi la sapienza dei tecnici del governo e della minoranza ha additata una via magnifica! Miliardi e miliardi dello stato - pagati banalmente dal popolo liberato e contribuente - sono stati sciupati in baracconi di nuovi grossi enti e nel fare, poniamo, sul plateau silano, al sicuro da alluvioni e scoscendimenti, reti di inutili strade e gruppi di inutili case, da cui nell'inverno si fugge per ripiegare nei tradizionali paesoni; miliardi sono stati pagati per scorporare sul versante insicuro e malsano che degrada sullo Jonio. Frattanto, per aver trascurato la rete di provvedimenti conservativi a favore di quella delle innovazioni sballate, ma foraggiatrici, le alluvioni hanno asportata la poca terra coltivabile e i soprassuoli ove ce n'erano, la piccola coltura lottizzata è divenuta non solo povera, ma impossibile. Il diritto giuridico di un ettaro di terra, acquistato al popolo e al contadino, fatto pagare a quello e a questo, non vale più nulla, quando sull'ettaro terra vegetabile non ne resta affatto. Chi ha fatto a tempo è il barone, cui è stato portato a capitale da rendita perpetua, se non pure un po' decurtata, il reddito imponibile di quell'ettaro, divenuto oggi incolto, sterile, eguale dunque a zero. E per rendere quell'ettaro di nuovo redditizio occorre lavoro, ma occorre anche capitale mobile: espropriando baroni della terra non si trova un ètte né dell'uno né dell'altro.

La coltivazione della catastrofe non è strana per una borghesia uscita dalla coltivazione della sconfitta. Politici del governo e dell'opposizione hanno comune origine dal tronco del blocco antifascista, alleato dell'ufficiale nemico del tempo. Noi proletari e rivoluzionari, che non abbiamo nemici nazionali, possiamo ben dirlo, mentre la classe dominante discute la indegnità dei suoi ammiragli, che avrebbero coscientemente portato i piccoli incrociatori «carta velina» sotto il tiro implacabile e centrato col radar delle dreadnoughts britanniche, mentre i tiri dei loro cannoncini bucavano il mare a mezza distanza. Non eravate tutti, nemici tra voi oggi, alleati degli inglesi, che portavano qui e sbarcavano ad Augusta la civiltà che vi ha figliati, e non dovreste far parte a quegli ammiragli delle vostre decantate medaglie al valore partigiano?

Da quando la borghesia girava avanti la ruota della storia e portava innanzi con un'amministrazione nuova e audace l'attrezzatura della specie umana, le dichiarammo la guerra di classe e ne tracciammo l'itinerario nefasto e distruttore. Qualunque sia il tono dell'amministrazione borghese, il programma del proletariato comunista è di frantumare il suo ingranaggio di governo.

Ma le vicende della storia italiana sono utili a provare nel modo più evidente che la classe operaia non può fare altre conquiste, nemmeno minimaliste, se non si spiantano e si spianano due bordelli: il parlamento elettivo e la macchina amministrativa.

Source: «Il programma comunista», n. 20 del 1953

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