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LA MISERIA CRESCENTE È UNA LEGGE STORICA


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La miseria crescente è una legge storica
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La miseria crescente è una legge storica

Da cent’anni indaffarata a dimostrare l’insostenibilità della dottrina marxista, la borghesia ha trovato validi elementi di conferma alla «assurdità» della teoria della miseria crescente nelle dichiarazioni del nuovo testo: «Fondamenti del marxismo-leninismo», pubblicato a Mosca nel corso di questo anno. La rivista tedesca «Die Zeit» osserva, in un articolo dell’ottobre scorso, questo processo di distacco dalle vecchie posizioni sovietiche e lo definisce un «Congedo da Marx»[1] (evidentemente, costoro fingono di ignorare che il «congedo» non è di oggi, ma di oltre trent’anni fa, e si chiama «stalinismo»)

Sempre la borghesia ha indicato nella teoria della miseria crescente della massa dei proletari una delle più stolte formulazioni comuniste, cieca di fronte allo sviluppo delle organizzazioni di tutela degli interessi economici dei lavoratori come di fronte all’aumento del benessere generale. Ma, ora, può compiacersi delle «nuove formulazioni» russe, e osservare che:
«L’indirizzo ideologico non fu annunciato in congresso di partito od in una seduta plenaria del Comitato Centrale e non ci fu, questa volta, nessuna «relazione segreta». Malgrado ciò, dal punto di vista della dottrina di partito, esso non sta dietro, per importanza, alla critica sensazionale rivolta a Stalin, dal XX Congresso».

Invero, quella che nella dottrina marxista è una legge fondamentale del processo di sviluppo capitalistico, viene ridotta nella edizione 1958 del testo di insegnamento russo «Economia Politica» ad un processo e, in capitoletto di una pagina e mezza del testo succitato, dal titolo: «Il peggioramento delle condizioni della classe lavoratrice», ad una tendenza «che alcuni fattori possono contrastare», pur persistendo le categorie di lavoro salariato e capitale che ne sono i presupposti. Questo cambiamento di posizione rappresenta, secondo la rivista borghese, una necessità alla quale i russi, posti di fronte al
«dato di fatto delle legislazioni sociali, dell’ascesa dei sindacati, della riduzione del tempo di lavoro attraverso l’introduzione della giornata di otto ore (Marx aveva festeggiato come una grande vittoria la giornata lavorativa di dieci ore!) e all’aumento indiscutibile del salario reale dei lavoratori industriali», devono piegarsi per non «tendere troppo la corda», per non «approfondire smisuratamente l’abisso fra la realtà e le tesi», e per evitare che «la ideologia perda ogni credibilità e venga esposta al generale ludibrio».

Prendiamo direttamente dal testo russo tradotto nella Germania Est, anziché dalle citazioni della «Die Zeit», i brani che più chiaramente definiscono la «nuova» posizione, e ci permettiamo ancora una volta di mettere il becco in un dialogo fra «grandi»[2] per mostrare, anche in quest’occasione, l’assoluta affinità ideologica fra le dichiarazioni dei rappresentanti dei due blocchi, frutto dell’identità dei rapporti economici in essi dominanti:
«La tesi marxista del tendenziale peggioramento delle condizioni della classe operaia, viene presentata come un dogma secondo cui in regime capitalistico si verificherebbe di anno in anno, di decennio in decennio, un continuo peggioramento assoluto delle condizioni di vita degli operai, mentre Marx pensava, nel formulare questa tesi, non ad un processo ininterrotto, bensì ad una tendenza (corsivo nel testo) del capitalismo, che si realizza in modo ineguale nei diversi paesi e periodi superando deviazioni e accidentalità, e che altri fattori contrastano. Uno di questi fattori contrari è la lotta della classe lavoratrice per l’aumento del salario e il miglioramento delle condizioni di lavoro. Dopo la seconda guerra mondiale, quella lotta è stata più attiva che mai. Il baluardo della reazione internazionale – il fascismo tedesco e italiano – è stato abbattuto. La classe lavoratrice dei paesi capitalistici ha guadagnato in organizzazione e compattezza. Il successo dei paesi socialisti ha costretto la borghesia a fare concessioni ai lavoratori».
Tutto qui.

Come si vede, le «nuove» formulazioni, se confrontate alla banale critica sempre rivolta dalla borghesia alla teoria della miseria crescente – critica basata sulla esaltazione delle «conquiste» operaie in regime capitalistico –, non appaiono come una dimostrazione della insostenibilità di quest'ultima, ma come riprova del prevalere dei medesimi interessi ad Oriente e ad Occidente, Entrambi, infatti, sviano il discorso dal punto fondamentale, l’aumento relativo della miseria non solo economica ma sociale della massa dei salariati, non sanno che inchinarsi di fronte alla universale verità borghese che
«oggi non è più come una volta; oggi, l’operaio ha la televisione»,
quindi non immiserisce, perché la società gli offre sempre maggiori possibilità di benessere e perciò non occorre rivoluzionarla; basta lottare per il miglioramento del proprio status nella sua cornice. Entrambi sono d’accordo che l’organizzazione sindacale degli operai e la loro lotta economica possano migliorarne la condizione al punto di capovolgere la tendenza del capitale a impoverirli. Entrambi non vedono, fingono di non vedere, che salario e profitto, ossia lavoro e capitale, stanno in rapporto inverso.

• • •

(Nella prima parte di questo articolo si è esposta la tesi sovietica, salutata con entusiasmo da un giornale tedesco-occidentale, secondo cui l’immiserimento crescente sarebbe non una legge storica, ma una tendenza sempre contrastata dalle «conquiste salariali» dei lavoratori e dalle riforme imposte al regime borghese; e si è ribadito l’opposto principio marxista).

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Il banale argomento che la disponibilità di prodotti da parte degli operai è cresciuta (il che, per i borghesi, suona miglioramento delle condizioni di esistenza), nulla ha a che vedere con la legge della miseria crescente come venne formulata già nel 1847, in un momento in cui la lotta di classe e l’organizzazione economica (che pei i russi sarebbero fattori contrastanti la tendenza) erano in pieno sviluppo e non erano affatto ignorate da Marx. La ripresentiamo nelle stesse parole in cui apparve in «Lavoro salarialo e capitale», non essendo intervenuto, per il marxismo, nessun «fatto nuovo» a invalidarle:
«Se cresce il capitale, cresce la massa del lavoro salariato, cresce il numero dei salariati, in una parola: il dominio del capitale si estende su una più grande massa di individui» [dunque, i piccoli produttori cadono nel numero dei nullatenenti, che cresce sempre più].
«E supponiamo pure il caso più favorevole: se cresce il capitale produttivo cresce la domanda di lavoro, sale dunque il prezzo dei lavoro, il salario», [l’operaio… compra la televisione]. «…Un aumento sensibile del salario presuppone un rapido aumento del capitale produttivo. Il rapido accrescersi del capitale produttivo provoca un’altrettanto rapida crescita della ricchezza, del lusso, dei bisogni sociali e dei godimenti sociali. Sebbene dunque i godimenti del lavoratore siano aumentati, la soddisfazione sociale che essi procurano è diminuita in confronto agli accresciuti godimenti del capitalista, che sono inaccessibili all’operaio; in confronto al grado di sviluppo della società in generale» [ossia, il proletario dispone di una quantità sempre minore del prodotto sociale totale]. «I nostri bisogni e godimenti scaturiscono dalla società; noi perciò li misuriamo in base alla società, non in base all’oggetto della loro soddisfazione. Poiché sono di natura sociale essi sono dì natura relativa».
«…Qual’è ora la legge generale che determina l’aumento e la diminuzione del salario e del profitto nel loro rapporto reciproco? Essi stanno in rapporto inverso. La quota del capitale, il profitto, sale nello stesso rapporto in cui cade la quota del lavoro, il salario, e viceversa. Il profitto sale nella misura in cui il salario cade, esso cade nella misura in cui il salario sale». [corsivo di Marx].
«… Un rapido aumento del capitale è parimenti un rapido aumento del profitto. Il profitto può crescere rapidamente solo se il prezzo del lavoro, il salario relativo, diminuisce con la stessa rapidità.
Il salario relativo può diminuire, anche se il salario reale sale insieme al salario nominale, al valore in denaro del lavoro; ma non nello stesso rapporto in cui sale il profitto. Se, per esempio, il salario cresce, in un buon periodo d’affari, del 5 per cento, mentre il profitto aumenta del 30 per cento, il salario relativo, proporzionale, non è aumentato, bensì diminuito.
Se, dunque, con la rapida crescita del capitale, aumentano le entrate del lavoratore, aumenta nello stesso tempo l’abisso sociale che separa i lavoratori dai capitalisti; si accresce nello stesso tempo la potenza del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale»
.
Questa è la miseria crescente che è insieme «pena di lavoro» nel senso più vasto. Non si tratta di negare l’aumento della capacità d’acquisto dei proletari (che si realizza quasi sempre in una maggior disposizione di prodotti industriali), ma di mostrare come quanto più essi ricevono tanto maggiore è lo sfruttamento cui sono sottoposti.

E ancora:
«… Se il capitale aumenta rapidamente, per quanto possa crescere il salario del lavoro, il profitto del capitale cresce in modo sproporzionatamente più rapido. La condizione materiale del lavoratore è migliorata, ma a prezzo della sua condizione sociale.
L’abisso sociale che lo separa dai capitalisti si è approfondito»
.
È questo il punto (anche a prescindere dalla considerazione generale che, calcolate le grandi crisi, le catastrofi economiche, le guerre, ecc., lo stesso aumento assoluto del «tenor di vita» si riduce ad una beffa): l’«idealismo» borghese riduce l’esistenza umana – malgrado tutte le sue giaculatorie idealistiche – alla sua nuda espressione monetaria; il materialismo marxista la riporta al suo contenuto sociale, anzi umano; la giudica impoverita nella stessa misura di cui si impoverisce questo contenuto.

Infine:
«Quanto più rapidamente la classe operaia accresce ed ingrossa la forza che le è nemica, la ricchezza che le è estranea e che la domina, tanto più favorevoli sono le condizioni in cui le è permesso di lavorare ad un nuovo accrescimento della ricchezza borghese, ad un aumento del potere del capitale, e di forgiare essa stessa le catene dorate con cui la borghesia se la trascina dietro».

Su questa critica si fonda, per noi marxisti e per tutta la durata del capitalismo, la realtà dei rapporti fra lavoro e capitale, e quindi delle condizioni di esistenza degli operai. Non ci interessano né i periodici aggiornamenti russi né le rivelazioni sensazionali della stampa borghese, certi come siamo che sarà lo sviluppo del capitalismo, e quindi dei contrasti di classe, a dimostrare il corollario della legge della miseria crescente: la ripresa della lotta rivoluzionaria del proletariato. Ci importa solo dimostrare come l’apparente contrasto ideologico si risolva, per ambo le parti, in un’esaltazione della pura lotta rivendicativa e legalitaria degli sfruttati nel quadro del regime esistente, e trarne una confessione della identità di natura economica e sociale fra i due blocchi.

Notes:
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  1. »Abschied von Marx«, »Die Zeit«, № 40/1960, 30. 10. 1960.[⤒]

  2. Si tratta di un’allusione ai testi »Dialogato con Stalin« 1952 e »Dialogato coi morti« 1956, pubblicati nella stessa rivista di questo articolo.[⤒]


Source: «Il Programma Comunista», Gennaio – Febbraio 1961 – № 1, 2

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