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LA «PACE NEGOZIATA», PER L’ALGERIA È LA PEGGIORE


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La «pace negoziata», per l’Algeria è la peggiore
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La «pace negoziata», per l’Algeria è la peggiore

Parigi, maggio.
Siamo dunque, grazie all’intervento del solito «uomo provvidenziale» che l’impotenza democratica porta in scena nelle svolte decisive della sua storia, alla vigilia di una «pace negoziata» col governo provvisorio algerino. Comunque si svolgano le trattative, spetta a noi soli proclamare fin da oggi che, se mai indipendenza può essere meno favorevole agli algerini, è proprio quella negoziata con la Francia; e se tutti sostengono il contrario accampando motivi d’ordine sia economico che politico, ciò avviene appunto perché l’interesse della rivoluzione si oppone a tutti gli interessi economici, a tutti gli equilibri politici, che si possono negoziare nel mondo capitalista.

Una critica delle trattative in corso deve quindi necessariamente partire da un’analisi delle diverse soluzioni che sono state successivamente eliminate a profitto degli interessi economici e dell’equilibrio politico di cui l’imperialismo mondiale ha affidato la tutela alla Francia democratica e gollista.

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La prima soluzione, quella del comunismo rivoluzionario, consisteva nella saldatura fra il movimento di liberazione nazionale e la lotta del proletariato metropolitano per abbattere il capitalismo nel suo centro nevralgico. Chi dirà che era una soluzione «impossibile»? In Algeria più che in qualunque altra colonia europea, si era sviluppato un forte proletariato agricolo e industriale che il capitalismo francese, non contento di sfruttarlo sul posto, utilizzava a centinaia di migliaia nella metropoli. Questo proletariato era nato per essere internazionalista; era maturo per prendere la direzione del movimento in Algeria; era pronto a far beneficiare della forza esplosiva della sua battaglia il proletariato francese nella sua lotta di classe contro un capitalismo decrepito; e i proletari francesi avrebbero ricevuto dai loro fratelli algerini più di quanto non si creda oggi di «dar loro» con l’indipendenza.

I proletari algerini aspettavano una sola cosa dagli operai francesi: che accettassero il loro aiuto inestimabile, che tendessero loro la mano. Lungi dall’essere «grande e generosa» la Francia come la esaltano a turno De Gaulle o Thorez, è questo proletariato indigeno che era grande e generoso.

Una simile prospettiva è stata resa «impossibile» dal riflusso della rivoluzione proletaria legato alla degenerazione della Russia sovietica e dell’Internazionale, cui si aggiunta – come sua conseguenza diretta – l’ignominia di un proletariato francese che nelle fabbriche, nei sindacati, nei partiti politici, invece di tendere la mano al fratello coloniale, ha lasciato introdurre a suo carico la discriminazione sociale, i bassi salari, l’assenza di ogni diritto, e ha permesso al capitalismo di approfittarne per dividere il proprio nemico di classe. Lo sciovinismo ieri, come oggi l’ipocrita «riconoscimento» dei diritti del popolo algerino e le proclamazioni di «amicizia», sono lo squallido risultato di questo tradimento. A lungo i proletari algerini si sono istintivamente rifiutati di subire l’iniziativa della loro borghesia: doveva essere il riformismo staliniano a spingerli a seguirla. È una lezione che i flirts dell’FLN con gli eredi russo e cinese dello stalinismo non possono mascherare. Se la soluzione proletaria è stata silurata, non è dunque né per colpa degli algerini, né perché fosse, come si pretende, «impossibile». Gli operai algerini non hanno per molto tempo cessata di dimostrare che ci credevano ancora. Prima e anche dopo la guerra, quando, al 1° Maggio, essi sfilavano in massa al seguito degli operai francesi, è al simbolo di questa fede e di queste grandiose possibilità che volevano aggrapparsi. Ma, in testa ai cortei, la bandiera rossa era appaiata al tricolore…

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Esiste una «soluzione» staliniana al problema dell’indipendenza?

Gli staliniani hanno ripetutamente citato, a proposito dell’Algeria, l’esempio edificante delle repubbliche mussulmane dell’URSS. Senza ricordare qui che cosa pensasse Lenin del modo come Stalin, Ordjonikidze e C. affrontarono il problema nazionale dell’URSS, né del modo come lo risolsero, è un fatto che la predicazione stalinista dei legami che dovrebbero unire le antiche colonie alla metropoli, gli sfruttati agli sfruttatori, ha servito unicamente a dare una lezione di colonialismo agli stessi colonialisti.

Da questa situazione penosa gli staliniani credono di uscire urlando contro i «delitti della reazione», o proclamando che, per rendere possibile il loro dolce idillio, sarebbe stata necessaria la «rivoluzione». In realtà, l’idea-chiave dello stalinismo classico è che i popoli coloniali debbano attendere dalle metropoli il segnale della loro riscossa. Prima la Francia, poi Algeria. Un Ferhat Abbas qualunque è la dichiarazione di fallimento (dal punto di vista operaio, s’intende) di questa tesi: quanto al problema del potere nella metropoli, esso non si risolve meccanicamente prima della rivoluzione anticoloniale, ma per effetto di questa. De Gaulle ne è la prova a rovescio; ma… è De Gaulle!

«Se fossi al governo…» sospira il piccolo-borghese (e tale è lo staliniano classico). Ebbene, gli staliniani ci sono stati, al governo! E, sotto il Fronte Popolare come all’atto della Liberazione, non solo la loro «soluzione» non ha fatto un passo avanti, ma essi hanno fucilato e massacrato i «ribelli» algerini in perfetto accordo con la canaglia ultra, hanno trattato da «fascisti» (massacro di Costantina 1945) quelli che la destra chiamerà «ribelli» e che oggi tutti decorano del certificato di «patrioti algerini»: quanto alle misure politiche che preconizzavano allora, e che effettivamente presero, esse stavano molto al di qua dell’ultima rivendicazione del GRPA (Governo Provvisorio algerino). Se, dopo il «passaggio all’opposizione», gli staliniani si sono messi alla pari con la «decenza democratica» (ma solo con questa), ciò non toglie che siano rimasti al livello dell’antica «soluzione», cioè a zero, per quanto riguarda gli obiettivi economici e sociali della rivoluzione, quelli stessi per i quali essa è scoppiata. Dov’è, dunque, la soluzione staliniana? Nelle mani di De Gaulle e di Ferhat Abbas, gli esponenti delle due borghesie, metropolitana ed ex-coloniale, in procinto di abbracciarsi.

Siamo così giunti alla «soluzione» kruscioviana dell’indipendenza. In un certo senso, la «strategia rivoluzionaria» di Stalin e C. per quanto riguarda i paesi coloniali e le loro metropoli poteva realizzarsi solo attraverso la diplomazia affaristica del compagno Nikita. L’Algeria doveva attendere la Francia, e la Francia attendere il segnale di Mosca. Questo segnale, è Chruščëv che l’ha dato. Ma non è quello che Stalin aveva lasciato sperare agli ingenui. Proprio vero che la «soluzione» staliniana era impossibile! Chruščëv ci dimostra perché. L’ordine che Mosca avrebbe dato non era quello di «fare la rivoluzione», ma di commerciare. I piccoli staliniani delle metropoli colonialiste non avevano da vendere che se stessi: cosa che hanno regolarmente fatto. Quanto al capitalismo russo, essendosi rafforzato esso è pronto ad entrare in scena, ma non nella veste dell’eroe fatale del dramma romantico, bensì con tutti gli attributi del grasso padre di famiglia del vaudeville borghese.

Uno dei grandi «vantaggi» della soluzione staliniana» – lo sconvolgimento della carta dell’imperialismo – perde ogni significato nelle mani di Chruščëv. Da un’Algeria e da un Congo indipendenti egli si aspetta una clientela commerciale, un mercato nuovo in cui l’URSS possa abbandonarsi a una pacifica concorrenza mercantile con l’occidente. Se mai restava un equivoco sulla sua soluzione, egli si è affrettato a eliminarlo. L’equivoco stava in questo: ciò che si attendeva sotto Stalin, non era tempo di farlo sotto Chruščëv? I movimenti coloniali che si erano messi al rimorchio della «rivoluzione» nelle metropoli, non era tempo di sostenerli a fondo, e con le armi? Chruščëv, nelle sue polemiche contro l’«estremismo» cinese, ha mostrato che cosa valessero queste illusioni. Ma ancor più rivelatori sono i suoi atti. Non ha egli forse minacciato, in questa o in quell’occasione, un intervento e un aiuto – nel Congo, a Cuba, in Algeria, nel Laos?

E, ogni volta, non ha dimostrato di intervenire non per appoggiare in senso rivoluzionario il moto nazionale, bensì per facilitare un compromesso imperialistico, per prendervi parte, per farsene garante?

Credere che, dopo aver tradito la causa del proletariato rivoluzionario nelle metropoli, dopo aver ceduto alle borghesie indigene la direzione dei movimenti anticolonialisti, l’opportunismo possa almeno dimostrarsi fedele alla sua sporca missione democratica nei paesi coloniali, significa ignorare da un lato la sua natura e i suoi indissolubili rapporti con l’imperialismo mondiale, e dall’altro il carattere rivoluzionario dei moti nazionali e coloniali. Così la «soluzione» kruscioviana introduce ai mercanteggiamenti diplomatici del capitalismo intérnazionale, alle chiacchiere insulse dell’ONU, alla grancassa delle «soluzioni negoziate».

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Le soluzioni negoziate, che fanno perno sulla famosa «internazionalizzazione» del problema algerino, sono di due tipi: quello che porterebbe con sé un intervento dell’imperialismo russo-americano, e quella che limiterebbe l’internazionalizzazione alla sola Africa, anzi al Maghreb. L’analisi di queste due soluzioni ha il vantaggio di far apparire le implicazioni politiche della lotta di indipendenza sullo scacchiere dell’imperialismo mondiale, e nello stesso tempo, i legami economici che l’imperialismo ha stretto in Algeria e che fanno ostacolo alla sua indipendenza. Tutto questo si sforza di coprire (per quanto tempo ancora, e fino a che punto?) la «soluzione francese». Prima dell’apertura delle trattative un mese fa, Gromyko ha dichiarata che l’URSS «preferisce colloqui diretti fra il GRPA e il governo francese a qualunque ingerenza americana». Come, all’epoca di Stalin, non bisognava sollevare l’Africa del Nord contro la Francia «democratica» per non «fare il gioco del fascismo», così ora De Gaulle sarebbe una garanzia contro… l’imperialismo americano. La difficoltà di conciliare questa posizione con la più elementare e prosaica lotta contro il «gollismo» in Francia, ha scatenato in seno al PCF l’ennesima crisi di decomposizione. Dunque, – hanno concluso Servin, Casanova e altri, – De Gaulle è un progressista; dunque, non val la pena di cercare altrove; abbiamo già in lui il campione della nostra «politica nazionale». E Thorez, temendo di perdere il monopolio del «vero» patriottismo, si è dovuto levare al disopra dei piano della diplomazia societaria dello stalinismo in smoking, e pontificare sul carattere secondario delle contraddizioni interimperialistiche di fronte a quelle che oppongono il «sistema socialista mondiale» al capitalismo; in altri termini, sul carattere non meno secondario della sua «politica nazionale» e del suo antigollismo.

Ma torniamo ai «grandi». I fascisti algerini, un anno o poche settimane fa, hanno reso al capitalismo mondiale il servizio di preservare le chances di una soluzione francese alla quale tutti tengono, dai russi agli americani, da Thorez a De Gaulle. La «grandezza» della Francia è di assumersi tutte le responsabilità e le conseguenze dell’«indipendenza» e del brigantaggio internazionale che si svilupperà in Algeria. La stessa cosa accadde al Belgio in rapporto ai Congo; ma, quando le contraddizioni accumulate da un doppio o triplo sfruttamento dell’«indipendenza» raggiunta si rivelarono esplosive al punto da minacciare le posizioni dell’imperialismo in tutto il mondo, russi e americani non esitarono ad intervenire e mettere alla gogna i colonialisti belgi per «ristabilire» l’ordine. Ora, la situazione algerina è altrettanto esplosiva.

Lo provano sia l’azione che i timori di Bourghiba. Dopo aver recitato all’ONU la parte del conciliatore nella faccenda congolese, la Tunisia ha fatto di tutto per favorire un compromesso nella guerra di Algeria, da cui è minacciata non tanto militarmente, quanto nelle sue strutture sociali e nel suo «equilibrio» politico. Qui l’«internazionalizzazione», più che dal desiderio di mantenere posizioni economiche o di conquistarne di nuove, risulta dall’ansia di evitare le necessarie riforme sociali, di rendere nulle le aspirazioni che per le masse oppresse di tutto il Maghreb la rivoluzione algerina rappresenta. Bourghiba ha agito quindi in due direzioni: prima, quella del «rischio calcolato», cioè il progetto di una federazione algero-tunisina per condurre felicemente a termine la guerra d’indipendenza (se necessario con l’aiuto russo-cinese); poi i colloqui con De Gaulle sotto l’egida di un’allettante comunità franco-maghrebina per lo sfruttamento del Sahara.

Come si vede, Bourghiba tiene tanto all’indipendenza del suo paese, e a quella della Algeria, che si affretta a sacrificarle a chiunque e a qualunque cosa, purché non sia evocato lo spettro della questione sociale. Quanto all’unità del Maghreb arabo, questa grande prospettiva rivoluzionaria, già intravista dalla «Etoile Nord-Africaine» ai suoi bei giorni, per i rappresentanti dei nuovi stati borghesi in Africa essa è divenuta l’oggetto di mercanteggiamenti con l’imperialismo e di compromessi a danno della rivoluzione. (È caratteristico che il GRPA abbia accettato di iniziare le trattative malgrado la minaccia francese di «tagliare i viveri» all’Algeria se non accettasse l’associazione con la Francia, o quella di dividerne in due il territorio).

La soluzione negoziata tra Francia e Algeria è dunque la meno favorevole all’indipendenza; perché cerca di camuffare tutto ciò che vi è di rivoluzionario nel moto di liberazione nazionale a profitto di considerazioni che lo collocano sul terreno degli interessi economici dell’imperialismo, del «diritto dei popoli» e della democrazia borghese. Le trattative fra De Gaulle e Ferhat Abbas, come Thorez le ha esaltate e come l’imperialismo russo-americano le desidera – nel quadro più angustamente nazionale anche alla scala del colonialismo francese, dei suoi «tradizionali legami di amicizia», delle abituali correnti di scambio e sfruttamento – hanno un solo scopo: attenuare al massimo le contraddizioni che il capitalismo ha scatenato. La «soluzione francese» è la più reazionaria non solo perché dà ai Bourghiba o ai Ferhat Abbas il modo di eludere ogni soluzione rivoluzionaria della questione sociale e in particolare della riforma agraria, e perché evita all’antagonismo russo-americano di manifestarsi in modo acuto e non-pacifico in questa regione del mondo; è anche reazionaria perché, in caso di esplosioni consecutive all’«indipendenza» come si verificarono nel Congo, i peggiori imperialisti costretti a intervenire per spegnere il fuoco si presenteranno come i campioni della «vera» indipendenza e della democrazia pura.

Perciò, fin da ora, il proletariato algerino deve liberarsi dell’ipoteca democratica che tanto De Gaulle quanto Ferhat Abbas – ma dietro di loro l’URSS e l’USA – fanno pesare su di lui. Per i borghesi del GRPA, l’indipendenza è il punto di arrivo; per i proletari, è solo il punto di partenza, l’apertura della lotta rivoluzionaria di classe contro i «patrioti» arrivati.


Source: «Il Programma Comunista», 20 maggio 1961, Anno X, N.10

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