LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


AFRICA NERA


Content:

Africa nera
Source


Africa nera

La pirateria democratica, di cui l’ONU – con la benedizione concorde dell’Est e dell’Ovest – è la quintessenza, ha tradito la sua più «limpida» e cinica espressione nel Katanga e nelle sue aggrovigliate vicissitudini. Quando il moto unitario congolese si scatenò in tutta la sua violenza spontanea ed elementare e, sotto il suo peso, le barriere artificiose create negli ultimi contrafforti dal grosso affarismo internazionale rischiavano di crollare come bastioni di cartapesta travolgendo con sé anche gli arnesi del grande capitale belga e non-belga tipo Ciombe, si corse ai ripari «conciliando» e «pacificando», per la terribile paura che la marea popolare straripasse dagli argini: si lasciò formare un Katanga «indipendente», in realtà chiuso negli artigli dell’Union Minière, e si aprì la strada alla liquidazione (lamentata per amor di scena) di Lumumba. Ora che, bene o male, eliminati i focolai rivoluzionari più pericolosi, l’ONU ha rifatto il Congo a sua immagine e somiglianza, la liquidazione del secessionismo katanghese e del suo massimo esponente, che era scandalosa quando la propugnava il movimento lumumbista, è diventato un affare da risolvere con le armi e le truppe dei caschi blu, cioè con quella deprecatissima violenza di cui la democrazia nega ai proletari lo storico diritto d’impiego, e con tutte le garanzie che i… valori della civiltà siano salvi e rispettati. È un tipico caso di «rivoluzione controllata», cioè di controrivoluzione ammantata di democratico progressismo! (A meno che poi, di fronte allo scatenarsi di violente reazioni indigene provocate dal suo stesso intervento, Mister H faccia macchina indietro…).

Il grande problema dell’Africa indipendente è di evitare lo scoglio della «balcanizzazione», lo spezzettamento in unità politiche ed economiche chiuse. Di qui lo sforzo di costituire aree sempre più vaste di stretta cooperazione economica; di qui il progressivo avvicinamento fra il cosiddetto «gruppo di Casablanca», che comprende il Ghana, la Guinea, il Marocco, il Mali, la RAU e il governo algerino in esilio, e ha già deciso di formare un mercato comune, una banca centrale di sviluppo economico, un consiglio di unità economica, ecc, come punti di partenza di una futura unità politica, e il cosiddetto «gruppo di Monrovia», i cui venti membri (perlopiù dell’Africa ex-francese, con la aggiunta della Nigeria, della Sierra Leone, della Tunisia, della Libia, della Somalia, dell’Etiopia e della Liberia) hanno finora respinto l’idea di legami politici, ma nella recente riunione di Dakar hanno formulato un programma economico (mercato comune, banca di sviluppo) molto simile a quello dell’altro gruppo.

D’altra parte, trattative commerciali o doganali sono in corso, o si sono già formalmente concluse, fra Stati membri dei due gruppi, e voci si levano in tutti i campi anche a favore di patti di cooperazione politica. È un fatto, quali che siano i suoi sviluppi immediati, da ritenere positivo.

Era lecito sospettate che la liberazione dell’ex-leader dei Mau-Mau, Jomo Kenyatta, avesse per contropartita il suo passaggio a posizioni concilianti, cioè l’abbandono di un glorioso passato rivoluzionario ed estremista.

Il sospetto non ha tardato a dimostrarsi valido. L’ex-leader rilasciato dalla prigionia inglese è anzitutto riuscito a mettere d’accordo i due grandi partiti indigeni, il KANU (Kenya African National Union) di Mboya e Gichuru, che gode della maggioranza nel «consiglio legislativo» del Kenya, il parlamento-fantoccio istituito dagli inglesi, ma non è mai entrato a far parte del governo, e il governativo e moderato KADU (Kenya African Democratic Union) dell’ultratransigente primo ministro Ngala, intorno ad un programma comune fatto apposta – scrive l’«Economist» del 2 sett. – per «rassicurare gli scettici e in particolare gli investitori stranieri». Esso fornisce anzitutto la garanzia che tutti i titoli sulla terra già esistenti, «compresi i diritti tribali e i diritti di proprietà» saranno «rispettati e salvaguardati nell’interesse del popolo del Kenya», mentre giuste indennità saranno concesse per la terra «acquistata da qualunque governo futuro per scopi di utilità pubblica, scuole, ospedali, ecc,» (insomma, il Kenya non deve avere un «governo gangster»: gangster sono, evidentemente, tutti coloro che non rispettano i «titoli di proprietà» esistenti, dunque gli estremisti, le teste calde, i rivoluzionari); in secondo luogo, fissa l’indipendenza del Paese al traguardo di un processo evolutivo graduale, le cui tappe sarebbero un governo di coalizione ad interim (formato in parti eguali dai suddetti partiti maggiori), le elezioni politiche in data da stabilirsi, e il voto della costituzione elaborata nel frattempo da un trust di cervelli col permesso e, se possibile, con la benedizione di S.M. britannica.

Dopo di che, o i Mau-Mau mettono la testa a partito, o si vedranno schierati contro non solo gli inglesi, ma i connazionali e il suo stessa «eroe» dell’altro giorno. A meno che Londra non sia tanto sciocca da puntare i piedi, ora che il vento spira nelle sue vele.


Source: «Il Programma Comunista», 19 settembre 1961, Anno X, n.17

[top] [home] [mail] [search]