Il 25-28-29 giugno 1954, mentre in Europa si svolgeva la Conferenza di Ginevra convocata il 20 aprile per discutere i problemi asiatici (pace di Corea ed armistizio in Indocina), i rappresentanti della Cina dell’India e della Birmania proclamavano in una comune dichiarazione i cinque principi della Conferenza di Colombo. Questi principi erano: 1) Mutuo rispetto per la integrità territoriale e sovranità; 2) non aggressione: 3) non interferenza negli affari interni; 4) uguaglianza e beneficio reciproco; 5) coesistenza pacifica. Dal 18–30 ottobre al 30 novembre–12 dicembre dello stesso anno, il Pandit Nehru e il primo ministro della Birmania U Nu visitavano la Repubblica Popolare Cinese e ribadivano in pubbliche e comuni dichiarazioni con Mao Tse-tung e con i massimi rappresentanti dello Stato cinese i famosi cinque principi. Nei giorni 18–20 aprile 1955 una delegazione cinese con a capo Zhou Enlai partecipava ai lavori della Conferenza di Bandung dei paesi afro-asiatici, presenti 29 paesi dei due continenti, nel corso della quale venivano solennemente ribaditi e proclamati i cinque principii della Conferenza cino-indo-birmana di Colombo.
Lo stalinismo aveva presentato la guerra di Corea come il possibile inizio di una guerra santa rivoluzionaria dei popoli asserviti dell’Oriente. La morte di Stalin, le conferenze di Ginevra, di Colombo e di Bandung sembravano, nel 1955, iniziare una nuova era: l’era della coesistenza pacifica. Dopo sette anni, nel 1962, gli opportunisti ed i filistei di tutto il mondo si illudono di vivere in realtà nella nuova era della coesistenza pacifica.
Ma, nell’era della coesistenza pacifica, vi è una piccola cosa sufficiente a sconvolgere la propaganda radio-televisiva e giornalistica e a far agghiacciare il sorriso sulle labbra dei partner della coesistenza pacifica, Chruščëv e Kennedy, nei loro incontri ad alto livello: questa piccola cosa si materializza nel fragore delle cannonate e delle mitragliatrici, nelle migliaia di morti e di feriti dell’ultima battaglia svoltasi alla frontiera nord-orientale cino-indiana, e nei movimenti di navi da guerra ed aerei nel Mar dei Caraibi.
Questo fragore sovrasta il baccano delle radio e delle televisioni del mondo intero, le parole di pace e di amore con le quali Giovanni XXIII ha dato inizio al Concilio Ecumenico e le parole di augurio con le quali il Primo Ministro Nikita Sergeevič Chruščëv ha salutato il Papa di Roma.
I nuovi Stati afro-asiatici, i Paesi del Terzo Mondo, dovevano, secondo le illusioni dei filistei e degli opportunisti, essere gli interpreti e i portatori di un nuovo ideale di pace, di fratellanza, di socialismo umanitario. In realtà, come abbiamo visto, furono proprio essi a proclamare nelle conferenze di Colombo e di Bandung i principi della coesistenza pacifica. Oggi, la rivoluzione coloniale tanto cara agli ideali dei filistei delude tutte le filistee speranze sulla coesistenza pacifica: i due massimi Stati del Terzo Mondo, India e Cina, si dilaniano «fraternamente» in una interminabile guerriglia di frontiera. «Come è potuto accadere?», si domanda il filisteo, sorpreso di constatare che nella storia gli ideali vengono sottomessi dalla forza. Noi, che abbiamo sempre spiegalo le sovrastrutture ideali con i rapporti di produzione e con le forze materiali, non ci poniamo la domanda retorica del filisteo. Noi, che abbiamo sempre previsto ciò che doveva accadere con ciò che era già accaduto e abbiamo sempre guardato alla storia come ad una formazione economico-sociale in sviluppò, noi che di conseguenza abbiamo sempre spiegato il presente col passato e col futuro, possiamo abbandonare i filistei alla loro confusione, e ritrovare le nostre tesi nelle parole di quei rappresentanti del Terzo Mondo che sette anni or sono incarnavano gli ideali del filisteismo e dell’opportunismo mondiali. Per far ciò prenderemo in esame due interessanti documenti: 1) Il discorso del delegato jugoslavo alla Conferenza economica del Cairo; 2) Il saggio «Brasile in rivoluzione» del sociologo brasiliano Josué de Castro.
Vladimir Popović, membro del Consiglio Esecutivo Federale e capo della delegazione jugoslava alla Conferenza sui problemi dello sviluppo economico, tenutasi al Cairo dal 9 al 18 luglio, ha svolto in quella sede un’interessante relazione che riflette le preoccupazioni dei Paesi del Terzo Mondo (ad eccezione della Cina) di fronte alle prospettive presenti e future dell’economia mondiale (vedi l’ultimo numero di «Questions actuelles du socialisme», ed. ing. «Socialist thought and practice»). Popović incomincia col sottoporre alla Conferenza tristi ricordi. Quali furono, si domanda, «le cause che hanno condotto il mondo alla catastrofe economica degli anni trenta, poi più tardi, alla guerra catastrofica degli anni quaranta?». Il nostro filisteo è qui, pronto a rispondere: «La barbarie nazista e la follia di Hitler!». Popović, tuttavia, non sta parlando ad un comizio elettorale dove, come è noto, i filistei abbondano, ma ad una Conferenza di uomini d’affari, e la sua risposta alla grave domanda è quindi diversa da quella che il filisteo si attende. Essa è: la crisi del 1929 e la guerra del 1939 avvennero perché vi erano Paesi troppo ricchi e Paesi troppo poveri. (Se non andiamo errati, e se il filisteo è d’accordo, le democrazie occidentali, Stati Uniti, Inghilterra e Francia, si trovavano nel 1939 fra «i Paesi troppo ricchi»). Popović continua: «Questa presa di coscienza è stata messa bene in luce dalla Conferenza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro svoltasi nel 1944 a Filadelfia, che lancio la parola d’ordine: la povertà di un Paese minaccia la prosperità di tutti». Per evitare che si formassero ancora una volta Paesi troppo ricchi e Paesi troppo poveri, e il mondo precipitasse in una nuova catastrofe, fu necessario «far subire alla società profondi cambiamenti rivoluzionari».
Quali furono questi «cambiamenti rivoluzionari»? «La formazione del grande campo socialista!», urla il nostro filisteo, entusiasta. Tuttavia Popović, che fa parte, bene o male, del «campo socialista», s’interessa di socialismo solo nei comizi filistei, mentre come «uomo d’affari» s’interessa unicamente d’affari. I cambiamenti «rivoluzionari», secondo lui, furono dunque i seguenti: 1) Fondazione dell’ONU; 2) Costituzione a Bretton Woods del Fondo Monetario internazionale e della Banca Mondiale; 3) Regolamento a Hot Springs dei problemi dell’alimentazione mondiale per mezzo della FAO; 4) Basi della collaborazione commerciale universale alla Conferenza dell’Avana.
Finora ci siamo divertiti alle spalle del nostro filisteo. Ora e venuto il momento di divertirci alle spalle di Popović. Egli infatti, dopo l’enumerazione di questi cambiamenti rivoluzionari, è costretto ad assumere, come un filisteo qualunque ad un qualunque comizio elettorale, un atteggiamento sorpreso, addolorato, afflitto: «Lungi dal ridursi, il fossato frustati industrializzati e sottosviluppati si è allargalo». Cosi, allargando a sua volta le braccia, ha esclamato Vladimir Popović, membro del Consiglio Esecutivo Federale, capo della delegazione jugoslava alla Conferenza del Cairo, esperto uomo d’affari e noto «operatore economico»! Il filistee, come le scimmie, è un animale imitativo: cosi allarga anch’egli le braccia, ed esprime idealmente a Vladimir Popović la sua solidarietà e comprensione. In questo modo i nostri due personaggi, il filisteo e l’uomo d’affari, si sono incontrati nella comune sofferenza di fronte «alla miseria dei Paesi sottosviluppati». Poiché, come è noto, noi siamo materialisti convinti, poiché dunque le nostre ghiandole lacrimali sono ostinatamente aride, poiché non possiamo unirci alle comuni lacrime filistee e affaristiche sulle «miserie del Terzo Mondo», noi regaliamo ai nostri due uomini un finissimo fazzoletto profumato, e procediamo all’esame delle fredde cifre statistiche con le quali Popović ha sostenuto la sua affermazione: «Lungi dal ridursi, il fossato fra Stati industrializzati e sottosviluppati si è allargato». (Tabella formata da noi utilizzando i dati del signor Popović):
I dati statistici comprovanti la crescente miseria assoluta e relativa dei Paesi del Terzo Mondo sono chiarissimi, e largamente noti, cosicché non occorre insistervi. L’indicazione più interessante proviene dalle cifre percentuali dell’esportazione mondiale, che dal 1958 al 1960 vanno dal 58 per cento al 63 per cento per i Paesi industrializzati e calano dal 31,5 per cento al 24,7 per cento per i Paesi sottosviluppati. Dunque, i Paesi sottosviluppati trovano una crescente difficoltà ad esportare, e la percentuale delle loro esportazioni è in discesa. Perche? Ecco le parole di Popović: «Una delle cause principali di questa situazione… risiede nelle tendenze divergenti del movimento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti industriali finiti». Infatti, nel lungo periodo dal 1953 al 1961, i prezzi delle materie prime registrano una discesa di 9, e i prezzi dei prodotti industriali un’ascesa di + 10. Ciò significa che per una unità di materia prima esportata i Paesi sottosviluppati possono procurarsi oggi una quantità di prodotti industriali inferiore di un quinto al 1953 e di un terzo al 1950 (dati del «Monthly Bulletin of Statistics», 1961).
Popović non è in grado di fornire alcuna spiegazione di questa forbice dei prezzi, che presenta come un fatto assolutamente «nuovo» (dimostreremo in seguito che si tratta di un fenomeno antichissimo, indissolubilmente legato al modo capitalistico di produzione), e quindi non è in grado di proporre alcun «rimedio». Egli invece pone l’accento su un altro fenomeno. Secondo Popović, se non è conveniente per i Paesi afro-asiatici esportare materie prime, potrebbe essere conveniente per essi esportare prodotti industriali, compensando l’inferiorità tecnica con «la manodopera a buon mercato». Senonché, a questo punto del suo discorso, il nostro «uomo d’affari» scoppia in acuti lamenti, mettendo in luce che ciò che lo ha fatto parlare finora non è la preoccupazione per le miserie del Terzo Mondo ma la preoccupazione per gli «affari» della Jugoslavia «socialista»! Egli infatti accusa tutti i Paesi industrializzati (Oriente e Occidente) di «protezionismo… per difendersi contro lo sfruttamento della manodopera a buon mercato»! Questo «protezionismo» avrebbe diviso il mondo in blocchi economici e politici, soffocando così lo sviluppo degli altri Paesi! Come si vede, in queste parole traspaiono le difficoltà della Jugoslavia «socialista», che non può «sfruttare» come vorrebbe e come sarebbe giusto la sua «manodopera a buon mercato» a causa del «protezionismo» del Comecom [Consiglio di mutua assistenza economica] da una parte e del Mec [Mercato europeo comune] dall’altra! Popović fornisce i dati seguenti, che rispecchiano il grave (per la Jugoslavia) fenomeno. (Tabella formata da noi utilizzando i dati del signor Popović):
Occidente | Oriente | |
---|---|---|
% produzione mondiale | 50 % | 30 % |
% commercio mondiale | 42 % | 10 % |
intercommercio Oriente-Occidente | 2 % | 2 % |
DATI (FONTI: Gatt. Commercio Internazionale - 1961) |
Ora tutto questo, secondo Mister Popović, assolutamente non va! Per lumeggiare il suo disappunto, e fornire un’idea approssimativa di come, secondo lui, le cose dovrebbero andare, riferiamo un episodio messo recentemente in luce dalla rivista ufficiale polacca «Politika». La Polonia «socialista» produce derrate alimentari, ma deve comprare macchine utensili; la Germania Orientale «socialista» produce macchine utensili, ma deve comprare derrate alimentari. Credete voi che in base alla «divisione internazionale del lavoro socialista» esaltata da Chruščëv e ai rapporti fraterni all’interno del Comecom, Germania Orientale e Polonia si scambino a vicenda derrate alimentari e macchine utensili? Nemmeno per sogno! Polonia e Germania Orientale vendono rispettivamente alla Germania Occidentale derrate alimentari e macchine utensili, cosicché Bonn rivende a Varsavia le macchine utensili di Pankow e rivende a Pankow le derrate alimentari di Varsavia! Questo fenomeno deve, secondo Popović, generalizzarsi, diventare non più l’eccezione ma la regola. In realtà, esso smaschera le teorie «armoniche» e neo-liberoscambiste di Chruščëv, che vorrebbe presentare il commercio, nell’anno di grazia 1962, come «semplice circolazione di merci» e dimostra che il vostro scopo, signori Chruščëv e Popović, non è far circolare delle merci (M—D—M), ma far circolare capitale, ergo plus-valore (D—M—D′).
«Traducendo D—M—D nella formula comprare per vendere, il che null’altro significa se non scambiare oro con oro per effetto di un movimento mediatore, si riconoscerà subito la forma dominante della produzione borghese. Ma in pratica non si compera per vendere: bensì si compra a poco prezzo per vendere a prezzo più caro. Il denaro è scambiato con la merce per ricambiare questa stessa merce con una quantità maggiore di denaro, cosicché gli estremi D—D sono differenti quantitativamente se non qualitativamente. Una differenza quantitativa di questo genere presuppone lo scambio di non equivalenti […] Il ciclo D—M—D cela dunque sotto le forme di denaro e merce rapporti di produzione più sviluppati […]» (K. Marx, «Critica dell’economia politica», pag. 107, E.R).
La vostra formula, «comprare a poco prezzo per vendere a prezzo più caro» (D—M—D′), è la formula generale del capitale, e dimostra che voi siete dei capitalisti, signori Chruščëv e Popović! E ad essa voi, signor Popović, avete la faccia di bronzo di affidare la salvezza dei Paesi soltosviluppati?!?!
Concludendo, secondo Popović, lo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo è bloccato per le seguenti ragioni:
1) Caduta dei prezzi delle materie prime;
2) «Protezionismo» dei Paesi industrializzati per «difendersi contro lo sfruttamento della manodopera a buon mercato».
Di fronte a questa situazione Popović vede nero: «L’arresto dello sviluppo nei Paesi terzi minaccia lo sviluppo dei Paesi industrializzati». «Le tendenze di recessione attuali possono trasformarsi rapidamente e facilmente in una nuova depressione di grande ampiezza. Lo stimolo iniziale dato dall’integrazione cessa rapidamente di agire, e i membri del gruppo integrato proveranno ben presto la gravità delle ripercussioni […]». «Se noi permettessimo a queste tendenze di accentuarsi, esse avrebbero presto o tardi delle conseguenze fatali per i Paesi industrializzati e sottosviluppati».
Dunque, domanda perplesso e spaventato il nostro filisteo, la crisi del 1929 e la guerra del 1939 possono verificarsi ancora? Dunque, gli ideali della pace, della democrazia e del socialismo non eviteranno al popoli una nuova catastrofe? Ma il nostro «uomo d’affari», battendogli amichevolmente una mano sulla spalla, lo rassicura: il commercio, figlio mio, il commercio, parto naturale della democrazia e del socialismo, ci salverà!
Occorre commerciare! commerciare! commerciare! Così conclude Mister Popović, rinfrancato. La salvezza è nell’Onu, nel Gatt, nel Sanfedd, che devono finanziare la industrializzazione dei Paesi sottosviluppati. La salvezza è nella prossima Conferenza internazionale dell’Onu sul Commercio, per la cui organizzazione sono già in movimento i due massimi Big, gli «nomini di buona volontà»: Nikita Chruščëv e John Kennedy!
Non è possibile in questa sede analizzare i prezzi delle materie prime e dei prodotti industriali forniti dal signor Popović. Non possiamo sapere ad esempio se la diminuzione di 9 punti verificatasi dal 1953 al 1961 nei prezzi delle materie prime sia stata una discesa continua o una discesa accidentata, interrotta qua e là da brusche salite. Così pure ci mancano gli elementi necessari a stabilirne le cause fortuite. Essa potrebbe, ad esempio, nascere da una sovrapproduzione cronica di materie prime. Ciò che invece è chiarissimo da oltre cent’anni, ciò che il signor Popović mostra di ignorare del tutto, è:
PRIMO: da oltre cent’anni è interesse degli Stati industriali, protezionisti o no, favorire un abbassamerto dei prezzi delle materie prime.
SECONDO: da oltre cent’anni una caratteristica fondamentale del modo capitalistico di produzione consiste appunto nella dipendenza della produzione di materie prime organiche e vegetali dalla produzione industriale, vale a dire nella dipendenza del mercato della prima dal mercato della seconda, dell’offerta della prima dalla domanda della seconda.
I passi seguenti di Marx serviranno a chiarire le idee, non certo al signor Popović che di Karl Marx se ne infischia, ma ai nostri lettori.
«Poiché il saggio del profitto è uguale a pv⁄C ossia a pv⁄c+v è evidente che tutto ciò che produce una variazione nella grandezza di c, e quindi anche di C, genera del pari una variazione nel saggio del profitto, anche se pv e v, e il loro reciproco rapporto, rimangono invariati. La materia prima costituisce però un elemento essenziale del capitale costante […] e le sue fluttuazioni di prezzo influiscono quindi pro tanto sul saggio del profitto. Se il prezzo della materia prima decresce di un importo d, pv⁄C , ossia pv⁄c+v , si trasforma in pv⁄C−d o pv⁄(c−d)+v . Di conseguenza, il saggio del profitto aumenta. Viceversa, se il prezzo della materia sale, pv⁄C , ovvero pv⁄c+v diviene pv⁄(c+d)+v ; di conseguenza il saggio del profitto diminuisce. Supposto che le altre circostanze restino invariate, il saggio del profitto decresce o aumenta in ragione inversa del prezzo della materia prima […] Da ciò risulta evidente, fra l’altro, quanta importanza abbia per i Paesi industriali il basso prezzo della materia prima […] È quindi comprensibile la grande importanza che ha per la industria l’abolizione o la riduzione dei dazi sulle materie prime; lasciarle entrare il più liberamente possibile era già dottrina del protezionismo giunto ad una più razionale evoluzione. Questo, unitamente all’abolizione del dazio sul grano, fu l’obiettivo principale dei free-traders inglesi che si preoccupavano soprattutto dell’abolizione del dazio sul cotone» («Capitale», III–I–6, pagg. 145–146, E. R.).
La diminuzione del prezzo delle materie prime è direttamente proporzionale all’aumento del saggio del profitto. Da oltre un secolo, questa diminuzione rientra negli interessi del capitalismo, il quale inoltre vi perviene proprio con il libero scambio. La diminuzione di −9 verificatasi dal 1953 al 1961, che tanto stupisce il signor Popović è, alla luce del marxismo, perfettamente normale. Credere di migliorare le sorti dei Paesi prevalentemente agricoli scagliando anatemi contro il protezionismo ed elevando inni al libero scambio, rappresenta una idiozia a dir poco colossale (peraltro, come abbiamo visto, interessata!). Comunque il fatto fondamentale, qualunque possa essere l’evoluzione dei prezzi delle materie prime, sia che essi salgano, sia che diminuiscano, siano gli Stati industriali protezionisti o liberoscambisti, risiede nella dipendenza di questa sfera della produzione, generalmente agricola, dai cicli della produzione industriale. Scrive ancora Marx:
«Se si eccettua il salario, e cioè il capitale variabile, l’elemento più importante della produzione è la materia prima […] La parte del prezzo destinata a compensare il logorio del macchinario costituisce, finché il macchinario stesso è in grado di funzionare, una posta più che altro ideale; non ha grande importanza se essa vien pagata e convertita in denaro oggi, domani o in qualsiasi altra fase del periodo di rotazione del capitale. La questione assume un aspetto diverso per quanto riguarda la materia prima: se il prezzo di essa sale, può divenire impossibile ricostituirla integralmente, una volta dedotto il salario, dal valore della merce. Forti fluttuazioni di prezzo provocano perciò interruzioni, grandi urti e persino catastrofi nel processo di produzione. A tali fluttuazioni sono particolarmente soggetti i prodotti agricoli propriamente detti, le materie prime di natura organica, ecc. In conseguenza di circostanze naturali cui l’uomo non è in grado di porre riparo, della clemenza o inclemenza delle stagioni ecc., una medesima quantità di lavoro può essere rappresentata da quantità molto diverse di valori d’uso, e una determinata quantità di tali valori d’uso potrà quindi avere un prezzo assai diverso […]. Questo è uno dei fattori di tali fluttuazioni di prezzo della materia prima. L’altro […] è il seguente: secondo l’ordine naturale delle cose, le materie prime vegetali e animali, la cui crescita e produzione è sottoposta a determinate leggi organiche, connesse con certi periodi naturali, non possono essere immediatamente accresciute nella stessa proporzione, ad esempio, delle macchine e di altro capitale fisso, del carbone, dei minerali, ecc.; l’aumento dei quali, qualora a ciò concorrano le altre circostanze naturali, può avvenire in un periodo di tempo brevissimo in un Paese che disponga di un adeguato sviluppo industriale. È quindi possibile, e in regime di sviluppata produzione capitalistica perfino inevitabile, che la produzione e l’aumento dell’aliquota di capitale costante costituita da capitale fisso, macchinario ecc., avvenga in modo notevolmente più rapido che non la produzione e l’aumento dell’aliquota costituita da materie prime organiche. Ne consegue che la domanda di queste materie prime cresce più rapidamente dell’offerta, e quindi il loro prezzo sale […] Quando l’aumento dei prezzi comincia ad influire molto sensibilmente sullo sviluppo della produzione e sull’offerta, si è per lo più raggiunto il punto critico in cui, per effetto dell’aumento troppo a lungo protratto della materia prima e di tutte le merci delle quali essa costituisce elemento componente, la richiesta diminuisce e avviene per conseguenza anche una reazione nel prezzo della materia prima» («Capitale» – III–1, 6, pagg. 158-159).
Marx stabilisce quindi in modo chiaro e definitivo due tesi fondamentali:
PRIMO: Lo sviluppo del capitalismo trova nell’agricoltura, ergo nella produzione di materie prime di origine organica e vegetale, un insuperabile limite naturale. Questo limite naturale si compone di due fattori naturali: a) l’alternarsi di stagioni favorevoli e di stagioni sfavorevoli, ecc.; b) i periodi naturali rigidi a cui è sottoposta la produzione agricola - ciclo annuale o semestrale per le colture – ciclo di riproduzione dell’allevamento zootecnico, ecc.
Il fattore naturale a) porta direttamente a una continua e non prevedibile fluttuazione dei prezzi delle materie prime. Il fattore naturale b) porta indirettamente allo stesso risultato, poiché genera un continuo squilibrio fra la produzione di macchine (capitale fisso) e la produzione di materie prime (capitale costante circolante), fra la domanda di materie prime da parte del settore di produzione industriale e la offerta di materie prime da parte del settore di produzione agricola.
SECONDO: Questa dipendenza dell’agricoltura capitalistica dall’industria capitalistica, e la periodica fluttuazione dei prezzi delle materie prime che ne deriva, da un lato colpiscono il processo di riproduzione industriale nel suo punto più vulnerabile e delicato, cioè nella parte costitutiva costante circolante del capitale, formata appunto dalle materie prime, provocando quindi «interruzioni, grandi urti, e persino catastrofi»; dall’altro lato crea una situazione di dissesto e di crisi cronica nell’agricoltura.
Ne deriva che i Paesi industriali, contrariamente alle illusioni nutrite dal signor Popović, hanno tutto da guadagnare do una discesa dei prezzi delle materie prime. Hanno tutto da temere da un rialzo dei prezzi delle stesse. Ed infine hanno tutto de perdere da uno sviluppo industriale autonomo dei Paesi sottosviluppati (mentre il signor Popović sostiene esattamente il contrario). Per quanto riguarda tuttavia l’ipotetico sviluppo industriale autonomo dei Paesi del Terzo Mondo, è però doveroso riconoscere che il signor Popović non na saputo indicare una sola delle condizioni reali che lo potrebbero rendere possibile, se si eccettuano le chiacchiere sui finanziamenti dell’Onu. Comunque una cosa è certa: ascesa e discesa dei prezzi delle materie prime sono movimenti interdipendenti, che hanno arrecato, arrecano, e arrecheranno sempre e soltanto distruzione e miseria ai Paesi sottosviluppati e prevalentemente agricoli. La via d’uscita per questi Paesi, sia pure una via di uscita consistente in uno sviluppo industriale capitalistico, non può assolutamente risiedere in un libero scambio vantaggioso con i Paesi industriali, cioè in un rialzo dei prezzi delle materie prime; purché questo rialzo, invocato a gran voce dai peggiori demagoghi e opportunisti, provocherebbe al massimo una crisi (a noi graditissima) nei Paesi industriali, arrecherebbe vantaggi solo ai gruppi interessati all’operazione, e sarebbe ben presto seguito da un’ulteriore discesa.
È ovvio inoltre che il più peregrino dei «rimedi» proposti da Popović, l’esportazione di prodotti industriali compensando l’inferiorità tecnica con «lo sfruttamento della manodopera a buon mercato», non merita l’onore di una critica, spettabile Mister Popović, ci sapete voi dire di quante ore di plusvalore deve aumentare «lo sfruttamento della vostra manodopera a buon mercato», affinché la Jugoslavia «socialista» sia in grado di scaraventare in Europa automobili utilitarie a prezzi inferiori a quelli della Fiat e della Renault? Basteranno, nobile Popović, 12 ore? Basteranno, «socialista» Popović, 14 ore? Basteranno, «democratico» Popović, 16 ore? Basteranno, umanitario Popović in lacrime sulle miserie umane, 18 ore? E dove la troverete voi, mite signor Popović, la frusta da negriero, come lo erigerete voi, gentile signor Popović, il campo di concentramento onde costringere il proletariato jugoslavo a produrre beni industriali a prezzi di concorrenza da lanciare sui mercati dell’Ovest? Ve la regaleranno i trotzkisti, questa frusta, velo costruiranno gli intellettualoidi operaisti dei «Quaderni Rossi» e di «Socialisme ou barbarie», e i loro deliziosi ammiratori della «Sinistra comunista», questo campo di concentramento, essi che ravvisano nella vostra economia «democratica a gestione aziendale», dove «si sfrutta la manodopera a buon mercato», un modello non «burocratico» di economia «socialista»?
Le stesse preoccupazioni del signor Vladimir Popović per quanto riguarda il fenomeno della discesa dei prezzi delle materie prime, e la stessa miopia, si trovano nell’articolo del signor J. Kowalewski, apparso sul giornale polacco «Trybuna Ludu»: «Nel commercio internazionale noi osserviamo da molto tempo dei fenomeni inquietanti e sfavorevoli. Innanzitutto il processo continuo di riduzione dei prezzi e di aggravamento delle condizioni di vendita delle materie prime e dei prodotti agricoli, che colpisce soprattutto l’economia dei Paesi non sviluppati ma non concerne soltanto questi Paesi […]» (passo riportato da «Rinascita», 20 ottobre).
È chiaro che la Polonia si trova in una situazione analoga alla Jugoslavia, e le soluzioni che essa propone sono della stessa insipienza delle soluzioni proposte da Popović.
Sulla questione dei prezzi delle materie prime, apporta una luce più vivida il seguente passo di un articolo della «Ėkonomičeskaja gazeta», apparso sempre su «Rinascita» del 20 ottobre: «Per utilizzare tutti gli elementi di vantaggio della divisione socialista internazionale del lavoro […] occorre pure elaborare un preciso sistema di incentivi materiali allo scopo di stimolare la produzione nei Paesi esportatori di materie prime e combustibili […]. È noto che i prezzi che regolano gli scambi tra gli Stati socialisti sono costruiti sulla base dei prezzi mondiali. Ciò non sempre stimola nel modo dovuto i singoli Stati a sviluppare l’estrazione e l’esportazione di una serie di materie prime necessarie. È pertanto opportuno fissare dei prezzi economicamente fondati per le materie prime deficitarie […]. In prospettiva sarà opportuno creare una banca collettiva degli Stati socialisti […].».
L’«Ėkonomičeskaja gazeta» ammette dunque tranquillamente che la discesa dei prezzi delle materie prime si verifica ad est come ad ovest, e che i Paesi agricoli dell’est ne subiscono le identiche ripercussioni: L’URSS si comporta nei confronti dei satelliti dell’est come il classico Paese imperialista che sfrutta i mercati delle materie prime! Per quanto riguarda infine la nostra tesi che la salita e la discesa dei prezzi delle materie prime non solo non rappresentano una via d’uscita per i Paesi sottosviluppati, ma ne ribadiscono la dipendenza dai centri dell’imperialismo, occorre riferire un’interessante notizia. Mentre tutti si lamentano della caduta dei prezzi delle materie prime, questi sono improvvisamente saliti nel corso della recente crisi internazionale. È noto infatti che, in caso di guerra, ogni Paese industrializzato scarseggia di materie prime, per cui i prezzi di queste salgono. Ecco la via di salvezza che il capitalismo è in grado di offrire ai Paesi sottosviluppati: la guerra!
Dopo di aver mostrato, contro il signor Popović, che la malattia cronica dei paesi sottosviluppati ha radice proprio in quel «libero commercio» ch’egli auspica, apriamo il saggio «Brasile in rivoluzione», apparso sul numero di settembre della rivista «Esprit» ad opera di Josué de Castro – Nelson de Mello – Gilberto Paim.
L’America latina è da quasi un secolo un esempio tipico dell’insufficienza dell’indipendenza politica formale ai finì di un’autentica rivoluzione borghese in grado di aprire le vie all’industrializzazione capitalistica: esempio cospicuo che avrebbe dovuto, già all’epoca della conferenza di Bandung, mettere in guardia i facili esaltatori della «rivoluzione coloniale» come «liberazione universale dell’uomo» del tipo Jeanson o Senghor. Ora, nell’America latina, il possibile centro di una futura industrializzazione del continente sudamericano è appunto il Brasile. Nel saggio citato, troviamo a questo riguardo un’interessante indicazione, da cui risulta che il ritmo medio d’incremento dell’economia brasiliana è del 7 % annuo, e il ritmo d’incremento della sola produzione industriale del 10 %; ritmi, fa rilevare Josué de Castro, che sono i più alti fra i paesi del Terzo Mondo ad eccezione della Cina. Il Brasile, come tutti i paesi sottosviluppati, è stato finora sottomesso al mercato e all’esportazione delle materie prime (torniamo dunque al problema trattato in polemica col signor Popović) e la tesi marxista della crisi cronica in cui versa il settore agricolo a causa della fluttuazione dei prezzi delle materie prime, da noi brevemente esposta, trova piena conferma nella succinta caratterizzazione che della storia dell’economia brasiliana traccia il de Castro. Da essa risulta che l’economia brasiliana, prevalentemente agricola, non ha avuto finora un suo campo d’applicazione ben definito; ma ha subito i vari cicli del mercato delle materie prime, così enumerati dall’autore: «ciclo del legno del Brasile – della canna da zucchero – della caccia all’Indiano [sic!] – della miniera – dell’agricoltura nomade – del caffè e della raccolta del caucciù». Il de Castro definisce questo tipo d’agricoltura, che caratterizza come «coltura estensiva dei prodotti d’esportazione», «sviluppo economico coloniale», e gli oppone «uno sviluppo dell’economica nazionale» basato su «un’agricoltura intensiva di mezzi di sussistenza» in grado di creare «il mercato interno».
Josué de Castro ha qui, secondo noi, esposto esattamente la vera condizione necessaria all’industrializzazione capitalistica di un paese sottosviluppato: il passaggio dall’agricoltura estensiva dei prodotti di esportazione all’agricoltura intensiva dei mezzi di sussistenza; il che equivale alla formazione del mercato interno. Ma l’autore ci fornisce un’altra preziosa indicazione: il 60 % della popolazione brasiliana vive in condizioni inumane. Questa cifra, probabilmente comune a tutti i paesi del Terzo Mondo, basta da sola ad esprimere la vera difficoltà dell’industrializzazione autonoma di questi paesi nell’epoca dell’imperialismo. Che cosa significa, infatti, in tale epoca, la formazione del mercato interno? Da una parte, lo abbiamo visto, significa passaggio dalla produzione di materie prime per l’esportazione alla produzione dei mezzi di sussistenza in grado di costituire la parte variabile del capitale destinato all’industria; e per raggiungere questo primo risultato sarebbe necessaria una rivoluzione politica interna che colpisca gli interessi dei gruppi legati all’esportazione di materie prime e attui una trasformazione radicale delle campagne, distribuendovi una parte di quel 60 % di popolazione che vive in condizioni inumane. Dall’altra, una rivoluzione di questo tipo, che equivarrebbe alla formazione del mercato interno, non può non colpire gli interessi di tutti i paesi industrializzati, a Oriente come ad Occidente, e non suscitare una feroce reazione e, se possibile, repressione da parte loro. Il paese sottosviluppato che, nell’epoca dell’imperialismo, attua la sua rivoluzione borghese, in quanto sconvolge il delicatissimo equilibrio del mercato mondiale delle materie prime va dunque incontro al boicottaggio e all’isolamento. Le difficoltà esterne si riproducono a loro volta all’interno. La reazione dei paesi industrializzati e la necessità di forzare le tappe dell’industrializzazione, portano a una centralizzazione del capitale, che precede la sua concentrazione. Ma questo, se è possibile nel settore industriale, non lo è altrettanto nel settore agricolo. Da un lato, l’enorme massa umana espropriata, il 60 % ricordato dal de Castro, non è immediatamente assorbibile nell’industria; dall’altro, essa deve produrre mezzi di sussistenza per gli operai e far ciò con mezzi tecnici primitivi.
Da un lato, nel settore industriale abbiamo il punto di approdo nel capitalismo, la centralizzazione del capitale, senza che questa sia preceduta dall’accumulazione e dalla concentrazione; dall’altro, nel settore agricolo, abbiamo il punto d’inizio del capitalismo, la piccola produzione mercantile, senza che questa possa svilupparsi normalmente nell’azienda capitalistica a causa della sovrappopolazione miserabile delle campagne e delle esigenze dell’industrializzazione forzata. I due sviluppi, industriale e agricolo, s’inceppano a vicenda; ma, in ultima analisi, l’agricoltura rimane la vera pietra d’inciampo di ogni industrializzazione nell’epoca dell’imperialismo.
Josué de Castro formula questa contraddizione come «contrasto fra la necessità sociale d’assorbire manodopera e necessità tecnico-economica di produrre a prezzi di concorrenza oggetti paragonabili a quelli che vendono i paesi industriali».
Non si capisce nulla delle difficoltà dell’industrializzazione nei paesi sottosviluppati, se non si comprende che questa «manodopera da assorbire», questo 60 % che vive in condizioni inumane, non è il prodotto di un mercato interno in formazione, non è il prodotto della scissione dei piccoli produttori di merci in capitalisti da una parte e salariati dall’altra: non si tratta qui del processo descritto da Marx nella sezione settima del primo libro del «Capitale» per l’Inghilterra, o da Lenin nello «Sviluppo del capitalismo in Russia». Quest’enorme massa espropriata è il prodotto dell’erosione prodotta dall’imperialismo in decenni di asservimento e di rapina; questa erosione ha creato gli espropriati, ma non il mercato, né le fabbriche, né i capitalisti; ha reso enormi masse umane «libere» di morir di fame. La manodopera a buon prezzo, espressione di una mancata rivoluzione agraria anziché di una rivoluzione agraria già avvenuta, impedisce dunque la produzione di oggetti industriali a prezzi di concorrenza – non la favorisce, come crede il signor Popović. Inoltre, il vero problema dell’industrializzazione non consiste nell’esportare prodotti industriali, e tanto meno materie prime, a prezzi vantaggiosi, ma nel creare il mercato interno, cioè nell’avviare lo scambio fra industria e agricoltura.
Di fronte a tutte queste difficoltà, Josué de Castro è costretto a porre il problema della violenza, e a riconoscere che:
«Non si conoscono esempi di trasferimento pacifico del potere nel mondo moderno» (sic!). «Gli esempi più drammatici si incontrano nella storia degli Stati Uniti… È possibile che il Brasile sia un’eccezione storica… È possibile, ma non è certo».
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Perché la Cina spara? Perché la Cina minaccia? Perché è messa al bando così dal Palazzo dell’ONU come dal «campo socialista»? Perché la Cina è l’unico paese sottosviluppato, (sottosviluppato – nota bene – non feudale), che sia riuscito a portare a termine una autentica rivoluzione borghese, ad iniziare una autentica industrializzazione capitalistica. L’enorme territorio cinese, e la sua enorme popolazione, rappresentano un mercato immenso che si è sottratto alla sfera dell’economia coloniale, ed entrato nel processo di industrializzazione capitalistica ha sconvolto tutto l’equilibrio del mercato delle materie prime.
Questo fatto formidabile, se riuscirà a giungere a compimento, rappresenterà l’unico risultato rivoluzionario della seconda guerra mondiale. È interesse del capitalismo internazionale, a Oriente come ad Occidente, impedire che tale sviluppo si compia, che l’industrializzazione cinese s’affermi come un fatto irreversibile. Questa imprescindibile necessità di bloccare lo sviluppo della Cina, comune così all’URSS come agli USA, è tuttavia la più grande vendetta della storia nei confronti del capitalismo mondiale. Imposta da ferree leggi economiche, essa mette la Cina al centro delle contraddizioni mondiali del capitalismo, ne fa uno degli anelli più deboli (l’altro anello destinato a saltare potrebbe essere domani l’Europa centro-occidentale) della catena capitalistica. È possibile senza gravi conseguenze impedire a una macchina di avviarsi; non si può fermare di colpo una macchina in movimento senza farla saltare, e senza ridurre allo stesso tempo in briciole il pazzoide che osi tentarlo.
La politica dall’imperialismo nei confronti della macchina cinese lanciata a velocità vertiginosa, la politica USA del blocco di Formosa e del Pacifico, dell’URSS nei confronti della Mongolia esterna, dell’URSS che vende armi all’India e aizza lo sciacallo indiano contro la tigre cinese, è foriera di rovine così in Cina come nel resto del mondo. L’illusione di fermare la Cina è una follia degna soltanto dell’imperialismo giunto alla sua estrema fase di senescenza. La Cina può essere fermata in un solo modo: facendola crollare. Ma il crollo dell’industrializzazione cinese sarebbe allo stesso tempo il crollo dell’imperialismo, perché porterebbe con sé la ribellione del proletariato cinese e internazionale. La Cina di oggi riproduce, con un’analogia storica ma con in più tutta la terribile complessità sociale delle economie sottosviluppate e coloniali che abbiamo precedentemente analizzate (e nelle quali, cosa incomprensibile per i filistei, si pone il problema dell’imperialismo, non del feudalesimo), la Cina di oggi riproduce dunque, mutate nella forma e ingigantite nel volume, tutte le contraddizioni della Russia dal 1900 al 1917.
La politica folle dell’imperialismo ha già condotto a questo notevole risultato – mandare in frantumi i principi delle conferenze di Colombo e di Bandung, spezzare l’apparente omogeneità dei paesi afro-asiatici, opporre la Cina agli altri paesi del Terzo Mondo.
Quando, nel 1956, dopo i sorrisi della Conferenza di Ginevra, l’imperialismo giunse ad uno di quei «redde rationem» che periodicamente accompagnano i rapporti interstatali fra una guerra mondiale e l’altra, e le contraddizioni dell’imperialismo esplosero a Suez e a Budapest, Mao si rivestì di seta e di ventagli e lanciò per il mondo la teoria dei «cento fiori» di loto. Dopo sei anni, nel 1962, oggi che sembra delinearsi, col blocco di Cuba e di Berlino, un altro sussulto esplosivo delle contraddizioni imperialistiche, Mao si veste di ferro e fa echeggiare per il mondo la teoria delle «mille montagne e dei diecimila cannoni». A questo bel risultato ha condotto la politica di provocazione e di isolamento svolta dagli USA e dall’URSS, nei confronti della Cina! Se, prima del delinearsi della grande crisi economica, che tutti oggi temono e che noi da 15 anni attendiamo, l’imperialismo arriverà a un’altra crisi parziale, quale nuova teoria enuncerà Mao?
Sarà la teoria dei «vasti deserti» o la teoria delle «grandi acque»? Sparerà la Cina a Nord, o sparerà ad Est? Verso la Mongolia russa, o verso Formosa americana?
Oggi intanto la Cina, che con la Conferenza di Bandung diede inizio alla coesistenza pacifica, suona con il fragore dei cannoni il rintocco funebre della coesistenza. Questa lugubre campana è risuonata anche alla Conferenza del Cairo, nelle parole di Vladimir Popović, il quale ha previsto la possibilità di una nuova crisi e di una nuova guerra mondiale. Le previsioni catastrofiche che il nostro Partito ha svolto dal 1945, escono oggi proprio dalle bocche dei rappresentanti del Terzo Mondo, dalle bocche dei cannoni cinesi! Ma, mentre alla Conferenza del Cairo la nota dominante è stata la vigliacca paura unita all’ottimismo volgare, nel rombo dei cannoni cinesi è il fragore stesso della crisi sotterranea del capitalismo che si fa sentire. La battaglia alla frontiera cino-indiana rappresenta la prova concreta che la coesistenza pacifica del Cremlino e del Pentagono è incompatibile non soltanto con la rivoluzione proletaria, ma con la stessa rivoluzione borghese.
«Non si conoscono esempi di trasferimento pacifico del potere». Le parole del sociologo borghese Josué de Castro trovano nelle cannonate cinesi una formidabile conferma. Il proletariato internazionale saprà apprendere la dura lezione che la stessa borghesia gli ha impartito e gli impartisce!