LA LEGGENDA DEL PIAVE
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I fatti presi in esame si riferiscono alla distruzione dei paesi a monte e a valle della diga del Vajont, nel cui invaso la notte del 9 ottobre 1963 precipitò una enorme frana da cui si generò un'onda che causò oltre 2.000 morti.
Nella epopea patriottica italiana il Piave aveva dal 1917 guadagnato il posto ed il titolo di fiume nazionale. In quella che avrebbe dovuto essere la quarta guerra di indipendenza, facendo fare alla Patria un balzo ulteriore oltre la frontiera veneta ottenuta (non per gloria d'armi) nella terza, dopo più di due anni di fronte inchiodato sull'Isonzo, dalle onde di sangue di una dozzina di battaglie, il movimento si era invertito, e con la rotta famosa di Caporetto gli Austriaci avevano dilagato nella pingue pianura. Dopo alcune giornate di tremore in cui si credette che li si sarebbe fermati sull'Adige o sul Mincio, al confine del 1859-66, riuscì (intuita solo dal mozzicone non del tutto scemo di re che dirigeva la difesa) la battaglia di arresto sul Piave. Imparammo tutti allora che si dice il Piave e non la Piave, dubbio dei nostri anni di scolaretti.
Il nome del fiume entrò nella poesia più popolare e nella leggenda. Il vecchio rimatore napoletano E. A. Mario, da poco morto, scrisse versi e musica che per un pelo non batterono l'inno di Mameli per il posto di inno nazionale... Ricordate l'ingenuo frasario?... «insieme ai fanti combattevan l'onde...». Ancora un fiume personificato nella letteratura come quelli classici, che difende la patria portando al mare torme di cadaveri nemici... «il Piave mormorò: non passa lo straniero...».
Ma ora il Piave ha portato a mare migliaia di cadaveri italiani, travolti dall'onda apocalittica del Vajont nella tetra notte tra il 9 e il 10 ottobre, e ha perso il suo titolo di nobiltà. La sua leggenda era ed è una leggenda di morte, e non vi è più gloria nel portare corpi di combattenti che di pacifici civili sorpresi nel sonno. Allora furono immolati ai non mai sazi di sangue numi della guerra, oggi a quelli della moderna civiltà capitalistica borghese e patriottica, e soprattutto adoratrice della sua scienza e della sua tecnica.
Non da oggi abbiamo il desiderio di disonorare, insieme alle deità assassine della guerra tra i popoli, queste non meno infami di una civiltà che si corrompe e decade di anno in anno.
In «Prometeo», II serie, n. 4, del luglio-settembre 1952, dedicammo al tema un articolo: «Politica e 'costruzione'», che, tra vari esempi di disastri mortali costituenti vere bancarotte della tecnica scientifica, ricordava alcuni casi di inondazione e citava esempi storici di dighe di contenimento dei bacini montani, ricordando il corso di questa arte a partire dai Mori di Spagna e da Leonardo fino alle carenze organizzativi dei moderni servizi idraulici, nel tempo del grande capitale e delle mostruose imprese di costruzione.
Nel 1959 vi fu in Francia la paurosa catastrofe del Fréjus che tuttavia, malgrado il cedimento della diga, che nel bacino del Vajont non si è avuto, fece meno vittime della recente catastrofe italiana (1).
Fin da allora trovammo un responsabile, un imputato da trascinare sullo scanno dei rei, ma non alla maniera dei politicanti sciagurati dell'opportunismo demagogico: era il Progresso, questo mito bugiardo che fa curvare davanti a sé le schiene dei poveri di spirito e degli umili affamati, pronti a giurare fede in questo Moloch che ogni tanto e un poco ogni giorno li stritola sotto le ruote del suo osceno carro.
Nel disumano sistema del capitale, ogni problema tecnico si riduce ad un problema economico di premio che si ottiene riducendo i costi e alzando i ricavi. Le antiche civiltà preborghesi avevano qualche tempo residuo per pensare alla sicurezza e all'interesse generali. Come ricordammo per la diga del Fréjus, anche quella era un capolavoro della tecnica ultimo grido, era leggera, sottile e agile e con un limitato numero di tonnellate di cemento ed acciaio aveva infrenato un volume astronomico di acqua nel bacino a monte. Ma già gli antichi costruttori sapevano che le dighe erano a gravità, ossia in tanto reggevano la formidabile spinta liquida in quanto pesavano enormemente e non si ribaltavano. Ricordammo che dopo alcuni disastri in Spagna, e in Italia del Gleno (1923), si era modificata la teoria tenendo conto anche di una spinta idrica, da sotto in sopra, dalla base della diga; e queste erano divenute più corpulente e stabili. Ma le modernissime dighe hanno ubbidito (ha ubbidito una scienza venale) alla esigenza santa del basso costo e si fanno, come nel Fréjus e nel Vajont, ad arco, ossia con una curvatura che volge il tergo all'acqua spingente e scarica sulle spalle incastrate nei due fianchi della valle interrotta. La diga diviene così meno voluminosa, meno pesante e di minor costo, e si fa coi materiali di massima resistenza. Ma allora la pressione delle due spinte sui fianchi di imposta cresce a dismisura, perché dipende dalla pressione di acqua a tergo: che è tanto più tremenda quanto più alta è la diga. Permettendo gli ottimi materiali di assottigliare la diga e quindi le spalle di essa, la pressione sulla roccia naturale è immensa, ed il problema non è più quello, dominabile, di proporzionare l'arco di cemento armato alla spinta (che non si può ridurre), ma di prevedere se i fianchi rocciosi non si stritoleranno lasciando rovinare la diga ad arco. Questo fu l'errore al Fréjus, anche allora non sbagliarono gli ingegneri meccanici ed idraulici; ma - si disse - i geologi che erano stati chiamati a giudicare della solidità della roccia.
Il primo problema può essere meglio seguito da calcoli matematici, siano essi fatti da un valente teorico o da una macchina elettronica, mentre il grande teorico consuma dietro di essa pochi pacchetti di sigarette. Può essere verificato con opportuni modelli in iscala, in un laboratorio.
Il problema geologico non è da calcoli da fumoir o da gabinetto di prove. È un problema di lunga esperienza umana sulla prova che hanno fatto i manufatti storici. Esperienza umana e sociale. Tutta la moderna ingegneria in quanto fa manufatti non tascabili o automobili, ma opere fisse alla crosta del pianeta, ha il suo problema chiave nel rapporto fra terreno e costruzione (per una umile casa la fondazione) e non ci sono formule che valgano per ogni caso, ma molteplici mezzi di arte tra cui si può scegliere avendo una sudata esperienza, e non basta prendere stipendi da tre milioni al mese per fumare dietro la calcolatrice elettronica.
Questa esperienza si è accumulata in secoli. Chi crede al progresso e alla facezia che l'ultima trovata della scorsa stagione compendia tutto il senno dei tempi, può trovare il ricco stipendio, ma fa succedere i disastri, la cui statistica moderna, ma essa sola, è in progresso.
La stessa tradizione popolare tra le masse incolte, la stessa toponomastica possono aiutare l'esperto geologo (se davvero toccasse a lui), ma piuttosto il valente ingegnere. Perché mai la stretta di Fréjus si chiamava del «Mal passet»? il malo passo davvero. Il monte che fiancheggiava il lago artificiale e che è franato in esso facendolo debordare paurosamente, perché si chiamava monte Toc? In veneto Toc vuol dire pezzo; era roccia che veniva via a pezzi, e tutti i valligiani aspettavano la frana. Vajont, nome che prima che del lago artificiale era del passo, dell'orrido in cui si è incastrata la diga di 263 metri (primato di tutti i paesi e di tutti i tempi!), in dialetto ladino friulano vale il veneto va zo, va giù, che viene giù, che rovina a valle. Infatti si è parlato di frane storiche, su cui poi hanno poggiato i poveri abitanti.
Il geologo Gortani, nello smentire sdegnosamente che alla scelta del luogo per la diga avesse dato mai assenso, ha detto che la decisione competeva agli ingegneri. Esattissimo. La filosofia delle due tragedie del Malpasset e del Vajont (fra tante altre) è una sola. Alla base di queste attuazioni temerarie, dettate e imposte dalla fame di profitto, da una legge economica cui devono chinarsi il terrazziere, il geometra e l'ingegnere dirigente, e per cui è rimedio sciocco trovare con le inchieste quello da condannare, sta il più idiota dei culti moderni, il culto della specializzazione. Non solo è disumano trovare il capro espiatorio, ma è vano, quando si è lasciata sorgere questa insensata società produttrice fatta a compartimenti stagni. Nessuno sarà colpevole, perché, messa un momento la testa fuori della sua bendatura a paraocchi, potrà dire di aver riposato sul parere di quello del compartimento vicino, che era lui l'esperto, lo specializzato, il competente.
La scienza e l'arte del produrre e soprattutto del costruire saranno nella società del futuro, che abbia ucciso il mostro del rendimento economico, della produzione di plusvalore, unitarie e indivise. Non la testa di un uomo, ma il cervello sociale, al di sopra di stolti compartimenti stagni, vedrà senza paraocchi di comodo la vastità di ogni problema.
Si è letta una presentazione dell'ingegnere che per 30 anni perseguì il sogno di fare la diga del Vajont. Il valentuomo è morto e non ha bisogno della nostra difesa. Egli era suggestionato dal fatto, puramente morfologico, che con poca diga si poteva fermare moltissima acqua, e che non vi era un posto con un migliore rendimento a pari spesa. Una vittima del determinismo inesorabile.
Nel suo commento l'ing. Semenza si stupiva che, vedendo la diga fatta, si potesse pensare che ci erano voluti trent'anni di sviluppo della sua idea di partenza. Non sospettava che il lungo tempo potesse dipendere dal dubbio sulla buona scelta. Gli pareva che il lavoro fosse stato bene diviso tra i settori protetti dal diritto di non sapere né volere controllare le conclusioni l'uno dell'altro. In questa illusione, che non è una colpa e tanto meno un delitto punibile «in committendo» o «in omittendo», sta la onnipotenza, più forte di tutti e anche del più grande ingegnere, della moderna capitalistica superstizione della divisione del lavoro, che Marx primo condannò, e la sola rivoluzione ucciderà. L'innocenza del progettista si legge nelle sue parole:
«centinaia, migliaia di persone, scienziati, ingegneri, operai di tutte le specializzazioni, hanno lavorato alla realizzazione di questa diga che avrebbe sbarrata la stretta e profonda forra del torrente Vajont. Orrido del Vajont, come lo chiamano certe guide turistiche, tanto la natura è impervia e inospitale».
Nessuno oggi pensa che potrebbe avere ragione l'agente di turismo, dato che fa soldi facendo ammirare la stretta forra, e non collaborando alla diga...
«Fra i primi gli idrologi» che misurando le piogge e le portate dei corsi d'acqua permettono di «risalire al volume delle acque che verranno trattenute nel serbatoio formato dalla diga». «Su in alto il geologo esamina a fondo le caratteristiche della roccia, confortato dalle più moderne (dalli!) ricerche geofisiche». «Il topografo, intanto, precisa con esattezza millimetrica (gergo di moda!) la configurazione della valle, arrivando a stabilire perfettamente i contorni».
Omettiamo i dettagli sulla progettazione o le progettazioni, le 90 ore di calcolatrice che hanno risparmiato anni di lavoro di una squadra di matematici, la storia delle verifiche sui modelli in legno prima, poi in cemento... Un solo passaggio ci interessa, quello che si riferisce alla ineluttabilità della determinante economica.
«Il progetto tra i tanti adottato, che risale al 1956, sfrutta completamente le caratteristiche della valle che sembra fatta apposta per costruirvi uno sbarramento di dimensioni eccezionali».
La valle era fatta apposta per essere sfruttata, e se non ci fosse stata... bisognava inventarla.
Con la scienza, la tecnica e il lavoro, l'uomo sfrutta la natura? Non è vero, e il rapporto intelligente tra uomo e natura nascerà da quando non si faranno questi conti, e calcoli di progetto, in soldi, ma in grandezze fisiche, ed umane.
Sfruttare si può dire quando un gruppo umano sfrutta l'altro. Con le costruzioni grandiose del tempo mercantile gli sfruttati si rendono solidali con la intrapresa sfruttatrice. A Longarone era stata impiegata tanta gente ed era piovuto tanto oro. L'ingegnere doveva rispondere, se faceva piovere oro? È vero che una maestranza ha scioperato per l'evidenza del pericolo di frana, ma è anche amaro insegnamento quello dell'operaio che, allontanato dal geometra votato alla morte perché, claudicante, non ce la avrebbe fatta a fuggire in caso di allarme, si è violentemente ribellato. Quando la paga è alta, il rischio della vita umana è l'aria normale che la società del danaro e del salario respira.
Tutta la valle ha rischiato ed è morta. La soluzione di questo problema i comunisti in commercio non la troveranno mai col metodo «democratico».
Sono soluzioni sciocche a queste tragedie - che mostrano solo che la società borghese e pecuniaria, di iniziativa privata e di mercato, sopravvive alle ragioni della sua storia, e ormai è un cadavere più putrefatto di quelli di cui ha seminato il Piave - quelle agitate dai giornali nutriti di una bolsa demagogia piccolo borghese, che forse un secolo addietro poteva essere ammessa, e che chiede giustizia, onestà, e pene per quelli che sbagliano o truffano.
Socialmente e politicamente ci separiamo da quanti chiedono, in nome dei morti che hanno rischiata la vita perché una società iniqua desse loro la sola civiltà che possa elargire, le tre procedure risibili.
L'inchiesta amministrativa, disposta dai ministri che hanno le mani in pasta, e demandata a professori di università, ligi al sistema della responsabilità di settore, per cui si ha il diritto di non sapere «la materia degli altri» in questo sistema burocratico, scolastico e carrieristico che ci affoga.
L'inchiesta parlamentare, in cui un gruppo di gente di nessuna preparazione, di ideologie contrastanti, salvo quella della brama del successo e dell'arrivismo politico che è lo stesso dall'estrema destra all'estrema sinistra, studiano quello che non capiscono e poi fanno votare l'assemblea dei «politici», ossia di quelli che per primi dovrebbero andare al macero per liberare la società umana.
La magistratura, che sa il suo mestiere nell'applicare un codice inchiavardato nella tradizione e nell'ultima costituzione, buono per il ladruncolo di poche lire e per il funzionario che in questo caso, solo ad andare dentro, aveva reso pubblico «rubandolo» un documento che indicava che il sospetto tecnico della diga era fondato ed antico.
Tre gradi diversi di beffa, non per i morti, ma per i vivi che guardano ai partitacci e ai giornalacci di tutti i colori, e affogano nella incoscienza dei loro destini.
Che fare della diga? Altro problema che l'ingranaggio dell'amministrazione burocratica e democratica non potrà risolvere.
La diga non è stata travolta, e l'ing. Semenza se vivo, dal punto di vista del settore, sarebbe innocente.
Ma il problema era la stabilità dei fianchi della valle, una volta che su di essi si era di colpo portata una pressione idrica di 26 atmosfere.
Nel fondo non vi erano alluvioni? Che scusa è questa? Nella forra il filo liquido veloce dunque non depositava, ma erodeva, creando nei secoli le condizioni che i topografi riferirono al povero Semenza. Dunque la parete era friabile, certamente permeabile, e sotto la grande pressione in strati che hanno potuto cedere ha causato la frana del Toc.
Gli invasi successivi che potevano dare un collaudo empirico, sono stati effettuati senza collaudi e senza ordine dell'onnipotente Stato.
La diga era troppo alta. La relativa legge dovrebbe essere riformata dando un massimo di altezza; poniamo meno di cento metri. Ma allora il ricavo dell'operazione scenderebbe al disotto dei costi. Orrore! Non ci rimetterebbe il monopolio, ma tutto il modo di mangiare di quelli che ne dipendono, e lo stesso sarebbe se operasse direttamente lo Stato.
Il riformismo, non solo in Italia, ha questa bandiera; fatta la legge, trovato l'inganno.
Un vecchio ingegnere che è per l'antica laurea in grado di capire geologia, topografia e meccanica costruttiva, ha detto che ora la diga potrebbe crollare. Dietro di essa non vi è acqua ma una fase mista di acqua e terra (fango e melma) la cui spinta per il maggior peso specifico può risultare più forte. Qui non ci sono modelli che tengano! il caso è troppo indeterminato e vanno buche anche le calcolatrici.
Il bacino del Vajont è diviso in due dalla colossale frana il cui volume supera quello dell'acqua che conteneva, una collina che esce dal pelo d'acqua di centinaia di metri.
Ma il minore lago rimasto contro la diga può generare la pressione indicata dal vecchio ingegnere di cui sopra. Tutto dipende dall'altezza, che è la totale, e dalla densità della melma, che starà decantando.
Il bacino va vuotato, non sfondando la diga a cannonate, ma attuando dei sifoni a cavallo di essa, in sostituzione dei dispositivo che il disastro ha annientati, e rinunziando alla energia potenziale che le turbine potrebbero, se funzionanti, sfruttare.
Non crediamo che il Consiglio superiore dei lavori pubblici abbia potuto decidere che il muro resti come sostegno (?) di un lago alpino.
Quella fogna di morte non è un lago alpino. I laghi si sono formati nell'epoca glaciale tra fianchi di roccia abissale incrollabile e con un modesto sbarramento di naturali colline moreniche. Il loro collaudo lo ha fatto Madre Natura in milioni di anni, e non una Commissione tecnica!
L'uomo, è certo, vincerà la natura. E lo farà grazie ad una scienza, una tecnica ed una amministrazione, che non si affitteranno a nessuno.
Prima di piegare a noi la natura, dovremo aver piegate le sinistre forze sociali che ci schiavizzano peggio di milioni di metri cubi di pietre sepolcrali, e che mettono il responso degli esperti di oggi sotto la condanna dei lauti compensi e dei profitti esosi. Dobbiamo arginare le frane non di acque e terra; ma di schifosissimo oro.
Notes:
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Source: «Il programma comunista» n. 20 del 1-15 novembre 1963