Nella Prima Guerra imperialistica la sfrenata propaganda che voleva condurre alla tregua ed al disarmo degli antagonismi di classe in nome della sacra unità nazionale faceva leva soprattutto sulle caratteristiche di taluni paesi in conflitto, convenzionalmente considerati come avanguardia politica del mondo, e cittadella delle libertà rivoluzionarie.
Il Mussolini, classico esponente di questa tendenza in Italia, si lasciò scuotere nella campagna anti-guerresca dai guaiti social-patrioti: «Lascerete sgozzare la Francia?». E quando annunciò la decisa virata di bordo inneggiò al tradizionale liberalismo inglese, alla Francia delle dieci rivoluzioni e al libero democratico Belgio. Invano si rispose a costoro che, nell’aggruppamento che la propaganda interventista idealizzava, figurava nientemeno che la Russia degli Zar, e che le imprese coloniali delle borghesie inglesi e francesi non erano seconde a quelle tedesche, mentre il piccolo Belgio era il paese dei più spietati negrieri d’Africa.
Nella analoga presentazione della Seconda Guerra imperialistica si è elevato dinanzi alla salda critica di classe di non pochi coscienti gruppi proletari un argomento in apparenza assai più notevole: la presenza, nella alleanza degli imperialisti anglo-sassoni, della Russia sovietica, la Russia di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia primo esempio di dittatura rivoluzionaria del proletariato. Non sarebbe questa nuova situazione, definita dalla presenza in uno dei due schieramenti borghesi di uno Stato nel quale il proletariato detiene il potere politico, motivo sufficiente a giustificare la tattica politica di soprassedere alla opposizione ed alla lotta classista, al fine di impedire la vittoria di quel gruppo militare che, sopraffacendo i suoi nemici, avrebbe anche soppresso il potere rivoluzionario nel primo Stato del proletariato?
E questa sostanziale differenza storica non sarebbe così importante da escludere, anche in un’analisi rigorosamente marxistica, il parallelismo fra l’opportunismo social-patriottico e traditore della guerra 1914–1918 ed il recente atteggiamento dei partiti comunisti che, nei paesi alleati, hanno sostenuto con ogni loro forza la guerra antitedesca?
Ad un’obiezione di tal natura non è sufficiente rispondere con una invocazione formale e letterale delle formule storiche dell’internazionalismo classista, della solidarietà dei partiti proletari contro tutte le borghesie in pace e in guerra.
Va ammesso senz'altro, come d’altronde già faceva Lenin nelle tesi del 1916 contro il social-patriottismo, che i marxisti non intendono dire che le guerre siano tutte normalmente uguali, e che i loro esiti, nel senso della prevalenza dell’uno o dell’altro aggruppamento in conflitto, siano indifferenti agli effetti del divenire sociale e del cammino rivoluzionario del proletariato.
La questione è evidentemente più complessa, e va risolta con la capacità critica della coscienza proletaria di scorgere in ciascuna situazione storica concreta, e nella marea delle interpretazioni propagandistiche delle guerre, le linee direttive della interpretazione classista del processo storico.
Occorre quindi un’analisi esauriente del processo svoltosi in Russia per poter eliminare ogni dubbio sulla condanna dell’opportunismo di questi ultimi anni, come non solo simile, ma ancora più grave e deleterio di quello che imperversò nella Prima Guerra imperialistica.
Anzitutto va rilevato che l’argomento di schierare tutta la forza politica internazionale comunista in quel campo nel quale agisce la Russia dei Soviet ha condotto ad attitudini contraddittorie, in quanto nel primo periodo della guerra, dal settembre 1939 al giugno del 1941, la Russia ha svolto una politica di intesa con la Germania hitleriana, e ha realizzato d’accordo con questa la spartizione della Polonia, la cui invasione da parte dei tedeschi era stata proprio il fatto determinante dell’intervento in guerra degli inglesi e dei loro alleati.
L’enorme gravità di questa duplice politica è risultata nel fatto dalla crisi a cui ha condotto il movimento comunista in Francia ed in molti altri paesi, quando i partiti comunisti lavoravano apertamente al disfattismo della guerra antitedesca, provocando le repressioni delle borghesie democratiche per l’accusa di filo-fascismo, e non pochi dei loro capi giunsero a cercare solidale rifugio presso i nazisti.
Con la nuova svolta della guerra, dopo lo scoppio delle ostilità fra Germania e Russia, i partiti comunisti furono costretti a invertire nel modo più brusco la loro politica, passando dal sabotaggio militare alla più smaccata propaganda patriottarda con la parola della guerra al nazismo, pericolo mondiale.
Rovinose furono le conseguenze sull’organizzazione e l’orientamento del proletariato. E tale fase importantissima sarebbe più che sufficiente a revocare in dubbio la posizione politica che invoca l’unione nazionale con gli alleati borghesi dello Stato proletario, e giustificherebbe la corretta impostazione di alcuni gruppi internazionalisti di sinistra, secondo i quali la Russia è tuttora uno Stato prettamente proletario, ma la sua difesa internazionale contro l’imperialismo aggressore è possibile soltanto mediante la lotta di classe rivoluzionaria del proletariato di tutti i paesi contro il loro capitalismo. Ma la stessa tesi che la Russia sia tuttora un regime proletario va esaminata e discussa in una analisi che si rifaccia all’origine del difficile processo percorso dal regime sovietico dalla rivoluzione ad oggi.
Nelle enunciazioni fondamentali della III Internazionale e del bolscevismo leninista non fu mai dissimulato, ma fu ad ogni momento posto in evidenza, che la Russia era uno dei paesi economicamente meno maturi per la rivoluzione socialista, e che la vittoria rivoluzionaria dell’Ottobre 1917, proprio in questo paese arretrato, aveva tanto maggiore importanza in quanto, nello svolgersi internazionale della guerra di classe, doveva aprire la via alla vittoria proletaria dei paesi più progrediti. Solo dopo la vittoria in questi paesi la trasformazione della società russa in senso socialistico avrebbe potuto prendere un ritmo decisivo: Lenin disse anzi che i rivoluzionari russi, dopo aver condotta e vinta la prima grande battaglia della rivoluzione mondiale, sarebbero, in tali ipotesi, passati al secondo posto rispetto al proletariato comunista in Germania, in Inghilterra e in Francia. Gli svolgimenti dell’urto delle forze storiche furono diversi, e se fu ributtato l’assalto controrivoluzionario dato al regime russo dalle guardie bianche, organizzate con ammirevole concordia sia dal militarismo tedesco che dalle democrazie anglo-francesi, risultò d’altra parte impossibile alle forze rivoluzionarie europee conquistare negli anni ardenti dal 1918 al 1920 altre posizioni stabilmente vittoriose.
Nel 1921 Lenin, nell’annunciare quella che fu detta la nuova politica economica (NEP) dei bolscevichi russi, chiarì che molte misure economiche attuate rapidamente dal potere proletario subito dopo la sua costituzione ed il suo consolidamento, non potevano avere che un carattere di «comunismo di guerra», reso possibile e necessario dalla situazione che da un lato era di aperto combattimento contro gli assalti degli eserciti controrivoluzionari, dall’altro era di attentissima attesa degli sviluppi della lotta rivoluzionaria europea.
Chiuso questo primo periodo, il compito costruttivo economico della dittatura politica comunista non si poneva, come si era sperato, dinanzi al quadro del complesso economico europeo con le immense sue risorse capitalistiche-industriali, ma era invece costretto a coordinare i suoi programmi al campo della sola economia russa.
Lenin chiarì che in questa convivevano elementi di tutte le fasi storiche dell’economia, dal primitivo comunismo del mir all’economia patriarcale asiatica, all’economia feudale della servitù della gleba, al più progredito capitalismo dei centri in cui era addensata la grande industria, alle prime forme socialistiche che il potere dei Soviet aveva realizzato.
Poiché si poneva il problema di attendere ulteriormente il divenire rivoluzionario mondiale, occorreva, nel gioco di queste forze complesse, condurre una politica che garantisse la continuazione del potere politico proletario senza rinunzie o abdicazioni, ma che al tempo stesso consentisse la vita materiale della popolazione russa, neutralizzasse le forze avverse nascenti dagli ambienti economici retrogradi, e permettesse di avviare l’industrializzazione dell’economia in misura almeno non inferiore a quel minimo che si sarebbe realizzato anche se la rivoluzione anti-zarista si fosse arrestata alle forme borghesi del potere.
Data l’enorme portata sociale dei piccoli e medi contadini, la NEP dovette determinare un quadro di rapporti, in cui il gran numero delle piccole aziende agricole potesse assicurare una produzione di generi alimentari tale da sopperire ai bisogni del proletariato delle fabbriche e dell’esercito rivoluzionario.
Nel primo periodo di comunismo di guerra si era cercata questa soluzione di compenso al di fuori del sistema mercantile, e si era assicurato l’approvvigionamento delle città con una distribuzione di Stato, come si erano resi non mercantili e gratuiti una serie di servizi amministrati dal potere centrale, dalla casa ai trasporti.
La rivoluzione dové riconoscere che queste conquiste non potevano essere mantenute e fu necessario tollerare, dopo il prelievo di una parte del prodotto rurale (che costituì l’imposta in natura), la libertà di commercio dei residui prodotti e la possibilità per i contadini di trovare sul mercato contro moneta i prodotti manifatturati dell’industria o del superstite artigianato, di cui abbisognavano.
Questo processo, per cui contro alcuni caratteri socialisti della nuova economia (statizzazione delle banche, monopolio del commercio estero, statizzazione delle grandi industrie da parte del proletariato giunto al potere) si lasciava sussistere un largo campo di distribuzione a tipo mercantile, fu definito suggestivamente da Trotzky come l’impiego di un sistema di contabilità capitalistica per registrare i rapporti dell’economia socialista.
Da allora, infatti, anche le aziende industriali, e le poche agrarie dipendenti dall’amministrazione centrale, registrarono le loro entrate e le loro uscite con equivalenti monetari, e furono, prese singolarmente, costrette a organizzarsi in modo da rendere attiva la differenza tra la cifra monetaria dell’entrata e quella dell’uscita, così come fanno le aziende dell’economia privata capitalistica.
Tuttavia, non era possibile a queste aziende accumulare la differenza attiva a formazione di un capitale privato, in quanto tale differenza veniva assorbita dalle casse generali dello Stato.
Non così avveniva, però, per le minute aziende periferiche, non solo rurali, ma anche commerciali, artigiane e di piccola industria. A tali aziende, sia pure sotto lo stretto controllo del potere centrale, che ne conteneva l’espansione entro i limiti fissati da un piano generale, era in realtà consentita l’accumulazione dei loro margini attivi, che conduceva alla formazione di un nuovo capitale, e non era escluso dalla legge sovietica che, sia pure in limiti ridotti, tali aziende potessero avere prestatori d’opera remunerati con salario.
In tale piano, benché non assumessero grande importanza quantitativa, si compresero le cosiddette «concessioni» a capitalisti stranieri cui si consentì all’inizio ed anche in qualche caso notevole nel periodo più recente, sotto precise limitazioni, di aprire in Russia aziende produttive di cui abbisognava l’economia del paese, con la facoltà di esportarne il profitto.
Lenin, Trotzky, ed il partito bolscevico non dissimularono, ma anzi dichiararono sempre apertamente che questo quadro economico anfibio tra elementi capitalistici e socialistici della produzione e della distribuzione consentiva, economicamente, l’accumulazione capitalistica e, socialmente, il formarsi di nuovi ceti con interessi antiproletari, ma si prefiggevano di fronteggiare l’influenza politica di questi col saldo potere del partito e dello Stato operaio, ed allo scopo di guadagnare, evitando la caduta del popolo russo nella carestia economica che avrebbe significato la vittoria della controrivoluzione esterna, gli anni necessari ad attendere la vittoria mondiale del proletariato, per passare alla estirpazione radicale di ogni base sociale capitalistica.
In realtà, la distribuzione mercantile non può coesistere stabilmente con l’economia socialistica, e la costruzione di questa, pur essendo un lungo processo successivo alla vittoria politica rivoluzionaria, non è possibile se non strappando, quasi giorno per giorno, nuovi campi di attività alla distribuzione anarchica mercantile per sostituirla con la distribuzione organizzata sociale.
Se il capitalismo non è il solo tipo delle economie mercantili, perché aggiunge al semplice mercantilismo i caratteri specifici della concentrazione dei mezzi produttivi e del lavoro associato, non è però possibile sradicare il capitalismo senza sradicare il mercantilismo della distribuzione.
Un banale luogo comune sul marxismo è che questo abbia esaurito tutta la critica della produzione capitalistica delibando appena quella della distribuzione. All’opposto tutta la dottrina del plusvalore e della accumulazione capitalistica riposa sull’analisi e la critica della distribuzione mercantile, e tutta la costruzione del Capitale parte dal fatto monetario e mercantile. Dice Marx: «Nella società capitalistica il danaro diviene capitale, il capitale produce il plusvalore, ed il plusvalore va ad aumentare il capitale». E aggiunge: «Il rapporto ufficiale tra il capitalista e il salariato ha un carattere strettamente mercantile».
Tutta la spiegazione del fenomeno capitalistico prende le mosse dal quesito storico che indaga come mai una quantità di moneta si cambi in un equivalente di merce, tale merce si cambi di nuovo in un equivalente di moneta, e la moneta si trovi aumentata.
Si legge in altro passo del Capitale: «A misura che la produzione mercantile si trasforma in produzione capitalistica, le sue leggi di proprietà si cambiano necessariamente in leggi della appropriazione capitalistica. Grande illusione è perciò quella di Proudhon, che si immagina di poter infrangere il regime del capitale, applicando ad esso le eterne leggi della produzione mercantile».
Finché il prodotto sarà una merce, il produttore sarà uno sfruttato. La formula corrente di socializzazione, ossia di soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione, va innanzi tutto inseparabilmente estesa ai mezzi di scambio, e per questi non si debbono solo intendere i mezzi di materiale trasporto della merce dalle fabbriche ai luoghi di consumo, ma tutta la specifica organizzazione del commercio borghese all’ingrosso e al minuto. In secondo luogo, non si deve confondere socializzazione con statizzazione, in quanto la statizzazione è attuabile perfettamente in regime capitalistico. Lo Stato borghese non espropria ma acquista, contro indennità, grandi aziende private (ferrovie, miniere ed altro) e le gestisce con la stessa tecnica delle aziende capitalistiche private anche se per avventura in qualche caso ne colmi il passivo per motivi politici con altre risorse del suo bilancio. I lavoratori di tali aziende non cessano di essere salariati e sfruttati. La generalizzazione di questo sistema, che, in certo senso, va attuandosi con l’evolversi dell’imperialismo monopolistico, conduce non a una prima forma di socialismo, ma al capitalismo di stato.
Il criterio discriminante per parlare di socialismo parrebbe ridursi a questo: che il potere statizzatore sia non quello della borghesia capitalistica ma quello del proletariato vittorioso. Tuttavia, la vera distinzione è più profonda. Le tesi marxiste secondo cui l’economia determina la politica e il potere politico proletario è la condizione per costruire l’economia socialista, non sono contraddittorie, purché siano esattamente intese nel senso dialettico.
Il criterio discriminante fondamentale è tecnico-economico, benché la discriminazione sulla classe che possiede il potere ne sia una condizione necessaria e pregiudiziale. Le aziende amministrate con criterio capitalistico (anche se di proprietà dello Stato) calcolano la loro entrata e la loro uscita in moneta e regolano tutta la loro dinamica in modo da rendere massima la differenza fra la prima e la seconda, ossia il profitto. Invece le aziende del sistema di economia collettiva non calcolano il loro movimento in moneta, né nel fatto, né ai fini computistici, ma la loro dinamica è regolata dinamicamente insieme a quella di tutte le altre aziende, in modo che diventi massimo non il profitto locale ma il prodotto generale.
Tale calcolo è possibile solo riunendo in un ufficio direttivo generale centrale tutti i dati e gli elementi sulle risorse produttive periferiche, e risolvendo il problema di dedurne la distribuzione delle materie prime, dei macchinari, delle forze lavorative, ecc. tra i vari settori e le varie aziende. Esisterebbe nell’economia di un paese, ad esempio della Russia, una zona di produzione proletaria e socialistica, se questo meccanismo fosse attuato almeno per un gruppo di aziende, ad esempio per l’industria meccanica, od almeno se i lavoratori di queste aziende non ricevessero più salario in moneta, ma l’assegnazione possibilmente non contingentata di tutti i beni di consumo di cui abbisognano.
Questo concetto dell’economia avvenire non solo non può apparire poco concreto, ma sta in totale coerenza col contenuto della critica demolitrice che il marxismo ha applicato all’economia presente. Il regime economico borghese, infatti, viene accusato e condannato non pel fatto bruto del consumo di tutto il profitto delle aziende da parte della minoranza padronale, che in sostanza costituirebbe una lieve sperequazione distributiva sociale, ma invece per lo sperpero cento volte maggiore di forze produttive, che deriva appunto dal tendere tutta la presente impalcatura economica e sociale ad assicurare e garantire il profitto privato e non il prodotto sociale. Vi è di più: nella critica economica di Marx è mostrato che se il capitalista consumasse tutto il prodotto e non soltanto una parte, si avrebbe una accumulazione costante e non progressiva di capitale, ed una meno rapida esasperazione dello sfruttamento di classe. «Astenendosi» dal consumare tutto, il capitalista diventa ancor più sfruttatore. Se anche non consumasse nulla, sopravviverebbero lo stesso il carattere di classe dell’economia borghese e l’oppressione dei lavoratori. Sono anche classici gli esempi estremi di distruzione di prodotto ai soli fini di provocare rincaro di prezzi e aumento di margine di profitto. La produzione di guerra nell’epoca attuale dell’imperialismo costituisce un vero saturnale nel metodo capitalistico, per cui il fine non è il consumo umano, ma la produzione speculativa, e l’economia ideale è quella che distrugge freneticamente masse favolose di prodotti, nel quadro della generale indigenza della maggioranza dei consumatori.
Non è soluzione socialista, totale o parziale, la confisca del profitto e la sua distribuzione più o meno ugualitaria ai lavoratori della singola azienda (cooperazione, associazionismo, azionariato sociale) come non è socialismo la distribuzione di esso a tutti i cittadini, ammesso pure che lo Stato, anziché essere nelle mani di classi minoritarie, sia passato nelle mani del proletariato: questo è pur sempre capitalismo di stato. Carattere discriminante delle realizzazioni socialiste nell’economia (le quali sono possibili soltanto in regime di dittatura del proletariato e necessariamente invadono soltanto l’uno dopo l’altro e in un processo prolungato i vari settori economici) è lo svincolamento di una massa di forze produttive dal meccanismo monetario mercantile e la loro organizzazione in funzione del più alto rendimento del prodotto reso sociale. Una tale economia socialista è di necessità pianificata, ma la sua pianificazione si impone per evidenza tecnica e scientifica, che si potrebbe dire matematica, in una fase storica più matura ed ulteriore rispetto a quella, preliminarmente indispensabile, degli interventi dispotici della politica rivoluzionaria nel corpo malato della vecchia economia dello sfruttamento.
All’opposto, non ogni economia pianificata è economia socialistica, giustificata o meno che sia dalle esigenze militari o da quelle della ricostituzione di risorse distrutte. Un capitalismo privato ed un capitalismo di stato son ben suscettibili di esperimenti di economia pianificata; ed è anzi questo il senso economico dei regimi fascisti.
Tra statizzazione delle aziende e socializzazione dell’economia vi è quindi una differenza talmente sostanziale, che non solo in tempo di potere borghese esse sono in aperta antitesi, ma anche dopo il passaggio del potere al proletariato rivoluzionario non coincidono automaticamente, bensì soltanto nella misura in cui la soppressione della proprietà privata delle aziende si accompagna a quella del meccanismo privato e mercantile di organizzazione dell’azienda e di distribuzione.
Lo Stato è indispensabile alla rivoluzione proletaria come arma politica, ma non come base della futura economia. La dittatura è per il proletariato lo strumento della rivoluzione proprio in quanto la classe vincitrice, trovandosi dinanzi ai tentativi di rivincita degli sconfitti elementi delle vecchie classi dominanti, ed alle stesse influenze che il caduto regime si era assicurato sulle classi oppresse coi mille suoi istituti (dalla scuola alla stampa, alla propaganda della radio e degli spettacoli, agli inquadramenti molteplici della gioventù – forze tutte non di emancipazione ma di conservazione), si trova nella necessità di avere una guardia armata, una polizia di classe, degli istituti di repressione, delle carceri per debellare e colpire i conati controrivoluzionari. Tale apparato attua quegli interventi nell’economia che Marx non esitò a definire dispotici, e che valgono a fare a pezzi i vincoli con cui il vinto ordinamento borghese comprimeva e tiranneggiava, ai fini del suo sfruttamento, le prorompenti forze economiche.
Visto il compito economico della rivoluzione non nel suo lato negativo, di rottura di vecchi involucri e di tradizionali catene, ma nel suo compito costruttivo, già la funzione dello Stato, che è altrettanto inevitabile e indispensabile quanto passeggera e transitoria nell’ambito del divenire storico, comincia a perdere il suo contenuto, come dovrà perderlo del tutto, o almeno tendere al limite dello svuotamento totale, a mano a mano che scompariranno le resistenze dei vecchi regimi e le sopravvivenze dell’antica economia.
Il sistema economico che in un lungo e difficile processo sarà sostituito a quello capitalistico non deve intendersi come il maneggio arbitrario da parte di un centro di autorità statale di qualunque ramificazione periferica dell’attività economica. Esso avrà il carattere del lavoro sociale e non soltanto associato, di un sistema di coordinamento tecnico ed amministrativo della produzione e della distribuzione su basi strettamente razionali e scientifiche, pianificato su direttive unitarie e centralizzato nel senso che un sicuro collegamento ad organi di compenso segua tutti gli atti dell’economia.
Nel campo dei riflessi sociali, in una realizzazione a definito carattere proletario non dovrà determinarsi la contrapposizione fra un organismo di stato, che impieghi un grande numero di agenti formanti una gerarchia burocratica con trattamento privilegiato, e tutto l’organismo esteriore delle aziende economiche, in cui prestano la loro opera i lavoratori di tutte le branche, con soggezione del secondo al primo.
Già la Comune di Parigi, come Lenin rilevò, mise in luce tale esigenza quando proclamò la revocabilità in ogni momento dei pubblici funzionari e ne adeguò il trattamento a quello dell’operaio: ciò che del resto era stato realizzato nella prima costituzione sovietica.
Introdottasi per necessità storica nel divenire della trasformazione economica una fase di attesa e contr'ondata, era inevitabile che lo stato proletario minacciasse di trasformarsi da elastico organismo di combattimento rivoluzionario in pesante apparato di burocrazia privilegiata.
Ed infatti, mentre la registrazione a tipo capitalistico obbliga le aziende periferiche a contenere i salari corrisposti ai dipendenti, non vi è uguale freno nella retribuzione della burocrazia statale.
Questo pericolo, già intravisto sin dall’inizio, andava combattuto nel campo politico e in quello sociale.
Nel campo politico dovevano servire le potenti tradizioni del partito bolscevico e il suo rigoroso apparato di stato. Ma il rapporto di influenza andò invertendosi, e gli allarmi che gruppi del partito dettero nei congressi nazionali e internazionali vennero messi a tacere e repressi in nome della disciplina e dell’unità, in realtà con mezzi che rivelavano il prevalere della nuova impalcatura burocratica su quella vitale di partito. Tali mezzi furono esattamente caratterizzati dall’opposizione dei trotzkisti, allorché essi denunziarono i procedimenti per cui misure statali colpivano i compagni che, nel seno del partito, esprimevano critiche all’indirizzo della politica generale.
Tale inversione di influenza, per cui il partito cessava di essere l’organo della dittatura di classe, fu più manifesta quando, ridotte al silenzio le opposizioni, la dirigenza del partito, dopo il decisivo dissidio tra Stalin e Trotzky, abbandonò apertamente la piattaforma leninista, dichiarando che la politica economica interna non si basava sulla necessità di attendere la rivoluzione internazionale, ma sarebbe consistita nel costruire il socialismo nella sola Russia indipendentemente dalla rivoluzione mondiale.
Sempre sotto l’aspetto politico, il fenomeno si aggravò con l’aperta persecuzione ai più provati vecchi bolscevichi, schieratisi contro la politica dominante, che vennero – capi e gregari – perseguitati, processati, giustiziati, diffamati come agenti controrivoluzionari, spingendo l’audacissima falsificazione sino a sostenere che essi avevano agito in tale qualità già negli anni in cui in piena collaborazione con Lenin avevano diretto la rivoluzione nelle fasi decisive, con l’adesione e il consenso di tutti i comunisti, compresi Stalin e gli stalinisti di oggi.
Nel campo sociale è palese che, abbandonata la prospettiva di segnare il passo per attendere la rivoluzione all’estero e di destinare le massime energie del partito e dell’Internazionale a tale scopo, la pretesa progressiva costruzione del socialismo in un solo paese costituiva in realtà, e per tappe successive, una involuzione nella quale le forme private dell’economia risorgevano l’una dopo l’altra e rioccupavano campi già conquistati all’economia proletaria.
Consentita sin dal 1921 l’autonomia delle piccole aziende agrarie e la possibilità di accumulazione di moneta, di risparmi privati, di depositi in banca, non si poté più lottare efficacemente contro l’arricchimento di taluni ceti contadini, pure ostentando politicamente di combatterne l’influenza.
Si svolsero imponenti piani di industrializzazione, raggiungendo e poi superando il livello produttivo della Russia di anteguerra; ma non è questa una caratteristica socialista, poiché, abbattuto con lo zarismo il predominio dell’aristocrazia terriera, anche un regime borghese e kerenskiano avrebbe dato adito, forse anche maggiore, alla industrializzazione dell’economia russa a cui offrivano ottime condizioni la ricchezza del paese in materie prime e mano d’opera.
Nel campo dell’agricoltura, le aziende agrarie collettive (che ebbero larga diffusione assorbendo molti piccoli contadini, tra cui evidentemente quelli rovinati dall’accumulazione a favore dei più ricchi) non solo non costituiscono una forma di economia collettivizzata, ma nemmeno di economia statale, essendo in fondo semplici cooperative di coltivazione della terra, analoghe a quelle che possono esistere e che esistono in regime borghese, e la cui generalizzazione non costituisce una direttiva economica comunista, ma si riduce al programma delle democrazie borghesi, mazziniane o cattoliche che siano, programma realizzato praticamente in regime capitalistico, come per esempio nelle fattorie collettive di Palestina. Il programma comunista non consiste nell’identificare i prestatori di lavoro coi padroni dell’azienda, ma consiste nel sopprimere il padronato, il trattamento della forza lavoro come una merce, e l’estorsione del plusvalore, che si verifica sempre quando l’azienda vede le sue attività amministrate col sistema monetario mercantile, sia che il suo titolare giuridico sia un privato, una società di privati, lo Stato, o anche l’associazione di tutti i dipendenti dell’azienda.
La stessa legislazione sociale e politica ha subito una serie di trasformazioni che hanno seguito l’involuzione dell’economia. Il diritto ereditario è stato ristabilito, in quanto ciascuno può trasmettere le sue proprietà (mobili, opere d’arte, case di villeggiatura, contanti, depositi in banca, titoli governativi) a chi meglio crede; mentre in origine tutto veniva avocato allo Stato. Le scuole non sono più tutte gratuite, ma quelle superiori sono a pagamento ed alla portata delle famiglie privilegiate, salvo poche borse di studio concesse a concorso, come nei paesi borghesi.
Radicalmente mutati sono, a parte i problemi internazionali e le alleanze di guerra coi paesi capitalistici, a volta fascisti a volta antifascisti o sedicenti tali, i rapporti con la chiesa, e la stessa costituzione elettorale, che ormai, senza porre certamente in pericolo il dominio della burocrazia centrale, ammette alla parità giuridica ed al suffragio universale segreto i cittadini di ogni classe, sicché anche teoricamente non deve più parlarsi di dittatura del proletariato.
Nella pratica realtà si è distrutto un altro dei criteri distintivi attribuiti da Lenin all’apparato dello Stato operaio, ossia la indissolubilità della funzione esecutiva e di quella legislativa in tutti gli strati delle rappresentanze sovietiche, dalle piccole unità periferiche al centro supremo. Tale carattere differenzia sostanzialmente il sistema di governo della classe operaia da quello della democrazia borghese, nella quale la delega elettorale, gabellata giuridicamente come cardine della sovranità di ogni cittadino, per cui lo Stato sarebbe il servo del popolo, costituisce tanto nella sostanza che nella forma una totale spoliazione di potere, poiché l’elettore, deposta la scheda, diventa passivo essendo tutto il potere passato nelle mani dello Stato poliziotto ed avendo solo questo possibilità esecutive.
Né può dirsi che la dittatura del proletariato sia venuta a rendersi inutile per la inesistenza di una classe borghese e privilegiata, in quanto la classe sfruttatrice del proletariato russo, che forse in un non lontano domani potrà comparire alla luce del sole nell’interno dello stesso paese, oggi è costituita da due forze storicamente evidenti, il capitalismo internazionale e la stessa oligarchia burocratica interna dominante, sulla quale appoggiano contadini, mercanti, speculatori arricchiti, ed intellettuali pronti a propiziarsi il più potente.
Il rapporto economico col capitalismo estero ha questi caratteri: lo Stato proletario aveva proclamato dal primo momento e mantenuto il monopolio del commercio estero; il che vuol dire che non è possibile in Russia che un privato accumuli capitali collocando sul mercato internazionale merce russa e viceversa. A questi scambi presiede lo Stato, esso solo ne tratta e accetta le condizioni, e ne riceve il beneficio o la perdita. Se lo Stato proletario è politicamente forte, se nei paesi borghesi è forte la minaccia degli strati sociali politicamente solidali con esso, e se l’economia interna non è in grave crisi, le condizioni di scambio internazionali potranno essere favorevoli, nel caso opposto saranno sfavorevoli. Dovendosi valutare in danaro le merci entrate ed uscite, e avendo dovuto lo Stato operaio con la transitoria misura della statizzazione delle banche darsi una moneta commerciabile sui mercati internazionali, ogni volta che esso avrà bisogno inderogabile di prodotti esteri per integrare la sua economia, dovrà accettare una perdita nel rapporto monetario delle merci cedute e delle merci ricevute. Tale differenza vale una differenza delle forze lavorative, il cui prodotto viene passato a beneficio del capitale estero industriale e commerciale, sicché l’operaio che lavora in Russia apparentemente senza padroni cede un plusvalore allo sfruttamento estero, e non si è liberato del dominio borghese.
Quanto al rapporto fra burocrazia di stato ed economia interna, quando il sistema mercantile sopravvive e si dilata ogni giorno (come vantano le stesse statistiche ufficiali russe del risparmio e del volume degli affari), è inevitabile che la burocrazia si muova in una sfera di privilegio economico, e prenda a mano a mano le caratteristiche di un ceto padronale.
Nei paesi borghesi, i fenomeni dell’imperialismo (parassitismo capitalistico, monopolismo, concentrazione finanziaria, controllo centrale degli indici economici) conducono ogni giorno, come a quella che è una delle caratteristiche del fascismo, ad una osmosi tra burocrazia di stato e classe del padronato.
La speculazione periferica e di iniziativa privata vive benissimo tra gli schemi e i limiti del controllo statale, purché faccia larga parte del suo profitto agli agenti della burocrazia di stato, che amministrano concessioni, permessi e deroghe. Questo è un fatto economico-sociale generale, per quanto la banalità delle democrazie antifasciste, non meno aperte nelle loro gerarchie alla corruzione, lo definisca con enfasi filistea come un fatto di ordine morale e criminale.
Per via storica diametralmente opposta, un rapporto analogo si è inevitabilmente stabilito in Russia, in quanto il capitalismo monetario privato, appunto perché impedito in ogni senso dall’investirsi palesemente in diretta gestione di mezzi di produzione, trova vantaggio ad aprirsi campi di speculazione retribuendo in forme più o meno illecite o illegali gli enti onnipotenti della burocrazia di stato, che vigilano i vari settori dell’economia.
Questo rapporto, per cui la massa delle classi non abbienti lavoratrici ha purtroppo trovato nuovi padroni sfruttatori, è stato aggravato dalla guerra, non solo in quanto le enormi spese di questa hanno inghiottito una parte enorme della produzione, ma in quanto le esigenze di rifornimento bellico hanno enormemente indebitato lo Stato russo verso i suoi alleati capitalistici. Gli interessi e l’ammortamento di questo debito saranno pagati dal lavoro proletario, in quanto la Russia di oggi non potrà sconfessare il debito da affitto e prestito verso gli alleati, come sconfessò nel 1917 quello verso gli Stati borghesi, allora tutti suoi nemici. E non lo potrà perché necessariamente avrà bisogno di altri affitti e prestiti dal capitale estero, per l’opera enorme della ricostruzione dei suoi territori devastati e di quelli stessi che la borghesia estera è larga a concederle per soddisfare il nuovo spirito nazionalistico e imperiale, e che non sono territori sfruttabili, ma zone devastate dal flagello della guerra, che il dominante capitalismo d’America ha veduto imperversare su possessi non suoi.
Quali caratteri dunque della sua economia autorizzano oggi a considerare la Russia un regime proletario?
Le ragioni politiche ed internazionali possono certo far considerare come regime politico proletario quello che sia anche soltanto sulla via che conduce dall’economia privata a quella socialistica, e che della seconda abbia realizzato anche soltanto parte dei capisaldi. Ma quando in qualunque settore dell’economia, anche il più progredito, come la grande industria, mancano caratteristiche sociali proletarie, il quesito si risolve in senso negativo.
Per non parlare del piccolo contadino, del piccolo artigiano, del piccolo commerciante e, peggio, dei dipendenti di costoro, in quali rapporti di economia non capitalistica si trova l’operaio della fabbrica russa? Egli, come l’operaio dei paesi borghesi, non dispone dei prodotti del suo lavoro (rapporto sociale proprio della produzione capitalistica, in quanto superò quella artigiana, e che persiste nel regime socialista) e non cessa dall’essere retribuito con moneta, mediante la quale deve acquistare i prodotti necessari al suo consumo. Il suo tenore di vita è limitato ed egli non vede i suoi prodotti divenuti prodotto sociale anziché merce capitalistica; resta un venditore di forza-lavoro, ed una parte di questa gli viene sottratta a beneficio del capitalismo di tutti i paesi.
La situazione, divenuta permanente, dell’isolamento economico della Russia per la pretesa costruzione del socialismo, ha avuto per conseguenza il dilagare del fenomeno militarista, che, insieme a forme esteriori di pieno stile borghese patriottico e nazionalista, rappresenta un colossale inevitabile peso economico sullo sforzo delle classi produttrici. I piani per industrializzare la Russia, indirizzando i quattro quinti di questa industrializzazione al potenziamento delle armate per vere e proprie conquiste imperialistiche, ha sottoposto il lavoratore delle fabbriche ad uno sforzo spasmodico. Il cosiddetto «stakhanovismo» con le sue gare di rendimento ed i suoi premi agli operai che accumulano maggior prodotto, è l’equivalente dei sistemi «scientifici» borghesi di organizzazione del lavoro, tendenti ad estorcere all’operaio fin le ultime briciole della sua forza lavorativa; e si svolge nel senso opposto a quello del collettivismo economico che deve eliminare la tensione dello sforzo lavorativo, riducendo progressivamente tempi di lavoro ed intensità di impegno fisico e nervoso dell’operaio, in modo che il lavoro cessi di essere una condanna e diventi una contribuzione sociale tanto necessaria alla collettività, quanto utile a ciascun individuo. Attraverso le sferzate sia pure propagandistiche, tendenti a raggiungere i massimi di rendimento lavorativo, la grande massa ricade in una più severa erogazione di sopra-lavoro, ed i pochi prescelti o premiati acquistano la psicologia conservatrice di una aristocrazia operaia.
Il carattere di salariato del lavoratore russo viene implicitamente riconosciuto in quanto è ammessa l’organizzazione sindacale degli operai che dipendono dalle fabbriche statizzate, il che non avrebbe nessun senso in un settore di economia socialista, in cui non ci sono interessi economici antipadronali da sostenere, e nemmeno differenza di interessi da categoria a categoria. Viceversa, questi sindacati non hanno neanche la possibilità di rivendicare miglioramenti di salario ed altri benefici, in quanto sono assorbiti ed inquadrati nell’impalcatura burocratica statale, che detta loro gerarchicamente le condizioni di trattamento degli operai, secondo lo stesso indirizzo che prevale nei paesi capitalistici.
Lo stakhanovismo con l’intensificato sfruttamento delle forze di lavoro, in una situazione in cui sono impossibili le conquiste sindacali, ha determinato perfino violente reazioni dei lavoratori, che, come dimostrano i numerosi processi dell’epoca 1933-'36, hanno fatto ricorso al primordiale metodo di sabotare le macchine.
La definizione dell’economia russa attuale, in conclusione, non è quella di socialismo, ma di un vasto e potente capitalismo di stato, con distribuzione di tipo privato e mercantile, limitata da controlli in tutti i campi dell’apparato burocratico centrale, e da contingentamento di guerra, ed ha dunque caratteri convergenti, malgrado che molta distanza resti da colmare da ambo le parti, con quelli della moderna economia mondiale di interventismo statale dei grandi paesi borghesi. Il modello più razionale del punto di convergenza di queste economie è quello realizzato in Germania dal nazional-socialismo, che, in pace e in guerra, ha fornito un altissimo rendimento nella utilizzazione di tutte le energie.
Il processo degenerativo ed involutivo di trasformazione della Russia sovietica dal regime proletario dei primi anni al capitalismo di stato attuale, pone e risolve un originale e importante problema storico, nuovo per le applicazioni della teoria marxista.
La dottrina marxista stabilì le caratteristiche del modo univoco con cui la rivoluzione proletaria può vincere: e la storia le ha confermate. Il proletariato può giungere alla sua emancipazione soltanto con la rottura violenta di tutti i rapporti dell’ordine capitalistico, e la attua prima conquistando il potere politico e poi impiegandolo a spezzare le multiformi resistenze che il vecchio ordine opponeva al sorgere della società socialista. Per quali vie può invece svolgersi il processo opposto, quello che mena alla sconfitta della rivoluzione proletaria?
Prima del 1920 non mancavano gli esempi di caduta delle rivoluzioni operaie, dalla Comune di Parigi all’Ungheria, alla Baviera ecc., ma sempre col prevalere di un’azione armata delle forze controrivoluzionarie borghesi, che abbattevano il nascente Stato proletario, ne massacravano i difensori e restauravano le vecchie istituzioni. Anche le rivoluzioni della borghesia presentarono esempi di ritorni e restaurazioni reazionarie, il più delle volte con aperte azioni armate, o attraverso la sconfitta nelle guerre.
Il divenire internazionale del capitalismo, e la potenza delle sue forme di sviluppo hanno fatto sì che non abbiamo esempi di restaurazione definitiva del regime politico pre-borghese e feudalistico, in quanto nuove rivoluzioni successero alle restaurazioni legittimistiche, e gli stessi paesi feudali vincitori nelle guerre furono successivamente teatro di rivoluzioni in senso capitalistico.
Per quanto invece riguarda il regime proletario russo, si deve concludere che esso, salvatosi gloriosamente dai tremendi assalti delle forze controrivoluzionarie del capitalismo, ha soggiaciuto ad un’altra forma storica di sconfitta, non rapida e violenta, non col carattere brusco della controrivoluzione armata ed accompagnata da repentino mutamento della gerarchia statale, ma attraverso un lungo periodo di involuzione, che ha progressivamente distrutto le caratteristiche e le conquiste rivoluzionarie.
Questo secondo tipo di sconfitta rivoluzionaria del proletariato dopo l’arrivo al potere è stata possibile per la concomitanza di vari fattori: 1°) l’efficienza di classe della borghesia capitalistica e dei suoi Stati che, sebbene scossi da crisi tremende, hanno, nello scontro delle forze internazionali, impedito alla classe operaia di occupare il potere nei paesi industrialmente più avanzati. 2°) La collaborazione controrivoluzionaria con la borghesia da parte degli opportunisti social-democratici che, dopo la più feroce campagna contro il sovietismo russo, giustamente nell’attuale sua forma involutiva lo accolgono come alleato. 3°) La dispersione del movimento politico proletario dell’Internazionale comunista, in relazione alla controffensiva della reazione capitalistica e alla immaturità dimostrata nel non saper svolgere in risposta ad essa una politica di potente e parallelo attacco contro le forze borghesi cosiddette di destra e di sinistra.
Uno degli aspetti più disastrosi della via seguita nel suo disfacimento dalla rivoluzione proletaria russa sta nella possibilità per il neo-opportunismo di seguitare a sfruttare i simboli e le tradizioni esteriori della vittoriosa rivoluzione che, dopo il 1917, sollevò l’ondata travolgente di entusiasmo del proletariato più avanzato di tutti i paesi, presentandogli nella potente realtà della storia la visione del suo processo di emancipazione, che fino ad allora era stato soltanto aspirazione teorica e critica.
I dirigenti dell’impalcatura statale russa parlano ancora, malgrado l’enorme mutamento da essa subito, nel nome della Rivoluzione d’Ottobre, del bolscevismo, del leninismo, adoperano gli emblemi, i simboli e le bandiere che tanto parlarono negli anni dell’avanzata agli animi generosi dei proletari. Una delle più efficaci chiavi manovrate dal neo-opportunismo è stata la suggestione delle vittorie dell’esercito russo, lo stesso di Lenin e di Trotzky, quello che sconfisse Wrangel, Kolčak, Denikin, Judenič, i campioni della reazione capitalistica tedesca e anglo-francese, zarista, militarista, democratica, e social-democratica. Anche giungendo a condannare talune direttive politiche ed economiche dei capi della Russia di oggi, i gruppi proletari hanno sperato che, nella scia delle avanzate delle truppe sovietiche, passasse, ritornando sui campi di Europa, la rivoluzione socialista.
Più che l’analisi critica, i fatti demoliranno e già demoliscono tale illusione. La solidarietà degli organi statali russi con quelli degli altri Stati vincitori in merito all’organizzazione politica e sociale del dopoguerra appare completa ed incondizionata, come lo è la fiducia dei borghesi anglo-americani nell’innocuità rivoluzionaria del regime di Stalin. Le difficoltà e i contrasti che insorgono fra i due gruppi sono evidentemente dovuti a rivalità nella spartizione imperialistica del bottino della vittoria.
Lo Stato rivoluzionario può avere un esercito di classe o di partito, che combatta per coscienza politica, a differenza degli eserciti borghesi, in cui un meccanismo onnipossente toglie all’azione del singolo combattente qualunque contributo di adesione volontaria o spirituale per ridurlo ad un pezzo passivo di una mostruosa macchina di distruzione, ma può averlo solo a condizione che la impostazione di classe e rivoluzionaria della coscienza dei lavoratori combattenti sia alimentata dal pienissimo svolgimento della politica classista e internazionalista del partito che ha condotto la rivoluzione e tiene sulla linea integrale delle sue tradizioni lo Stato e l’esercito.
Queste armate di combattenti non si dovranno gettare su di un popolo nemico, né tanto meno prestarsi ad inquadrare e controllare popoli che si dicono liberati, ma dovranno suscitare ad ogni passo della loro avanzata la guerra di classe degli sfruttati contro gli oppressori. Questo non è più possibile oggi che le tradizioni di dottrina e di azione del partito bolscevico sono state spezzate, oggi che l’Internazionale rivoluzionaria progressivamente snaturata è stata ingloriosamente liquidata, e i suoi relitti posti a servizio della politica borghese.
Il proletariato rivoluzionario, pur con uno sforzo doloroso, deve dichiarare che le vittorie militari degli eserciti russi non hanno il significato e l’effetto di vittorie della rivoluzione.
L’apparato militare, diretta emanazione dell’apparato di stato, di cui esegue le disposizioni nel modo più squisitamente e immediatamente meccanico, è una forza storica agente nello stesso senso di quella impersonata dallo Stato politico. Non avendo più lo Stato russo il carattere di regime politico del proletariato, l’immensa forza espressa dalle armate della Russia odierna non è storicamente applicata nella direzione della rivoluzione proletaria, ma collabora senza contrasto di natura classista con le forze militari dei più grandi Stati del capitalismo, in un piano mondiale di finalità conservatrici.
Questo bilancio economico, politico e militare dell’azione della Russia nel decisivo momento storico ora esaminato è certamente l’opposto di quanto ha per lunghi anni atteso la classe lavoratrice mondiale. Mentre i rivoluzionari non devono assolutamente tacere la gravità di una simile situazione, la critica di essa non deve però essere volta nel senso di una condanna a gruppi ed a uomini la cui deprecata azione avrebbe condotto a questi dolorosi risultati. Le cause di essi sono così profonde e vaste, che non si possono ridurre ad errori di applicazione delle giuste direttive negli organismi statali e di polizia della Russia dei Soviet, né si possono liquidare con la condanna morale di Stalin e della sua cricca.
Se la rivoluzione mondiale avesse marciato innanzi, nello Stato e nel partito russo avrebbero prevalso le direttive ed i gruppi comunisti; la situazione contraria ha fatto prevalere i gruppi opportunisti.
Nessuna ricetta organizzativa poteva evitarlo, e tanto meno quella, da molte parti invocata, di una «vera» democrazia negli organi sovietici e nei ranghi del partito comunista. Il sistema elettorale maggioritario, che non ha alcun serio valore nella società borghese, non ne ha neppure nel seno degli organi proletari. Vi sono situazioni – e la più classica fu quella del 1917 – in cui la minoranza del partito contro la maggioranza impone la giusta politica, come sostenne nel Comitato Centrale il solo Lenin contro tutti, Stalin compreso.
La soluzione della democrazia interna conduce alle frasi banali che il socialismo è democrazia, e porta a ricadere nella condanna del concetto basilare della dittatura rivoluzionaria, per cui nei momenti decisivi della storia gli eventi più fecondi divengono contro il parere e la resistenza dei più, oltreché contro l’interesse oppressivo dei pochissimi.
Il potere socialista del proletariato, una volta costituito, dovrà la sua stabilità non ad una profilassi di difesa a tipo morale o giuridico, contro gli egoisti, gli ambiziosi, i prepotenti che, per libidine di privilegio e di dominio, riescono a ricostituire nuovi rapporti di sfruttamento. Mentre la dittatura politica proletaria servirà a spezzare il ritorno dei vecchi ceti privilegiati, il sorgere di nuovi sfruttatori sarà impedito dal divenire dell’economia socialista, in quanto questa progressivamente esclude anche in gruppi ristretti il bisogno e l’interesse di realizzare nuovi rapporti di dipendenza economica.
Così lo schiavismo non scomparì per il fatto che nella coscienza morale generale la fede cristiana avesse condannato l’abbassamento della persona umana al grado di una merce, ma perché quel rapporto di sfruttamento per il suo superato rendimento sociale non conveniva più a nessuno. Tanto ciò è vero che esso ricomparve dopo secoli in America ad opera dei coloni cristiani per il rinnovarsi di speciali condizioni economiche caratterizzate dalla limitata popolazione con enormi estensioni di terra disponibili; e solo ulteriormente, per la saturazione di quella società con elementi economici capitalistici, fu di nuovo condannato ed abolito.
Il primo capitalismo che non conosceva le indennità per infortuni, confrontando l’uomo e il mulo nei trasporti rischiosi preferiva l’uomo, poiché il mulo morto per accidente è una perdita di capitale, e l’uomo no.
Come il salariato ha sostituito lo schiavismo, e nessuno ha interesse a ristabilire questo, così le nuove forme di produzione socialista resisteranno alle degenerazioni contro-rivoluzionarie quando la loro espansione ed il loro altissimo rendimento escluderanno che qualunque strato sociale abbia interesse a ristabilire gli antichi rapporti.
L’economia russa non ha potuto raggiungere tale grado, e per tale motivo è ricaduta nei sistemi dello sfruttamento contro cui aveva combattuto la rivoluzione, ma tale processo, realisticamente inteso, se segna una disfatta della causa proletaria, non contraddice le basi fondamentali ed il trionfo futuro del comunismo.