Nella storia degli aggregati sociali si riconosce l’impiego in forma manifesta della forza materiale e della violenza quando tra individui e individui, tra gruppi e gruppi si constatano urti e scontri che in mille forme si risolvono con la materiale lesione e distruzione degli individui fisici.
Quando tale aspetto degli sviluppi sociali viene in superficie, esso dà luogo alle più varie manifestazioni di esecrazione o di esaltazione che offrono la più banale sostanza alle successive multiformi mistiche che riempiono ed ingombrano il pensiero delle collettività.
È pacifico, tra le più opposte valutazioni, che la violenza tra uomo e uomo sia non solo un dato importantissimo dell’energetica sociale, ma un fattore integrante, se non sempre decisivo, di tutte le mutazioni delle forme storiche.
Per non cadere nella retorica e nella metafisica, aggirandosi tra le tante confessioni e filosofie che oscillano fra gli apriorismi del culto della forza, del superuomo, del superpopolo, e quelli della rassegnazione, della non-resistenza e del pacifismo, occorre risalire alle basi di quel rapporto materiale che costituisce la violenza fisica, e riconoscerne il gioco fondamentale, in tutte le forme di organizzazione sociale, anche quando essa agisce allo stato latente, di pressione, di minaccia, di preparazione armata, determinando amplissimi effetti storici anche prima, anche al di là, anche sine effusione sanguinis.
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L’aprirsi dell’epoca moderna, che socialmente è caratterizzata dal gigantesco sviluppo della tecnica produttiva e dell’economia capitalistica, si accompagnò ad una fondamentale conquista della conoscenza scientifica del mondo fisico che risale ai nomi di Galileo e di Newton.
Fu chiaro che due campi di fenomeni, assolutamente separati ed anzi meta-fisicamente opposti nella fisica aristotelica e scolastica, in realtà si identificavano ed andavano indagati e rappresentati con lo stesso schema teoretico: il campo della meccanica terrestre e quello della meccanica celeste.
Si comprese cioè, per la prima volta, che la forza per la quale un corpo poggiato al suolo preme su di esso, o sulla nostra mano che lo sorregge, non solo è la medesima che provoca il moto del corpo quando è lasciato libero di cadere, ma è anche la medesima che lega tra loro i movimenti degli astri nello spazio, il loro aggirarsi su orbite apparentemente immutabili ed il loro possibile precipitare gli uni contro gli altri.
Si trattava non di una identità puramente qualitativa e filosofica, ma di una identità scientifica e pratica, poiché misurazioni della stessa natura possono condurre a dimensionare il volano di una macchina e a determinare, ad esempio, il peso e la velocità della luna.
Le grandi conquiste della conoscenza – come potrà dimostrare uno studio sulla gnoseologia condotto col metodo marxistico – non consistono nel fissare con scoperte rivelatrici nuovi veri eterni ed irrevocabili, in quanto resta sempre la via aperta a più ampi sviluppi e a più ricche rappresentazioni scientifiche e matematiche dei fenomeni di un dato campo, ma consistono essenzialmente nell’avere spezzato senza rimedio i termini di antichi errori tra cui la forza oscurante della tradizione che impediva alla nostra conoscenza di rappresentarsi i rapporti reali delle cose.
Ed infatti anche in questo solo campo della meccanica la scienza ha fatto e farà scoperte che trascendono i limiti delle enunciazioni e delle formule di Galileo e di Newton, ma resta il fatto storico della demolizione dell’ostacolo costituito dalla tesi aristotelica secondo cui una sfera ideale concentrica alla terra separava due mondi incompatibili tra loro: il nostro, terreno, della corruzione e della grama vita mortale, l’altro celeste, della incorruttibilità e della immutabilità gelida e splendente, concezione bene utilizzata nelle costruzioni etiche e mistiche del cristianesimo e bene adatta a riflettersi socialmente nei rapporti di un mondo umano fondato sui privilegi delle aristocrazie.
L’identificazione del quadro dei fatti meccanici della nostra sfera di esperienza immediata con quello dei fatti cosmici permise di pari passo di stabilire l’identità sostanziale dell’energia posseduta da un corpo, tanto allorché il movimento di esso rispetto a noi e all’immediato ambiente ne fa una empirica evidenza, come quando il corpo stesso apparentemente trovasi in riposo.
I due concetti di energia potenziale o di posizione e di energia cinetica o di movimento, riferiti ai corpi materiali, subiranno e subiscono interpretazioni sempre più complesse fino a rendere a loro volta trasmutabili, per scambi incessanti il cui raggio di azione si estende all’intero cosmo, le quantità di materia e di energia che apparivano invariabili nelle formule dei testi di fisica classica, le quali sono tuttora sufficienti a calcolare e attuare strutture e macchine a scala umana e con gioco di forme di energia non intra-atomica.
Ma resta un passo storicamente decisivo nella formazione della conoscenza scientifica l’aver assimilato, nella loro azione, le riserve potenziali e le manifestazioni cinetiche di energia.
Il concetto scientifico è divenuto ormai familiare ad ogni uomo che viva nel moderno ambiente. L’acqua contenuta in un serbatoio posto in alto sta ferma ed appare priva di moto e di vita. Apriamo le comunicazioni dei condotti con una turbina posta a valle e questa si pone in moto e ci somministra forza motrice. Conoscevamo l’entità di questa forza anche prima di aprire le saracinesche, in quanto essa dipende dalla massa dell’acqua e dalla sua altezza: energia quindi di posizione.
Quando l’acqua fluisce e si muove, l’energia medesima si manifesta come energia di movimento: cinetica.
Così pure anche un bambino sa oggi che fra i due fili del circuito elettrico, fermi e freddi, non avviene alcuno scambio finché non li tocchiamo; avvicinando un conduttore abbiamo lo sprigionamento di scintille, calore, luce, violenti effetti sui muscoli e i nervi se il conduttore è il nostro corpo.
I due fili inoffensivi erano ad un certo potenziale; guai a far diventare cinetica quell’energia. Oggi tutto questo lo sa anche l’analfabeta, ma la faccenda avrebbe enormemente confuso i sette savi della Grecia e i dottori della chiesa.
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Passando dal campo dei fenomeni meccanici a quello della vita degli organismi, troviamo, tra le molto più ricche manifestazioni e trasformazioni della biofisica e del biochimismo, per cui l’animale nasce, si alimenta, cresce, si muove, si riproduce, anche l’impiego della forza muscolare nella lotta sia contro l’ambiente fisico che contro altri esseri animati della stessa specie e di specie diverse.
In questi contatti materiali e in questi urti brutali le parti e i tessuti dell’animale si ledono, si lacerano, e nei casi di più grave ingiuria l’animale muore.
Si considera comunemente che il fattore della violenza faccia la sua apparizione allorché la lesione organica sorge dall’impiego della forza muscolare di un animale sull’altro. Non vediamo violenza, nel comune linguaggio, quando la frana o l’uragano uccidono gli animali, ma solo quando il classico lupo divora l’agnello o si azzuffa con l’altro lupo che ne brama una parte.
Piano piano l’accezione comune di questi fatti così generali scivola negli inganni delle etiche e delle mistiche. Si odia il lupo, si piange sull’agnellino. Più oltre si giungerà a legittimare pacificamente che si ammazzi e si prepari lo stesso agnello come pasto degli uomini, ma si griderà con orrore contro i cannibali; si condannerà l’assassino, mentre si esalterà il combattente; tutti casi – sia pure in una gamma infinita di toni fecondissima per letterarie variazioni – di tagli e strappi nella carne vivente, tra i quali potremmo inscrivere, per consultare i nostri giudici di azioni armati delle varie etiche, l’intervento del bisturi chirurgico sul bubbone cancrenoso.
L’inadeguatezza delle prime rappresentazioni umane aveva processato gli stessi fenomeni della natura meccanica ed aveva applicato ad essi, per infantile antropomorfismo, i criteri morali.
La terra andava in giù e l’acqua al mare, l’aria e il fuoco in su, perché ogni elemento cerca il proprio simile e la propria sede e sfugge il proprio contrario, essendo amore ed odio i motori primi delle cose.
Se l’acqua o il mercurio non discendevano dal tubo capovolto era perché la natura aveva orrore del vuoto. Quando Torricelli realizzò il vuoto barometrico si poté determinare il peso dell’aria, che è anch’essa un grave, e tende in giù con tale violenza che, se non ne fossimo tutti circondati e penetrati, ci stritolerebbe al suolo. Ama quindi evidentemente il suo contrario ed andrebbe condannata per infrazione adultera ai suoi doveri.
Più o meno, in tutti i campi, volontarismo ed eticismo conducono l’uomo a credere nelle stesse corbellerie.
Tornando all’animale in lotta violenta con le avversità o per la soddisfazione dei suoi bisogni a mezzo della forza dei suoi muscoli, senza far suonare il disco borghese darwinistico della lotta per la vita, selezione naturale ed altri abituali ritornelli, vogliamo porre in rilievo che anche qui lo stesso movente ed effetto dell’impiego della forza può presentarsi come potenziale o virtuale da un lato, come cinetico ed attuale dall’altro.
Non solo l’animale che ha provato i pericoli del fuoco, del gelo, dell’inondazione apprenderà a fuggire prima di affrontarne il cimento quando avvertirà segni premonitori, ma la stessa violenza tra due esseri animati potrà molte volte avere effetto senza essere fisicamente consumata.
Il cane selvatico non contenderà al leone il capriolo ucciso, ben sapendo che seguirebbe la sorte della vittima. Molte volte la preda soccombe per il terrore prima del morso del carnivoro, talvolta basta lo sguardo di quello a immobilizzarla e toglierle la possibilità non della lotta ma della stessa fuga.
In tutti questi casi il prevalere della forza ha effetto potenziale senza bisogno di esplicarsi materialmente.
Se il nostro indagatore etico dovesse sentenziare non crediamo che assolverebbe il carnivoro per il solo fatto di una libera elezione della sua preda ad essere divorata.
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Nelle aggregazioni primitive degli uomini si arricchisce progressivamente l’intreccio dei rapporti tra individuo e individuo. La più grande varietà dei bisogni e dei mezzi per soddisfarli, la possibilità di comunicazioni tra un essere e l’altro per il differenziarsi del linguaggio danno luogo a una sfera di relazioni e di influenze che erano nel mondo animale appena in abbozzo.
Anche prima che si possa parlare di una vera produzione di oggetti di uso suscettibili di essere adoperati per placare le necessità e i bisogni della vita, si determina una divisione di funzioni e di attitudini a compierle tra i componenti dei primi gruppi, che si adibiscono alla raccolta dei vegetali spontanei, alla pesca, alla caccia, alle prime rudimentali attività nel preparare e conservare i ricoveri ed allestire i cibi.
Comincia ad apparire la società organizzata e sorge il principio di ordine e di autorità.
Non è più soltanto con la forza muscolare che gli individui più attrezzati fisicamente ed anche per energia nervosa piegano gli altri a dati limiti nel fare impiego del loro tempo e della loro fatica e nel fruire dei beni utili acquisiti. Cominciano ad essere dettate regole cui la comunità si adatta, che vengono fatte rispettare senza bisogno di impiegare ogni volta una coazione fisica, ma con la sola minaccia che il trasgressore verrebbe fieramente punito e, nei casi estremi, soppresso.
L’individuo che, sospinto dalla primigenia animalità, volesse sottrarsi a tali imposizioni deve o ingaggiare la lotta corpo a corpo col capo e probabilmente con gli altri sudditi cui questi comanderebbe di sostenerlo nella sanzione, o fuggire dalla
collettività, ma in tal caso si troverebbe costretto a soddisfare le sue esigenze materiali meno copiosamente, e attraverso rischi assai maggiori, di quanto può fare per i vantaggi che offre l’attività collettiva organizzata sia pure in modo primordiale.
L’animale uomo comincia a descrivere il suo ciclo non certo uniforme e continuo né privo di crisi e di ritorni, ma nel senso generale inarrestabile, dal primo stato di libertà individuale illimitata, di autonomia totale del singolo, alla soggezione sempre più estesa ad una rete sempre più fitta di vincoli che prendono il carattere e il nome di ordine, di autorità, di diritto.
Il senso generale dell’evoluzione è quello di rendere statisticamente meno frequenti i casi in cui la violenza tra uomo e uomo viene consumata nella forma cinetica, con la lotta, la sanzione corporale, l’esecuzione capitale, ma nello stesso tempo di rendere più frequenti in raddoppiata ragione i casi in cui la disposizione autoritaria viene eseguita senza resistenza poiché l’oggetto di essa sa, per esperienza, che non gli conviene sottrarvisi.
La facile schematizzazione ed idealizzazione di questo processo conduce ad una astratta elaborazione col giuoco di queste due sole entità: il singolo e l’associazione, ipotizzando arbitrariamente che tutti i rapporti di ciascun singolo all’organizzazione si equivalgono, prospettiva illusoria del «contratto sociale». Si teorizza cioè un cammino delle collettività umane, guidato da un compiacente iddio regista del dramma a lieto fine, oppure da un meno comprensibile affiato redentore collocato chi sa come nella testa di ciascun uomo ed immanente al suo modo di ideare, di sentire e di comportarsi, che sfocia in un arcadico equilibrio per cui un ordine egualitario permette a tutti di godere i ricchi benefizi dell’alto rendimento dell’opera associata, mentre le decisioni di ciascun singolo sono libere e liberamente volute.
L’importanza invece del fattore della forza e il peso del suo gioco sia in quanto si manifesti palese nelle guerre dei popoli e delle classi, sia in quanto resti applicato allo stato potenziale per il funzionamento dell’ingranaggio dell’autorità, del diritto, dell’ordine costituito, del potere armato, viene messa scientificamente in rilievo dal materialismo dialettico col farne risalire le causali e l’estensione di impiego ai rapporti in cui sono messi i singoli dalla tendenza e possibilità di soddisfare i loro bisogni.
Un’analisi delle disposizioni anche preistoriche con le quali i gruppi associati si procurano i mezzi di vita, e delle prime rudimentali risorse, armi, strumenti di cui si arricchisce l’arto dell’animale uomo per agire sui corpi esterni, conduce a definire svariatissime relazioni e posizioni intermedie tra il singolo e la totalità aggregata, che frazionano questa in gruppi diversi per attribuzioni, funzioni e soddisfazioni; e questa indagine fornisce la chiave del problema della forza.
L’elemento essenziale di quella che si è soliti chiamare civiltà è questo: l’individuo più forte consuma più di quello debole; e fin qui si resta nel campo dei rapporti della vita animale e, se vogliamo, la cosiddetta natura, pensata dalle teorie borghesi come una bravissima regista, ha ben provveduto perché più muscoli comportano più stomaco e più cibi; ma inoltre il più forte dispone le cose in modo che gli sforzi lavorativi siano forniti in maggiore misura dal più debole e in misura minore da lui. Se il più debole si rifiuta tanto a vedere mangiare il pasto più lauto che a veder compiere l’opera più lieve, e magari nessuna opera, la superiorità muscolare lo piega e lo costringe alla terza menomazione di venire percosso.
L’elemento discriminante della civiltà sociale, dicevamo, è dunque quello che tale semplice rapporto si attua infinite volte in tutti gli atti della vita in comune senza bisogno che la forza costrittiva venga impiegata in modo attuale e cinetico.
Alla base dello schieramento degli uomini nei gruppi posti in così dissimile situazione di vita materiale sta inizialmente una ripartizione di compiti che, nella grandissima complessità delle manifestazioni, assicura al soggetto, alla famiglia, al gruppo, alla classe privilegiata, un riconoscimento che, dalla constatazione reale della iniziale utilità, conduce al formarsi di una attitudine di soggezione degli elementi e gruppi sacrificati. Questa attitudine si tramanda nel tempo e si inserisce nella tradizione in quanto le forme sociali hanno una loro inerzia analoga a quella del mondo fisico per cui, fino a superiori cause perturbatrici, tendono a descrivere le stesse orbite, a perpetuare le medesime relazioni.
Quando – per continuare in quella che ogni lettore anche non adusato alla indagine marxista comprende essere una esposizione a rilievi schematici per fine di brevità – per la prima volta il minus habens non solo non ha costretto il suo sfruttatore ad impiegare la forza per eseguire gli ordini, ma ha imparato a ripetere che ribellarsi sarebbe stato una grande infamia perché avrebbe compromesso le regole e gli ordini da cui dipendeva la salvezza di tutti, allora – giù il cappello! – è nato il Diritto.
Se il primo re è stato un bravo cacciatore, un gran guerriero, che aveva più volte esposta la vita e versato il sangue in difesa della tribù, se il primo stregone sacerdote è stato un intelligente indagatore di segreti della natura utili alla cura delle malattie ed al benessere, se il primo padrone di schiavi o di salariati è stato un capace organizzatore di sforzi produttivi in modo che si traesse maggior rendimento dalla coltivazione della terra o dalle prime tecnologie, l’iniziale constatazione di questo compito utile ha permesso di costruire le impalcature dell’autorità e del potere, permettendo a quelli che stavano al vertice di quelle nuove e più redditizie forme di vita associata, di prelevare – per proprio comodo – una larga parte dell’incremento di prodotto realizzato.
L’uomo ha assoggettato a un tale rapporto in primo luogo l’animale di altra specie. Il bue selvatico solo con dure lotte e con sacrificio dei più audaci domatori fu sottoposto le prime volte al giogo. In seguito non occorre più violenza in atto perché la bestia pieghi la sua cervice. Il suo poderoso sforzo decuplica la quantità di cereale a disposizione del padrone, ed il bue per nutrirsi e conservare la sua efficienza muscolare riceve una frazione della biada.
L’evoluto homo sapiens non tarda ad applicare questo rapporto al proprio simile col sorgere della schiavitù. L’avversario in una contesa personale o collettiva, il prigioniero di guerra pesto e ferito viene ridotto con ulteriori violenze a lavorare con gli stessi patti sindacali del bue; egli all’inizio si rivolta, raramente può sopraffare l’oppressore e sfuggirgli; a lungo andare il fatto normale è che lo schiavo, anche sopravanzando di muscoli il padrone quanto il bue, subisce la sua soggezione e funziona come la bestia, offrendo soltanto una gamma molto più ricca di servigi.
Passano i secoli e questo sistema costruisce la propria ideologia, viene teorizzato, il sacerdote lo giustifica in nome degli dei, il giudice vieta con le sue sanzioni che possa essere violato. Vi è una differenza e una superiorità dell’uomo della classe oppressa sul bue: è quella che non si potrà mai insegnare al bue a recitare, del tutto spontaneamente, una dottrinetta secondo la quale la trazione dell’aratro è per lui un vantaggio grandissimo, una sana e civile gioia, un adempimento della volontà di Dio e della santità delle leggi, né mai avverrà che il bue ne dia atto nel deporre una scheda.
Tutto il nostro discorso su questa elementare materia vuole condurre a questo risultato: mettere sul conto del fondamentale fattore della forza tutta la somma degli effetti che da esso derivano, non solo quando la forza è impiegata allo stato attuale, con violenza sulle persone fisiche, ma anche e soprattutto quando esso fattore forza agisce allo stato potenziale e virtuale senza i rumori della lotta e lo spargimento del sangue.
Travalicando i millenni ed evitando di ripetere l’esame delle successive forme storiche di rapporti produttivi, di privilegi di classe, di potere politico, si deve giungere ad applicare tale risultato e criterio alla presente società capitalistica.
È così possibile battere la tremenda contemporanea mobilitazione dell’inganno, l’universale regia che costruisce la soggezione ideologica delle masse ai sinistri dettami delle minoranze predominanti, il cui trucco fondamentale è quello dell’atrocismo, ossia, della messa in evidenza (corroborata inoltre da potenti falsificazioni di fatto) di tutti gli episodi di sopraffazione materiale in cui, per effetto dei rapporti di forza, la violenza sociale si è resa palese e si è consumata colpendo, sparando, uccidendo e – cosa che dovrebbe apparire la più infame, se la regia non avesse avuto tremendi successi nell’incretinimento del mondo – atomizzando. Sarà così possibile riportare al loro giusto, preponderante valore qualitativo e quantitativo, i casi innumerevoli in cui la sopraffazione, sempre risolvendosi in miseria, sofferenza, distruzione a volumi imponenti di vite umane, si consuma senza resistenza, senza urti, e – come dicevamo all’inizio – sine effusione sanguinis. anche nei luoghi e nei tempi in cui sembra dominare la pace sociale e la tranquillità, vantata dai ruffiani professionali della propaganda scritta e parlata come l’attuazione piena della civiltà, dell’ordine, della libertà.
Il confronto tra il peso dei due fattori – violenza in atto e violenza in potenza – mostrerà che, malgrado tutte le ipocrisie e gli scandalismi, il secondo è quello predominante, e solamente su di una tale base si può costruire una dottrina e una lotta capaci di spezzare i limiti dell’attuale mondo di sfruttamento e di oppressione.
Poiché sarebbe troppo lungo applicare a tutti i tipi sociali che hanno preceduto la rivoluzione borghese la ricerca che ci siamo proposta circa il dosaggio della violenza tra uomini, applicata allo stato attuale, con percossa e lesione fisica, e la violenza che rimane invece allo stato potenziale piegando i dominati al volere dei dominatori col gioco complesso di tutte le sanzioni comminate ma non consumate, prenderemo in esame la cosa partendo dal confronto tra il mondo sociale dell’«ancien régime» che precedette la grande rivoluzione e quello capitalistico in cui abbiamo la particolare soddisfazione di vivere.
Secondo un primo e ben noto schema, la rivoluzione che attuò i principi della libertà, uguaglianza e fraternità, espressi soprattutto negli istituti elettivi, fu una conquista tanto universale quanto definitiva, ovvero in primo luogo migliorò radicalmente le condizioni di tutti i membri della società liberandoli dalle antiche op-pressioni e schiudendo loro le gioie di un mondo nuovo; ed in secondo luogo eliminò l’eventualità storica di ogni ulteriore grande conflitto sociale avente un carattere di infrangimento violento delle istituzioni e dei rapporti sociali.
Un secondo schema meno ingenuo e meno sfacciatamente apologetico delle delizie del sistema borghese ammette che in questo sussistano forti disparità di condizione sociale e un grave sfruttamento economico ai danni delle classi lavoratrici, e che ulteriori trasformazioni della società dovranno determinarsi per vie più o meno brusche o più o meno graduali, ma afferma con ostinata assolutezza che le conquiste della rivoluzione che condusse al potere la classe capitalistica costituirono tuttavia un sostanziale vantaggio anche per tutte le altre classi le quali conseguirono grazie ad essa l’inestimabile bene delle libertà legali e civili. Non si tratterebbe dunque che di continuare una via già aperta, di eliminare, dopo talune forme più severe e atroci di dispotismo e di sfruttamento, altre forme superstiti, tenendo però ben salde quelle prime fondamentali conquiste. Questo schema abusato viene servito in tutte le foggie o dai vertici della piramide del potere, quando qualche Roosevelt si degna di elencare dopo le ben note libertà della vecchia letteratura le nuove libertà dal bisogno e dalla paura (nell’atto stesso in cui un cataclisma bellico di centuplicata violenza aumenta a dismisura il numero di creature umane sterminate e affamate) o dalla base, quando qualche ingenuo esponente del basso politicantismo popolare formula in nuove parole l’antico intruglio di democrazia e socialismo cianciando delle libertà sociali che dovremmo aggiungere a quelle civili già assicurate.
Non dovrebbe essere neppur necessario rammentare che la decifrazione data dal marxismo del processo storico dell’avvento capitalistico non ha nulla a che vedere né col primo né col secondo degli schemi ora ricordati.
Marx non solo non ha mai detto che nella società capitalistica il grado di sfruttamento, di oppressione e di sopraffazione, fosse minore che in quella feudale o terriera-artigiana, ma ha esplicitamente dimostrato il contrario.
Diciamo subito, ad evitare gravi equivoci, che, se Marx proclamò storicamente la necessità che il Quarto Stato combattesse a fianco della borghesia rivoluzionaria contro la monarchia, l’aristocrazia e il clero, se condannò i sistemi di socialismo «reazionario» secondo i quali gli operai tempestivamente avvertiti del selvaggio sfruttamento che si sarebbe sfrenato nelle manifatture e nelle industrie dei capitalisti avrebbero dovuto far blocco contro costoro coi ceti dominanti feudali, e se storicamente il marxismo più ortodosso e di sinistra riconosce che nella prima fase storica borghese post-rivoluzionaria la strategia del proletariato non poteva essere diversa da quella di una risoluta alleanza con la giovane borghesia giacobina, queste chiare e classiche posizioni non derivano affatto dal presupposto che il nuovo sistema economico fosse meno esoso ed oppressivo del precedente.
Esse derivano invece da tutta la concezione dialettica della storia che spiega la successione degli eventi con le determinazioni delle forze produttive che, dilatandosi e utilizzando sempre nuove risorse, premono contro le forme istituzionali e i sistemi di potere e ne causano le crisi e le catastrofi.
Se quindi i socialisti rivoluzionari seguono da oltre un secolo le vittorie del moderno capitalismo e la sua impressionante espansione nel mondo guardando ad esse come ad utili condizioni del divenire sociale, ciò avviene perché le caratteristiche essenziali del capitalismo – come la concentrazione delle forze produttive, macchine ed uomini, in potenti unità, la trasformazione di tutti i beni d’uso in beni di scambio, il concatenamento di tutte le economie che hanno vita sul pianeta – costituiscono l’unica strada per attuare, dopo altri imponenti conflitti civili, la nuova società comunista. Il che resta vero e necessario pur sapendosi perfettamente che la società industriale e capitalistica moderna è peggiore e più feroce di quelle che l’hanno preceduta.
Naturalmente, questa conclusione è indigesta per mentalità plasmate secondo l’ideologia borghese e alle quali sono congeniti gli ideologismi pullulati nel periodo romantico delle rivoluzioni democratico-liberali. Posta quella tesi al vaglio di criteri sentimentali, letterari e retorici, essa non potrebbe provocare che la banale indignazione dei benpensanti, i quali non mancherebbero di rovesciarci sulla testa tutta la loro farraginosa erudizione sulle nequizie degli antichi dispotismi, gli auto da fé, la Santa Inquisizione, le corvées dei servi della gleba, il diritto di vita e di morte spettante al monarca come all’ultimo signorotto feudale, lo jus primae noctis e così via, per dimostrarci che le società pre-borghesi erano teatro di quotidiane e incessanti violenze e le loro istituzioni grondavano tutte di sangue.
Ma se la ricerca viene impostata scientificamente e statisticamente, e ci si chiede quanto lavoro umano venga estorto senza compenso per consentire un godimento privilegiato delle ricchezze e dei redditi, quanta miseria si determina nel bassofondo sociale, quante vite vengono sacrificate o stroncate per effetto del disagio economico e, via via, delle crisi e di scontri aventi carattere di contese private, di guerre civili o di conflitti militari fra gli stati, l’indice più pesante dovrà essere calcolato e segnato in conto proprio a questa civile democratica e parlamentare società borghese.
È fondamentale in Marx, di fronte alla scandalizzata accusa rivolta ai comunisti di mirare a distruggere la proprietà, l’affermazione che uno degli aspetti essenziali del rivolgimento sociale attuato dal capitalismo è la violenta, disumana espropriazione del lavoratore artigiano.
Prima del sorgere delle grandi manifatture e delle fabbriche meccaniche, un legame di fatto, tecnico ed economico, univa l’artefice isolato (o associato a pochi familiari e discepoli) tanto agli arnesi quanto ai prodotti dell’opera sua. Nel rapporto giuridico gli era riconosciuto illimitato il diritto di proprietà sui pochi utensili e sul limitato volume di merci allestite nella sua bottega. L’avvento del capitalismo infrange questo sistema patriarcale e quasi idilliaco, defrauda l’intelligente e operoso artigiano del suo modesto possesso e lo trascina nullatenente e affamato nella galera della moderna azienda borghese. Mentre questo rivolgimento sì compie, spesso con aperta violenza e sempre sotto la pressione di inesorabili forze economiche, il suo aspetto giuridico viene definito dagli ideologi borghesi una conquista della libertà, che svincola il cittadino lavoratore dalle pastoie delle gilde medioevali e dei regolamenti di mestiere, facendone un libero uomo in libero stato.
Se questo processo concerne la sfera di produzione dei manufatti nel suo complesso, non diversa è la presentazione in termini di marxismo degli sviluppi della produzione agraria. Il regime di servitù feudale obbligava bensì il lavoratore della terra a privarsi di larghe quote dei suoi prodotti devolvendole ai ceri dominanti religiosi e nobiliari. Ma il servo legato alla gleba conservava un legame tecnico-produttivo colla terra stessa e con una parte dei prodotti, legame che indirettamente gli offriva una garanzia di vita comoda e tranquilla, dato anche lo scarso addensamento della popolazione e i limitati scambi di derrate con grandi agglomerati urbani.
La rivoluzione capitalistica spezza questi rapporti e afferma di aver liberato il contadino servo di tutta una serie di sopraffazioni, ma o il lavoratore della terra, ridotto a puro proletario, segue il destino dell’armata negriera dei lavoratori industriali, o, trasformato in gestore o proprietario giuridicamente perfetto di piccoli lotti, viene taglieggiato dallo strozzino capitalista, dall’agente del fisco o dalla volatilizzazione della moneta.
Non è compito di questo scritto entrare nel dettaglio di tali analisi, ma le elementari considerazioni ora svolte basteranno a chi finga di sentire per la prima volta che per Marx la nuova società borghese era più infame della feudale.
Il punto essenziale da stabilire è questo: il criterio discriminante per appoggiare o combattere uno svolgimento storico non è quello, inconsistente e vanamente letterario, di ricercare se si è attuata e conseguita più eguaglianza, più giustizia, più libertà, ma l’altro totalmente diverso e molte volte opposto di chiedersi se la nuova situazione ha favorevolmente avviato e promosso lo sviluppo di più potenti e complesse forze produttive a disposizione della società, forze che sono la premessa indispensabile della futura organizzazione della società medesima nel senso del maggior rendimento del lavoro per una più larga disponibilità di beni di consumo a vantaggio di tutti.
Era indispensabile oltre che utile che la borghesia con la guerra civile abbattesse gli ostacoli istituzionali che ritardavano il sorgere delle grandi fabbriche e un più moderno sfruttamento della terra; e di fronte a questo poco importa che la prima e immediata conseguenza, transitoria in un più vasto senso storico, sia stata di rendere più pesanti e odiose le catene della disparità sociale e dello sfruttamento della forza lavoro.
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La critica del socialismo scientifico ha messo chiaramente in evidenza che la grande trasformazione sociale attuata dal capitalismo (trasformazione storicamente matura e feconda a sua volta di sviluppi grandiosi) non va affatto definita né come una radicale liberazione interessante le grandi masse, né come un sensibile balzo innanzi nel loro tenore economico di vita. La trasformazione degli istituti riguarda unicamente il modo di schieramento e di organamento della piccola minoranza privilegiata e dominante.
I componenti delle classi privilegiate preborghesi erano intrecciati in un sistema basato su fitte gerarchie. I grandi prelati appartenevano all’ordinata e inquadratissima rete della chiesa; i nobili, che erano anche i più alti funzionari civili e militari, erano gerarchicamente disposti nel sistema feudale che aveva al suo vertice il monarca.
Nel nuovo tipo di società, per contro – e qui si intenda che, trascurando tutte le importantissime differenze di periodi e di nazioni, parliamo della prima e classica società economica borghese basata sulla illimitata libertà di produzione e di scambio – i componenti dello strato supremo e privilegiato sono pressoché totalmente sciolti da legami di interdipendenza, in quanto ogni padrone di azienda è libero da qualsiasi obbligo verso i suoi colleghi e concorrenti nel dirigere le proprie operazioni e iniziative. Questo trapasso tecnico e sociale prende, nel succedersi delle ideologie, l’aspetto di una svolta storica dal mondo dell’autorità a quello della libertà.
Ma è chiaro che questa conquista, questo sensazionale cambiamento di scena ha per teatro non l’insieme dell’agglomerato sociale ma la ristretta pedana sulla quale si muovono i fortunati, i componenti lo strato dei ventri pieni e dorati, integrato dalla ristretta cerchia dei loro diretti agenti e manutengoli: politicanti, pubblicisti, sacerdoti, maestri, alti funzionari e simili.
La gran massa dei ventri semivuoti rimane assente non certo da questa immane tragedia, cui anzi partecipa lottando con sacrificio di vite e di sangue, ma dalla partecipazione ai benefici del mutamento.
La conquista giuridica della libertà, proclamata in tutte le carte e costituzioni retaggio di tutti i cittadini, non riguarda dunque la maggioranza, sfruttata e affamata ancor più di prima, ma è faccenda interna di una minoranza. Ed è alla luce di questo criterio che vanno risolti tutti i quesiti storici e attuali in cui si ripropone il postulato stucchevole della libertà e della democrazia.
Ridotta a scala individuale, la tesi materialista afferma che, poiché il cervello funziona quando lo stomaco può nutrirsi, il diritto teorico a liberamente pensare ed esprimere il proprio pensiero interessa di fatto solo chi ha la possibilità di tale attività superiore, possibilità perfettamente contestabile a molti che ne menano vanto di continuo, ma comunque sicuramente preclusa alla schiera dei ventri insufficientemente riempiti.
Alla crudezza di questa tesi segue abitualmente lo scatenarsi delle rampogne contro il piatto e osceno materialismo che, conoscendo il solo fattore economico ed alimentare, ignora tutta la radiosa sfera della vita dello spirito e disconosce le soddisfazioni non riducibili a sensazioni fisiche, che l’uomo dovrebbe trarre dall’uso della ragione, dal riconoscimento delle civili libertà, dal godimento dei diritti di cittadino elettore che sceglie i suoi rappresentanti e i capi dello stato.
Ma a tal proposito conviene ancora una volta – poiché non si espongono qui davvero cose nuove, ma tutt’al più si verificano con fatti recenti teorie ben note – rettificare la portata del determinismo economico professato dai marxisti contro una corrente deformazione, più ostinata a non guarire della rogna e di simili malattie attaccaticce, che riduce il problema alla meschina scala individuale, e pretende che ogni individuo tenda ad adottare in politica, in filosofia, in religione, opinioni derivate dal rapporto economico in cui vive, e meccanicamente svolgentisi dalla molla dei suoi appetiti e dei suoi interessi. Il gran proprietario terriero sarà bacchettone forcaiolo e destro, l’affarista borghese conservatore in economia ma talvolta, almeno fino a ieri, sinistreggiante in filosofia e in politica, l’uomo dei ceti medi più o meno democratico, il lavoratore infine materialista, socialista, rivoluzionario.
Un simile marxismo ad uso del delfino demo-borghese fa molto comodo per stabilire ottimisticamente che costituendo i lavoratori, economicamente oppressi, la gran maggioranza dei popoli, essi non tarderanno ad avere nelle mani gli organismi rappresentativi ed esecutivi e, via via proseguendo, la ricchezza e il capitale. Naturalmente, sarà gran vantaggio per il rapido moto di questa giostra da fiera far pencolare a sinistra opinioni, credenze e schieramenti politici, combinando blocchi e pasticci con tutta la melma dei ceti intermedi, che andrebbero progressivamente evolvendosi, e pronunziandosi contro la politica e il privilegio delle alte classi.
Al posto di questa sciocca caricatura, il marxismo traccia linee totalmente diverse, e stabilisce invece, quando parla di sovrastrutture ideologiche, politiche, mistiche che trovano la loro spiegazione nelle sottostanti condizioni e rapporti economici, una legge e un metodo di portata generale e sociale. Per spiegare il significato delle ideologie prevalenti in una data epoca storica presso un popolo governato con un dato regime, noi dobbiamo fondare l’analisi sui dati della tecnica produttiva e dei rapporti di ripartizione dei beni e dei prodotti, sui rapporti di classe tra gruppi privilegiati e collettività produttrici.
In breve, e in parole povere, la legge del determinismo economico dice che in ciascuna epoca l’opinione generalmente prevalente, il pensiero politico filosofico e religioso più accreditato e seguito è quello che corrisponde agli interessi della minoranza dominante che detiene nelle sue mani il privilegio e il potere. Così i sacerdoti e dottori degli antichi popoli orientali giustificheranno il dispotismo e l’immolazione di vite umane, quelli pagani dimostreranno benefica e giusta la schiavitù, quelli cristiani la proprietà e la monarchia, quelli dell’epoca democratica e illuministica gli schemi economici e giuridici che convengono al capitalismo.
Allorché un tipo di società e di produzione entra in crisi e nel campo della tecnica e della produzione si destano forze che tendono ad infrangerne i limiti, i conflitti di classe scoppiano più acuti ed hanno il loro riflesso anche nel sorgere di nuove dottrine di opposizione e sovversione, che vengono condannate e combattute dalle istituzioni dominanti. Quando una società è in crisi, una delle caratteristiche della fase che allora si apre è il numero relativamente sempre più ristretto di persone che beneficiano del regime in vigore; tuttavia, l’ideologia rivoluzionaria non prevale nella massa ma in una sua minoranza di avanguardia in cui confluiscono persino elementi della classe dirigente. Per inerzia, e per effetto dei formidabili mezzi di fabbricazione delle opinioni di cui dispone ogni classe dominante, la massa muterà ideologie, filosofie e religioni solo in un lungo periodo successivo al crollo delle antiche impalcature di dominio. Si deve anzi affermare che una rivoluzione è veramente matura quando, benché le opinioni dominanti con la loro spaventosa inerzia reazionaria continuino a rimasticare i vecchi dettami tradizionali, tanto nel seno della massa che ne è vittima, quanto fra i ceti superiori depositari del regime, il fatto reale e fisico dell’inadeguatezza dei sistemi di produzione li pone contro gli stessi interessi materiali della classe privilegiata in larghi suoi strati.
Così, lo schiavismo cadde definitivamente, malgrado le ostinate resistenze sul piano delle idee e su quello delle forze, quando si rivelò un sistema poco redditizio di sfruttamento del lavoro e poco vantaggioso per i padroni.
La liberazione di una classe oppressa non procede quindi, per dirla in modo spiccio, prima negli spiriti e poi nei corpi, ma deve redimere il ventre molto prima del cervello.
Ora, le forze di ingannatrice mobilitazione delle opinioni della massa nel senso che interessa il ceto privilegiato sono, nella società capitalistica, molto più potenti che in quelle pre-borghesi. Scuola, stampa, oratoria pubblica, radio, cinema, associazioni di ogni specie, rappresentano mezzi di un potenziale centinaia di volte più forte di quelli a disposizione delle società dei secoli passati. In regime capitalistico il pensiero è una merce, e lo si produce su misura impiegando sufficienti impianti e mezzi economici alla sua fabbricazione in serie. Se Germania ed Italia ebbero i Ministeri della Propaganda e della Cultura Popolare, la Gran Bretagna istituì all’inizio della guerra il Ministero delle Informazioni per monopolizzare ed inquadrare tutta la circolazione delle notizie. Questa era già nell’inter-guerra monopolio della potente rete delle agenzie giornalistiche inglesi: oggi, ovviamente, tale monopolio ha varcato l’Atlantico. Finché gli eventi militari furono favorevoli ai tedeschi, la produzione giornaliera di frottole e di menzogne dell’officina inglese raggiunse volumi che le organizzazioni fasciste hanno potuto soltanto invidiate. Per dirne una, al tempo delle incredibili operazioni militari tedesche per la conquista della Norvegia in 48 ore, le radio britanniche propinarono i particolari di una disastrosa sconfitta riportata dalla flotta germanica nello Skagerrak!
Questo fattore sociale della manipolazione dall’alto delle idee, che va dalla falsa notizia (nell’attuale organizzazione giornalistica le versioni di un fatto sono già tutte compilate prima che il fatto accada, e quando sembra che uno degli informatori abbia ragione si tratta pur sempre di un bugiardo; era il povero fatto che doveva accadere secondo uno degli schemi comodo a questo o a quello stato, a questo o a quel partito) fino alla critica e all’opinione bell’e fatta, non deve sembrare di poco peso. Esso si inquadra nella massa delle violenze virtuali, che cioè non prendono l’aspetto di una imposizione brutale con mezzi coercitivi, ma sono tuttavia risultato ed esplicazione di forze reali, che deformano e spostano situazioni effettive.
Il moderno tipo di società borghese democratica, pur non scherzando nella consumazione di effettive violenze «cinetiche» di polizia e di guerra, e battendo anche per questo coefficiente i diffamati vecchi regimi, porta a massimi sconosciuti (e comparabili ai suoi massimi di produzione e di concentrazione della ricchezza) anche il volume di questa applicazione di violenze virtuali, per cui gruppi di massa si presentano, per apparente libera scelta di confessioni, di opinioni e di credenze, come agenti contro i propri interessi obiettivi, e accettano le giustificazioni teoriche di legami ed atti sociali che in realtà li affamano o li distruggono addirittura.
Il trapasso dalle forme pre-borghesi alla società attuale ha dunque aumentato e non diminuito l’intensità e la frequenza del fattore della sopraffazione e dell’imposizione.
E quando, dal punto di vista marxista, si esige per le dette ragioni che quel fondamentale trapasso storico sia pieno e compiuto, non si vuole certo dimenticare o contraddire questa posizione fondamentale.
Solo con criteri coerenti a quelli qui stabiliti deve giudicarsi e decifrarsi il problema oggi attuale e scottante di una trasformazione nei modi di amministrare e governare della borghesia, che corrisponde al sorgere dei regimi totalitari dittatoriali e fascisti.
Tale trapasso non costituisce un mutamento di classe dominante, e tanto meno una rottura rivoluzionaria dei modi di produzione. Nel farne la critica, bisogna però evitare i banali errori che, in conformità alle notissime deviazioni dal marxismo qui confutate, condurrebbero ad accreditare alla forma e alla fase democratico-parlamentare una minore intensità e densità della violenza di classe.
Questo criterio, anche se rispondesse ai fatti, non sarebbe comunque sufficiente a farci propugnare e difendere tale fase, per le ragioni dialettiche applicate alla valutazione dei trapassi precedenti. Ma l’analisi di questo punto potrà anche dimostrare che chi sfugge alla suggestione di considerare la sola violenza in atto e misura invece tutto il volume di quella potenziale insita nella vita e nella dinamica della società, eviterà di cadere nell’inganno di preferire, sia pure in via subordinata e relativa, il metodo ipocrita e il mefitico ambiente della democrazia liberale.
In questo studio si esamina la portata dell’impiego della forza nei rapporti sociali, distinguendo tra le manifestazioni palesi di violenza spinta sino alla strage, e il gioco delle imposizioni che si attuano senza resistenza materiale della persona o del gruppo che le subisce, in virtù di una sanzione comminata ai trasgressori o comunque di una disposizione delle vittime a riconoscere la norma che loro sovrasta.
Nella prima parte abbiamo stabilito un raffronto tra questi due tipi del manifestarsi dell’energia nel campo sociale, e le due forme in cui l’energia si manifesta nel mondo fisico: quella attuale e cinetica, o di movimento, che si accompagna all’urto ed alla esplosione dei più svariati agenti; e quella virtuale e potenziale, o di posizione, che, pur non dando luogo a tali manifestazioni, ha parimenti gioco importantissimo nell’insieme dei fatti e dei rapporti di cui si tratta.
Tale raffronto, svolto dal campo fisico a quello biologico e a quello umano, lo abbiamo seguito con brevi cenni nel corso delle epoche storiche, e, pervenendo al presente periodo borghese capitalistico, abbiamo mostrato che in esso il gioco della forza e della violenza nei rapporti economici, sociali e politici tra individuo e individuo e soprattutto tra classe e classe, non solo ha un peso grandissimo e fondamentale, ma, se di una misura potesse parlarsi, assume frequenza e vastità assai maggiori che nelle epoche precedenti e nei tipi di società precapitalistiche.
A una misura economico-sociale in una indagine di più vasta portata è possibile ricorrere, qualora si cerchi di ridurre a cifre il valore della somma di lavoro umano estorto a beneficio delle classi privilegiate alle grandi masse che lavorano e producono. Nella società moderna, poiché è sempre diminuita l’aliquota degli individui e dei gruppi economici che riescono a vivere in un proprio ciclo autonomo consumando ciò che producono senza rapporti con l’esterno, è grandemente aumentato il numero di coloro che lavorano per conto altrui e che ricevono una remunerazione che compensa solo una parte del loro sforzo, e le distanze sociali tra il tenore di vita della grande maggioranza produttrice e quello dei membri delle classi abbienti è aumentata enormemente. Non è infatti la esistenza singola di uno o pochissimi grandi dominatori che vivano nel lusso quello che conta, ma la massa di ricchezze che una minoranza sociale riesce a destinare a scopi voluttuari di ogni genere quando la maggioranza riceve poco più dello stretto necessario della vita.
Poiché il nostro tema più che al lato economico tendeva al lato politico della questione, il quesito che dobbiamo porci nei confronti del regime di privilegio e di dominio capitalistico è quello della relazione tra l’uso della violenza bruta e quello della forza virtuale che piega i diseredati al rispetto dei canoni e delle leggi vigenti senza che si attui l’infrazione o la rivolta.
Tale relazione varia moltissimo a seconda delle varie fasi della storia del capitalismo e a seconda dei vari paesi in cui questo è stato introdotto. Si possono citare esempi di zone neutre e quasi idilliache dove la forza dello stato viene maggiormente vantata come liberamente accetta da parte di tutti i cittadini, dove è mantenuta una ridotta polizia, dove gli stessi conflitti di interessi sociali tra lavoratori e datori di lavoro si esplicano con l’impiego di mezzi pacifici. Ma queste Svizzere tendono a diventare, nello spazio e nel tempo, oasi sempre più rare nel quadro mondiale del capitalismo.
Questo ai suoi inizi storici non poté conquistare le sue posizioni senza lotte aperte e sanguinose, in quanto i vincoli costituiti dalla impalcatura statale dei vecchi regimi potevano essere infranti soltanto colla forza. La sua espansione nei continenti extraeuropei con le spedizioni coloniali e le guerre di conquista e di preda fu non meno sanguinosa, perché solo con la strage si poté sostituire ai modi di organizzazione sociale delle popolazioni indigene quello capitalistico, e in alcuni casi intere razze umane furono sterminate, fatto ignoto alle civiltà preborghesi.
In linea generale, dopo questa fase virulenta di nascita e di affermazione del capitalismo, si apre un suo periodo intermedio di sviluppo, che pure essendo ad ogni tratto intermezzato sia da scontri sociali e da repressione dei moti delle classi sacrificate, che da guerre tra gli stati, non interessanti tuttavia l’intero mondo conosciuto, è quello che più si è prestato alla apologetica liberale e democratica tendente a mostrare falsamente un mondo in cui, tolti i casi eccezionali e patologici, i rapporti tra i singoli e tra le categorie si svolgevano con un massimo di ordine, di pace, di consenso spontanei e di libera accettazione.
Sia detto tra parentesi che nel riferirsi agli strappi delle guerre coloniali o nazionali, delle rivolte, delle insurrezioni, delle repressioni, che costituiscono anche nelle fasi più scorrevoli e tranquille della storia borghese il campo di applicazione della violenza palesemente scatenata, deve osservarsi che vi è l’elemento tecnico, ben degno di essere chiamato progressivo, per cui in queste crisi lo spargimento di sangue ed il numero delle vittime tende a crescere, a parità di altre condizioni, rispetto alle crisi del passato. Infatti parallelamente al perfezionarsi dei mezzi di produzione si potenziano quelli di offesa e di distruzione, si creano armi più tremende, e i vuoti che potevano fare i pretoriani passando a fil di spada gli ammutinati contro Cesares erano scherzi al paragone di quelli che fa la mitraglia contro gli insorti dell’epoca moderna.
Ma ciò che interessa è mostrare che anche in lunghe fasi di amministrazione incruenta del dominio capitalistico, la forza di classe non cessa di essere presente e la sua influenza virtuale contro i possibili scarti di individui isolati, di gruppi organizzati o di partiti, resta il fattore dominante per la conservazione dei privilegi e degli istituti della classe superiore. Abbiamo già annoverato tra le manifestazioni di questa forza di classe, non solo tutto l’apparato statale con le sue forze armate e la sua polizia, quando anche resti con l’arma al piede, ma tutto l’armamentario di mobilitazione ideologica giustificatrice dello sfruttamento borghese, attuato con la scuola, la stampa, la chiesa e tutti gli altri mezzi con cui vengono plasmate le opinioni delle masse. Questa epoca di apparente tranquillità è solo turbata talvolta da inermi dimostrazioni degli organismi di classe proletari, e il buon borghese può dire, dopo il corteo di primo maggio, come nei versi del poeta: «grazie a Cristo e al questore, anche questa è passata». Allorché il turbamento sociale brontola più minaccioso, lo stato borghese comincia a mostrare la sua potenza con le misure di tutela dell’ordine: un’espressione tecnica della polizia di stato dà una felice idea dell’uso della violenza virtuale: «la polizia e le truppe sono consegnate nelle caserme». Ciò vuol dire che non si combatte ancora sulla piazza, ma se l’ordine borghese e i diritti padronali fossero minacciati, le forze armate uscirebbero dalle loro sedi e aprirebbero il fuoco.
La critica rivoluzionaria, non lasciandosi incantare dalle apparenze di civiltà e di sereno equilibrio dell’ordine borghese, aveva da tempo stabilito che anche nella più democratica repubblica lo stato politico costituisce il comitato di interessi della classe dominante, sgominando in modo decisivo le rappresentazioni imbecilli secondo cui, da quando il vecchio stato feudale clericale e autocratico fu distrutto, sarebbe sorta, grazie alla democrazia elettiva, una forma di stato nella quale a ugual diritto sono rappresentati e tutelati tutti i componenti la società qualunque ne sia la condizione economica. Lo stato politico, anche e soprattutto quello rappresentativo e parlamentare, costituisce una attrezzatura di oppressione. Esso può ben paragonarsi al serbatoio delle energie di dominio della classe economica privilegiata, adatto a custodirle allo stato potenziale nelle situazioni in cui la rivolta sociale non tende ad esplodere, ma adatto soprattutto a scatenarle sotto forme di repressione di polizia e di violenza sanguinosa non appena dal sottosuolo sociale si levino i fremiti rivoluzionari.
Tale è il senso delle classiche analisi di Marx e di Engels sui rapporti tra società e stato ossia tra classi sociali e stato, e tutti i tentativi di scuotere questo cardine della dottrina di classe del proletariato furono schiacciati nel ripristino dei valori rivoluzionari realizzato da Lenin, da Trotsky e dalla Internazionale Comunista subito dopo la prima guerra mondiale.
Come non ha senso scientifico stabilire l’esistenza di un quantum di energia potenziale se non si può prevedere che in situazioni successive questa si sprigionerà allo stato cinetico, così la definizione marxista del carattere dello stato politico borghese rimarrebbe priva di senso e di conseguenza se non corrispondesse alla certezza che nella fase culminante questo organo di potenza del capitalismo non potrà mancare di scatenare allo stato attuale tutte le sue risorse contro l’erompere della rivoluzione proletaria.
D’altra parte l’equivalente delle tesi marxiste sul crescere della miseria, sulla accumulazione e la concentrazione del capitale, nella sfera di fatti politici, non poteva essere altro che il concentrarsi, che il potenziarsi dell’energia racchiusa nella impalcatura statale. Ed infatti, chiusa con lo scoppio della guerra del 1914 l’ingannevole fase pacifista dell’era capitalista, mentre le caratteristiche economiche volgevano nel senso del monopolio, dell’attivo intervento dello stato nell’economia e nelle lotte sociali, fu evidente, soprattutto nella classica analisi di Lenin, che lo stato politico dei regimi borghesi assumeva forme sempre più decise di stretta dominazione e di oppressione poliziesca. In altre elaborazioni è stato stabilito in questa rivista che la terza e più moderna fase del capitalismo si definisce in economia come monopolistica e pianificatrice, in politica come totalitaria e fascista.
Quando i primi regimi fascisti sono apparsi e si sono presentati alla più immediata e banale interpretazione come una riduzione e una abolizione delle cosiddette garanzie parlamentari e legalitarie, si trattava in effetti puramente, in dati paesi, di un passaggio dell’energia politica di dominio della classe capitalistica dallo stato virtuale allo stato cinetico.
Era palese ad ogni seguace della prospettiva marxista, definita come catastrofica dagli stupidi eviratori della potenza rivoluzionaria di quella dottrina, che il crescente stridore delle antitesi di classe avrebbe spostato il contrasto degli interessi economici sul piano di un irrompente attacco rivoluzionario sferrato dalle organizzazioni del proletariato contro la cittadella dello stato capitalistico, e che esso, a questo punto, scoprendo le sue batterie, avrebbe ingaggiato la lotta suprema per la sua conservazione.
In determinati paesi e in determinate situazioni, come ad esempio nell’Italia del 1922 e nella Germania del 1933, la tensione dei rapporti sociali, la instabilità del tessuto economico capitalistico, la crisi – in forza di vicende belliche – della stessa impalcatura dello stato, divennero così acute che la classe dominante intravide vicino il momento ineluttabile in cui, frusti ormai tutti gli inganni della propaganda democratica, avrebbe dovuto attendersi la soluzione dell’urto violento delle opposte classi.
Si verificò allora quella che si definì giustamente come offensiva padronale. La classe borghese che aveva fino allora, nel pieno sviluppo del suo sfruttamento economico, mostrato di sonnecchiare dietro l’apparente bonomia e tolleranza delle sue istituzioni rappresentative e parlamentari, riuscita a raggiungere un grado di strategia storica grandemente apprezzabile, ruppe gli indugi e prese l’iniziativa pensando che ad una suprema difesa del fortilizio dello stato contro l’assalto della rivoluzione (tendente secondo l’insegnamento di Marx e di Lenin non ad occu-parlo, ma a spezzarlo in frantumi fino alle ultime conseguenze) fosse preferibile una sortita dai suoi bastioni ed un’azione offensiva volta a infrangere le posizioni di partenza dell’organizzazione proletaria.
Fu quindi di poco anticipata una situazione che nella prospettiva rivoluzionaria era chiaramente prevista in quanto i comunisti marxisti non avevano mai pensato di poter attuare il trapasso alla realizzazione del loro programma senza questo supremo scontro tra le opposte forze di classe, e in quanto tutta l’analisi della più recente evoluzione del capitalismo e del grandeggiare delle mostruose sue formazioni statali nella loro gigantesca impalcatura lasciava chiaramente intendere l’inesorabilità di questo sviluppo.
Il grande errore di valutazione di tattica e di strategia che favorì la vittoria della controrivoluzione fu quello di deprecare questa potente conversione del capitalismo dal terreno della ipocrisia democratica a quello dell’aperta azione di forza come un movimento revocabile nella storia, e del contrapporgli non la richiesta dell’abbattimento della forza capitalistica, ma la stupida e imbelle pretesa che questa, rifacendo all’inverso quel cammino storico che noi marxisti le avevamo sempre attribuito, e per comodità personale di capi politici istrioni e vigliacchi, si com-piacesse di rinculare dallo sfoderamento delle sue armi di classe sulla posizione vuota e superata della mobilitazione senza guerra che costituiva il compiacente aspetto del periodo precedente.
L’equivoco sostanziale sta nell’essersi meravigliati, nell’aver piagnucolato, nell’aver deplorato che la borghesia attuasse senza maschera la sua dittatura totalitaria, quando invece noi sapevamo benissimo che questa dittatura era sempre esistita, che sempre l’apparato dello stato aveva avuto, in potenza se non in atto, la funzione specifica di attuare, di conservare, di difendere dalla rivoluzione il potere e il privilegio della minoranza borghese. L’equivoco è consistito nel preferire una atmosfera borghese democratica a un’atmosfera fascista, nello spostare il fronte della lotta dal postulato della conquista proletaria del potere a quello dell’illusoria restaurazione di un modo democratico di governare del capitalismo sostituito a quello fascista.
Lo sbaglio fatale è consistito nel non intendere che in qualunque modo la vigilia rivoluzionaria attesa per tanti decenni avrebbe presentato dinanzi all’avanzata proletaria uno stato borghese schierato a difesa armata e che quindi tale situazione doveva apparire come progressiva e non regressiva rispetto a quella degli anni di apparente pace sociale e di limitato impulso della forza di classe del proletariato. Il male arrecato allo sviluppo delle energie rivoluzionarie e alle prospettive per l’attuazione di una società socialista non è dipeso dal fatto che la borghesia organizzata a tipo fascista sia più potente e più efficiente nella difesa del suo privilegio di una borghesia ancora organizzata a tipo democratico. La potenza e l’energia di classe è nei due casi la stessa; in fase democratica si tratta di energia potenziale; sulla bocca del cannone si tiene l’innocua custodia di tela. In fase fascista l’energia si manifesta allo stato cinetico, il cappuccio è tolto, il colpo deflagra. La richiesta disfattista e idiota rivolta dai capi traditori del proletariato al capitalismo sfruttatore e oppressore è quella di rimettere l’ingannevole schermo sulla bocca dell’arma. Per tal modo l’efficienza del dominio e dello sfruttamento non sarebbe diminuita ma soltanto incrementata dal rinnovato espediente dell’inganno legalitario.
Poiché sarebbe ancora più insensato chiedere al proprio nemico di disarmare, bisogna accogliere con letizia il fatto che egli, costretto dalle urgenze della situazione, sveli le proprie armi, poiché sarà meno difficile affrontarle e infrangerle.
Il regime borghese di dittatura adunque è una fase immancabile e prevista della vita storica del capitalismo il quale non morirà senza averla esperita. Lottare per il rinvio di questo palesarsi delle opposte energie sociali di classe, svolgere una propaganda vana e retorica ispirata a uno stupido orrore di principio per la dittatura, è tutto lavoro svolto soltanto a favore del sopravvivere del regime capitalistico, del prolungarsi dell’asservimento e della oppressione sulla classe lavoratrice.
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Altra conclusione molto fondata, per quanto molto atta a far gridare tutte le oche delle sinistre borghesi, è che nel confronto tra la fase capitalistica di democrazia e quella di totalitarismo la somma dell’oppressione di classe è maggiore nella prima, pure restando pacifico che la classe dominante tende a scegliere sempre quella più utile alla sua conservazione. Il fascismo scatena indubbiamente una maggiore massa di violenze di polizia e di repressioni consumate anche sanguinosamente, ma tale aspetto di energia attuale disturba soprattutto gravemente, insieme ai pochissimi autentici capi e quadri rivoluzionari del movimento operaio, uno strato di mezzi borghesi professionisti della politica che si atteggiano a progressivi e amici della classe operaia, ma in realtà non sono che la milizia dei padroni specializzata per il servizio in tempi di commedia parlamentare. Quelli che non fanno a tempo a mutare stile e livrea sono sgombrati a pedate: di qui la maggior parte delle strida.
Quanto alla massa della classe lavoratrice essa seguita ad essere sfruttata come sempre è stata nel campo economico, e le avanguardie che si formano nel suo seno per l’assalto al regime presente seguitano, appena imboccano la giusta via antilegalitaria di azione, ad avere quel piombo che le attende anche da parte dei governi borghesi democratici, come nei mille esempi da parte dei repubblicani in Francia nel 1848 e 1871, da parte dei socialdemocratici in Germania nel 1919, ecc.
Ma il nuovo metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica, costituendo, rispetto all’illimitato liberismo classico del passato ormai tramontato, una forma di autolimitazione del capitalismo, conduce a livellare intorno ad una media l’estorsione di plusvalore. Vengono adottati i temperamenti riformistici propugnati dai socialisti di destra per tanti decenni, e vengono così ridotte le punte massime e acute dello sfruttamento padronale, mentre le forme di materiale assistenza sociale vanno sviluppandosi. Tutto ciò tende al fine di ritardare le crisi di urto tra le classi e le contraddizioni del metodo capitalistico di produzione, ma indubbiamente sarebbe impossibile pervenirvi senza riuscire a conciliare, in una certa misura, l’aperta repressione delle avanguardie rivoluzionarie, e un tacitamento dei bisogni economici più impellenti delle grandi masse. Questi due aspetti del dramma storico che viviamo sono condizione l’uno dell’altro: il vecchio Churchill ha detto con ragione ai laburisti: non potrete fondare una economia di stato senza uno stato di polizia. Più interventi, più regole, più controlli, più sbirri. Il fascismo consiste nella integrazione tra l’abile riformismo sociale e l’aperta difesa armata del potere statale. Non tutti i suoi esempi sono alla stessa altezza, ma quello tedesco, spietato nell’eliminare i suoi avversari fin che si vuole, attuò un tenore di vita economica media molto alto e una amministrazione tecnicamente ottima, e quando prescrisse limitazioni di guerra le fece pesare anche sulle classi abbienti in una inattesa misura.
Adunque se in fase totalitaria l’oppressione borghese di classe aumenta la proporzione di impiego cinetico della violenza rispetto a quella potenziale, l’insieme della pressione sul proletariato non ne risulta aumentato ma diminuito. Appunto per questo la crisi finale della lotta di classe subisce storicamente un rinvio.
La morte delle energie rivoluzionarie è nella collaborazione tra le classi. La democrazia è una collaborazione di classe a chiacchiere, il fascismo è collaborazione di classe in fatto. Stiamo vivendo questa fase storica in pieno. La ripresa della lotta tra le classi uscirà dialetticamente da una fase ulteriore, ma per ora sia stabilito che non può uscire dallo schieramento delle classi lavoratrici sulla istanza del ritorno al liberalismo, in cui nulla hanno da guadagnare, nemmeno relativisticamente.
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Questa esposizione si riferisce soprattutto all’impiego della forza, della violenza e della dittatura da parte delle classi dominanti; non esaurisce l’argomento dell’impiego di tali energie da parte del proletariato nella lotta per prendere il potere e nel suo esercizio, punto importante da riservare ad altre trattazioni. Ma restando ancora nell’ambito dello studio delle forme borghesi di dittatura, non sarà male precisare che parlando di metodo capitalistico fascista totalitario e dittatoriale noi ci riferiamo sempre ad azioni ed organamenti collettivi e non vediamo prevalere sullo sfondo storico le persone dei dittatori, che tanto occupano l’attenzione del pubblico abilmente montata, con pari effetto, da fautori e denigratori.
In pieno svolgimento di questa ultima guerra due dei grandi sono stati eliminati: Roosevelt e Churchill; in sostanza nulla è mutato nel processo in esame. Lasciando andare l’Italia in cui gli esempi del fascismo e dell’antifascismo hanno avuto molto di burattinesco (il primo saggio di ogni innovazione fa sempre ridere, come le prime automobili visibili in museo rispetto ad una macchina moderna di serie), in Germania la persona di Hitler rappresentava un fattore superfluo del potente inquadramento nazista di forze; il regime sovietico farà benissimo a meno di Stalin a suo tempo; l’altro impressionante apparato energetico del Giappone si basava su caste e su classi senza un capo personale.
Si può uscire dalla marea travolgente di menzogne di cui si abbevera l’odierna opinione solo dando una caccia spietata non soltanto al feticcio di quel protagonista oramai ridotto al lumicino che è l’individuo del basso, l’uomo della strada, l’uomo qualunque, ma anche al più brillante e portato nella luce dei riflettori che è l’individuo messo in alto, il Capo, il Grande.
Che viviamo in tempo di autogoverno dei popoli non lo credono neppure le galline.
Ma non siamo neanche in mano a pochi grandi uomini. Siamo in mano a pochissimi grandi Mostri di classe, ai massimi stati della terra, macchine di dominio la cui strapotenza pesa su tutti e su tutto, il cui accumulare senza mistero energie potenziali prelude, da tutti i lati dell’orizzonte, e quando la conservazione degli istituti presenti lo richieda, allo spiegamento cinetico di forze immense e stritolatrici, senza la minima esitazione, da nessuna parte, innanzi a scrupoli civili morali e legali, ai principi ideali di cui gracchia da mane a sera l’ipocrisia infame e venduta delle propagande.
Le prime tre parti si riferivano per rapidi accenni allo svolgimento delle lotte di classe che ci ha presentato la storia fino all’avvento della presente società borghese; si rifacevano alla visione che del problema il socialismo marxista ha dato già da gran tempo, ma che di continuo è oggetto di deviazione e confusione.
Per una chiara presentazione si è applicata la fondamentale distinzione tra energia allo stato potenziale o virtuale, ossia suscettibile di entrare in azione ma non ancora esplicantesi, ed energia allo stato attuale o cinetico, ossia posta già in movimento e determinante i suoi svariati effetti, ricordandone il senso nel mondo fisico, ed estendendo la distinzione in modo assai semplice ai fatti della vita organica e della società umana.
Si è quindi posto il problema del riconoscimento della violenza e della forza coattiva nei fatti sociali, insistendo sul criterio che essa non va riconosciuta solo quando si ha la brutale azione fisica sull’organismo dell’uomo, con il vincolo la percossa e l’uccisione, ma in tutto il campo assai più vasto in cui le azioni dei singoli sono rese coatte dalla semplice minaccia e sanzione degli atti di forza. Tale coazione sorge inseparabilmente dalle prime forme di attività produttiva associata e quindi di società cosiddetta civile e politica; essa è un fatto indispensabile nello svolgimento di tutto il corso della storia e dell’avvicendarsi delle istituzioni e delle classi. Si tratta non di esaltarla o condannarla ma di riconoscerla e valutarla nel trascorrere dei tempi e nelle varie situazioni.
La seconda parte era un confronto tra la società feudale e quella borghese capitalistica ed era dedicata alla dimostrazione della tesi (non certo nuova) che il trapasso, fondamentale nella evoluzione della tecnica produttiva e della economia, non si accompagnò ad un minore grado di impiego di forza, di violenza, di sopraffazione sociale.
Il tipo capitalistico di economia e di società è per Marx il più antagonistico che la storia abbia fin qui presentato; nel formarsi, nello svilupparsi, nel resistere alla sua sparizione esso determina un massimo prima ignorato di sfruttamento, di persecuzione, di sofferenza umana. Il massimo è tale in qualità e in quantità, in potenziale e in massa, in acutezza e in estensione, e, per tradurre nei termini etico-letterari che non sono i nostri, in ferocia e in vastità di applicazione, che ha raggiunto le masse i popoli le razze di ogni angolo della terra.
La terza parte ha trattato poi il confronto tra le forme liberal-democratiche e quelle fasciste-totalitarie del dominio borghese, mostrando l’illusione che le prime abbiano carattere meno oppressivo e più tollerante. Quando alla considerazione banale della violenza palesemente in atto si sostituisce quella dell’effettivo potenziale dei moderni apparati di stato, ossia della loro attitudine e capacità a resistere ad ogni assalto rivoluzionario antagonista, è facile sostituire alla cieca volgare opinione odierna che tripudia poiché due guerre mondiali avrebbero respinte indietro forze di reazione e tirannia, la constatazione evidente che il sistema capitalistico ha più che raddoppiata la sua possanza, concentrata nei grandi mostri statali e nella costruzione in corso del Leviathan mondiale del dominio di classe. Constatazione che si deve chiedere non all’esame degli istrionismi giuridici pennaioleschi od oratori, più rivoltanti ora che presso i battuti regimi del Tripartito, ma alla calcolazione scientifica delle forze finanziarie, militari, di polizia, alla misura della accumulazione e concentrazione vertiginosa del capitale privato o pubblico, sempre borghese.
Rispetto al 1914, al 1919, al 1922, al 1933, al 1943, il regime capitalistico del 1947 è più pesante, sempre più pesante, nello sfruttamento economico e nella oppressione politica sulle masse che lavorano e su chiunque e qualunque cosa gli traversi la strada. Questo è vero per i «grandi», dopo la soppressione totalitaria degli organismi statali di Germania e Giappone. È perfino, e non meno, vero per lo stesso Stato italiano, battuto, deriso, vassallo, vendibile e venduto in ogni direzione, tuttavia più attrezzato di polizie e più forcaiolo oggi che sotto Giolitti e Mussolini, più eventualmente forcaiolo se dalle mani di De Gasperi passasse a quelle dei gruppi di sinistra.
Ricordato in sommario tutto questo, va ora trattato il problema dell’impiego della forza e della violenza nella lotta sociale, quando a impugnare tali mezzi di azione è la classe rivoluzionaria dell’epoca di oggi, il moderno proletariato.
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Il metodo della lotta di classe è stato nel corso di circa un secolo accettato a parole da tanti e così diversi movimenti e scuole, che le più opposte interpretazioni si sono scontrate in violente polemiche, riflesso delle vicende e degli svolti della storia del capitalismo e degli antagonismi da esso suscitati.
La polemica si chiarificò in modo classico a cavallo della prima guerra mondiale e della rivoluzione russa: Lenin, Trotsky, i gruppi di sinistra che confluirono nella Internazionale di Mosca sistemarono in modo che deve ritenersi definitivo per il campo teoretico e programmatico le questioni sulla forza, la violenza, la conquista del potere, lo stato e la dittatura.
Dal lato opposto si ponevano le innumeri deformazioni dell’opportunismo socialdemocratico, di cui non occorre ripetere la confutazione ma è utile solo ricordare qualche punto che vale a chiarire nostri concetti distintivi. D’altra parte molte di quelle false posizioni battute allora in breccia e che sembrarono disperse per sempre ricompaiono sotto forme quasi identiche nella odierna situazione del movimento operaio.
Pretese il revisionismo di mostrare come parte caduca del sistema marxista tutta la previsione di un urto rivoluzionario tra la classe operaia e le difese del potere borghese, e, falsificando e sfruttando i testi, una prefazione e una lettera famose di Engels, assunse che, da una parte, dati i progressi della tecnica militare, andava esclusa ogni prospettiva di insurrezione vittoriosa armata, dall’altra che il progredire della organizzazione dei sindacati operai e dei partiti politici parlamentari consentiva di prevedere un sicuro prossimo arrivo al potere con mezzi legali e incruenti.
Si volle diffondere nelle file della classe operaia la convinzione che non si poteva abbattere con la forza il potere della classe capitalistica, e che d’altra parte si poteva attuare il socialismo dopo aver conquistato, con la maggioranza degli istituti rappresentativi, gli organi esecutivi dello stato.
Si accusarono i marxisti di sinistra di un culto della violenza che la elevava da mezzo a fine e la invocava quasi sadicamente anche laddove si poteva risparmiarla e raggiungere lo stesso risultato per via pacifica.
Ma dinanzi alla eloquenza degli sviluppi storici tale polemica svelò presto il suo contenuto, che era quello di una mistica non tanto della antiviolenza quanto proprio dei principi apologetici dell’ordine borghese.
Avendo la rivoluzione armata trionfato a Leningrado delle resistenze così dell’ordinamento zarista che della classe borghese russa, l’argomento che colle armi non si poteva conquistare il potere si trasformò nell’argomento che non si doveva, anche potendo. Ciò si innestava alla predicazione idiota di un generico umanitarismo e pacifismo sociale, il quale ripudiava si la violenza usata per la vittoria della rivoluzione operaia, ma non rinnegava la violenza usata dalla borghesia per le sue rivoluzioni storiche, nemmeno nelle estreme manifestazioni terroristiche. Non solo, ma in tutte le decisioni controverse, in situazioni storiche decisive per il movimento socialista, la destra, nel contrastare le proposte di azione diretta, ammise che per altri obiettivi avrebbe condiviso il ricorso all’insurrezione. Ad esempio i socialisti riformisti italiani nel maggio 1915 si opposero alla proposta di sciopero generale al momento della mobilitazione con argomenti ideologici e politici, oltre che di valutazione tattica delle forze in gioco, ma ammisero che nel caso di un intervento in guerra a fianco dell’Austria e della Germania avrebbero chiamato il popolo all’insurrezione…
Così pure i teorizzatori della «utilizzazione» delle vie legali e democratiche sono pronti ad ammettere che invece la violenza popolare è legittima e necessaria quando dall’alto si attui il tentativo di abolire le garanzie costituzionali. Come poi si spieghi che in tal caso il progresso dei mezzi tecnici militari in mano allo stato non è più un insormontabile ostacolo, come si possa prevedere che nel caso di un raggiungimento pacifico della maggioranza, la classe al potere non faccia ricorso a quei mezzi per conservarlo, e come possa il proletariato usare vittoriosamente la violenza deprecata e condannata come mezzo di classe, in tutte queste situazioni i socialdemocratici non sanno dirlo, poiché dovrebbero confessare di essere puramente e semplicemente i manutengoli della conservazione borghese.
Un sistema come il loro di parole d’ordine tattiche si può infatti conciliare solo con una apologetica nettamente antimarxistica della civiltà borghese, qual è difatti al fondo di tutta la politica dei partiti sorti sul troncone deforme dell’antifascismo.
Tale tesi dice che l’ultimo ricorso storico alla violenza e alle forme della guerra civile è stato quello appunto che ha permesso all’ordine borghese di sorgere sulle rovine dei vecchi regimi feudali e dispotici. Con la conquista delle libertà politiche si apre un’era di lotte civili e pacifiche, che consentiranno senza ulteriori urti cruenti tutte le altre conquiste, e così quella della eguaglianza economica e sociale.
Il movimento storico del moderno proletariato e il socialismo non si presentano più, in questa ignobile falsificazione, come la battaglia più radicale della storia, come la eversione fin dalle fondamenta di tutto un mondo, nella sua impalcatura economica e nei suoi ordinamenti legali e politici, come nelle sue ideologie ancora pregne di tutte le menzogne tramandate dalle forme di oppressione che fin qui si sono avvicendate e che tuttora ammorbano la stessa aria che respiriamo.
Il socialismo si riduce a una sciocca e esitante integrazione di pretese conquiste giuridiche e costituzionali, di cui la forma capitalistica avrebbe arricchita e illuminata la società, con vaghi postulati sociali innestabili e trapiantabili sul tronco del sistema borghese.
La formidabile prospettiva antagonistica di Marx che misurava nel sottosuolo sociale le pressioni irresistibili e crescenti, che dovranno far saltare l’involucro delle forme borghesi di produzione come i cataclismi geologici infrangono la crosta del pianeta, è sostituita con gli spregevoli inganni di un Roosevelt, che infila nel bolso elenco delle libertà borghesi quelle dal timore e dal bisogno, o di un Pacelli che, ribenedetto nella moderna forma capitalistica l’eterno principio della proprietà, mostra di piangere per l’abisso che separa l’indigenza delle moltitudini dalle mostruose accumulazioni della ricchezza.
Nella ricostruzione leninista la definizione dello stato è rimessa a posto come quella di una macchina che una classe sociale adopera per opprimerne altre, e tale definizione vige in pieno e soprattutto per il moderno stato borghese, democratico e parlamentare. Resta pure chiarito, a coronamento della storica polemica, che la forza proletaria di classe non può penetrare in questa macchina e adoperarla per i propri sviluppi, ma deve, più che conquistarla, infrangerla e disperderla in frantumi.
La lotta proletaria non è lotta nell’interno dello stato e dei suoi organismi, ma lotta dall’esterno dello stato contro di esso e contro tutte le sue manifestazioni e forme.
La lotta proletaria non si prefigge di prendere o di conquistare lo stato, come una piazzaforte in cui voglia sistemarsi a presidio l’esercito vincitore, ma si propone di distruggerlo radendo al suolo le difese e le fortificazioni superate.
Tuttavia dopo questa distruzione una forma di stato politico si rende necessaria, ed è la forma nuova in cui si organizza il potere di classe del proletariato, per la necessità di dirigere l’impiego di un’organica violenza con cui si estirpano i privilegi del capitale e si consente l’organizzazione delle svincolate forze produttive nelle nuove forme comunistiche. non private, non mercantili.
Si parla perciò esattamente di conquista del potere, intendendo conquista non legale e pacifica, ma violenta, armata, rivoluzionaria. Si parla correttamente di passaggio del potere dalle mani della borghesia a quelle del proletariato, appunto perché nella nostra dottrina chiamiamo potere non solo la statica dell’autorità e della legge posata sulle pesanti tradizioni del passato, ma anche la dinamica della forza e della violenza spinta verso l’avvenire e travolgente le dighe e gli ostacoli delle istituzioni. Non esatto sarebbe parlare di conquista dello stato o di passaggio dello stato dalla gestione di una classe a quella di un’altra, poiché appunto lo stato di una classe deve perire ed essere infranto, come condizione della vittoria della classe prima dominata. Trasgredire questo punto essenziale del marxismo, o fare su esso la minima concessione, come quella che il trapasso del potere possa inquadrarsi in una vicenda parlamentare sia pure fiancheggiata da azioni e combattimenti di piazza e da vicende di guerra fra gli stati, conduce direttamente all’estremo conservatorismo, poiché significa concedere che l’impalcatura dello stato sia una forma aperta a contenuti sociali opposti, e sia quindi superiore alle opposte classi e al loro urto storico, il che si risolve nel timore reverenziale della legalità e nella volgare apologetica dell’ordine costituito.
Non si tratta soltanto di un errore scientifico di valutazione, ma di un reale processo storico degenerativo che si è svolto sotto i nostri occhi, e che ha condotto i partiti ex-comunisti giù per la china, che volgendo le terga alle tesi di Lenin arriva alla coalizione coi traditori social-democratici, al «governo operaio», al governo democratico ossia in collaborazione diretta con la borghesia e al servizio di questa.
Con la tesi chiarissima della distruzione dello stato, Lenin ristabiliva quella della formazione dello stato proletario non gradita agli anarchici, i quali, pure avendo il merito di propugnare la prima, perseguivano l’illusione che subito dopo infranto il potere borghese la società potesse fare a meno di ogni forma di potere organizzato e quindi di stato politico, ossia di un sistema di violenza sociale. Non potendo essere istantanea la trasformazione dell’economia da privata a socialistica non può essere istantanea la soppressione della classe non lavoratrice e non si può attuarla con la fisica soppressione dei suoi membri. Per il tempo non breve in cui le forme economiche capitalistiche persistono, subendo una incessante riduzione, lo stato rivoluzionario organizzato deve funzionare, il che significa, come Lenin disse senza ipocrisie, tenere soldati, forze di polizia e carceri.
Riducendosi progressivamente il campo dell’economia ancora organizzata in forme private, si riduce di pari passo il campo in cui è necessario applicare la coazione politica, e lo stato tende alla sua progressiva sparizione.
I punti qui ricordati in forma schematica bastano a mostrare come non tanto una meravigliosa campagna polemica che ridicolizzò e stritolò i contraddittori, ma soprattutto la più grandiosa vicenda che abbia fin qui presentato la storia della lotta di classe, fecero risplendere in assoluta chiarezza le classiche tesi di Marx e di Engels, del «Manifesto dei Comunisti», delle conclusioni che si traevano dalla sconfitta della Comune, quali la conquista del potere politico, la dittatura del proletariato, l’intervento dispotico nei rapporti borghesi di produzione, il finale sgonfiamento dello stato. Il buon diritto a parlare di conferme storiche parallele alla geniale impostazione teorica sembra cessare quando si giunge a quest’ultima fase, in quanto non abbiamo ancora assistito – in Russia o altrove – al processo di sgonfiamento, di svuotamento, di dissolvimento (Auflösung in Engels) dello stato. La questione è importante e difficile, dato che per la sana dialettica nulla può essere sicuramente dimostrato dal succedersi più o meno brillante di parole dette o scritte, ma le conclusioni si fondano soltanto sui fatti.
Gli stati borghesi, sotto tutti i climi meteorici e ideologici, si vanno spaventosamente gonfiando davanti ai nostri occhi, e l’unico stato che una possente propaganda presenta come operaio a sua volta dilata la sua organizzazione e la sua funzione nel campo burocratico, giudiziario, poliziesco, militare, oltre ogni limite.
Non stupisce dunque che un diffuso scetticismo accolga la previsione del contrarsi e dell’eliminarsi dello stato dopo l’espletamento della sua parte decisiva nella lotta delle classi.
L’opinione volgare sembra dirci: «Avrete un bell’aspettare voi teorizzatori e realizzatori di dittature anche rosse; l’organismo statale, come un tumore nel corpo della società, si guarderà bene dal regredire e ne invaderà tutti i tessuti e tutti i meandri fino a soffocarla». Da questa corrente valutazione traggon coraggio tutti gli ideologismi individualistici, liberali, anarchici, ed infine i vecchi e nuovi deformi ibridismi tra il metodo classista e il liberale, che ci propinano socialismi basati niente meno che sulla personalità e la pienezza del suo manifestarsi.
È molto notevole che anche gli scarsi gruppi che nel campo comunista hanno reagito alla degenerazione opportunista dei partiti della disciolta Internazionale di Mosca tendano a mostrare delle esitazioni su questo punto; preoccupati di lottare contro la soffocante centralizzazione della burocrazia staliniana, sono condotti a revocare in dubbio le posizioni di principio del marxismo ristabilite da Lenin e mostrano di credere che questi – e con lui tutti i comunisti rivoluzionati nel glorioso periodo 1917–1920 – abbia errato in senso statolatra.
Vada fortemente chiarito che la corrente della sinistra marxista italiana, a cui si collega questa rivista, non ha in materia il minimo tentennamento o pentimento, respinge ogni revisione del principio fondamentale di Marx e di Lenin secondo cui la rivoluzione, come è per eccellenza un processo violento, così è sommamente un fatto autoritario totalitario e centralizzatore.
La condanna dell’indirizzo stalinista non si fonda sull’accusa astratta, scolastica e costituzionalistica di aver peccato abusando di burocratismo, di dirigismo e di dispotica autorità, ma su ben altre valutazioni dello sviluppo economico sociale politico in Russia e nel mondo, di cui l’enfiamento mostruoso della macchina statale non è la causa peccaminosa, ma la inevitabile conseguenza.
Il dubbio sull’accettazione e l’aperta difesa della dittatura, oltre che risalire a vaghi e stupidi moralismi sul preteso diritto dell’individuo o dell’aggruppamento a non essere compresso o piegato da una forza più vasta, risale alla distinzione – senza dubbio importantissima – tra il concetto di dittatura di classe contro classe e quello dei rapporti di organizzazione e di potere con cui lo stato rivoluzionario si costruisce e si configura entro la vincitrice classe operaia. È questo il punto d’arrivo della presente trattazione che, rimessi nei loro termini i dati fondamentali, non pretenderà certo di avere esaurito queste questioni che solo la storia esaurisce (come noi assumiamo abbia esaurita quella della necessità della violenza per la conquista del potere) mentre il compito della scuola teorica e della milizia di partito è l’evitare che se ne cerchi lo sbocco usando, senza accorgersene, argomenti dettati e influenzati dalle ideologie nemiche e quindi dagli opposti interessi di classe.
Dittatura è dunque il secondo e dialettico aspetto della forza rivoluzionaria. Questa, nella prima fase della conquista del potere, agisce dal basso e fa confluire mille sforzi nel tentativo di spezzare la forma statale da tempo costituita. Questa stessa forza di classe, dopo il successo di tale tentativo, seguita ad agire, in senso capovolto, dall’alto, nell’esercizio del potere affidato a un organismo statale ricostituito nel tutto e nelle parti e ancora più robusto, deciso e, se occorre, spietato e terroristico di quello sconfitto.
Le strida contro la rivendicazione della dittatura, oggi dissimulata ipocrita-mente dagli stessi rappresentanti del regime di ferro moscovita, e le grida di allarme contro la pretesa impossibilità di frenare la corsa alla libidine di potere, e quindi di privilegio materiale, da parte del personale burocratico cristallizzato in nuova classe o casta dominante, ben si conciliano con la posizione inferiore e metafisica di chi tratta della società e dello stato come enti astratti, e non sa trovare le chiavi dei problemi nell’indagine sui fatti della produzione e nei rivolgimenti di ogni rapporto che scaturiscono dagli urti delle classi.
Banale è quindi la confusione tra il concetto di dittatura invocato da noi marxisti e quello volgare di tirannide, dispotismo e autocrazia.
Si confonde così la dittatura del proletariato col potere personale e si grida il crucifige in base alle stesse stupidità contro Lenin come contro Hitler, Mussolini o Stalin.
Va ricordato che l’analisi marxista disconosce in pieno l’affermazione che le macchine statali agiscano sotto l’azione della volontà di questi Duci contemporanei. Essi sono dei pezzi simbolicamente notevoli, mossi da forze cui non possono sottrarsi sullo scacchiere della storia.
Tante volte abbiamo stabilito, d’altra parte, che gli stessi ideologi borghesi non hanno il diritto di scandalizzarsi di un Franco o di un Tito o dei metodi energici di quegli stati che li presentano come capi, quando non rifuggono dalla apologia della dittatura e del terrore cui la borghesia è ricorsa appunto nella fase successiva alla conquista del potere. Così nessuno storico ben pensante classifica il dittatore di Napoli nel 1860, Giuseppe Garibaldi, come un criminale politico, ma lo esalta come puro campione dell’umanità.
La dittatura del proletariato non si estrinseca dunque nel potere di un uomo, sia pure di eccelse qualità personali.
Essa ha allora per soggetto operante un partito politico, il quale agisce in nome e per conto della classe operaia? A tale interrogativo, oggi come trenta anni addietro, la risposta della nostra corrente è incondizionatamente: sì.
Poiché è innegabile che i partiti che invocavano di rappresentare la classe proletaria hanno subito crisi profonde e si sono ripetutamente spezzati e sdoppiati, segue alla nostra recisa affermativa la domanda se e con quale criterio si debba stabilire quale partito abbia in effetti tale rivoluzionaria prerogativa, e si porta quindi la questione sull’esame del collegamento che passa tra la base ampia della classe e l’organismo più ristretto e ben definito del partito.
Nel rispondere ai quesiti su questo punto non va perduto di vista il carattere distintivo della dittatura che, come sempre nel nostro metodo, prima di svelare nella concretezza storica i suoi aspetti positivi, si lascia definire dal suo aspetto negativo.
È dittatura quel regime in cui la classe sconfitta pure esistendo fisicamente e costituendo in linea statistica una parte notevole dell’agglomerato sociale viene tenuta con la forza fuori dallo stato. E viene, altresì, tenuta in condizioni di non poter tentare la riconquista del potere, essendole vietata l’associazione, la propaganda, la stampa.
Chi sia a tenerla in questo deciso stato di soggezione non è necessario definirlo in partenza, lo insegnerà l’effettuarsi stesso della lotta storica. Purché la classe che combattiamo sia ridotta in questo stato di minorità sociale, subisca questa morte civile in attesa di quella statistica, noi ammetteremo per un momento che il soggetto operante possa essere o tutta la maggioranza sociale vincitrice (ipotesi assoluta irrealizzabile), o una parte di essa, o un solido gruppo di avanguardia (sia pure statisticamente minoritario), o infine in una breve crisi perfino un uomo solo (altra ipotesi estrema sul mezzo, che è stata prossima ad attuarsi in un solo esempio storico, quello di Lenin che nell’aprile 1917, solo contro tutto il comitato centrale e i vecchi bolscevichi, scopre nel divenire degli eventi e incide nelle sue tesi le nuove linee della storia del partito e della rivoluzione, come nel novembre fa disperdere dai fucilieri rossi l’assemblea costituente).
Non essendo il metodo marxista né rivelazione, né profezia, né scolastica, esso conquista anzitutto la cognizione del senso in cui agiscono le forze storiche stabilendo i loro rapporti e i loro scontri. In tempi successivi, accompagnandosi l’indagine e la lotta, esso determina i caratteri delle manifestazioni e la configurazione dei mezzi.
La Comune di Parigi confermò che la forza proletaria doveva spezzare il vecchio stato e non penetrarlo, e che il mezzo doveva essere non la legalità ma l’insurrezione.
La stessa sconfitta in questo scontro di classe e la vittoria di ottobre a Leningrado mostrarono che occorre organare una nuova forma di stato armato il cui «segreto» sta in questo: che esso nega sopravvivenza politica ai componenti la classe sconfitta e a tutti i multiformi suoi partiti.
Carpito alla storia (consentiamoci per facilità espositiva di civettare con questa espressione) questo decisivo segreto, non abbiamo con ciò ancora chiarita e studiata tutta la fisiologia e la dinamica del nuovo organismo generatosi, e purtroppo ci resta ancora aperto un campo difficilissimo: quello della sua patologia. Anzitutto il carattere negativo determinante, ossia l’esclusione dall’organo statale (abbia esso o meno impalcature multiple rappresentative, esecutive, giudiziarie, burocratiche) della classe detronizzata, distingue radicalmente il nostro stato da quello borghese che pretendeva accogliere nei suoi organamenti tutti gli strati sociali.
La novità non può però sembrare assurda alla sopraffatta borghesia. Quando essa riuscì a far saltare il vecchio stato fondato sui due ordini della nobiltà e del clero, capi che sbagliava a chiedere soltanto di entrare come terzo ordine nell’organismo statale (il termine francese di terzo stato può indurre ad equivoco formale con lo Stato unico; lo sostituiamo con ordine). Nella Convenzione e nel Terrore essa cacciò gli «ex» fuori dello stato, e le fu facile chiudere storicamente la fase dittatoriale in quanto poté rapidamente distruggere i privilegi dei due ordini fondati su prerogative giuridiche più che sulla organizzazione produttiva, riducendo rapidamente anche il prete e il nobile a semplice indistinto cittadino.
Procederemo ora nella successiva parte del presente studio, stabilito il cardine distintivo che definisce la forma storica della dittatura del proletariato, ad esaminare i rapporti tra i vari organismi e istituti in cui questa si esplica: partito di classe, consigli operai, sindacati, consigli di azienda.
Discuteremo in altri termini a conclusione il problema della cosiddetta democrazia proletaria (espressione ospitata in testi della Terza Internazionale, ma che sarebbe bene liquidare) che dovrebbe istituirsi dopo che la dittatura ha storicamente sepolto la democrazia borghese.
Il quadro dell’arduo problema della degenerazione del potere proletario ha questi grandi tratti. In un vasto paese la classe operaia ha conquistato il potere sulla linea storica dell’insurrezione armata e dell’annientamento di ogni influenza delle classi sconfitte sotto il peso della dittatura di classe. Ma negli altri paesi del mondo la classe operaia o non ha avuto la forza di iniziare l’attacco rivoluzionario, o è stata schiacciata nel suo tentativo. In questi paesi il potere resta alla borghesia, la produzione e lo scambio procedono e seguiteranno a procedere nel quadro capitalistico, che domina tutti i rapporti del mercato mondiale.
Nel paese della rivoluzione la dittatura tiene ben fermo sul piano politico e militare contro ogni tentativo di contrattacco e liquida le guerre civili in pochi e vittoriosi anni, né il capitalismo estero impianta un’azione generale per andarla a debellare.
Si verifica però un processo di degenerazione interna del nuovo apparato politico e amministrativo, e si vede formarsi una cerchia privilegiata che monopolizza i benefici e le cariche della gerarchia burocratica, pur seguitando a conclamare di rappresentare e difendere gli interessi delle grandi masse lavoratrici.
Nei paesi esteri il movimento operaio rivoluzionario strettamente collegato a quella stessa gerarchia politica, non solo non realizza altri vittoriosi abbattimenti degli stati borghesi, ma va falsando e spegnendo in altri obiettivi non rivoluzionari il senso della propria azione.
Sorge dinanzi a questo tremendo problema della storia della lotta di classe il grave interrogativo: come si poteva o si potrebbe impedire questa doppia rovina? Il quesito è in verità mal posto; secondo il sano metodo deterministico si tratta invece di individuare i veri caratteri e le leggi proprie di questo processo degenerativo, per stabilire quando e in che cosa si potranno riconoscere le condizioni che permettano di attendere e di seguire un processo rivoluzionario preservato da quella patologica reversione.
Non stiamo qui ribattendo la posizione di coloro che contestano l’esistenza del fatto degenerativo e che sostengono esservi in Russia il vero e pieno potere rivoluzionario operaio, l’evoluzione reale delle forme economiche verso il comunismo, ed un coordinamento con i partiti esteri del proletariato efficiente per condurre all’abbattimento del capitalismo mondiale.
Neppure svolgiamo qui lo studio del lato economico-sociale del problema, che va impostato su una attenta analisi del meccanismo russo di produzione e distribuzione e dei suoi rapporti reali con le esteriori economie capitalistiche.
Qui, al termine dell’esposizione storica sui problemi della violenza e del potere, rispondiamo a quelle obiezioni critiche secondo le quali la degenerazione in senso burocratico oppressivo è una conseguenza diretta dell’avere trasgredito e violato i canoni e i criteri della democrazia elettiva.
L’obiezione ha due aspetti, ma il meno radicale è il più insidioso. Il primo aspetto è quello prettamente borghese che si collega direttamente a tutta la campagna mondiale di diffamazione della rivoluzione russa, condotta fino dagli anni della lotta da tutti i liberali, i democratici e i social-democratici del mondo, terrorizzati tanto dall’impiego, che dalla magnifica, coraggiosa proclamazione teorica del metodo della dittatura rivoluzionaria.
Dopo quanto abbiamo ricordato in questi scritti consideriamo superato tale aspetto della lamentazione democratica generica, sebbene la lotta contro di esso resti sempre di primaria importanza, oggi che appunto la rivendicazione conformista di quella che Lenin chiamò «la democrazia in generale» – e che nei testi fondamentali comunisti rappresenta l’opposto dialettico, la negazione antipolare della posizione rivoluzionaria – viene sbandierata sconciamente proprio da quei partiti che si proclamano collegati al regime vigente in Russia. Questo regime tuttavia, pur facendo all’interno pericolose colpevoli concessioni nel diritto formale al meccanismo democratico borghese, non solo resta ma diviene sempre più un regime strettamente totalitario e di polizia.
Non si insisterà quindi mai abbastanza sulla critica della democrazia in tutte le forme storiche finora note; essa è sempre stata un modo interno di organizzarsi di una vecchia o nuova classe di oppressori, una vecchia o nuova tecnica contingente dei rapporti interni tra elementi e gruppi sfruttatori; e, nelle specifiche rivoluzioni borghesi, la vera atmosfera vitale necessaria al prorompere rigoglioso del capitalismo.
Le vecchie democrazie basate su principi elettivi, assemblee, parlamenti o concili, sotto la menzognera proclamazione di voler attuare il bene di tutti e la universalità di conquiste spirituali o materiali, servivano in effetti ad imporre e conservare lo sfruttamento sulle folle di fanatici, di schiavi, di iloti, di popoli soggiogati perché meno progrediti o bellicosi, di tutta una massa assente dal tempio, dal senato, dalla polis, dai comizi.
Nelle molteplici banali teorie a sfondo egualitario noi leggiamo la verità obiettiva del compromesso, dell’accordo e della congiura tra i componenti della minoranza privilegiata ai danni delle classi inferiori. Non affatto diversa è la nostra valutazione della moderna forma democratica basata sulle sacre carte delle rivoluzioni britannica, americana e francese. Essa è una tecnica delle migliori condizioni politiche perché il capitalismo possa opprimere e sfruttare i lavoratori, sostituendo la vecchia rete degli oppressori feudali da cui esso stesso era soffocato, ma sempre allo scopo di sfruttare, in modo nuovo e diverso, ma non minore né attenuato.
È poi fondamentale a tal riguardo l’interpretazione della presente fase totalitaria dell’epoca borghese, in cui le forme parlamentari, assolto quel loro compito, tendono a sparire, e l’atmosfera del moderno capitalismo diviene antiliberale e antidemocratica. Da questa corretta valutazione nasce la conseguenza tattica che ogni rivendicazione per i ritorni all’iniziale democrazia borghese è anticlassista e reazionaria, e perfino «antiprogressista».
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Preme ritornare al secondo aspetto della obiezione a sfondo democratico, la quale non si ispira più ai dogmi di una democrazia interclassista e superclassista, ma in sostanza dice questo: sta bene attuare la dittatura e superare ogni scrupolo nel reprimere i diritti della vinta minoranza borghese; ma una volta messi i borghesi fuori legge si è avuta la degenerazione dello stato perché «entro» la vincitrice classe proletaria si è violata la regola rappresentativa. Se si fosse attuato e rispettato un pieno sistema elettivo maggioritario degli organi proletari di base – consigli, sindacati, partito politico – lasciando ogni decisione all’esito numerico delle consultazioni «veramente libere», si sarebbe automaticamente tenuta la vera via rivoluzionaria e si sarebbero scongiurati ogni degenerazione e ogni pericolo di abusivi predomini sopraffattoni della diffamatissima «cricca staliniana».
Alla base di questo modo di vedere così diffuso sta l’opinione che ciascun individuo, per il solo fatto di appartenere a una classe economica, ossia di trovarsi in determinati rapporti comuni a tanti altri agli effetti della produzione, sia parimenti predisposto ad acquistare una chiara «coscienza» di classe, ossia acquisti un insieme di opinioni e di intendimenti che riflettono gli interessi, la via storica e l’avvenire della sua classe. Questa è maniera errata d’intendere il determinismo marxista, perché la formazione della coscienza è fatto bensì collegato alle situazioni economiche di base, ma che le segue a grande distanza di tempo ed ha un campo d’azione enormemente più ristretto di quelle. Ad esempio, i borghesi, commercianti, banchieri o piccoli fabbricanti esistettero per molti secoli ed ebbero funzioni economiche fondamentali prima che si sviluppasse la coscienza storica della classe borghese, ma ebbero psicologia di servitori e complici dei signori feudali, mentre lentamente nel loro seno si formava una tendenza ed una ideologia rivoluzionarie e minoranze audaci si andavano organizzando per tentare la conquista del potere.
Avvenuta questa nelle grandi rivoluzioni democratiche, se anche alcuni aristocratici avevano lottato per la rivoluzione, molti borghesi conservarono non solo un modo di pensare ma anche una linea di azione contraria agli interessi generali del loro ceto e militarono e lottarono coi partiti controrivoluzionari.
Similmente, l’opinione e la coscienza dell’operaio si formano bensì sotto la influenza delle sue condizioni di lavoro e di vita materiale, ma anche nell’ambiente di tutta la tradizionale ideologia conservatrice di cui lo circonda il mondo capitalistico.
Le influenze in questo senso vanno diventando, nella fase attuale, sempre più potenti e non v’è bisogno di ricordare di quali risorse disponga non solo la pianificazione della propaganda con le tecniche moderne, ma lo stesso intervento centralizzato nella vita economica con l’adozione delle infinite misure riformistiche e di economia controllata, che tentano di solleticare la soddisfazione di interessi secondari dei lavoratori e molte volte realizzano veramente influenze concrete sul loro trattamento.
I vecchi regimi aristocratici e feudali, mentre si appagavano, per la massa bruta e incolta, dell’organizzazione chiesastica come pianificatrice di ideologie servili, agirono soprattutto mediante il monopolio della scuola e della cultura sulla nascente borghesia, e questa dovette sostenere una grande lotta ideologica con complicate alternative, che la letteratura presenta come lotta per la libertà del pensiero, mentre si trattava della soprastruttura ad un aspro conflitto tra due forze organizzate per sopraffarsi a vicenda.
Oggi il capitalismo mondiale, oltre la chiesa e la scuola, dispone di mille altre forme di manipolazione ideologica e di formazione della cosiddetta coscienza, ed ha qualitativamente e quantitativamente superato i vecchi regimi nella fabbricazione degli inganni non solo nel senso di diffondere le dottrine e le mistiche più assurde, ma anche in quello pregiudiziale di informare la massa degli uomini in maniera totalmente falsificata sugli innumerevoli accadimenti della complicata vita moderna.
Se malgrado questo formidabile armamentario della classe a noi nemica abbiamo sempre ritenuto che si sarebbe formata nel seno della classe oppressa una ideologia e una dottrina antagonistiche, acquistanti sempre maggior chiarezza e diffusione man mano che lo stesso svolgimento economico acutizzava il conflitto delle forze produttive, e parallelamente al diffondersi delle aspre lotte fra gli interessi di classe; tale prospettiva non si fondava sull’argomento che, essendo i proletari più numerosi dei borghesi, il cumulo delle loro opinioni e concezioni individuali avrebbe prevalso col suo peso su quelle degli avversari.
Quella chiarezza e quella coscienza noi l’abbiamo sempre veduta realizzarsi non in un aggregato amorfo di persone isolate, ma in organizzazioni sorgenti dal seno della massa indifferenziata, in inquadramenti e schieramenti di minoranze decise che, collegate tra loro da paese a paese e nella continuità storica generale del movimento, assumevano la funzione direttiva della lotta delle masse, mentre queste nella loro maggioranza vi partecipavano per la determinazione delle spinte e dei moventi economici assai prima di aver raggiunta la medesima forza e chiarezza di opinioni cristallizzate nel partito dirigente.
Ecco perché ogni consultazione, anche quando fosse possibile, della generalità della massa operaia, fatta col bruto criterio numerico, non è da escludersi che possa dare un risultato controrivoluzionario anche in situazioni utili per una avanzata e una lotta guidate dalla minoranza di avanguardia. Né una lotta generale politica che si chiuda con la vittoriosa conquista del potere è sufficiente in modo immediato per eliminare tutte quelle complicate influenze tradizionali delle ideologie borghesi. Queste non solo sopravvivono in tutta la struttura sociale dello stesso paese della vittoria rivoluzionaria, ma seguitano ad agire da oltre frontiera con l’imponente spiegamento di tutti i moderni mezzi cui abbiamo accennato.
Lo stesso grande vantaggio di spezzare con la macchina statale tutte le impalcature di pianificazione ideologica del passato, come la chiesa e la scuola e innumeri associazioni, e di prendere il controllo centrale di tutti i grandi mezzi di diffusione delle opinioni: stampa, radio, teatro ecc, non basta, se non si completa con la condizione economico-sociale di poter procedere rapidamente e con successi positivi nello sradicamento delle forme borghesi di produzione. Lenin sapeva benissimo che la necessità di dover lasciar prolungare e in certo senso divenir più rigogliosa la gestione familiare della piccola azienda contadina significava lasciare un campo di successo alle influenze della psicologia egoistica e mercantile di tipo borghese ed alla propaganda disfattista del pope, al gioco insomma di infinite superstizioni controrivoluzionarie, ma lo stato dei rapporti delle forze non lasciava altra scelta, e solo conservando forza e saldezza al potere armato del proletariato industriale si poteva conciliare l’utilizzazione dello slancio rivoluzionario degli alleati contadini contro i vincoli del regime terriero feudale, con la difesa dai pericoli di una possibile jacquerie di contadiname semiarricchito, come avvenne nelle guerre civili con Denikin e Kolčak.
La falsa posizione di quelli che vogliono applicare la democrazia aritmetica nel seno della massa lavoratrice o di suoi dati organismi risale quindi ad una falsa impostazione dei termini del determinismo marxista.
Già distinguemmo in altro di questi scritti fra la tesi errata che in ciascuna epoca storica contrappone a classi con opposti interessi gruppi che confessano opposte teorie, e la tesi esatta che in ciascuna epoca il sistema dottrinale costruito sugli interessi della classe dominante tende vantaggiosamente ad essere professato dalla classe dominata. Chi è servo nel corpo è servo nello spirito, ed il vecchio inganno borghese è appunto di voler cominciare dalla liberazione degli spiriti, che non conduce a nulla e non costa nulla ai beneficiati dal privilegio sociale, mentre è dalla liberazione dei corpi che bisogna cominciare.
Così è posizione errata, a proposito dell’abusato problema della coscienza, quella che stabilisce questa seriazione del determinismo: cause economiche influenti, coscienza di classe, azione di classe. La seriazione è invece l’altra: cause economiche determinanti, azione di classe, coscienza di classe. La coscienza viene alla fine e, in maniera generale, dopo la vittoria decisiva. La necessità economica affascia la pressione e lo sforzo di tutti quelli che sono oppressi e soffocati dalle forme cristallizzate di un dato sistema produttivo; essi reagiscono, si dibattono si avventano contro quei limiti, nel corso di questo scontro e di questa battaglia ne vanno sempre più comprendendo le condizioni generali le leggi e i principi, e si forma una chiara visione del programma della classe lottante.
Da decenni e decenni ci si risponde che vogliamo una rivoluzione di incoscienti.
Potremmo rispondere che, purché la rivoluzione travolga l’ammasso di infamie costituito dal regime borghese e purché si spezzi il cerchio formidabile delle sue istituzioni, che premono e strozzano la vita delle masse produttive, a noi non dispiace affatto che i colpi siano vibrati a fondo anche da chi non è ancora cosciente dello sbocco della lotta.
Ma invece noi marxisti di sinistra abbiamo sempre nettamente e vigorosamente rivendicato l’importanza della parte dottrinale del movimento ed anzi abbiamo costantemente denunciato l’assenza di principi e il tradimento di essi da parte degli opportunisti della destra. Abbiamo sempre ricordato la validità della impostazione marxista che considera il proletariato addirittura come l’erede della classica filosofia moderna. Questa enunciazione voleva dire che, parallelamente alla lotta di borghesi usurai colonizzatori o mercanti, si erano avuti nella storia l’assalto del metodo critico alle ideologie dell’autorità per diritto divino e del dogma, ed una rivoluzione compiuta nella filosofia naturale in apparenza prima che nella società. Ciò avveniva perché tra le forme da infrangere affinché le forze produttive capitalistiche si affermassero nel prepotere del loro svolgimento non ultima era l’impalcatura delle confessioni scolastiche e teocratiche del medioevo. Ma divenuta conservatrice dopo la sua vittoria politica e sociale, la borghesia non aveva alcun interesse a che l’arma della critica si affondasse come aveva fatto nelle menzogne dei sistemi cosmogonici cristiani, anche nel problema ben altrimenti pressante ed umano della struttura sociale. Tale secondo compito nel procedere della coscienza teoretica della società veniva assunto da una nuova classe, spinta dal suo interesse a denudare le menzogne del sistema della civiltà borghese, e tale nuova classe, nella potenza della visione dialettica di Marx, era quella dei «vili meccanici» tenuti dal pregiudizio medioevale fuori dalla cultura, di quelli che la rivoluzione liberale aveva finto di elevare ad una uguaglianza giuridica, era la classe dei lavoratori manuali della grande industria, incolti e quasi ignoranti.
La chiave del nostro sistema sta appunto nel fatto che la sede di tale chiarificazione non la collochiamo nel cerchio angusto della persona individua, e che sappiamo benissimo che nel caso generale gli elementi della massa lanciata in lotta non potranno possedere nel loro cervello i dati della visione teorica generale. Tale condizione sarebbe puramente illusoria e controrivoluzionaria. Quel compito è affidato invece, non a schiere o gruppi di individui superiori scesi a beneficare l’umanità, ma ad un organismo, ad un macchinismo differenziatosi nel seno della massa utilizzando gli elementi individuali come cellule che compongono i tessuti, ed elevandoli ad una funzione che è resa possibile solo da questo complesso di relazioni; questo organismo, questo sistema, questo complesso di elementi ciascuno con funzioni proprie, analogamente all’organismo animale cui concorrono sistemi complicatissimi di tessuti, di reti, di vasi e così via, è l’organismo di classe, il partito, che in certo modo determina la classe di fronte a se stessa e la rende capace di svolgere la sua storia.
Tutto questo processo si riflette in modo diversissimo nei vari individui che appartengono statisticamente alla classe, sicché, per dirla in modo più concreto, non ci stupiremmo – in una data congiuntura – di trovare l’operaio rivoluzionario e cosciente, quello ancora vittima totale dell’influenza politica conservatrice e magari schierato nelle file avversarie, quello seguace delle versioni opportunistiche del movimento ecc.
E non avremmo alcuna conclusione da trarre in modo automatico da una consultazione statistica – se fosse seriamente possibile – che ci dicesse come si dividono numericamente tra queste svariate posizioni i membri della classe operaia.
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Ne consegue che, pur essendo un fatto purtroppo bene assodato che il partito di classe, prima e dopo la conquista del potere, è suscettibile di degenerazione dalla sua funzione di strumento rivoluzionario, nella ricerca delle cause di questo gravissimo fenomeno di patologia sociale e dei rimedi che possono essere atti a combatterlo noi non prestiamo alcun credito alla risorsa di cercare, per le determinazioni e gli indirizzi del partito, una garanzia od un controllo che si fondi sostanzialmente su consultazioni di tipo elettivo svolte o nell’insieme dei militanti del partito stesso o nella più larga cerchia degli operai appartenenti a sindacati economici, ad organismi di fabbrica od anche a organi di tipo politico rappresentativo di classe, quali i soviet o consigli operai.
Praticamente, la storia del movimento dimostra che una simile risorsa non ha mai condotto a nulla di buono né scongiurate le rovinose vittorie dell’opportunismo. In tutti i conflitti di tendenza di cui furono teatro prima della guerra 1914 i partiti socialisti tradizionali, contro i gruppi dei marxisti radicali di sinistra i revisionisti della destra adoperarono sempre l’argomento ch’essi pretendevano di essere in relazione con larghi strati della classe lavoratrice più che non lo fossero i ristretti circoli di dirigenza del partito politico.
L’opportunismo faceva infatti soprattutto leva sui capi parlamentari, i quali trasgredivano la direttiva politica di partito e rivendicavano una autonomia da impiegare per la collaborazione coi partiti borghesi allegando di essere stati designati da tutti gli elettori proletari, molte volte più numerosi degli operai iscritti al partito che ne eleggevano la direzione politica. Parallelamente, anche i capi dei sindacati, sviluppando sul piano economico la stessa prassi di collaborazione che i parlamentari seguivano sul piano politico, recalcitravano alla disciplina del partito di classe sostenendo di rappresentare tutti i lavoratori economicamente organizzati, assai più numerosi di quelli militanti nel partito. Gli uni e gli altri, parlamentari possibilisti e bonzi sindacali, nel correre all’alleanza col capitalismo, che culminò nella loro adesione alla prima guerra imperialista, non esitarono a deridere, in nome del loro ostentato operaismo o laburismo, i gruppi che svolgevano la sana politica di classe nei quadri del partito e a tacciarli di intellettuali e perfino, talvolta, di non proletari.
Che il ricorso ad una rappresentanza diretta del lavoratore puro e semplice non conduca a soluzioni di sinistra e ad una sana preservazione dell’indirizzo rivoluzionario lo dimostrò anche la vicenda della scuola del sindacalismo soreliano, che in un certo momento parve a taluni costituire il vero contraltare alla degenerazione dei partiti socialdemocratici lanciati sulla via della rinuncia all’azione diretta e alla violenza di classe. I gruppi marxisti che vennero poi a confluire nella ricostituzione leninista della Terza Internazionale giustamente criticarono e con-dannarono questo indirizzo apparentemente estremista, accusandone l’abbandono di un criterio unitario di classe capace di superare la ristrettezza delle singole categorie e dei contingenti conflitti limitati a richieste economiche, che, pur nell’impiego di mezzi fisicamente violenti di lotta, conducevano a rinnegare la posizione rivoluzionaria marxista per cui ogni lotta di classe è lotta politica, e l’organo indispensabile ne è il partito.
E la giustezza della polemica teorica fu confermata dal fatto che anche il sindacalismo rivoluzionario naufragò nella crisi di guerra e passò nelle file del socialpatriottismo dei vari paesi.
Quanto all’esperienza che sulla questione di cui ci occupiamo può invece trarsi dall’azione di partito all’indomani della vittoria rivoluzionaria, sono i fatti più salienti della rivoluzione russa che apportano la maggior luce.
Noi contestiamo la posizione secondo cui la rovinosa degenerazione della politica rivoluzionaria leninista fino all’attuale indirizzo staliniano sia derivata all’inizio dall’eccessiva preminenza del partito e del suo comitato centrale sulle altre associazioni operaie di classe; contestiamo l’illusoria opinione che tutto il processo degenerativo avrebbe potuto essere contenuto qualora si fosse ricorso, per la designazione di gerarchie o per la decisione di importanti svolti della politica del regime proletario, a consultazioni elettorali delle varie «basi». Tale problema non può essere affrontato senza connetterlo alla funzione economico-sociale dei vari organismi nel processo di distruzione dell’economia tradizionale e di costruzione della nuova.
I sindacati costituiscono indubbiamente ed hanno costituito per un lungo periodo un terreno fondamentale di lotta per lo sviluppo delle energie rivoluzionarie del proletariato. Ma ciò è stato possibile con successo solo quando il partito di classe ha seriamente lavorato in mezzo ad essi per trasportare il punto di applicazione dello sforzo dai piccoli obiettivi contingenti alla finalità generale di classe. Il sindacato di categoria, anche evolventesi in sindacato d’industria, trova dei limiti nella sua dinamica in quanto possono esistere differenze d’interessi tra le varie professioni o raggruppamenti di lavoratori. E limiti anche maggiori trova alla propria azione, man mano che l’atteggiamento della società e dello stato capitalistico percorre le tre successive fasi del divieto dell’associazione professionale e dello sciopero, della tolleranza delle associazioni sindacali autonome, della conquista e dell’imprigionamento di esse nel sistema borghese.
Ma neppure al sindacato in regime di affermata dittatura proletaria può pensarsi come ad un organismo che rappresenti in modo primordiale e stabilizzato gli interessi dei lavoratori. Possono anche in questa fase sociale sopravvivere conflitti di interessi tra professioni della classe lavoratrice; ma il fatto fondamentale è che i lavoratori non hanno ragione di servirsi del sindacato che fino a quando, in determinati gruppi della produzione, il potere operaio sia costretto a tollerare a titolo temporaneo la presenza dei datori di lavoro, mentre, man mano che col procedere dello svolgimento socialista costoro scompaiono, il sindacato perde il contenuto della propria azione. Il nostro concetto del socialismo non è la sostituzione del padrone stato al padrone privato, e se in fase di transizione il rapporto fosse questo, nel supremo interesse della politica rivoluzionaria non si potrebbe ammettere per principio che i lavoratori sindacati abbiano sempre ragione nel premere economicamente a carico dello stato datore di lavoro.
Senza proseguire in questa importante analisi, resta spiegato perché noi comunisti di sinistra non ammettiamo che la massa sindacata, con una sua consultazione maggioritaria, possa essere condotta ad influire sulla politica rivoluzionaria.
Passando ai consigli di fabbrica o di azienda, ricordiamo che questa forma di organizzazione economica, affacciata in primo tempo come molto più radicale di quella del sindacato, va perdendo sempre più le sue pretese di dinamismo rivoluzionario, essendo ormai un’accezione comune a tutte le correnti politiche, comprese quelle fasciste. La concezione che vedeva nel consiglio di azienda un organo partecipante prima al controllo poi alla gestione della produzione, e perfino capace di conquistare questa in toto, azienda per azienda, si è svelata come prettamente collaborazionista, e come un’altra via, non meno atta del vecchio sindacalismo a impedire l’incanalamento delle masse nella direzione della grande lotta unitaria e centrale per il potere. La polemica relativa ebbe un grande riflesso nei giovani partiti comunisti quando i bolscevichi russi furono costretti a prendere misure essenziali e talvolta drastiche per lottare contro la tendenza degli operai a rendere autonoma la gestione tecnica ed economica della fabbrica in cui lavoravano, cosa che non solo impediva l’avvio di un vero piano socialista ma minacciò di danni gravissimi l’efficienza dell’apparato produttivo su cui i controrivoluzionari tentavano di speculare. Infatti, più ancora del sindacato, il consiglio di azienda può agire come esponente di interessi molto ristretti e suscettibili di venire in contrasto con quelli generali di classe.
Anche il consiglio d’azienda non è d’altra parte un organismo basilare e definitivo del regime operaio. Quando in dati settori della produzione e della circolazione si sarà attuata una vera economia comunista, quando cioè si sarà andati molto oltre la semplice espulsione del padrone dall’industria e l’amministrazione dell’azienda da parte dello Stato, sarà proprio il tipo di economia per azienda che dovrà sparire. Superato l’aspetto mercantilistico della produzione, l’impianto locale non sarà che un nodo tecnico della grande rete generale guidata razionalmente da soluzioni unitarie, l’azienda non avrà più bilanci di entrata e di uscita e quindi non sarà più tale, poiché al tempo stesso il produttore non sarà più un salariato. Il consiglio di azienda, come il sindacato, ha quindi dei limiti naturali di funzionamento che gli impediscono di essere fino alla fine il vero terreno di cultura della preparazione di classe che rende i proletari disposti e capaci a lottare fino al raggiungimento integrale dei loro massimi scopi, e per tal motivo non possono questi organismi economici essere un’istanza di appello per controllare se il partito che detiene il potere dello Stato abbia o meno deviato da quella fondamentale linea storica.
Rimane da trattare del nuovo organismo rivelato dalla rivoluzione di ottobre: i consigli degli operai e dei contadini e, in un primo tempo, anche dei soldati.
Si afferma che questa rete rappresenti un nuovo tipo di costituzionalità proletaria contrapposto a quello tradizionale dei poteri borghesi. La rete dei consigli, partendo dal più piccolo villaggio per giungere a strati orizzontali successivi fino al vertice della dirigenza dello stato, oltre ad avere per caratteristica l’esclusione di ogni componente delle vecchie classi abbienti, formando quindi la manifestazione organizzata della dittatura proletaria, ha l’altra caratteristica di far coincidere nei suoi gangli tutti i poteri, rappresentativo, esecutivo ed anche, in teoria, giudiziario. Si tratterebbe quindi di un perfetto ingranaggio di democrazia infra-classista, la cui scoperta verrebbe ad offuscare i tradizionali parlamenti del liberalismo borghese.
Ma da quando il socialismo è uscito dalla fase utopistica, ogni marxista sa che non è l’invenzione di una formula costituzionale che basta a distinguere i grandi tipi sociali e le grandi epoche storiche. Le strutture costituzionali sono transitori riflessi dei rapporti delle forze, e non derivano da principi universali cui possa farsi risalire il modo immanente di organizzare lo stato.
L’importanza dei consigli – i quali alla loro base sono effettivamente organi di classe e non, come si credette, combinazioni di rappresentanze corporative o professionali, e quindi non sono affetti dalle ristrettezze delle associazioni a sfondo prettamente economico – sta per noi soprattutto nell’essere organismi di combattimento, e la loro interpretazione non la cerchiamo in modelli fissi di struttura ma nella storia del reale loro procedere.
Fu quindi stadio fondamentale della rivoluzione quello in cui, dopo l’elezione dell’Assemblea costituente a tipo democratico, i consigli si levarono contro di essa come il suo contrapposto dialettico, e il potere bolscevico determinò la dispersione con la forza dell’Assemblea parlamentare realizzando la geniale parola d’ordine storica: «Tutto il potere ai soviet». Ma tutto questo non basta a farci accettare l’opinione che, costituita una simile rappresentanza di classe, a parte il fluttuare in tutti i sensi della sua composizione rappresentativa – di cui non possiamo qui seguire le vicende – sia lecito affermare che in qualunque momento e svolto della difficile lotta condotta dalla rivoluzione all’interno e all’esterno si disponga del comodo e facile mezzo, atto a risolvere ogni questione e perfino ad evitare la degenerazione controrivoluzionaria, costituito da una consultazione od elezione maggioritaria dei consigli.
Per la stessa complessità del ciclo che anche questo organismo descrive (ciclo che, anche nella ipotesi più ottimistica, deve concludersi con la sua sparizione insieme al dissolvimento dello stato), bisogna ammettere che l’ingranaggio dei soviet, come è suscettibile di esser poderoso strumento rivoluzionario, così può cadere sotto influenze controrivoluzionarie, ed in conclusione non crediamo a nessuna immunizzazione costituzionale contro tale pericolo, che appunto sta soltanto in relazione con lo svolgimento dei rapporti interni e mondiali delle forze sociali.
Potrebbe qui venirci l’obiezione che noi, volendo stabilire la preminenza del partito politico rivoluzionario, comprendente solo una minoranza della classe, su tutte le altre forme organizzative, sembriamo pensare che il partito sia eterno, ossia debba sopravvivere allo stesso sgonfiamento engelsiano dello stato.
Non vogliamo affrontare qui la discussione sulla trasformazione del partito in un semplice organo futuro di indagine e di studio sociale, che coincida coi grandi organismi di ricerca scientifica della società nuova, analogamente al fatto che nella definizione marxista lo stato, nello sparire, si trasforma in effetti in una grande amministrazione tecnica sempre più razionale e sempre meno integrata da forme coatte.
Il carattere distintivo che noi vediamo nel partito deriva proprio dalla sua natura organica: non vi si accede per una posizione «costituzionale» nel quadro dell’economia o della società; non si è automaticamente militanti di partito in quanto si sia proletari o elettori o cittadini o altro.
Si aderisce al partito, direbbero i giuristi, per libera iniziativa individuale. Vi si aderisce diciamo noi marxisti, sempre per un fatto di determinazione nascente nei rapporti dell’ambiente sociale, ma per un fatto che si può collegare nel modo più generale ai caratteri più universali del partito di classe, alla sua presenza in tutte le parti del mondo abitato, alla sua composizione di elementi di tutte le categorie e aziende in cui siano lavoratori e perfino in principio di non lavoratori, alla continuità di un suo compito attraverso stadi successivi di propaganda, di organizzazione, di combattimento, di conquista, di costruzione di un nuovo assetto. È quindi, tra gli organi proletari, il partito politico quello meno legato a quei limiti di struttura e di funzione nei cui interstizi meglio possono farsi strada le influenze anticlassiste, i germi che determinano la mallatìa dell’opportunismo. E poiché, come più volte abbiamo premesso, tale pericolo esiste anche per il partito, la conclusione è che noi non ne cerchiamo la difesa nella subordinazione del partito stesso ad altri organismi della classe ch’esso rappresenta, subordinazione invocata molto spesso in malafede, talvolta per l’ingenua suggestione esercitata dal fatto del maggior numero di lavoratori che appartengono a tali organismi.
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Il nostro modo d’interpretare la questione si estende anche alla famosa esigenza della democrazia interna del partito, secondo la quale gli errori delle direzioni centrali del partito (di cui ammettiamo di aver avuto purtroppo numerosissimi e disastrosi esempi) si evitano o si rimediano ricorrendo, al solito, alla conta numerica dei pareri dei militanti di base.
Non imputiamo cioè le degenerazioni che si sono verificate nel partito comunista all’aver lasciato scarsa voce in capitolo alle assemblee e ai congressi dei militanti rispetto alle iniziative del centro.
Una sopraffazione da parte del centro sulla base in senso controrivoluzionario vi è stata in molti svolti storici; la si è raggiunta perfino con l’impiego dei mezzi che offriva la macchina statale, fino ai più feroci; ma tutto ciò, più che l’origine, è stata l’inevitabile manifestazione del corrompersi del partito, del suo cedere alla forza delle influenze controrivoluzionarie.
La posizione della sinistra comunista italiana su questa che potremmo chiamare la «questione delle guarentigie rivoluzionarie» è anzitutto che garanzie costituzionali o contrattuali non ve ne possono essere, sebbene nella natura del partito, a differenza degli altri organismi studiati, vi sia la caratteristica d’essere un organismo contrattuale, usando il termine non nel senso dei legulei e nemmeno in quello di J. J. Rousseau. Alla base del rapporto fra militante e partito vi è un impegno; di tale impegno noi abbiamo una concezione che, per liberarci dell’antipatico termine di contrattuale, possiamo definire semplicemente dialettica. Il rapporto è duplice, costituisce un doppio flusso a sensi inversi, dal centro alla base e dalla base al centro; rispondendo alla buona funzionalità di questo rapporto dialettico l’azione indirizzata dal centro, vi risponderanno le sane reazioni della base.
Il problema quindi della famosa disciplina consiste nel porre ai militanti di base un sistema di limiti che sia l’intelligente riflesso dei limiti posti all’azione dei capi. Abbiamo perciò sempre sostenuto che questi non debbono avere la facoltà in importanti svolti della congiuntura politica di scoprire, inventare e propinare pretesi nuovi principi, nuove formule, nuove norme per l’azione del partito. È nella storia di questi colpi a sorpresa che si compendia la storia vergognosa dei tradimenti dell’opportunismo. Quando questa crisi scoppia, appunto perché il partito non è un organismo immediato e automatico, avvengono le lotte interne, le divisioni in tendenze, le fratture, che sono in tal caso un processo utile come la febbre che libera l’organismo dalla mallatìa, ma che tuttavia «costituzionalmente» non possiamo ammettere, incoraggiare o tollerare.
Per evitare quindi che il partito cada nelle crisi di opportunismo o debba necessariamente reagirvi col frazionismo non esistono regolamenti o ricette. Vi è però l’esperienza della lotta proletaria di tanti decenni che ci permette di individuare talune condizioni, la cui ricerca, la cui difesa, la cui realizzazione devono essere instancabile compito del nostro movimento. Ne indicheremo a conclusione le principali:
1) Il partito deve difendere ed affermare la massima chiarezza e continuità nella dottrina comunista quale si è venuta svolgendo nelle sue successive applicazioni agli sviluppi della storia, e non deve consentire proclamazioni di principio in contrasto anche parziale coi suoi cardini teoretici.
2) Il partito deve in ogni situazione storica proclamare apertamente l’integrale contenuto del suo programma quanto alle attuazioni economiche, sociali e politiche, e soprattutto in ordine alla questione del potere, della sua conquista con la forza armata, del suo esercizio con la dittatura.
Le dittature che degenerano nel privilegio di una ristretta cerchia di burocrati e di pretoriani sono state sempre precedute da proclamazioni ideologiche ipocritamente mascherate sotto formule di natura popolaresca a sfondo ora democratico ora nazionale, e dalla pretesa di avere dietro di sé la totalità delle masse popolari, mentre il partito rivoluzionario non esita a dichiarare l’intenzione di aggredire lo stato e le sue istituzioni e di tenere la classe vinta sotto il peso dispotico della dittatura anche quando ammette che solo una minoranza avanzata della classe oppressa è giunta al punto di comprendere queste esigenze di lotta.
«I comunisti» – dice il «Manifesto» – «disdegnano di nascondere i loro scopi». Coloro che vantano di raggiungerli tenendoli abilmente coperti sono soltanto i rinnegatori del comunismo.
3) Il partito deve attuare uno stretto rigore di organizzazione nel senso che non accetta di ingrandirsi attraverso compromessi con gruppi o gruppetti o peggio ancora di fare mercati fra la conquista di adesioni alla base e concessioni a pretesi capi e dirigenti.
4) Il partito deve lottare per una chiara comprensione storica del senso antagonista della lotta. I comunisti rivendicano l’iniziativa dell’assalto a tutto un mondo di ordinamenti e di tradizioni, sanno di costituire essi un pericolo per tutti i privilegiati, e chiamano le masse alla lotta per l’offensiva e non per la difensiva contro pretesi pericoli di perdere millantati vantaggi e progressi. conquistati nel mondo capitalistico. I comunisti non danno in affitto e prestito il loro partito per correre ai ripari nella difesa di cause non loro e di obbiettivi non proletari come la libertà, la patria, la democrazia ed altre simili menzogne.
«I proletari sanno di non aver da perdere nella lotta altro che le loro catene».
5) I comunisti rinunciano a tutta quella rosa di espedienti tattici che furono invocati con la pretesa di accelerare il cristallizzarsi dell’adesione di larghi strati delle masse intorno al programma rivoluzionario. Questi espedienti sono il compromesso politico, l’alleanza con altri partiti, il fronte unico, le varie formule circa lo Stato usate come surrogato della dittatura proletaria – governo operaio e contadino, governo popolare, democrazia progressiva.
I comunisti ravvisano storicamente una delle principali condizioni del dissolversi del movimento proletario e del regime comunista sovietico proprio nell’impiego di questi mezzi tattici, e considerano coloro che deplorano la lue opportunista del movimento staliniano e nello stesso tempo propugnano quell’armamentario tattico come nemici più pericolosi degli stalinisti medesimi.
Il lavoro pubblicato in cinque puntate col titolo «Forza violenza dittatura nella lotta di classe» aveva per oggetto la questione dell’impiego della forza nei rapporti sociali e dei caratteri della dittatura rivoluzionaria rettamente intesi secondo il metodo marxista. Non toccava di proposito le questioni di organizzazione di classe e di partito, ma vi fu condotto direttamente nella parte conclusiva dalla discussione sulle cause di degenerazione della dittatura, attribuite da molti in modo preponderante ad errori di organizzazione interna e alla violazione di una prassi democratica ed elettiva nel seno del partito e degli altri organi di classe.
Nella confutazione di questa tesi abbiamo tuttavia commessa una omissione non ricordando una importante polemica svoltasi nell’Internazionale Comunista nel 1925–26 a proposito della trasformazione della base organizzativa dei partiti comunisti secondo le cellule o nuclei di azienda. Quasi sola la sinistra italiana si oppose decisamente e sostenne che la base di organizzazione doveva restare quella per circoscrizioni territoriali.
L’argomento fu sviscerato ampiamente ma il punto centrale era questo. Se la funzione organica del partito, non sostituibile in essa da alcun altro organo, è lo svolgimento dalle singole lotte economiche di categoria e locali alla unità della lotta generale della classe proletaria sul piano sociale e politico, nessuna eco di tale compito può seriamente aversi in una riunione in cui figurano soltanto lavoratori di una stessa categoria professionale e di una stessa azienda di produzione. Tale ambiente sentirà solo esigenze circoscritte e corporative, l’espressione della direttiva unitaria di partito vi scenderà solo dall’alto e come cosa estranea; il funzionario di partito non si incontrerà mai su un piano di parità coi singoli iscritti della base, in un certo senso egli non farà più parte del partito non appartenendo a nessuna azienda economica.
Nel gruppo territoriale invece sono posti in partenza sul medesimo piano i lavoratori di ogni mestiere e dipendenti da svariatissimi padroni, e con essi tutti gli altri militanti di categorie sociali non strettamente proletarie che il partito dichiaratamente ammette come gregari, e deve in ogni caso ricevere come tali e se occorre tenerli in maggiori quarantene, prima di chiamarli, ove ne sia il caso, a cariche di organizzazione.
Mostrammo allora che la concezione delle cellule, malgrado la pretesa di attuare la stretta adesione dell’organismo di partito alle più larghe masse, conteneva gli stessi difetti opportunistici e demagogici dell’operaismo e laburismo di destra e contrapponeva i quadri alla base, in una vera caricatura del concetto di Lenin sui rivoluzionari professionali.
Le vedute della sinistra sull’organizzazione di partito, se sostituiscono allo stupido criterio maggioritario scimmiottato dalla democrazia borghese un ben più alto criterio dialettico che fa dipendere tutto dal solido legame di militanti e dirigenti con la impegnativa severa continuità di teoria di programma e di tattica e se depongono ogni velleità di corteggiamento demagogico a troppo larghi e quindi più facilmente manovrabili strati della classe lavoratrice, in realtà sono le sole che meglio si conciliano con una profilassi contro la degenerazione burocratica dei quadri del partito e la sopraffazione della base da parte di essi, che si risolve sempre con un ritorno di disastrose influenze della classe nemica.