LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


APPUNTI PER UN’ANALISI DEL FASCISMO


Content:

Appunti per un’analisi del fascismo
Delle origini alla marcia su Roma
Source


Appunti per un’analisi del fascismo:

Delle origini alla marcia su Roma

Negli articoli critici apparsi nei precedenti numeri di «Prometeo» il problema della natura del fascismo, della sua genesi storica e della sua evoluzione é stato ricompreso e inquadrato nel corso di più vaste trattazioni che, rifacendosi alla impostazione generale della lotta proletaria nei suoi diversi aspetti e momenti o alle caratteristiche e sviluppi della classe dominante in Italia, e pur senza affrontare il tema nei suoi dettagli, ponevano sinteticamente la configurazione critica del fascismo come di un atteggiamento caratteristico del moderno stadio di sviluppo della società borghese costretta, corrispondentemente alla fine di ogni liberismo economico, a forme di totalitarismo politico capaci di fronteggiare con unità e disciplina di classe la pressante necessità storica della spinta rivoluzionaria del proletariato.

Se un ulteriore esame critico potrà essere successivamente svolto in connessione coi problemi della tattica e dell’organizzazione del partito del proletariato, è però ora necessario suffragare la visione generale del fascismo, quale risulta da tutta la nostra impostazione politica, con una breve indicazione dei fatti che hanno segnato la concorrenza dei fondamentali fattori della vittoria fascista.

Potremo così orientarci nell’esame della organizzazione delle forze fasciste, della loro struttura e tattica, della violenza distruttrice che esse mostrarono; vedremo chiaramente risultare il solidale appoggio dato loro da tutto l’apparato statale (e in particolare dalla magistratura, polizia, esercito) e da tutte le istituzioni borghesi; riusciremo a renderci conto di quanta importanza abbia avuto per l’affermazione fascista l’opportunismo della linea politica socialista in realtà tutta orientata nel senso della gradualità riformista e del legalitarismo disfattista.

I fatti devono essere necessariamente esaminati in qualunque valutazione dei moti storici. Ma questo esame deve essere particolarmente effettuato, quasi con pedantesca precedenza su ogni approfondimento critico, nei confronti di un movimento che, come appunto quello fascista, si affermò sotto l’impulso immediato della reazione di classe, formalmente come prodotto spontaneo e diretto dell’odio sprezzante e della volontà di soffocare una volta per tutte i tentativi che il proletariato era andato compiendo per farla vacillare il prepotere che i borghesi non potevano tollerare che fosse, nonché scosso, nemmeno minacciato.

Questo movimento che nella sua sostanza risponde in modo preciso alla funzione, determinata dalla dialettica storica, di necessario successore dei regimi cosiddetti liberali, che trova nell’economia, nella situazione politica e sociale e persino nelle predominanti idee filosofiche dell’epoca il suo terreno di sviluppo, sorge peraltro non con un programma teorico, con un corpo di idee che lo sorreggano, ma esclusivamente per l’istinto difensivo-offensivo di una classe che ha bisogno di trovare nello Stato forte, nello Stato dittatore il dirigente della propria sussultante economia, il domatore energico e senza scrupoli di una massa proletaria cui deve essere tolta ogni possibilità di organizzazione ed educazione politica tendente a sconvolgere la già difficile navigazione della nave borghese.

Questo istinto di conservazione ha invero tutta una sua impalcatura ideologico-tradizionale che abbraccia ogni campo, dalla religione alla filosofia, dal costume al diritto, ma che però, legata allo sviluppo della società che la determina e impregnata com’è necessariamente di spiritualismo e volontarismo, é conseguentemente condannata a forgiare le armi teoriche di conservazione di una situazione quando questa si é già manifestata per forza di eventi e di impulsi istintivi o comunque immediati, mentre é nella costituzionale impossibilità di diagnosticare lo sviluppo futuro degli accadimenti sociali e quindi di precederli con una adatta formazione ideologica. E, del resto, i manipolatori della cultura, gli intellettuali, non avrebbero così robusta corazza da sopportare di vedere coi propri occhi la loro malafede…

Così nel momento della sua crisi, la borghesia sente, intuisce dove deve puntare, e va ad appoggiarsi sul movimento fascista che, senza programmi o meglio con tanti programmi per quante situazioni diverse e sfruttabili si presentano, legato ad uomini dominati da una divorante volontà di ambizione e predominio, poteva essere volto a vantaggio di tutta la classe se essa avesse in esso polarizzato le sue forze e ne avesse guidato il cammino: il fascismo sarebbe stato veramente l’arma vergine e incorrotta da ideologie o preconcetti, l’arma che avrebbe raggiunto, attraverso le uniche vere necessità… programmatiche del momento, quelle della rottura dei crani dei proletari e della distruzione violenta di ogni loro organizzazione, il riassestamento di classe e la tranquilla continuazione della sua necessità di appropriazione del prodotto del lavoro della classe sottomessa.

Pur limitando il nostro sguardo ai fatti più interessanti, é però necessario, per avere una visione organica dello sviluppo del movimento fascista, riandare al periodo immediatamente precedente la guerra 1914–18.

In Italia, quando la guerra apparve inevitabile, si fu pressoché concordi nella decisione di neutralità, se si eccettuano i nazionalisti e Sonnino il quale era d’opinione che il trattato della Triplice dovesse entrare automaticamente in funzione. La diplomazia italiana iniziò comunque subito il suo giuoco per cercare di strappare il maggior vantaggio possibile dagli eventi bellici e, attraverso atteggiamenti vari, scontenta per le magre offerte fattele dal governo austro-ungarico, finì per concludere con l’altra parte (con la quale tuttavia trattative erano in corso fin dall’agosto 1914) firmando il 26 aprile 1915 il patto di Londra che prevedeva l’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze occidentali in compenso delle note concessioni territoriali.

Questi eventi furono però preceduti da una grande campagna interventista in cui il ruolo giocato da Mussolini fu di non poca importanza. Mentre il Partito Socialista mantiene lo stesso atteggiamento di opposizione alla guerra che aveva già assunto durante la guerra di Libia, Mussolini, da due anni direttore dell’«Avanti!», tenta all’inizio qualche mossa favorevole alla partecipazione contro l’Austria-Ungheria, ma, visto che il partito non si muove dalla sua tesi di neutralità, cambia subito faccia e anzi scatena una violenta battaglia contro quello che egli chiama il delirium tremens nazionalista.

Tuttavia il suo interventismo é denunciato ed allora egli, anziché insistere nella posizione neutralista, passa apertamente all’attacco, fondando il «Popolo d’Italia» che, col sottotitolo «quotidiano socialista», esce per la prima volta a Milano il 15 novembre 1914: Mussolini si legava così anche formalmente al movimento interventista che raggruppava nelle sue file uomini e tendenze diverse muoventisi in quella sfera di interessi e necessità che i centri più avanzati e sensibili del capitalismo italiano tentavano di far convergere nella guerra come nella loro naturale soluzione. I capi più rappresentativi ne sono appunto Mussolini e D’Annunzio e a loro sono legati anche quei fasci di azione rivoluzionaria il cui compito essenziale é di condurre la campagna interventista e che contengono quel complesso di demagogia, di nazionalismo, di reazione e di antisocialismo che ritroveremo poi nei fasci del 1919.

A Quarto, col celebre discorso di D’Annunzio in favore della guerra, la classe dominante italiana poneva la prima delle pietre che segneranno le affermazioni dello Stato fascista totalitario.

La demagogia della guerra come rivoluzione é un po’ la parola di tutti i capi responsabili del momento, da Lloyd-George a Orlando a Salandra; Mussolini andrà oltre e, ad armistizio concluso, continuando nel giuoco e sfruttando le sofferenze e le illusioni dei combattenti e il disorientamento conseguente a quattro anni di guerra, scriverà:
«La guerra ha portato le masse proletarie in primo piano. Essa ha spezzato le loro catene.
Essa le ha estremamente valorizzate. Una guerra delle masse si conclude con un trionfo delle masse… se la Rivoluzione del 1789, che fu nello stesso tempo rivoluzione e guerra aprì le porte e le vie del mondo alla borghesia che aveva fatto il suo lungo e secolare noviziato, la rivoluzione attuale, che è anche una guerra, dovrà aprire le porte dell’avvenire alle masse che hanno fatto il loro duro noviziato di sangue e di morte nelle trincee… La rivoluzione è continuata sotto il nome di guerra per quaranta mesi. Essa non é finita…
Quanto ai mezzi, noi non abbiamo pregiudizi, accettiamo quelli che saranno necessari: i mezzi legali e quelli cosiddetti illegali«
.
La direzione nella quale furono impiegati i «mezzi illegali» dal fascismo chiarì il significato reale di questa parola rivoluzione pronunciata con tanto entusiasmo dal fior fiore della reazione e dimostrò anche che gli interessi immediati della classe avevano suggerito il tipo della difesa che essa doveva adottare.

Ma prima, di arrivare alla soffocazione violenta delle organizzazioni e delle aspirazioni del proletariato, un’altra via si doveva battere, quella che permetteva di annullarne la spinta rivoluzionaria attraverso la volontà ovunque dichiarata e ripetuta da organismi e partiti della borghesia «progressista» di riformare l’ordinamento vigente, di creare la Repubblica, di convocare una Costituente, di abolire il Senato, di garantire la sovranità popolare, di perfezionare le libertà di organizzazione, riunione, sciopero e propaganda, di migliorare i salari, di espropriare le terre mal coltivate; bisognava però, perché il piano potesse avere tutta la sua efficacia, che queste parole fossero portate tra le masse dal loro stesso organismo politico, quello che avrebbe dovuto interpretarne la potenzialità rivoluzionaria e guidarle alla conquista del potere nel momento in cui la struttura difensiva borghese era più debole e non ancora riorganizzata dopo la crisi della guerra; e infatti il Partito Socialista si prestò in pieno a questa funzione, prima facendo suo quel programma di riforme, e poi, verso la fine della guerra, assumendo, in corrispondenza alla pressione delle masse e della situazione, un atteggiamento di sinistra meramente parolaio, tendente a mascherare la sua organica incapacità a mettersi su un piano netto di classe, rompendola con ogni legame e compromesso, per la conquista immediata del potere.

Intanto la crisi economica italiana si aggrava sempre più, il malcontento della popolazione é molto forte e il costo della vita sale vertiginosamente provocando continue richieste di aumento di salari legate, verso la metà del 1919, a una notevole intensificazione degli scioperi. Da giugno in poi il disordine aumenta, spesso la folla esasperata invade i magazzini e il Governo non ha sufficienti forze per impedire questa specie di ribellione generale, mentre il Partito Socialista non ha né la volontà né la capacità di coordinare e dirigere questa formidabile spinta; il 20–21 luglio viene organizzato lo sciopero generale nazionale ed esso si riduce ad una semplice parata senza conseguenze.

La borghesia potrà così cominciare a raccogliere le fila della situazione, a rianimarsi e organizzarsi.

Quale nel frattempo l’azione di Mussolini? Abbiamo detto più sopra che caratteristica del fascismo fu appunto quella di non avere programmi, di non avere impacci alle azioni più incoerenti e slegate ch’esso andava ad intraprendere per perseguire suoi determinati scopi. Mussolini in questo non fu personalmente da meno del suo movimento: le letture, i libri che egli consulta gli forniscono esclusivamente lo spunto per comportarsi in determinate azioni nel modo più profittevole; non approfondisce i principi, la sostanza, le radici di determinate posizioni intellettuali o ideologiche, ma le sfrutta soltanto per quel po’ di vantaggio immediato che possono dargli in questa o quell’occasione. Nietzsche, Stirner, Bergson, Sorel, Einstein, tanto per non citare che alcuni dei suoi autori preferiti, gli forniscono di volta in volta il materiale di cui istintivamente sente di doversi servire per raggiungere il successo.

Attraverso una serie di atteggiamenti diversi egli mira a trovare una solida base da cui lanciarsi verso le più ambiziose conquiste: dal tentato e fallito accordo con la Confederazione del Lavoro all’appoggio dato alle rivendicazioni dei ferrovieri, da quello dato alla prima occupazione delle fabbriche compiuta dai metallurgici di Dalmine alla parola d’ordine «far pagare i ricchi!», propria di tutti i demagoghi di ogni tempo e fradicia di opportunismo, lanciata durante le sommosse di folla contro l’elevato costo della vita nel giugno-luglio; egli punta sulla solidarietà delle masse operaie e con altrettanta disinvoltura cerca contemporaneamente l’alleanza degli Arditi di cui esalta la gloria e i meriti, degli ex-ufficiali malcontenti, degli studenti e di ogni strato borghese in generale.

Questa fondamentale demagogia mascherante realtà molto concrete, non importa se in fase di maturazione o già evidenti nella mente dei realizzatori, la ritroviamo naturalmente nel programma uscito dalla Conferenza del 23 marzo 1919 tenuta in Piazza San Sepolcro a Milano, in una sala gentilmente concessa dagli Industriali e Commercianti. Vi partecipavano individui di ogni tipo e, tra essi, appartenenti ai Fasci d’azione rivoluzionaria.

Arditi, Interventisti, Anarco-sindacalisti: Nascono qui i Fasci Italiani di combattimento, il cui programma si può sintetizzare in questi punti salienti: suffragio universale; soppressione del senato; costituente; giornata lavorativa di otto ore; partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori alla gestione tecnica dell’azienda; nazionalizzazione delle fabbriche d’armi; politica estera nazionale tendente a valorizzare la Nazione italiana nel mondo; imposta straordinaria forte e progressiva con carattere di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze.

Non si può evidentemente dire che questo programma contenga una sua linea logica svolgentesi da un punto di partenza a uno di arrivo, ma Mussolini stesso spiegava che i fascisti non hanno etichette né definizioni, non sono né socialisti né antisocialisti perché sono dei «problemisti», dei realizzatori pratici che a seconda delle necessità decideranno se marciare sul terreno «della collaborazione di classe, della lotta di classe, della espropriazione di classe»; essi, dice sempre il loro duce, per questa assenza di dottrine fisse, formano, appunto il «antipartito» per il quale tutto é nella «azione».

E i «problemisti», gli uomini dell’«antipartito», gli esaltatori dell’«azione», del «movimento», dello «stato d’animo» avranno veramente un unico problema, un’unica azione, un unico movimento nella direzione impressa dagli interessi di classe cioè dell’antisocialismo, dell’anticomunismo.

E la linea di sviluppo del tutto lineare di questa «azione» che avrà inizio subito ci é già indicata, pochi giorni dopo la costituzione dei fasci di combattimento, da una riunione plenaria degli industriali che in un ordine del giorno esprimono la loro volontà di «resistere ormai! e, fino a che si é in tempo, di valersi dell’autorità e della forza propria, prima che sia troppo tardi», e si interdicono ogni azione individuale laddove, nel campo della resistenza alle richieste dei lavoratori come in quello politico, ogni azione dovrà essere coordinata e collettivamente decisa dalla loro organizzazione.

Il 13 e 15 aprile abbiamo a Milano il primo saggio di «azione» borghese-fascista: le forze di polizia fanno fuoco contro la massa operaia intervenuta ad un comizio uccidendo un operaio e ferendone molti altri. Di qui sciopero generale di protesta e adunata delle forze socialiste all’Arena; quando queste si avviano in corteo verso Piazza del Duomo un gruppo di arditi si lancia contro facendo fuoco di pistole e bombe. Non contenti di ciò, dopo essersi uniti ad un gruppo di studenti, vanno alla sede dell’«Avanti!» e la distruggono. Bilancio: 4 morti e 35 feriti; i fascisti arrestati sono subito rimessi in libertà, molti operai condannati «per aver partecipato ai disordini»; tutti i giornali benpensanti, «Corriere della Sera» in testa, denunciano l’accaduto come conseguenza della «predicazione della violenza» dei socialisti, così che «se le violenze socialiste devono essere represse, le violenze fasciste devono essere considerate come operazioni di polizia»; le associazioni «patriottiche», liberali, democratiche, nazionaliste, cattoliche e professionali, tutte solidali col nascente fascismo chiedono che «le continue incessanti provocazioni leniniste» debbano essere colpite da una rigida giustizia.

Questo quadro si ripeterà, col concorso sempre più efficace di tutte le istituzioni borghesi e col perfezionamento dell’offensiva antiproletaria, in cento e cento episodi piccoli e grandi che nelle varie fasi di evoluzione del movimento fascista e nelle sue numerose svolte tattiche rappresentano la continuità di quella violenza organizzata che, comunque impiegata, dava sempre i risultati più lusinghieri.

A grandissimi tratti vediamone la successione nelle tappe più importanti tenendo conto che, secondo il metodo di uno storico del fascismo, lo squadrismo (nome derivato dalle cosiddette squadre d’azione) si svolge in tre tempi fondamentali: 1) lotta di piazza; 2) spedizioni punitive; 3) occupazioni di città.

Nel 1920 registriamo in Italia, come del resto anche nella maggior parte degli altri paesi, il massimo numero di appartenenti alle organizzazioni sindacali (che salgono da 321 000 anteguerra a 2 200 000) e di scioperi e serrate che raggiungono il numero di 2070 con un totale di oltre 2 300 000 scioperanti. Questi scioperi hanno generalmente carattere economico e non seguono affatto un piano di offensiva organico: la spinta dal basso è fortissima, basta il minimo incidente per provocare la ribellione e la sospensione del lavoro di queste masse proletarie che sentono di potersi imporre ai loro padroni ma che non trovano nel Partito Socialista e ancor meno nella Confederazione del Lavoro gli organi direttivi che sappiano condurre la marcia che essi ogni giorno mostrano di esser pronti a intraprendere.

Così, mentre i dirigenti sindacali e socialisti tentennano ed emettono sentenze e giudizi roboanti ed inconcludenti, la borghesia, incoraggiata, inizia il suo riassestamento: arditi, nazionalisti, ufficiali, studenti aumentano il loro ardire e le loro lotte contro le organizzazioni operaie senza che ne sorga per contraccolpo alcuna seria reazione; essi aggrediscono e feriscono per le vie di Roma alcuni deputati socialisti che avevano abbandonato l’aula della Camera, durante la seduta reale del 1° dicembre, al grido di «viva la repubblica!», e tutto finisce con uno sciopero generale di protesta. Così ovunque, in un’infinità di vicende che vedono la combattività antioperaia in continuo aumento.

Nel marzo del 1920 gli industriali si organizzano in una Confederazione Generale dell’Industria a base nazionale e fortemente centralizzata; altrettanto fanno nell’agosto gli agrari.

La situazione é veramente critica, Giolitti offre a Turati di entrare nel Governo ma questi non accetta temendo di rimanere isolato dalle masse il cui spirito rivoluzionario naufraga costantemente nel più fallimentare riformismo. Si arriva così, fine agosto 1920, al conflitto fra la F.I.O.M. (l’organizzazione sindacale dei metallurgici) e gli industriali per la revisione dei contratti di lavoro: la F.I.O.M. non vuole provocare lo sciopero perché ormai le masse sono stanche e l’arma spuntata si decide l’occupazione delle fabbriche e il 31 agosto gli operai si impossessano di 280 stabilimenti metallurgici a Milano, mentre nei due giorni successivi il movimento si estende a tutta l’Italia. Gli operai fanno miracoli per continuare la produzione nonostante le difficoltà di ogni genere; gli industriali impressionati cercano ogni via per correre ai ripari, per entrare in accordi; dirigenti di grandi quotidiani e di banche cercano i contatti con i Capi del movimento, Mussolini stesso corre da Buozzi per assicurargli che i fascisti non marceranno contro le fabbriche. Intanto i dirigenti del P.S.I. e della C.G.L, si palleggiano la direzione del movimento non osando ne l’uno né l’altra assumersi l’enorme responsabilità della situazione. Finalmente è deciso che sia la C.G.L. a dirigere. Ma dirigere che cosa, se manca l’organizzazione e la preparazione per la conquista del potere, all’infuori della ritirata da queste posizioni che il proletariato si era conquistato? E infatti tutto si concluderà con la rivendicazione del «controllo operaio sulle imprese» con la prospettiva puramente retorica di arrivare alla gestione collettiva e alla socializzazione.

L’occupazione delle fabbriche segna così l’apice e l’inizio della discesa del movimento operaio. Parallelamente al rinculo della classe operaia che si sente vinta e che perde sempre più lo slancio e la fiducia che l’avevano resa matura per un esperimento rivoluzionario, abbiamo la ripresa della reazione padronale che si sviluppa rapidamente.

Le cose non possono ricominciare come prima: i padroni sentono l’urgenza di ristabilire la loro autorità mortificata e si trovano di fronte un nemico che, demoralizzato da quella sua strana vittoria senza via d’uscita, é però un nemico che é stato vincitore e che ora deve essere schiacciato totalmente se si vuole che veramente le cose possano procedere come interessa alla classe padronale.

Lo stato liberale, lo stato di Giolitti, non soddisfa più, é necessaria un’atmosfera nuova, un rinnovamento radicale: e l’arma è pronta, l’ora del fascismo é giunta. Gli assalti, gli incendi, le distruzioni delle sedi delle organizzazioni operaie appaiono agli industriali come una giusta espiazione «per purificare il tempio violato della proprietà».

Ma anche gli armeggii della politica devono essere curati e non solo l’azione violenta: alle elezioni amministrative del novembre 1920 quasi tutti i partiti borghesi entrano nelle liste del blocco nazionale, e i fascisti danno tutto il loro appoggio a queste liste.

Intanto lo Stato comincia, verso la fine del 1920, ad organizzare direttamente la reazione servendosi di ogni arma a sua disposizione: mentre per esempio vengono studiati i piani per formare una salda organizzazione militare, specificamente adatta, attraverso spedizioni punitive e altri analoghi sistemi, ad arginare e controbattere ogni tentativo rivoluzionario, il ministro della guerra del governo Giolitti, Ivanoe Bonomi, invia una circolare con cui si dispone che gli ufficiali che devono essere congedati (circa 60 000) vengano inviati, con un compenso pari ai 4/5 dello stipendio fino ad allora percepito, nei centri più importanti dove dovranno iscriversi ai Fasci di combattimento prestando la loro opera per l’inquadramento e la direzione dei medesimi.

Il deflusso rivoluzionario frattanto aumenta e il numero degli scioperi cadrà, nel quarto trimestre del 1921, del 80 %.

Le spedizioni punitive cominciano a Bologna coi fatti di Palazzo d’Accursio; i socialisti, vincitori nelle elezioni amministrative, vengono attaccati con le armi dai fascisti e poiché c’è un morto tra i fascisti, oltre nove fra i socialisti, questi vengono attaccati come i provocatori e perseguitati dalle autorità statali che subito fraternizzano con gli attaccanti fascisti.

Anche a Ferrara le spedizioni sono molto violente e mentre 21 comuni su 21 di quella provincia erano socialisti fino al novembre 1920, alla fine di aprile del '21 solo 4 lo sono ancora.

Ma le spedizioni punitive si ripetono ormai in numero sempre maggiore e con perfezionata organizzazione: gli agrari hanno anch’essi sperimentata l’efficacia di queste repressioni e le ordinazioni che essi si apprestano a passare al fascismo costituiranno un apporto fondamentale per lo sviluppo di questo movimentò, che nella vallata del Po troverà appunto la sua manifestazione più viva. Saranno i fascisti agrari, fiancheggiati da democratici, liberali, pipisti e commercianti, a opporsi col maggiore accanimento al decreto di Giolitti che revoca le licenze di porto d’anni nelle province di Bologna, Modena e Ferrara.

Balbo é arrestato a Ferrara il 26 maggio, ma viene subito dopo rilasciato per una grande manifestazione in suo favore durante la quale le campane avevano suonato a rintocco. La stessa cosa avviene per Arpinati a Bologna nonostante gli assassini di cui é responsabile.

Le cooperative che in Emilia avevano raggiunto un enorme sviluppo vengono devastate o fatte chiudere per l’odio dei commercianti.

Gli agricoltori sono tassati con aliquote proporzionali alla quantità di terreno per mantenere le squadre fasciste…

E le lotte si accendono terribili nelle Venezie e poi in Toscana, nell’Umbria, nelle Puglie: i fascisti sono quasi sempre appoggiati dai carabinieri i quali anzi sono i primi a rifornirli di armi quando quelli ne abbiano bisogno. Arresti e perquisizioni vengono fatti dagli stessi fascisti.

Giolitti non fa nulla di serio per impedire questa carneficina che i fascisti stanno compiendo con l’appoggio delle forze regolari di polizia e con la connivenza di tutti gli organi governativi: il ministro della Giustizia, Fera, invia una circolare alla magistratura perché le pratiche contro i fascisti vengano messe a dormire.

L’entrata dei fascisti nel blocco nazionale per le elezioni del 1921 legalizza definitivamente il loro terrorismo.

Intanto nel gennaio 1921, al congresso di Livorno, il Partito socialista si era scisso dando vita al Partito Comunista, la cui posizione nei confronti del fascismo era caratterizzata da una irriducibile opposizione atta a risolversi esclusivamente sul piano della forza. Il Partito Comunista smascherò come opportunista e disfattista l’atteggiamento dei socialisti che chiedevano l’intervento della ruffianissima maestà della legge e la protezione dello Stato, cioè di tutta un’organizzazione di esclusiva proprietà della classe borghese, per salvare gli operai da quelle tremende bastonature che facevano allargare il cuore di gioia a tutti gli onesti, benpensanti e pasciuti cittadini del regno.

Ci si potrebbe domandare se questa tattica abbia sortito maggiori vantaggi di quella seguita dai socialisti: senza entrare in un argomento che é evidentemente di natura critica, mentre la nostra trattazione deve rimanere in limiti esclusivamente espositivi, diremo che la linea allora seguita dal Partito Comunista é da noi ritenuta perfettamente valida e che se il Partito fosse nato nel 1919, durante l’ascesa rivoluzionaria del proletariato, anziché nel periodo della sua discesa, lo spostamento inevitabile delle masse dal Partito socialista a quello Comunista avrebbe permesso a quest’ultimo di esercitare in pieno e probabilmente con successo la sua funzione rivoluzionaria per la conquista del potere.

Il Partito Socialista non aveva fatto suo il fondamento stesso del pensiero marxista, che cioè, nella dinamica dei rapporti di classe, il compromesso che la classe sfruttata conclude don la classe dominante é sempre necessariamente a totale beneficio di questa ed è di natura tale che l’indebolimento del proletariato é altrettanto necessario. Su questa via il Partito socialista arriva così al patto di tregua (2 agosto '21) coi fascisti che segna la definitiva sconfitta dei socialisti e un forte indebolimento di tutta la classe operaia. L’indebolimento fu così palese che i fascisti non vollero più saperne della tregua concordata e, sotto la spinta dei reazionari più accaniti, gli agrari, continuarono nella loro tattica di annullamento totale di ogni sopravvivenza di organizzazione proletaria.

Da quest'epoca e fino alla marcia su Roma non troviamo fatti nuovi fondamentali nel percorso seguito dal Fascismo. La sua trasformazione in Partito Nazionale Fascista risponde a necessità di manovra politica e non va collegata a mutamento di funzioni o aspetti della battaglia fino a quel momento condotta.

Il fascismo si forma in un’altalena di equilibrio e squilibrio dovuta alla forza o meno dello Stato; e la borghesia tanto più si appoggia al fascismo quanto minore é la forza dello Stato e viceversa: attraverso questa schematica proposizione possiamo renderci conto delle successive fasi attraversate dal fascismo che al termine della sua marcia diverrà esso stesso Stato, nel compimento logico e conseguente di quella che era la sua stessa ragion d’essere, e nella sintesi terminale delle sue caratteristiche soggettive e delle esigenze obiettive di una determinata fase di sviluppo della società capitalista.

Il fascismo non trascurò neppure la formazione di sindacati autonomi che vennero tutti quanti sorgendo sotto la spinta del terrore. Esso aveva evidentemente bisogno di sostituire qualcosa alle distrutte Camere del Lavoro e questi sindacati fascisti fusi nella «Confederazione Generale dei sindacati nazionali» – fondata a Bologna nel gennaio 1922 – furono opportunamente sfruttati dal fascismo come mezzo di lotta politica per il potere.

Le violenze e i soprusi di ogni genere si accavallano quotidianamente in un ritmo persino monotono: ma lo svolgersi di queste imprese ha una sua linea di sviluppo «territoriale» che porta alla graduale conquista strategica, e attraverso una vera organizzazione militare, delle posizioni dominanti nella politica italiana. Da Bologna esso punta sul triangolo Milano, Torino, Genova; dall’altro lato punta sulla Toscana e l’Italia centrale per arrivare all’accerchiamento della capitale.

Il cammino é talvolta rotto da sussulti più o meno minacciosi: il 31 luglio 1922 l’Alleanza del Lavoro riesce a provocare, in risposta ai terribili attacchi contro le organizzazioni proletarie della Romagna, lo sciopero generale nazionale. Ma i fascisti sentono che lo sciopero non si regge e organizzano una serie di violentissime rappresaglie che si scatenano sul finire dello sciopero durato tre giorni: famose quelle di Genova, Milano e Parma: in quest’ultima città il proletariato, organizzato militarmente, resiste però vittorioso a tutti gli attacchi.

Ma ormai per il fascismo é indispensabile la presa del potere: la distruzione dei sindacati, la assunzione o la conquista di numerosi organismi e istituzioni gli ha fatto ereditare anche problemi e contrasti che non possono essere sanati che diventando esso stesso forza dominante di governo. La borghesia italiana é ormai giustamente convinta che l’unico rimedio alla situazione sia l’andata al governo dei fascisti: tutti, vecchi uomini di stato e partiti politici borghesi sono del resto pronti ad accettarli e d’ora innanzi sarà solo una questione di bottega per la contrattazione a denti stretti del numero dei portafogli.

Il «Corriere della Sera» il cui direttore, senatore Albertini, ha applaudito l’occupazione di Palazzo Marino da parte dei fascisti, si dichiara «felice che un partito, quale che sia il suo nome, torni alle vecchie tradizioni liberali, abbeverandosi alle sorgenti immacolate della vita di uno Stato moderno… e senza contaminarle con contatti impuri» (non collaborando cioè col partito socialista – N.d.R.).

E a proposito di Corriere della Sera, riportiamo incidentalmente poche parole di un articolo scritto sullo stesso giornale da Luigi Einaudi, l’attuale governatore della Banca d’Italia, nel quale si contrappone la diminuzione della natalità nel proletariato alla fecondità delle «donne borghesi che allevano dei robusti figli capaci di maneggiare con destrezza il bastone» (allude al manganello fascista – n.d.r.).

Così finalmente, dopo aver manovrato in precedenza tutti i santoni e i maneggioni della politica, da Giolitti a Nitti, da Salandra a D’Annunzio, dopo essersi arruffianati i centri di resistenza più sensibili e delicati delle manipolazioni governative, dal Quirinale al Vaticano e alla Massoneria (la quale tra l’altro gli aveva anche versato tre milioni e mezzo di contributi per le sue imprese), Mussolini compie trionfale la sua Marcia su Roma dove, dopo che in ogni luogo le autorità militari e civili hanno ceduto senza la minima resistenza, egli può giungere tranquillamente in vagone letto la sera del 30 ottobre 1922.


Source: «Prometeo», № 3, 1946

[top] [home] [mail] [search]