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TENDENZE E SOCIALISMO


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Tendenze e Socialismo
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Tendenze e Socialismo

La questione ritorna attuale in Italia dove di due grossi partiti che si dicono proletari uno, quello comunista, assume di non avere tendenze e frazioni interne, l’altro, il socialista, non solo si spezza per dissensi sulla eventuale fusione coi comunisti, ma lo fa secondo uno schema strano. I fusionisti si chiamano sinistra ma formano un centro, i loro avversari secessionisti sono il blocco di una destra (Critica Sociale, derivante dei riformisti Turatiani) e di una sinistra (Iniziativa Socialista, composta di elementi che si richiamano variamente a tradizioni rivoluzionarie).

Anche se la situazione si risolvesse nella rottura in tre tronconi, il processo apparirebbe meno chiaro che nel precedente storico del 1921, quando, uscita prima a Livorno la sinistra Comunista per fondare il P.C.I., poco dopo il blocco rimasto si scindeva ancora in massimalisti (P.S.I.) e riformisti (Socialisti Unitari).

Nessuno invero dei molti ferventi commentatori dall’interno o dall’esterno, tra i comunisti, le frazioni socialiste, e la stampa d’altri partiti, mostra di essere in possesso della chiave per spiegare l’odierno processo.

Non è facile infatti sceverare nella gamma delle varie tendenze le caratteristiche ideologiche di ciascuna, e tanto meno quelle pratiche.

Tutti i gruppi dal più al meno, in teoria, si richiamano al marxismo, alla lotta di classe e all’attesa di una società socialista dopo la soppressione del capitalismo.

Tutti, nell’azione pratica di oggi non escludono la politica di compromesso tra loro e con i partiti della borghesia, tutti vanno alle elezioni e ai parlamenti, sono pronti a votare per governi interclassisti e a farne parte, sia pure sotto diverse condizioni contingenti.

Rifacendosi alla situazione di ieri tutti rivendicano la politica della coalizione di tutti i partiti non fascisti e dell’appoggio, fino alla lotta armata partigiana, all’alleanza chi guerra antitedesca.

Qualche cosa di sostanziale li divide nella tattica da seguire domani sullo sfondo internazionale di possibili eventi, ma anche in ciò li accomuna la reticenza ed il timore di svelarsi in programmi a netto contorno.

Anche contentandosi di connotati negativi, non è facile discernerli; gli stessi saragattiani pur molto parlando del binomio libertà-socialismo non escludono esplicitamente in principio l’uso della forza e la dittatura proletaria; dal canto loro i togliattiani sono ben lontani dal condannare una prassi socialdemocratica, ed anzi profilano la prospettiva storica in Italia e nel mondo con le parole della democrazia progressiva e della attuazione per via legalitaria di riforme sociali, presentando una via più che mediata e graduata verso il socialismo.

Ed infine tutti i gruppi presentano come pericolo nel caso del loro insuccesso lo stesso orripilante nemico: una dittatura totalitaria; pretendendo i togliatto-nenniani che se non andranno essi al potere vi ritornerà un nuovo fascismo; i saragattiani che il fallimento del loro sforzo per un movimento operaio autonomo dal totalitarismo sovietico distruggerebbe l’unica valida difesa della libertà popolari e quindi l’unica via della emancipazione proletaria.

Per uscire da questi assurdi, è evidente che bisogna capovolgere radicalmente taluni valori che stanno alla base di tutto questo arruffio di enunciazioni, che annebbiano questo quadro, decisamente pietoso e disgustoso, di ostentate mistiche e di raffinato cinismo politico.

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Lunga e complessa è la storia della lotta tra le contrastanti interpretazioni e tendenze del socialismo, anche da quando questo termine designò un movimento fondato sul metodo che riporta la lotta politica alle determinanti economiche, vede in essa l’urto di opposte classi sociali, e ravvisa in quella lavoratrice la forza che attuerà una società non capitalistica.

Ma le divergenze, traendo le somme da decenni di dibattiti, si riducono essenzialmente alle prospettive circa lo svolgimento dell’era capitalista e a quelle conseguenti circa i modi e le forme della lotta per il trapasso al socialismo, ossia circa la quistione dello Stato, e dell’impiego della violenza rivoluzionaria.

Qualora le diverse versioni si fossero tutte tenute sul tronco della dottrina marxista, sarebbe stato chiaro che gli argomenti atti alla soluzione di quei grandi quesiti storici dovevano trarsi unicamente da una indagine realistica ed obbiettiva sulla struttura della società presente e sui processi del suo divenire.

Avvenne invece (né poteva essere diversamente poiché la dottrina il metodo e l’azione rivoluzionaria sì enucleano e si potenziano di pari passo nel divenire storico) che le battaglianti tendenze e scuole, nell’arengo teorico, chiesero armi polemiche al bagaglio di ideologie estranee al socialismo classista, e nella pratica manovra politica cercarono per sopraffarsi legami ed appoggi al di fuori del campo proletario.

Con i dati che lo studio del capitalismo poté offrire fino a circa il 1890 non si può dire che scientificamente si potesse escludere una interpretazione prospettica gradualista e riformista della via al socialismo, né che nella pratica politica il sostenere la possibilità dell’arrivo della classe operaia al potere per via legalitaria (bene inteso con metodo classista e non possibilistico ossia di ingresso in governi borghesi) si dovesse senz'altro considerare tradimento. Falso è però che Carlo Marx e Federico Engels abbiano mai sposata tale posizione generale.

La tendenza dei marxisti di sinistra sostenne sempre che invece la società capitalistica sarebbe caduta in uno scontro rivoluzionario e non per attuazione legale di successivi provvedimenti limitativi del privilegio padronale. Parallelamente fu chiarito che in questo scontro la guerra civile avrebbe condotto alla distruzione dello Stato borghese ed alla formazione di uno Stato proletario costituente la forza necessaria a comprimere la vinta borghesia durante il processo difficile della sua eliminazione sociale. Le tappe nella teoria vanno dai classici di Marx a quelli di Lenin, dalla storia dalla Comune di Parigi alla rivoluzione di ottobre.

Notevole importanza in una analisi completa avrebbe l’altra corrente revisionistica che sostenne potersi lo Stato distruggere senza organizzarne un altro, e che la nuova economia sociale potesse fondarsi negli stessi giorni della vittoria ad opera di organizzazioni economiche di classe che si fossero tenute fuori di ogni contatto col politicantismo capitalistico.

Tale tendenza sindacalista, collegata alle più antiche scuole libertarie, è in fondo malgrado gli aspetti insurrezionisti una diversa versione del gradualismo perché vede la società borghese permeata progressivamente di forze economiche socialiste ad opera dei liberi sindacati.

Nella loro lotta queste tendenze deviarono molte volte e in modo svariato nei diversi paesi per influenze estranee che abbiamo ricordate. I riformisti legalitari partiti da certe revisioni della diagnosi della accumulazione capitalistica e della misura delle distanze sociali, degenerarono nell’impiego di una mistica liberale che piano piano riportava a postulati impliciti quei principi della democrazia borghese il cui stritolamento teoretico non è solo il più potente connotato del marxismo, ma forse il più grande esempio di svolto storico nella interpretazione del fatto sociale. Essi barattarono la tesi, non esclusa in partenza, che la violenza e la guerra civile potessero essere evitate, con la tesi da disfattisti e rinnegati che la violenza e la guerra civile sì dovessero respingere in principio, quando anche conducessero al socialismo, quando anche solo esse potessero condurvi. Fu l’opportunismo socialdemocratico, fiaccato dalla rivoluzione bolscevica nella dottrina e nell’organizzazione dopo la prima grande guerra imperialistica, condannato dippiù come reo confesso di avere appoggiata la sanguinosa violenza di guerra fra i popoli.

Il riformismo gradualista non è tuttavia morto in tale fase, poiché il capitalismo stesso aveva bisogno di lui. Il capitalismo degli ultimi decenni ha presentato caratteristiche ben note, inquadrate nell’Imperialismo di Lenin.

Queste nuove forme economiche di collegamento, di monopolio e di pianificazione lo hanno condotto a nuove forme sociali e politiche. La borghesia si è organizzata come classe sociale oltre che come classe politica; ha inoltre divisato di organizzare essa stessa il movimento proletario inserendolo nel suo Stato, e nei suoi piani, e come contropartita ha messo nei suoi programmi la gamma delle riforme tanto a lungo invocate dai capi gradualisti del proletariato.

Con ciò la borghesia, divenuta fascista, corporativa, nazional-socialista, ha gettato via più o meno palesemente l’ordinamento di libertà individuale e di democrazia elettorale che le era stato indispensabile nel suo avvento storico, e che era ossigeno per essa, non concessione alle classi che dominava e sfruttava; né utile ambiente per l’azione di queste.

La corrente socialdemocratica e riformista, (una volta così imbevuta di spregiudicato e sodo positivismo da diffamare la sinistra rivoluzionaria come affetta da un misticismo irrazionale per la violenza portata da strumento a fine) trascinata dai suoi fornicamenti polemici coi sacri principi borghesi dell’ottantanove, ha commesso il tremendo errore storico di non riconoscersi nel fascismo e nel suo ordinamento organico corporativo e centralizzante.

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I Saragat, che si muovono ancora nell’agone sbiadito della mistica liberale, sono fuori di ogni reale visione e di ogni prospettiva di successo. Quella mistica non ha mai servito al proletariato e al socialismo. Essa servì bensì alla borghesia in una fase storica ormai remota per l’abbattimento dei regimi feudali; il proletariato combatté bensì con la borghesia in quella lotta, ma da quando combatte lotte proprie di classe la mistica della libertà è stata invocata ed usata soltanto per trascinarlo nelle più disastrose sconfitte.

Lo stesso movimento comunista in Italia, vigoroso, indipendente, chiaro nella teoria e nella tattica, ha potuto essere travolto nella schiavitù a quel totalitarismo sovietico che tanto intriga e preoccupa il Saragat e i suoi associati dell’Iniziativa, col deviarlo dalle sue impostazioni programmatiche alla stupida consegna di lottare per la libertà in Italia. La libertà, questo è il senso del mondo moderno, non serve più alla borghesia, che si modernizza e procede nella storia stringendo in maglie sempre più serrate i suoi individui, le sue aziende, le sue iniziative in ogni angolo della terra. Essa ha gettato via questo suo mezzo, ormai inutile, la libertà individuale, ha impugnato il nostro mezzo, nostro di noi rivoluzionari proletari, la socialità. il classismo, l’organizzazione, strappandocelo dalle mani. La nostra risposta non può essere quella di raccattare la sua arma frusta e spuntata, e combattere con essa una lotta altrettanto insana e disperata di quella della bottega contro la fabbrica meccanica, della piroga contro la cannoniera, del siluro umano contro la bomba atomica.

Saragat e i suoi simili col loro socialismo radicato nel feticcio dell’uomo libero e dell’individuo etico e giuridico non hanno solo volto le terga a Marx, ma nel loro orrore dei totalitarismi sono caduti fuori della realtà, fuori della storia. Questa ha ormai posto solo per i totalitarismi: o quello del capitale mondiale e della pianificazione borghese, o quello della rivoluzione proletaria – non potendo negarsi che il gettito della zavorra liberale permette al capitalismo l’inarrestabile corso di una nuova ascensione.

Angelica da Roma, Palmiro da Firenze, come potete pensare di avere posto il vostro avversario fuori combattimento, denunziandolo come vólto alla ineluttabile caduta nel totalitarismo?

Che ne è dei tanti anni vissuti dalla prima, dei tanto pochi vissuti dal secondo, nell’atmosfera del marxismo ortodosso? Che ne faceste del materialismo dialettico, di cui pure oggi, a domanda, vi proclamereste fautori? Dove trovaste scritto che in principio, per virtù del verbo, per rivelazione di tavole, il più arduo problema, il più atroce dubbio, l’equazione più complessa avrebbero trovato soluzione solo per la facile formula di imboccare, nella dottrina e nella prassi, la via opposta a quella ove si profilava l’ombra sinistra ed infernale del Satana totalitario?

Non certo nelle pagine del «Capitale» e dell’«Antidühring», nelle notti di studio, e non certo nei pratici contatti coi politicanti del democratismo borghese, perché Angelica è vergine di commercio con essi, Palmiro talvolta li convita, ma con animo gentile di lontano piccolo erede dei Borgia. Poiché la indiscutibile inferiorità della vecchia marxista rispetto all’ex-giovane hegeliano è che la prima crede purtroppo a quello che dice.

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Il responso del comunista marxista sulla quistione del totalitarismo, e se si vuole della dittatura, è tanto piano, ovvio, semplice e, soprattutto, non nuovo, che nulla più.

La risposta si dà con metodo storico, non metafisico, e non si dividono i poco onorevoli preopinanti nei due gruppi rigidi dei totalitari e degli antitotalitari. Il totalitarismo, la dittatura, la violenza, sono un mezzo adatto a date situazioni storiche; non possono essere un credo, un fine, un ideale. In tutte le epoche, in tutte le forme storiche di società, vi furono svolte in cui l’esercizio del potere fu nella realtà e nell’aperto aspetto formale contratto nelle mani di uno o di pochi. Le storie sono piene di dittatori, di diumviri, di triunviri, di comitati di salute pubblica che tennero per sé tutto il potere e che per lo stringere dei tempi decisero senza consultare altri e quindi dettarono senza avere prima ascoltato, mentre ogni giudice sentenzia non senza avere udito le parti sfogarsi. Dippiù questo metodo di emergenza fu usato tanto per fare ottime azioni che solenni porcherie, e per essere meno banali vi furono dittature e totalitarismi innovatori e reazionari, rivoluzionari e conservatori. Quale buon democratico pacioccone e saragattista potrà rinnegare i Tallien, i Marat, i Robespierre? Si tratta dunque di valutare i tempi, le condizioni, i rapporti di impiego delle forme totalitarie di esercizio del potere, di sceverare caso per caso e non di dare il metodo totalitario per sempre buono o sempre cattivo.

Oggi, ad esempio, l’antico dissidio tra i socialisti gradualisti e progressivi e noi socialisti rivoluzionari, e ben definibili totalitari, si pone nel senso che o si lavora e si opera per rovesciare gli attuali istituti nel loro insieme, o si considera di dover dare opera al loro ulteriore processo di sviluppo, in un’altra fase storica di vita. Nel primo caso non vi sono scelte relativistiche da fare e compromessi da tentare, nel secondo, volendo scegliere, non resta che aiutare il capitalismo a vivere la sua fase totalitaria: il più scemo è chi resta sul ramo secco della libertà, come Saragat.

I Russi? Una diversa versione del gradualismo, che toglie al socialismo il suo carattere classista, è la formula del socialismo in un solo paese che ne uccide l’internazionalismo, è lo Stato non in via di sgonfiamento come Engels volle, ma mostruosamente enfiato, è la dittatura di una classe, che dista di tutto un ciclo storico dal potere unipersonale, risolta in un bastone di maresciallo, in una gerarchia professionale.

Comunque la superiorità storica relativa della versione sovietica è nel suo totalitarismo, progressivo perché pianificatore e centralizzante, con apici brillanti di rendimento tecnico, e perché non impacciato da scrupoli di tolleranze liberali. Ed allora perché mai offendersi dell’epiteto di totalitario, perché predicare una democrazia per uso esterno, e dichiararla progressiva? Il perché è prettamente demagogico, è la gara a chi meglio sfrutterà lo slancio della comune campagna – la più gigantesca turlupinatura della storia umana – contro il mostro fascista, modello ai suoi vincitori.

La chiave che mette tutti questi signori al loro posto è dunque semplice: la successione non è: fascismo, democrazia, socialismo – essa è invece: democrazia, fascismo, dittatura del proletariato.

Chi vuole essere progressivo sia fascista, e quindi non presti il ben che menomo eredito allo slogan della democrazia progressiva, a cui Togliatti non crede e di cui si pentirà lui stesso quando vedrà di aver solo fabbricato con esso futuri zimbelli dell’imbonitura americana, quando nella corsa al fascismo effettivo sotto l’etichetta della libertà gli anglosassoni avranno battuto i russi a cui manca, più che quello della energia nucleare, il controllo del dollaro, sicché saranno forse comprati prima di essere sconfitti. Il misurato Palmiro enuncia una verità palmare quando definisce il viaggio di De Gasperi in cerca di dollari come un mercato dell’indipendenza italiana, un aperto intervento nella politica interna italiana. Solo che si tratta di affari e di indipendenza della borghesia italiana, id est della classe dirigente italiana, inclusiva di tutti i quadri dei partiti del guazzabuglio antifascista. Ma sa egli dire come la striminzita Italia borghese potrebbe rifiutare prestiti, quando la potente e vittoriosa Russia di Stalin li chiede e li accetta? Gli interessi del capitale americano li pagherà il proletariato italiano e russo, e resterà una tangente per la gerarchia governante locale.

Fra noi sono in corsa pei benefizi tutti i campioni della gamma della democrazia post-mussoliniana peggiore del mussolinismo, patriottica, nazionale, popolare e progressiva, secondo le stesse parole di quello.

I comunisti marxisti, e ancora ve ne sono, non sono progressivi – poiché il marxista non vede la storia avanzare per gradi ma facere saltus – ma sono convinti che la fase totalitaria e fascista non salverà la società borghese dalla catastrofe, e riporterà davanti alla storia in un nuovo immancabile ciclo l’esigenza della guerra delle classi, e della vittoria totalitaria della rivoluzione.

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Questa nota è stata redatta alla vigilia del congresso socialista di Roma. I risultati di esso erano ovvii. Il messaggio del nuovo Partito S.L.I. è scolorito fino al più basso conformismo di pensiero e di stile. Il discorso programma del suo capo ritorna alle ignobili posizioni del socialdemocratismo kautskyano e dell’antileninismo più fariseo, senza proteste di nessuno, in quel partito o negli altri due. I pennivendoli borghesi, asini o ruffiani, li chiamano marxisti tutti e tre…

Noi dinanzi a tanto spettacolo li diciamo fusionisti, nel senso della indiscutibile equazione: Saragat = Nenni = Togliatti = servo della borghesia.

Quanto ai riflessi della politica internazionale, vi sarà molto da ridere ancora, sul palcoscenico politico italiano, in cui i fili degli attori sono tutti tirati da oltre Alpe o da oltre mare.

Ché quando, per storico assurdo, rinascesse uno Stato italiano autonomo, libero ed indipendente, noi non cesseremmo dal definirlo e dal trattarlo come un nemico di classe.


Source: «Prometeo», № 5, Gennaio-Febbraio 1947, pp. 201–206

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