LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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MONETE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI


Content:

Monete nazionali ed internazionali
Inflazione e intervento statale nell’economia
Deflazione e inflazione
Controllo del commercio estero
Il dollaro moneta di conto internazionale
Notes
Source


Monete nazionali ed internazionali

Se dovessimo indicare quello che a parer nostro è il più delicato e insidioso ganglio dell’attuale società capitalistica, non esiteremmo a designare il settore monetario. È qui che negli ultimi anni sono avvenute le più considerevoli trasformazioni di natura tecnica economica e politica; è qui che si manifesta con la maggiore evidenza, e con una portata gravida di sviluppi, il peso dell’intervento dello Stato come supremo organo di amministrazione, direzione e perfino gestione dello sfruttamento di classe, e come forza operante in modo egemonico nell’economia.

La più notevole di queste trasformazioni è indubbiamente rappresentata dal generale abbandono della moneta aurea e dall’universalizzazione in tutti i paesi, Stati Uniti compresi, della moneta fiduciaria. Dal punto di vista storico, vi sono certo molti precedenti di moneta imposta a corso forzoso, ma si trattava sempre di periodi eccezionali, di situazioni rivoluzionarie o di emergenza, e mai si ebbe la contemporanea adozione del sistema da parte di tutti gli stati civili e in tutto il mondo, se non forse risalendo al famoso esperimento di Diocleziano. L’alterazione della moneta cui ricorsero tanto spesso i sovrani del medioevo era anche essa un modo di abusare del diritto di coniaggio, ma l’abuso in ogni caso privava la moneta di una sola frazione del suo valore reale, non della totalità come nel caso della carta stampata inconvertibile. Ad ogni modo, questi esperimenti furono in ogni tempo considerati una truffa perpetrata a danno delle masse. La moneta è per sua natura un metro, uno strumento di misurazione, e come tale deve avere un intrinseco valore cui riferirsi. La parte più importante del I volume del «Capitale» di Marx è appunto dedicata alla spiegazione del concetto di moneta e della sua funzione nell’economia capitalista, e Marx giudica l’oro come l’unità monetaria definitivamente impostasi, e la definisce «merce equivalente universale».

Oggi, la proclamazione da parte di tutti i governi dell’inconvertibilità della moneta cartacea con l’oro, togliendo ogni valore intrinseco alla moneta, crea situazioni del tutto nuove nel campo sociale ed economico. Essa rende lo Stato arbitro di un’infinità di rapporti che gli permettono di sottoporre la vita sociale a repentine e profonde trasformazioni, di intervenire in tutti i settori economici disciplinandone ogni manifestazione autonoma, di espropriare o premiare determinate categorie di cittadini, di accelerare o rallentare il ritmo dell’attività produttiva, di influire in modo determinante sulle relazioni con l’estero e su tutte le possibilità di scambio di merci e di persone. La moneta manovrata è insomma divenuta il più poderoso strumento di accentramento politico, di intervento governativo, di dispotismo economico, e, infine, di pirateria legalizzata.

Inflazione e intervento statale nell’economia

La prima e più nota di queste manovre di carattere monetario è costituita dall’inflazione. Tecnicamente, l’inflazione consiste nella eccedenza di segni monetari rispetto ai beni disponibili, e i suoi effetti deleteri si esplicano nell’aumento generale dei prezzi in conseguenza della pressione esercitata dai possessori di simboli di denaro per procurarsi i beni disponibili. Ora, chi regola l’immissione del denaro sul mercato, chi ha in mano gli elementi per incoraggiare o scoraggiare la tesaurizzazione, è appunto il potere statale, il quale se ne serve per le esigenze della sua politica interna ed estera. Poiché l’epoca in cui viviamo è per eccellenza l’epoca dell’imperialismo, e poiché le guerre, le crisi e tutte le agitazioni in genere, impongono un ritmo particolarmente intenso all’attività governativa e aumentano con una rapidità vertiginosa tutte le spese di Stato, i vari governi ricorrono dunque all’inflazione, cioè alla stampa di carta moneta, come ad uno degli strumenti prediletti per risolvere le loro strettezze.

I governi hanno due sole fonti importanti di entrate dirette: le imposte e l’emissione di prestiti. Ora, quando si è ricorso fino all’estremo al primo mezzo nei riguardi delle classi soggette (per le classi superiori la tassazione non è mai portata tanto innanzi), e quando ragioni di economicità, di opportunità politica e di praticità impongono di evitare il lancio di nuovi prestiti, per il potere ufficiale non resta che chiedere delle anticipazioni all’Istituto di emissione. E ciò avviene quasi sempre al di fuori del tanto sbandierato controllo degli organismi democratici e parlamentari che, secondo la magna carta delle democrazie, dovrebbero essere consultati in anticipo e dare la loro approvazione ad ogni nuova spesa.

Le maggiori spese dello Stato sono a loro volta in dipendenza e della politica bellicista e del sempre più diretto intervento nella cosa pubblica, con la conseguenza implicita di nuovi e maggiori investimenti statali di erogazioni, sovvenzioni, rilevazioni ecc. Insieme alle maggiori spese, le disposizioni governative circa le esigenze cosiddette di carattere nazionale esercitano un’attrazione sulla accumulazione di capitali orientando il flusso degli investimenti verso quei settori che, per essere i favoriti dallo Stato, garantiscono maggiori e più sicuri utili. Avviene perciò che anche in quei casi in cui è conseguita la piena occupazione, si effettui un continuo e graduale spostamento degli investimenti dalla produzione di beni di consumo comune alla produzione di beni di carattere militare, industriale governativo o altro. È soprattutto in questi casi che si verifica una rarefazione dei beni di prima necessità sul mercato, rarefazione cui fa riscontro un’uguale se non maggiore disponibilità di pezzi di carta stampa in mano alle masse, che si riversano su tali beni gonfiando inverosimilmente la domanda. In realtà, gli industriali se ne infischiano dei segni monetari per se stessi: essi guardano al sodo, alle loro possibilità di accumulazione, e nessun produttore è oggi disposto ad accettare per buono, sic et simpliciter, quello che le masse hanno accettato, cioè la banconota[1].

Ne segue che la capacità dei segni monetari di esercitare un’azione stimolante sulla produzione è relativa alle prospettive di profittabilità futura dei singoli settori di investimento, mai al volume di tali segni sul mercato. Può avvenire che la grande disponibilità di questi spinga gli industriali a sbarazzarsene rapidamente (hot money, moneta che scotta) e con ciò ad accelerare i propri investimenti e le proprie spese; ma la velocità più o meno grande di questa trasformazione non ne pregiudica la sostanza. Il capitalista effettua il ciclo commerciale per tradurre i suoi ricavi in beni reali, ed a questo scopo è disposto anche ad accettare l’imperio di un immediato acquisto, che in ogni caso è sempre qualcosa di più concreto della carta monetata. Ma se le prospettive di permute effettive si riducono, si riducono anche gli scambi. Inoltre, nei casi di distorsione della domanda provocati dalla piena occupazione, la rapidità di accrescimento dei segni monetari in possesso delle masse non è mai tanto grande quanto la velocità con cui cresce l’offerta sviluppata attraverso i nuclei capitalistici che scambiano direttamente beni o attraverso gli organi dello Stato. I capitalisti sono infatti in grado di rivalutare i loro beni ad ogni transazione; lo Stato, a sua volta, di aumentare a piacere le proprie disponibilità. La divisione della società in classi possidenti e classi diseredate mette perciò queste ultime alla completa dipendenza delle prime, dipendenza che oggi va ben oltre il rapporto sociale fra chi deve vendere a qualunque costo la propria forza-lavoro (libertà di morir di fame) e chi la compra, ma risiede anche nella possibilità garantita al possessore di beni e merci di porre sempre nuovi ricatti a quelli che devono acquistarli. La situazione dei proletari si traduce quindi nella necessità, da un lato, di sottostare alla vendita della propria forza-lavoro, dall’altro di ricevere per essa una somma che può bensì variare nel numero delle unità, ma sarà ben presto interamente riassorbita dalle classi possidenti, le sole distributrici delle cose che abbiano un effettivo valore. La tesaurizzazione dei valori, cosa in fondo possibilissima fin che vigeva il regime aureo, è oggi preclusa alle masse proletarie e semi-proletarie, ridotte a dover accettare un mercato in cui fatalmente perderanno tutto quel che è possibile perdere, e su cui si presentano con un bene che è tale solo di nome.

Qualsiasi aumento del volume dei segni monetari in mano alle classi soggette è così destinato a ritornare presto o tardi nelle mani dei possidenti senza alterare l’effettiva ripartizione della ricchezza nazionale. Nell’atto di acquisto compiuto con moneta cartacea non vi è più la permuta di due valori, ma lo scambio di un bene contro una promessa. Perciò, mentre il valore del bene è qualcosa di fisicamente determinato, il segno monetario vale solo per le sue prospettive immediate o future, le quali non sono mai grandi. Si può anzi dire che tutto il processo di accentramento e di espropriazione verificatosi nello scorcio degli ultimi anni, è appunto avvenuto attraverso questo mezzo, cioè attraverso i vantaggi che i ceti possidenti beni trassero dalla fluidità monetaria rispetto al proletariato e ai ceti medi, che godevano di redditi fissi, di risparmi del passato, di una pura e semplice accumulazione di carta stampata o titoli.

Questo particolare regime della moneta ha avuto anche per conseguenza che il capitale finanziario, il capitale bancario, ha perso, pur nei casi delle sue superiori manifestazioni, la maggior parte della sua importanza sociale. Alla riduzione dell’influenza dell’alta finanza hanno indubbiamente contribuito le crisi, e massimamente quella del 1928, che ne hanno dimostrato la incapacità di sopravvivere a un crack economico generale. In questo caso, è soprattutto la dilatazione del credito che mina alla base la vita economica capitalistica. L’intervento dello Stato per salvare il salvabile si è quindi reso ovunque necessario e tale intervento ha voluto dire, per la continua permanenza del pericolo di crisi, la definitiva omologazione del capitale finanziario con lo Stato. Lo Stato è divenuto garante delle banche e le banche hanno dovuto fare tutto quanto desiderava lo Stato. Questi giustificava la sua azione con la necessità di «salvare gli interessi dei risparmiatori»: ma poiché lo sviluppo degli investimenti industriali è attualmente in gran parte un processo di autofinanziamento, i risparmiatori «salvati» furono i piccoli e medi depositanti, con quali risultati è ben chiaro. Quel che è rimasto è che banche e Stato hanno saldato in modo indissolubile i loro interessi: le due forze che oggi governano in modo assoluto la vita economica e sociale di tutti i paesi capitalisti sono, da una parte, il capitale industriale e, dall’altra, lo Stato in rappresentanza del capitale finanziario.

Come abbiamo detto più sopra, ad un certo punto l’inflazione può verificarsi anche in conseguenza della distorsione della domanda senza che vi sia di necessità una riduzione della produzione globale e perfino anche con un aumento della medesima. La distorsione della domanda ha origine nella politica economica perseguita dai governi, i quali, ponendo l’economia dei vari paesi sul piede di guerra, intensificano la produzione industriale e militare riducendo corrispondentemente la produzione dei beni di prima necessità. Tale spostamento della produzione non è accompagnato da un’uguale variazione dei salari monetari distribuiti, suscettibile d’altronde di provocare gravissimi disturbi sociali, ma dalla continuazione del pagamento di remunerazioni capaci di acquistare sul mercato un numero sempre minore di beni reali.

È avvenuto perciò che nella maggior parte dei paesi il prezzo dei beni di prima necessità e delle materie prime aumentasse in misura di gran lunga maggiore del prezzo dei prodotti finiti, dei servizi e degli articoli industriali. L’alto prezzo del primo genere di prodotti a un certo punto non rappresenta più un incentivo alla loro produzione, in quanto l’impoverimento del mercato riduce qualsiasi prospettiva di smercio e quindi di espansione della produzione. È così che, ad onta di tutto il parlare e lo stampare che si è fatto a proposito delle conseguenze che la guerra avrebbe avuto nei riguardi della classe capitalistica, questa non solo non ha sofferto quanto le classi proletarie, ma ne è stata grandemente beneficiata. Lo stimolo alla produzione dato dal conflitto ha permesso al capitalismo un’accumulazione straordinaria; dopo il conflitto, le esigenze della ricostruzione gli hanno consentito di continuare ad ammassare profitti su profitti, pietosamente definiti come «risparmi» realizzati per il bene universale.

La seguente tabella dimostra nel modo più chiaro le variazioni verificatesi in alcuni dei principali paesi del mondo, nel rapporto fra consumi, spese dello Stato, e investimenti. Naturalmente mancano i dati per l’Italia, ma è noto che da noi «si risparmia» (leggi: si accumula) molto più che prima della guerra (secondo Libero Lenti, nel 1947 gli investimenti nazionali sono stati pari al 14 per cento del reddito italiano, contro il 10 per cento nel 1938):

Distribuzione percentuale della produzione lorda nazionale
(produzione lorda nazionale = 100)
  Spese eseguite dai: Investimenti
  consumatori governi Nazionali (lordi) Esteri (netti)
  1938 1947 1938 1947 1938 1947 1938 1947
Australia 71 65 12 14 15 18 2 3
Canada 73 67 14 11 11 22 2 0
Cecoslovacchia 81 76 13 19 6 6 0 -1
Danimarca 78 74 8 11 13 18 1 -3
Francia 76 73 12 13 14 19 -2 -5
Norvegia 68 63 9 12 23 40 0 -15
Svezia 66 68 9 10 25 28 0 -6
Inghilterra 74 68 14 20 13 18 -1 -6
U. S. A. 76 72 15 12 8 12 1 4

Dalla tabella appare in modo inequivocabile che si è avuta dovunque una riduzione della percentuale del reddito nazionale riservato ai consumatori e un aumento della parte riservata alle spese governative e agli investimenti nazionali. La tendenza alla diminuzione degli investimenti all’estero è in genere da attribuirsi ai pericoli di questa operazione, alle barriere legislative elevate in proposito, ai disinvestimenti imposti ad alcuni paesi dalla guerra.

Contemporaneamente a queste variazioni nella distribuzione del reddito nazionale, in tutti i paesi sono aumentate nel corso del decennio considerato le disponibilità monetarie:

Circolazione monetaria Depositi bancari
1938 1947 1938 1947
Belgio (miliardi frs.) 23.6 82.8 20.6 76
Francia (miliardi frs.) 111 921 68 842
Italia (miliardi lire) 19 721 22 751
Giappone (miliardi yen) 2.8 219.1 15.2 208.9
Inghilterra (miliardi Lst.) 0.46 1.33 1.19 3.71
U. S. A. (miliardi dollari) 5.8 26.6 26 86.9

E abbiamo considerato solo i paesi più importanti. In ogni modo, basta un calcolo elementare per convincersi che l’aumento delle disponibilità monetarie è stato ovunque di gran lunga superiore all’aumento della produzione effettiva, e che contemporaneamente a questo aumento dei segni monetari si è avuta una nuova distribuzione del reddito nazionale. L’inflazione è stata perciò un metodo cui hanno ricorso indistintamente tutti i governi e che si è dimostrato efficacissimo per l’esercizio della politica imperialista e totalitaria che caratterizza la nostra epoca.

Deflazione e inflazione

Qui un altro problema sorge: perché allora i governi temono l’inflazione? È vero che già nello scorso dopoguerra essa mostrò di provocare sconvolgimenti sociali di notevole portata, tanto che fu coniato il motto: «dietro l’inflazione c’è Lenin». In questa affermazione aveva certo larga parte la resistenza padronale ad aumentare i salari col pretesto di pericoli anche maggiori, ma è altrettanto certo che la portata degli sconvolgimenti sociali che possono derivare dai disastri inflazionistici, soprattutto per la velocità con cui questi incrementano il numero dei diseredati e per le agitazioni cui danno origine in conseguenza del bisogno di sempre nuovi, seppur parziali, adeguamenti salariali, è un elemento che ha il suo peso nel determinare la linea di azione dei vari governi, Questi pericoli, e la miseria e i dolori che l’inflazione porta con sé, non sono tuttavia sufficienti a spiegare la politica anti-inflazionistica cui lo Stato periodicamente ricorre. Vi è qualche ragione più profonda.

Una di queste è rappresentata dal fatto che la velocità di ascesa dei prezzi supera talvolta la capacità delle amministrazioni statali di tenervi dietro. Grazie al meccanismo del credito, l’inflazione può superare il ritmo regolato per la stampa dei biglietti e rendere quotidianamente inadeguati i bilanci dei vari dicasteri con conseguente minaccia di bancarotta dello Stato. Ma, oltre che per queste ragioni di natura finanziaria, nella maggior parte dei casi una reazione alla tendenza inflazionistica si impone per la salute stessa dell’economia capitalista. Avviene infatti che, sotto lo stimolo della domanda monetaria e gli impulsi dati dallo sviluppo del credito, il capitalismo proceda tanto oltre, in alcuni casi, nei suoi investimenti, da non poter più ragionevolmente attendersi di ricavare dal mercato un profitto ad essi adeguato. Si manifesta qui il fondamentale problema dell’accumulazione capitalista: lo sviluppo della produzione presuppone di pari passo lo sviluppo degli sbocchi. Ora, la classe capitalista può bensì aumentare i suoi introiti aumentando lo sfruttamento del proletariato, può bensì espropriare vastissimi strati medio e piccolo-borghesi, ma i frutti di questa ulteriore accumulazione devono trovare in un modo o nell’altro una destinazione. Se la situazione del mercato impone una corsa agli investimenti per impedire che i guadagni realizzati svaniscano nel turbine del moto inflazionistico, se l’incremento della produzione supera le capacità globali di consumo del proletariato e delle classi intermedie e le spese pazze delle classi superiori, i nuovi impianti e i nuovi investimenti rischiano di tradursi in un passivo assoluto e di pesare così in modo schiacciante su tutta l’economia. Perciò il rallentamento della corsa agli investimenti, con accrescimento della liquidità del mercato ed eliminazione delle attività definite speculative (che consistono essenzialmente in operazioni commerciali che giuocano sulla fluidità economica), s’impone come opera di profilassi capitalista[2].

Quest’opera è stata infatti intrapresa da tutti i governi appena il moto della inflazione diveniva troppo minaccioso. Va perciò preso atto che, contrariamente a quanto avvenuto nel dopoguerra 1918, in questo si è bensì ricorso alle manovre monetarie a beneficio dei governi e delle classi che questi rappresentano, ma non si è permesso che queste manovre andassero fino in fondo con tutti i rischi e pericoli in esse latenti. L’inflazione controllata è una conquista della tecnica governativa di questi ultimi anni e neppure gli avvenimenti di Ungheria, Grecia e Cina contraddicono fondamentalmente ad essa.

Ma se l’inflazione, aumentando i prezzi delle importazioni e riducendo quelli delle esportazioni, compie un’opera di impoverimento nazionale e talvolta costituisce un vero e proprio dono a determinate classi, la deflazione agendo in senso inverso provoca un rallentamento dell’attività produttiva orientata verso l’esportazione e verso il mercato interno, che non trova compenso neppure nella riduzione dei prezzi delle merci importate. La svolta che porta alla deflazione è perciò sempre accompagnata dal marasma economico e dal rapido aumento della disoccupazione. Mentre apparentemente le classi inferiori beneficiano della stabilità raggiunta da alcuni prezzi, in realtà si verifica una riduzione media delle entrate familiari dovuta all’impossibilità per molte unità lavorative di trovare impiego, alla riduzione delle ore di lavoro per le altre, alla minore mobilità di occupazione per tutte.

Va comunque constatato che, nella realtà della società borghese, non si verifica mai l’esclusiva prevalenza di un solo indirizzo di politica monetaria. Le due forze, inflazione e deflazione, sono sempre contemporaneamente presenti, e sono incoraggiate e si sviluppano a seconda delle circostanze e dei vari settori dell’economia. Il capitalismo conosce oggi soltanto l’intrecciarsi dinamico dei due moti, ignora la stabilità postulata da tanti esegeti ufficiali. Sia negli Stati Uniti che in Italia, per prendere i due esempi estremi, il processo inflazionistico è stato mantenuto per quanto riguarda i settori di produzione che tendono a soddisfare i consumi di prima necessità, mentre l’opera moderatrice della deflazione si è esercitata essenzialmente nella produzione di articoli finiti e industriali. In Italia, mentre l’aumento dei prezzi degli articoli di consumo alimentare raggiunge e supera le 55 volte l’anteguerra, i prezzi degli articoli di consumo industriale sono aumentati in misura meno forte. Negli Stati Uniti, a tutto il 1948, è stata più volte denunciata l’inflazione in settori produttivi fra cui l’industria edilizia e automobilistica, i servizi tecnici dell’abitazione ecc., mentre un moto contrario si constata in altri. In genere, si può stabilire che il risultato di queste tendenze contrastanti e contemporanee si traduce nell’accollare al proletariato gli svantaggi dei due fenomeni in una volta sola. È esperienza comune che, anche in periodo di deflazione, e perciò di disoccupazione crescente e di crescente incertezza economica, si verificano aumenti di prezzi tutt’altro che trascurabili e isolati: d’altra parte, l’azione deflazionista, sviluppandosi attraverso le disposizioni legislative che aumentano il tasso di costo del denaro e impongono l’incremento delle riserve bancarie, viene a modificare i costi di produzione, aumentandoli.

È chiaro che il potere, acquisito dai governi attraverso l’esercizio della manovra monetaria, di determinare a piacere il moto e il costo del denaro distrugge qualunque illusione di autonomia dei singoli capitalisti nell’esplicazione della loro attività produttiva. L’attività di produzione è ormai legata a filo doppio all’opera dello Stato, gli interessi d’elle singole aziende non sono più disgiungibili da quelli del governo e viceversa. La retorica costruzione dell’ideologia liberale, per cui la attività produttiva è qualcosa che compete all’iniziativa e alle capacità dei singoli individui, è ormai andata definitivamente in pezzi, e le fortune o le sfortune delle aziende non sono più determinate da quanto fa o potrebbe fare dietro il suo scrittoio il capitalista individuale, ma da quanto superiori ambienti politici e amministrativi dispongono. Questi, in verità, prendono decisioni a sfavore dei singoli solo quando altri singoli più potenti lo desiderino, ma l’autorità che ne deriva allo Stato è comunque ormai tale da non poter essere più ignorata da nessuno. Esso non è più solo il reggitore della forza pubblica, l’autorità che talvolta può imporre sgradevoli balzelli, ma l’organo cui competono decisioni fondamentali per tutta la attività economica. Nessun fattore contribuisce quindi maggiormente all’accentramento politico ed economico dello Stato quanto l’evoluzione storica per cui esso è divenuto il regolatore supremo delle vicissitudini monetarie.

Controllo del commercio estero

Insieme alla disciplina della vita economica nazionale e alla sua regolamentazione da parte dello Stato, la moneta manovrata impone il più assoluto controllo di tutti i rapporti con l’estero. Nel secolo scorso, la base aurea assicurata alla moneta andava ben più in là del significato fisico di questo rapporto. Essa rappresentava soprattutto la volontà dei singoli paesi di inserire la propria economia nell’economia internazionale e di legare i propri avvenimenti agli avvenimenti di tutto il mondo. La loro struttura produttiva, la distribuzione delle loro attività, il livello dei loro prezzi dovevano in tal modo accordarsi in una superiore armonia internazionale, che sola poteva permettere di parlare di «libero scambio» e di «naturale sviluppo delle forze produttive».

La moneta fiduciaria è oggi accompagnata dall’assoluto assoggettamento degli scambi con l’estero al giudizio governativo. Questo stabilisce i tassi di cambio delle varie monete internazionali, e con la loro fissazione è in grado di variare a piacere i rapporti con l’estero. A parte il fatto che importatori ed esportatori possono così venire premiati o danneggiati da una qualsiasi decisione governativa, rimane la sostanziale circostanza che, al di fuori di qualunque tariffa doganale od accordo commerciale, quello che oggi disciplina i rapporti economici fra i vari paesi sono le decisioni relative alle loro valute e il fatto che i governi le accentrino tutte presso di sé. Sottoponendo il commercio con l’estero alle variazioni implicite nelle manovre monetarie e alle arbitrarie definizioni dei cambi, i singoli rami della produzione nazionale sono di volta in volta sviluppati o depressi a seconda degli orientamenti di politica commerciale dello Stato.

Le strutture economiche dei singoli paesi si allontanano perciò sempre più da una reciproca integrazione, la distribuzione internazionale delle attività è impedita, il livello dei prezzi non ha più nulla a che fare con le leggi classiche dell’economia, le frontiere diventano altrettanti sipari di ferro dietro ai quali attività essenzialmente parassitarie possono trovare incoraggiamento e sviluppo ed esercitare un’azione sempre più piratesca sulle classi soggette ai ceti capitalistici industriali ed agrari. L’allontanamento di ogni singola economia da quello che potrebbe essere lo standard mondiale, accentuando le divisioni fra Stati, rende contemporaneamente necessario un sempre più stretto legame fra capitalisti e potere governativo e il pronto intervento di questo ogni qualvolta si tratti di difendere la produzione nazionale (leggi: interessi capitalistici locali). Anche qui l’interesse e l’attività delle singole unità produttive risulta strettamente condizionato dall’intervento dell’organo superiore di difesa della classe.

Nel caso del commercio estero, l’accentramento statale, oltre a proteggere la produzione nazionale, rappresenta una garanzia agli affari degli esportatori, in quanto il governo, acquistando tutte le valute che questi ricavano dalle vendite all’estero anche se ad esse non fanno riscontro partite di importazione, li mette al riparo da qualunque rischio anche a costo di contribuire in modo esplicito e diretto all’inflazione. Nessun miglior sepolcro poteva trovare il liberalismo, nessun più spregiudicato epitaffio poteva erigersi la democrazia.

Il dollaro moneta di conto internazionale

Ma se tutto questo è avvenuto nell’ambito delle singole nazioni, se profondissime trasformazioni si sono verificate nel meccanismo degli scambi di merci in virtù delle trasformazioni subite dalla loro unità di misura, se l’abbandono della base aurea ha significato un’ulteriore possibilità di sfruttamento delle classi soggette e di definitiva espropriazione delle classi intermedie, sul piano internazionale il cambiamento non è stato meno radicale.

Le manovre monetarie non sono di origine recentissima, giacché hanno avuto forte sviluppo anche nel corso della guerra 1914–18 e negli anni ad essa successivi, ma fino al 1939, cioè fino al secondo conflitto mondiale, sul piano internazionale era pur sempre rimasto in vigore il gold-standard, la base aurea. Ora, a conflitto concluso, anche internazionalmente l’unità di misura monetaria non è più costituita dall’oro, ma dal dollaro: il dollaro, la «valuta forte» per eccellenza, è divenuta la moneta internazionale. È questo il logico riflesso dell’egemonia conquistata dagli Stati Uniti sul resto del mondo, e consacra in questa sfera le enormi possibilità di arbitrio di quella nazione. Che il dollaro sia ormai l’unica moneta internazionale valida è dimostrato dal fatto ch’essa serve come unità di misura e mezzo di scambio non solo al blocco occidentale, ma anche a quello orientale, Russia compresa: gli scambi commerciali fra Oriente ed Occidente avvengono esclusivamente sulla base del dollaro, e pagare in dollari costituisce oggi la massima delle garanzie per tutti i paesi.

La potenza economica e produttiva degli Stati Uniti è dietro di essi, e possederli è per gli individui e ancor più per gli Stati il segno tangibile della ricchezza. Ma il dollaro è anch’esso una moneta fiduciaria, la moneta di uno Stato, e come tale intrinsecamente legata alle fortune di questo. Ne segue che l’avere esteso il dollaro a tutto il mondo come valuta di scambio, significa aver legato indissolubilmente la sorte del mondo a quella degli Stati Uniti. Le vicende di questi avranno d’ora in poi ripercussioni senza uguali sulle vicende di tutti gli altri paesi. Se vi sarà una crisi in America, la sua velocità di generalizzazione sarà ben maggiore di quella del 1928 e, per quanto i vari paesi si siano chiusi in sé stessi come tante ostriche e siano armatissimi di regolamenti doganali, di difese commerciali ed economiche, le ripercussioni supereranno qualunque barriera con sconvolgimenti indubbiamente poderosi.

A che cosa ci troviamo infatti di fronte, oggi? A un mondo che soffre di una acuta fame di dollari. Tutti i paesi tendono ad accumulare riserve di questa valuta, a farsi pagare in dollari e a non pagare in dollari. Che la moneta del paese economicamente più importante sia la moneta di conto internazionale, nessuna meraviglia: è nella logica della storia, lo fu a suo tempo la sterlina inglese. Ma, a parte il valore aureo di cui godeva la sterlina, l’intera struttura del commerciò mondiale era allora ben diversa da oggi. L’Inghilterra esportava enormi quantitativi di beni e capitali, ma per le particolari esigenze della sua economia importava pure moltissimo. Avveniva così che le sterline compissero una circolazione completa fra la Gran Bretagna e il resto del mondo, cosa da cui si è oggi ben lontani nel caso del dollaro. Gli Stati Uniti sono oggi i più forti esportatori del mondo, essi riforniscono tutti i paesi dei principali beni e prodotti, ma questa partita rimane aperta senza possibilità di saldo. Gli Stati Uniti esportano ma non importano; sono il paese più autarchico del mondo. Questo flusso commerciale in un solo senso è la fondamentale causa della penuria internazionale di dollari, è ad essa the l’America cerca di metter riparo con le esportazioni gratuite del piano Marshall, che risultano in pratica le partite condizionanti; il commercio internazionale. Questo trova un altro freno al suo sviluppo nel fatto che, prendendo come base il dollaro, il commercio internazionale assumerà solo quel volume che i dollari in circolazione permetteranno. Gli Stati Uniti ne beneficeranno in ogni caso, poiché i dollari in circolazione finiranno prima o poi per tornare ad esser spesi in patria, ma le economie degli altri paesi assumono sempre più un carattere di dipendenza e di artificiosità con tutti i pericoli impliciti nella prospettiva che da un momento all’altro la crisi del dollaro si approfondisca e trasformi anche la «valuta forte» per antonomasia in un segno scottante nelle mani di chi lo possiede.

La quasi completa assenza di correnti d’importazione negli Stati Uniti non è certo da attribuire solo al diverso rendimento della produzione americana rispetto e quella europea e con ciò al diverso livello dei prezzi. Vi sono molti prezzi mondiali al di sotto di quelli americani; nondimeno essi non possono esercitare alcuna influenza sul mercato statunitense a causa del protezionismo pressoché assoluto che lo difende. E poiché anche gli scambi fra gli altri paesi incontreranno barriere protezionistiche altrettanto elevate, un ritorno alla normalità degli scambi non è neppur pensabile.

Per i prezzi più vantaggiosi offerti in molti settori, per la copia dei prodotti, per la loro modernità e facilità di acquisto, per la possibilità di pronte variazioni nelle decisioni di compera, per ragioni d’indole politica, tutti i paesi guardano agli Stati Uniti come al mercato fondamentale per tutti i rifornimenti, ed è anche in seguito a questo orientamento che il dollaro è divenuto la moneta di conto internazionale. Tuttavia, le conseguenze di questo stato di cose sono ancora difficilmente prevedibili in tutta la loro portata sia per l’America che per il mondo. Gli avvenimenti del prossimo futuro saranno a questo proposito più che istruttivi.

Resta frattanto provato che, nell’ambito nazionale, la moneta fiduciaria rappresenta lo strumento più poderoso di cui lo Stato moderno disponga per condurre a termine il suo intervento totalitario nella vita economica, e che l’adozione del dollaro come moneta internazionale trasforma le possibilità mondiali di scambio assoggettando tutto il mondo alle fortune e sfortune degli Stati Uniti.

Notes:
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  1. A dimostrazione valga un brano tratto dall’intervista accordata ad un giornalista inglese da un commerciante in Cina:
    «I prezzi aumentano e la valuta precipita: ogni bene costa cinque o sei volte di più di un mese fa. Chiesi a un mercante britannico del luogo: – Come riuscite a fare affari in condizioni così incredibili? Mi rispose: – Oh, è semplice: guadagniamo un monte di danaro badando bene a non possedere mai denaro». [⤒]

  2. È evidente che a un certo punto i giudizi dei singoli capitalisti circa lo sviluppo degli investimenti se valgono a garantire concretamente la realizzazione dei profitti nel corso di cicli commerciali a moneta fluida, possono tradursi in un pericolo collettivo quando la somma di queste decisioni comporta una dilatazione degli impianti senza adeguata capacità di rispondenza del mercato. L’intervento governativo rappresenta allora l’azione moderatrice e compensatrice dei singoli giudizi a vantaggio della stabilità generale del regime. [⤒]


Source: «Prometeo», N. 12, gennaio-marzo 1949

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