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PREMARXISMO FILOSOFICO DI GRAMSCI


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Premarxismo filosofico di Gramsci
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Premarxismo filosofico di Gramsci

Può sembrare inopportuno e tutt’altro che agevole parlare del pensiero filosofico e politico di Gramsci in un momento in cui i chierici del neoumanesimo hanno posto il suo nome, dopo la recente e dolorosa vicenda della sua vita, sull’altare dell’esaltazione più irriverente e della credenza più irrazionale ed acritica: soprattutto in una situazione in cui questo suo pensiero ha trovato e trova tuttora la giustificazione storica della sua affermazione.

Tuttavia ci imponiamo questa messa a punto critica del gramscismo come un dovere che va inteso e compiuto al disopra d’ogni sentimento o risentimento anche se umano e giustificato.

Si è ubbidito a una specie di sacro furore che a volte ha rasentato la mania nel riunire e affastellare gli scritti di Gramsci che man mano vengono alla luce. Uno di questi, e precisamente «Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce», è apparso particolarmente interessante perché ci consente di trarre alcune considerazioni conclusive rispetto al modo e ai fini con cui Gramsci ha trattato la filosofia della prassi[1].

Per la verità il lavoro si presenta quanto mai frammentario ed eclettico: non precisa un vero e proprio corpo di dottrine filosofiche, ma offre tuttavia sufficienti note orientative per rintracciare la vera anima di Gramsci, quella almeno che avevamo avuto agio di conoscere, di ammirare anche, ed anche criticare e respingere ai tempi della comune milizia politica.

Se viene perciò a mancare una visione d’insieme, quella di scorcio è pur viva; come facilmente individuabile è il filo conduttore di quello stato spirituale che anima il libro e che in Gramsci, uomo di cultura e di avvertita sensibilità, è tutto.

Se fosse preliminarmente necessario situare la posizione dottrinaria di Gramsci nella geografia del pensiero filosofico, noi la collocheremmo senza alcuna perplessità in quel solco del pensiero europeo che ha preso le mosse dell’idealismo hegeliano, ed ha trovato la propria continuità nell’indirizzo neoidealistico dello storicismo, dopo aver attinto nutrimento e stimolo dalla potente affermazione della filosofia della prassi che, sorta da questo stesso solco, è apparsa come negazione dialettica in confronto a tutta la filosofia e come suo superamento.

Dopo Marx non è pensabile infatti un filosofare che rifletta un’esigenza storica ed esprima una particolare visione del mondo in cui gli interessi materiali e le forze politiche e sociali della classe non appaiano spinte all’esplosione rivoluzionaria.
«La concezione marxista della storia mette fine alla filosofia nel campo della storia, così come la concezione dialettica della natura rende altrettanto inutile quanto impossibile ogni filosofia della natura. Da ogni parte ormai non si tratta più di escogitare dei nessi nel pensiero, ma di scoprirli nei fatti. Alla filosofia, cacciata dalla natura e dalla storia, rimane soltanto il regno del pensiero puro, nella misura in cui esso continua a sussistere…» (Engels: «Ludovico Feuerbach»).

In questo senso il pensiero di Gramsci non devia dal marxismo per defluire nel solco della filosofia tradizionale; non compie lo sforzo di rompere con essa, ma si serve di tutte le sue premesse ritenute criticamente valide per orientarsi in qualche modo verso una particolare interpretazione del marxismo. Come si vedrà più innanzi la vera matrice di questo pensiero non si trova nella affermazione della dialettica rivoluzionaria di Marx-Engels, ma in quelle correnti anti intellettualiste e di reazione allo scientismo positivista che pur essendo sorte dopo Marx si riannodano per mille capi all’idealismo premarxista; il neo realismo filosofico e politico è andato invece alimentandosi e assai abbondantemente alle scuole, da Bergson a Croce, che si erano posto il problema di riabilitare i diritti della ragione e sotto questo rapporto di trovare la connessione tra pensiero e vita.

Gramsci stesso precisa, delimita, localizza quasi il suo pensiero quando afferma che
«solo la filosofia della prassi sia la concezione conseguentemente immanentistica. Sono specialmente da ricordare e criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Si potrebbe scrivere un nuovo «Anti-Dühring» che potrebbe essere un «Anti-Croce» da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi». («Filosofia speculativa», pag. 42).

Afferma in altre parole che la filosofia della prassi non soltanto è la sola conseguente in confronto a tutta la filosofia immanentistica, ma serve da testa di ponte nella lotta su due fronti, contro la filosofia speculativa da una parte, e dall’altra contro ogni formulazione di positivismo e di materialismo deterministico.

Precisa inoltre la derivazione della filosofia della prassi dalla concezione immanentistica,
«ma depurata questa da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità e a puro umanesimo… Non solo la filosofia della prassi è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico».

Ma allora tutta la filosofia ereditata dal Rinascimento è allo stesso modo immanentistica e soggettiva: l’infinità dei mondi di Bruno; il razionalismo di Cartesio e l’empirismo; la monade di Leibniz, l’illuminismo e la filosofia classica tedesca, tutte queste correnti di pensiero sono pervase dalla concezione immanentistica e soggettiva perché immanentisticamente e soggettivamente si è espressa l’esigenza del moto della moderna borghesia e l’epoca storica del formarsi delle moderne nazionalità. Allo stesso modo è immanentistica e soggettiva la dialettica formale dello storicismo che concepisce la storia come svolgimento e come corrente e come flusso perenne entro cui ininterrotta circola l’attività della provvidenza o, ch'è lo stesso, dello spirito di cui è sempre così pieno l’immanentismo umanistico.

D’altro canto come può considerarsi immanentistica e soggettiva la dialettica rivoluzionaria che il singolo annulla fondendolo nel collettivo; che alla continuità e al progressivo contrappone l’urto, l’eversione e il superamento violento?

Gli è che la dialettica formale dello storicismo è concezione propria del moto borghese, mentre la dialettica rivoluzionaria – concezione di una nuova società la cui apparizione come forza egemonica sarà il risultato di una profonda e radicale lacerazione nel mondo delle cose prima ancora che nel mondo degli uomini – afferma che nella storia umana non vi è conciliazione di termini opposti, ma il loro contrasto in cui l’un termine deve necessariamente negare l’altro perché ne scaturisca una ulteriore affermazione di vita. «La contraddizione è ciò che spinge innanzi» ha scritto Hegel, ed è esatto.

C’è nel libro un pullulare di definizioni della filosofia della prassi:
«Essa è il materialismo (quello francese del secolo XVIII) perfezionato dal lavoro della stessa filosofia speculativa e fusosi con l’umanesimo»;
più plasticamente
«…è uguale ad Hegel più Davide Ricardo»;
e con più precisione filosofica
«…è il rapporto tra la volontà umana (superstruttura) e la struttura economica».
Nelle quali la concezione immanentista non poteva essere espressa con maggiore evidenza e precisione.

Donde si origina per Gramsci la filosofia della prassi? Forse dall’apparizione del proletariato come classe e dal suo divenire di forza rivoluzionaria in contrasto con la classe del capitalismo che lo ha originato e potenziata nello ambito stesso del proprio sviluppo? Forse per aver visto i termini di questa realtà storica Marx ed Engels non hanno elaborato i principi di questa teoria che veniva a costituire lo strumento più preciso e più valido non solo del pensiero e della conoscenza umana ma della stessa conquista rivoluzionaria? Non faceva Engels erede della filosofia classica tedesca proprio il movimento operaio tedesco?

Ma ben altro è il suo processo formativo secondo Gramsci, per il quale la filosofia della prassi è nata
«da tutto un passato culturale i cui termini più noti e salienti sono la Rinascenza e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l’economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita».

E due erano i compiti che egli poneva a questa filosofia; quello di combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti e l’altro quello di educare le masse popolari la cui cultura era medioevale.

Questa visione della prassi come esigenza di cultura e come riforma popolare moderna in Gramsci si amplifica e si definisce. Col metodo dato dall’intuizione ricardiana del «posto che», della premessa che da una certa conseguenza si pongono i termini d’una nuova gnoseologia. Il concetto di «necessità storica» è strettamente connesso a quello di «razionalità»; ed esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia divenuta operosa, ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva.

E chiarisce ulteriormente:
«Nella premessa devono essere contenute, già sviluppate o in via di sviluppo, le condizioni materiali necessarie e sufficienti per la realizzazione dell’impulso di volontà collettiva; ma è chiaro che da questa premessa «materiale», calcolabile quantitativamente, non può essere disgiunto (siamo noi a sottolineare) un certo livello di cultura, un complesso cioè di atti intellettuali, e da questi un certo complesso di passioni e sentimenti imperiosi, cioè che abbiano la forza di indurre all’azione «a tutti i costi».»

Quel «disgiunto» non è stato messo li a caso, ché troppo grande era in Gramsci il senso e il valore da attribuire all’uso dei vocaboli, ed esprime con chiarezza il fondo del pensiero gramsciano più di qualsiasi dissertazione. Il concepire perciò il complesso di atti individuali e di passioni e sentimenti non disgiunto dalla premessa materiale è, sì, concepire immanentisticamente, ma in nessun caso è porre una istanza dialettica e tanto meno deterministica.

In tal modo il senso della storia non è dato da quel procedere dal basso, dalla struttura, dal mondo delle cose e della tecnica e dagli interessi legati a questo mondo, e infine dai rapporti di classe che ne caratterizzano la vita sociale, politica e culturale; ma ciò che nella storia è realmente vivo, ciò che conta anche se riferito al materiale e al quantitativo, per giungere ad una concezione storicistica del razionale, deve provenire da quel complesso e fluido mondo della cultura, degli stimoli intellettuali, dei sentimenti e passioni a cui attinge la volontà, che in definitiva è solo atta ad indurre all’azione «a tutti i costi». Nella quale concezione è del resto assai palese l’influenza, esercitata su Gramsci, di quella nuova metafisica sorta dal pensiero filosofico francese degli ultimi decenni dell’ottocento.

Nell’opera di Gramsci le classi, queste tragiche protagoniste della storia, i loro interessi economici, il complesso dei loro rapporti sociali, la dinamica del loro procedere e del loro regredire non appaiono che in ombra, mentre la nota della individualità, della conoscenza e volontà individuale vi è dominante.

Anche quando esamina l’uomo in rapporto con gli altri uomini questa nota della individualità non si attenua, ma vi trova motivo di potenziamento.

L’uomo è concepito come una serie di rapporti; e questi sono concepiti attivi e coscienti, corrispondenti cioè ad un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo.
«Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento». (Siamo noi a sottolineare).

Più oltre e più chiaramente:
«Ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti, ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco in rapporto alle loro forze. Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e se questo è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ecc.».
Momento «catartico», cioè passaggio dalla necessità alla libertà visto e sentito non in funzione della socialità e della classe, ma in funzione sempre del singolo.

Ecco invece cosa ne pensano i marxisti.

Non vi è dubbio alcuno che la società è formata di individui, e che ogni fenomeno sociale è la risultante di volontà, di atti, di sensazioni e di sentimenti individuali. Ogni fenomeno sociale è cioè la risultante di fenomeni individuali.

Ad esempio, nella determinazione del prezzo delle merci sul mercato, noi ci troviamo di fronte ad un fenomeno sociale che risulta dall’incontro di volontà particolari, quelle del venditore e quelle del compratore. Ma questo è un fenomeno sociale che non esprime più nel suo generalizzarsi il desiderio o lo stimolo relativo a questo o quel venditore, a questo o quel compratore. Allo stesso modo avvengono tutti i fenomeni sociali che Marx ritiene indipendenti dalla coscienza, dal sentimento e dalla volontà degli uomini; e non c’è centro di annodamento che possa limitare o annullare questa indipendenza!

Al contrario sentite come Gramsci idealizza la sua concezione del singolo:
«Bisogna elaborare una dottrina (la postulazione è giustissima in quanto quella di Marx è un’altra e ben diversa dottrina!) in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, ammira, crea ecc., e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose di cui non può non avere una certa conoscenza».

Non si poteva segnare con più evidenza il limite estremo di questo pensiero nella sua caratterizzazione dal marxismo. Rifacciamoci ora alla nota formulazione di Marx nel «Contributo alla Critica dell’Economia Politica».
«Nella loro vita sociale, gli uomini entrano in rapporti determinati, indipendenti dalla loro volontà; in rapporti di produzione che corrispondono a un grado determinato dell’evoluzione delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, la base reale sulla quale si eleva una superstruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale determina il processo della vita sociale, politica e spirituale in generale. Non è la coscienza degli uomini che determina il modo d’essere, è, al contrario, il modo di essere sociale che determina la loro coscienza».

A questa formulazione estremamente precisa di Marx, divenuta motivo conduttore della vera filosofia della prassi, Gramsci arzigogola questa nota di commento:
«La proposizione contenuta nell’introduzione alla ‹Critica della Economia Politica› che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno della ideologia deve essere considerata come una affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale».
Così il pensiero di Marx evirato del motivo profondo ed essenziale che è il prius deterministico rappresentato dalla struttura, viene ricacciato nella paccottiglia della filosofia immanentistica tradizionale.

Una volta eliminata l’idea madre della determinazione non restava a Gramsci che rifarsi alla reciprocità dei fattori della storia. Sentitelo:
«La struttura e la superstruttura formano un ‹blocco storico›; cioè l’insieme complesso contraddittorio e discorde della soprastruttura è il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione». Ed esemplifica: «Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100 % per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100 % le premesse per il rovesciamento, cioè che il ‹razionale›, è reale attuosamente e attualmente. (Sia benedetta la memoria di Hegel). Il ragionamento si basa sulla reciprocità necessaria tra struttura e superstruttura (reciprocità che è appunto il processo dialettico reale)».

Questa idea del «blocco storico» assume per Gramsci quasi l’importanza d’una scoperta filosofica, tanto che ci ritorna su (pag. 49) per precisare che le forze materiali sono il «contenuto» e le ideologie la «forma». E che ciò possa aver valore di scoperta e suggestione di novità, noi, davvero, non diremmo…

Troppo spesso, troppo appassionatamente anche se non sempre giustamente Gramsci si fa scudo del sano realismo di Lenin.

Contro l’idea del «blocco storico» che logicamente consegue a quella della coscienza del singolo come sede dei rapporti sociali riportiamo le sferzate che attraverso Bogdanov Lenin dava agli immanentisti, agli empiriocriticisti e agli empiriomonisti:
«Noi respingiamo, scriveva, di primo acchito tutte le premesse filosofiche comuni a questa trinità ».

E confutando l’assunto idealistico per il quale «l’esistenza è la coscienza» esemplifica:
«Il contadino che vende il suo grano, venderà in ‹rapporto› con i produttori mondiali del grano sul mercato mondiale, ma senza averne coscienza; senza aver coscienza dei rapporti che si stabiliscono in seguito a questi scambi. La coscienza sociale riflette l’esistenza sociale, questo è il pensiero di Marx». (Lenin «Materialismo e empiriocriticismo»).

Il pensiero di Gramsci ci dà invece l’uomo economico che è nel contempo uomo etico; e in quanto conosce e crede e opera è anche uomo storia; come nel vasto processo di variabilità dei rapporti sociali egli torna a darci l’idea ossessiva dell’individuo, sempre dell’individuo quale loro centro di annodamento. Croce parla di nesso dei distinti in forma di circolarità, ma il senso ne è identico.

Ma chi sono oltre l’individuo?

Le stesse «societas hominum» e «societas rerum» sono termini astratti nell’epoca della massima e a volta terribile affermazione del collettivo.

Oggi si pensa in termini di socialità e di classe.
«Il fatto che vivete, che avete un’attività economica, che procreate, che fabbricate prodotti, che li scambiate, determina una concatenazione oggettiva necessaria di avvenimenti, di sviluppi, concatenazione indipendente dalla vostra coscienza sociale che non può mai abbracciarla nella sua totalità. Il fine più nobile dell’umanità è quello di abbracciare questa logica oggettiva del processo economico nei suoi tratti generali e principali, onde adattarvi il più chiaramente e il più nettamente possibile, col più grande spirito critico, la sua coscienza sociale e la coscienza delle classi avanzate di tutti i paesi capitalistici.» (Lenin, opera citata).

Vi è dunque una coscienza sociale che deve tradursi in volontà di realizzazione sociale; vi deve essere cioè un ritorno realizzatore della volontà sul complesso della struttura che l’ha suscitata.

La coscienza del divenire storico della classe è determinata, è vero, da quel particolare modo di essere delle condizioni materiali che ne costituiscono le premesse; ma se questa coscienza di classe non si traduce in una volontà di realizzazioni di classe il momento dialettico della eversione non si opera, viene ancora rimandato nella storia.

Non si può affermare, ad esempio, che manchino oggi le premesse all’atto rivoluzionario; va soltanto constatato che il proletariato si mostra incapace a tradurre la coscienza più o meno completa del suo essere di classe in volontà di realizzazione rivoluzionaria. Ed è questa la ragione prima della crisi del nostro tempo.

Manca in una parola al pensiero di Gramsci la vibrazione della dialettica rivoluzionaria, il senso profondo dello «sdoppiamento di ciò che è uno e la conoscenza delle sue parti contraddittorie» (Lenin). Soprattutto gli manca il senso drammatico dell’urto, dell’incrollabile lacerazione, del superamento ch'è nelle filosofia della prassi, quanto è nella società umana divisa in classi e quindi nella storia.

E aggiungiamo con Lenin che
«non si può togliere nessuna premessa fondamentale a questa filosofia del marxismo fusa in acciaio, tutta d’un pezzo, senza allontanarsi dalla verità oggettiva, senza cadere nella reazionaria menzogna borghese… O il materialismo conseguente fino in fondo o la finzione e la confusione dell’idealismo filosofico.» (Lenin, opera citata).

L’aspra invettiva di Lenin è rivolta a tutti coloro che, come Gramsci, al posto di materializzare il dominio dei fenomeni sociali hanno inteso metafisicizzare le condizioni materiali da cui quei fenomeni si producono.

Il dissenso tra gramscismo e marxismo, come si vede, è fondamentale; e i motivi in sede dottrinaria vanno ricercati nella posizione di contrasto tra il neo idealismo storicistico e il materialismo dialettico che per noi esprime il contrasto insanabile tra le due classi fondamentali della storia che andiamo vivendo.

Notes:
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  1. Ed. Einaudi, Torino 1948. [⤒]


Source: «Prometeo», № 13 – agosto 1949

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