IL PROBLEMA EDILIZIO IN ITALIA
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Come ogni regime all'avvicinarsi ed allo scoppio della guerra, l'onnipotente, il superstatale fascismo italiano prese a maneggiare tutte le leve del suo potere per arrestare la salita dei prezzi generali ed il corrispondente rinvilire del denaro. Non qui ci interessa il problema che l'aumento generale dei prezzi e l'inflazione monetaria corrispondono all'interesse della classe imprenditrice, del suo Stato e del suo governo, e che solo ragioni di politica sociale conservatrice e di demagogia ispirano l'armamentario legislativo di imperio per la frenata dell'aumento.
Le leggi sul blocco dei prezzi lanciate nel 1940 riflettevano tutto: prodotti della terra e dell'industria, salari, stipendi e remunerazioni, contratti che lo Stato aveva in corso per opere e forniture con le più diverse intraprese.
Tra le più interessanti furono le misure dirette al blocco dei fitti degli immobili, sia rurali che urbani. Il primo rapporto è meno semplice: il locatario della terra coltivabile non loca soltanto una sede su cui acquista il diritto di soggiornare e trattenersi, come avverrebbe se si trattasse di un jardin de délices, ma un vero strumento di produzione a cui applica il lavoro proprio o di propri dipendenti salariati, per trarne frutti e prodotti realizzabili in denaro sul mercato. In altro punto abbiamo accennato alla balorda confusione tra la portata sociale e politica della lotta per comprimere il fitto agrario, e in apparenza il ferocissimo «reddito padronale terriero», a seconda che il beneficiario del minorato canone pagato è un lavoratore parcellare, uno sporco colono grasso borghese, o addirittura un capitalista intraprenditore di industria agricola, che scortica braccianti e talvolta sottoaffittuari lavoratori.
Il caso dell'immobile urbano, e per essere più esatti della casa di abitazione cittadina, per la sua semplicità, si presta in modo cristallino alla riprova di tesi fondamentali della economia marxista.
Esso costituisce il solo caso in cui il blocco è riuscito effettivo ed ha registrato un successo. Prima di domandarci se tale successo corrispose agli interessi della classe lavoratrice, come appare a primo lume di naso e come fa comodo dire agli agitprop da dozzina, rileveremo come esso dimostri, per la relativa limitatezza del settore, insieme alla giustezza dei concetti marxisti, la inconsistenza e la pochezza delle capacità controllatrici e pianificatrici in campo economico dello Stato moderno, anche dove esso si mostri politicamente e poliziescamente solidissimo.
Mentre in tutti i campi del lavoro agrario e industriale ciò che importa non è tanto, come in queste note andiamo mostrando, la pomposa intestazione proprietaria di luoghi e di impianti, quanto la padronanza ed il possesso dei prodotti, la casa locata non produce nulla di mobile portabile o vendibile, ma solo offre il comodo, il servigio, l'uso di essa come ricovero e soggiorno.
Lo Stato può imporre, e già in questo ha fatto un passo che è una sconfitta «teorica» della economia capitalistica, che un prodotto, per fissare l'idea un cappello, non sia venduto a più di cento lire. Ma per la stessa natura storica e sociale lo Stato attuale non può imporre di vendere a cento lire uno, due, mille cappelli, se il produttore e possessore non li porta al mercato di sua volontà. Lo Stato, si dice, può censire e requisire tutti i cappelli dovunque si trovano. In pratica sorge la difficoltà di scovare i cappelli e se si vogliono portare via pagarli tutti, sia pure a cento lire. Ecco perché il fatto economico noto a tutti è che, appena bloccato, calmierato e fissato di imperio il prezzo dei cappelli, questi spariscono dalla circolazione e vengono accaparrati per non venderli se non di nascosto, a prezzo maggiorato ancora di una quota a copertura, per il venditore, del rischio di ammende e prigione.
Il compratore subisce dunque il mercato non legale o nero, a meno di non andare senza cappello. Molte teste oggi vanno senza cappello, e molte vanno in giro vuote, specie quelle dei competenti di economia politica; ma sono gli stomaci a non potere andare in giro vuoti perché le gambe fanno cilecca: ecco perché nulla poté impedire la salita dei prezzi, oltre che dei cappelli, di tutti gli alimenti e generi di prima necessità.
Ora, la casa viene dal locatore al locatario fornita non pietra per pietra ma tutta intera appena il contratto ha corso: lo stesso padrone non vi può mettere piede senza permesso dell'inquilino. Mentre su ogni altro settore di mercato è arbitro del prezzo chi vende, poiché può sempre dire impassibile: ebbene, se non vi va il prezzo lasciatemi la merce, per le case è arbitro, dopo che è dentro, chi compra e paga. In via normale, se non paga i canoni successivi al primo o ai primi versati all'atto della stipula, o se paga meno, il padrone deve ricorrere ad una lunga e costosa procedura legale di sfratto, e raramente di recupero delle non pagate pigioni.
Nel caso generale è il compratore che deve cedere o correre a piagnucolare dallo Stato perché obblighi a vendere; in quello della abitazione è il venditore del servizio casa che non ha altra alternativa che chiamare lo Stato quando non lo pagano.
Lo Stato fece quindi la bella bravata: inquilini, opponetevi ad ogni richiesta di aumento di canone: pagate il vecchio affitto e non un soldo di più fino a guerra finita, e io mi guarderò bene dal dare i poliziotti per cacciarvi. Mentre il capitalismo industriale, commerciale e finanziario sfoderava tutti i suoi artigli di lupo e di tigre, il terribile Stato, democratico, popolare o nazionale che fosse, menò a buon mercato il vanto sociale e morale di aver tagliato le unghie alla timida gattina della proprietà urbana. Non arrivò a controllare né a discriminare un accidente, e bloccò tanto il canone che una povera famiglia di disoccupati versava ad un padrone di edifizi miliardario, quanto quello che per avventura un grande stabilimento industriale pagava per occupare la sola casetta che possedesse una famiglia di piccoli borghesi magri alla fame.
Come abbiamo ricordato, trionfava non il moderno indirizzo dirigista e pianificatore dei pubblici poteri per il generale interesse, ma il tradizionale articolo che compendia tutta la sapienza del giure borghese: «articolo quinto, chi tiene in mano ha vinto».
Questa misura, uscita senza sforzo dal cranio di Benito, è stata ereditata, difesa e sbandierata come facile elemento di successo, specie elettorale, da socialisti e comunisti, di oggi, mentre Stato capitalista da una parte e capi proletari dall'altra, da allora ad oggi, in una ugualmente comune indifferenza ed impotenza, hanno dovuto assistere alla salita vertiginosa di tutti i costi ed alla depressione progressiva del tenore di vita di chi lavora, in guerra e dopo guerra: sbilancio a cui il tantum economizzato sulla casa è lontanissimo dal turare le dolorose falle.
Quanto questa politica di compressione della pigione, o di abolizione di essa col trasformare in piccolo proprietario l'inquilino, sia radicalmente non socialista, lo abbiamo a fondo mostrato con il richiamo al classico scritto di Engels, che ha ridicolizzato - traendone magnifiche lezioni sulla economia marxista - l'analogia tra il rapporto di inquilino a padrone di casa e il rapporto di operaio a padrone di azienda. Il lavoratore scambia la sua forza di lavoro con denaro; l'inquilino il suo denaro con la casa, a rate di uso di essa. Egli dunque non è un produttore sfruttato ma un consumatore: anzi un consumatore privilegiato perché tiene in pugno l'oggetto di consumo, mentre di norma lo tiene in pugno il venditore.
Comunque l'agitatore da tre soldi dice: nel caso del lavoratore, gli abbiamo evitato (Benito ed io) che al caro pane, al caro cappello e al caro scarpe si aggiunga il caro case, dunque è meno sfruttato.
Ma una breve analisi mostra che il peso sociale sulla classe lavoratrice, su cui tutto pesa e non può non pesare, non è diminuito per gli effetti della scema, sbilenca e trappolaria legislazione italiana sui fitti, siglata dai guardasigilli Grandi, Togliatti o Grassi.
Tagliata la rendita padronale, si è tagliato in vivo su quella contribuzione a fini sociali che provvede a mantenere in ordine la dotazione edilizia, risultato del lavoro di generazioni. Questo danno è di volume superiore in Italia a quello dei bombardamenti di guerra. In Italia il patrimonio edilizio specie di abitazione è di età media altissima e altissima è la quota di manutenzione: omettendola si accelera il degrado. Questo dovrebbe essere equilibrato da intensificate nuove costruzioni, che in ambiente capitalistico si arrestano del tutto perché il basso fitto impedisce di remunerare il capitale investito, e prima ancora per effetto generale della crisi economica di guerra.
Quindi la dotazione di abitazioni a disposizione della popolazione italiana non solo è diminuita in cifre assolute, mentre dovrebbe aumentare per ragioni demografiche e di disaffollamento e bonifica, ma il ritmo della diminuzione è stato aggravato dalla politica di blocco.
Ciò vuol dire che, diminuendo le case e crescendo gli abitatori, è cresciuto paurosamente l'affollamento, che era già uno dei peggiori di Europa, ed è soprattutto cresciuto a danno delle classi povere, compresse nelle case antiche e malsane, che pagano meno casa, ma ne consumano anche di meno, e spesso ne mancano del tutto.
Essendosi poi creata una strana sperequazione tra case bloccate e case a fitto libero, avviene che le poche costruzioni che si fanno si possono locare a qualunque prezzo: coi dati di costo di oggi il capitale si astiene da tutte quelle che non possono dare più di un 2.000 lire a vano e al mese, a dir poco; poiché un reddito netto di 20.000 lire annue non remunera che al 5% un capitale di 400 000 lire, che non basta a costruire il vano. Va a finire che tutti i contributi delle leggi speciali vanno a vantaggio delle case per le classi ricche, e per i poveri non se ne fanno: l'apparenza che il proletariato paghi con una aliquota minore del suo reddito la massa di case che una volta occupava, cede il posto alla realtà che i lavoratori pagano in mille forme, tra caro prezzi e tasse, restando nelle topaie, le case costruite per i signori.
In Francia hanno notato che mentre tra il 1914 e il 1948 tutti gli indici economici sono cresciuti duecento volte, quello pigioni è cresciuto sette volte! La classe operaia paga ora per la casa il 4% del salario, e si propongono di riportarla al 12%, il che non toglie che il capitale edilizio renda solo un quinto del normale, e quindi per le nuove case operaie lo Stato ne debba pagare i quattro quinti. Ora al lavoratore conviene più pagare la casa altrui ad alto prezzo, che pagare a prezzo medio la casa costruita «a proprie spese»! Quella assurda diversità di adeguamento di indici economici riportati alla moneta è una balordata, una delle tante del regime capitalistico, un elemento di più per il peso che l'anarchia economica determina sulle spalle dei lavoratori, non mai una prova che anche in campo ristrettissimo lo Stato moderno voglia, possa, sappia fare opera di «giustizia» e anche soltanto di mitigazione delle distanze sociali.
La legislazione italiana di oggi offre un altro capolavoro. Non potrebbero fare in qualche città un festival annuo delle leggi degli Stati di tutto il mondo, come a Venezia per i film? Alludiamo alle leggi Fanfani, che forse battono perfino il materiale offerto dai decreti e leggi Gullo-Segni in materia di riforma agraria.
Le leggi Fanfani dichiarano di non aver di mira la ricostruzione edilizia né la soluzione generale del problema delle abitazioni in Italia, ma l'ovviare al problema della disoccupazione.
La trovata non è spregevole, poiché la vastità del problema delle case in Italia ridicolizza le cifre di stanziamento delle varie leggi Tupini, Aldisio e così via, mentre certo ogni costruzione in più impiega qualcuno a lavorare. Anche i liberatori che sganciavano dalle fortezze volanti potevano con la stessa logica dire: diamo un contributo alla occupazione operaia.
Vediamo tuttavia il nuovo armamentario in rapporto alla necessità edilizia. Prima ancora dei danni bellici in Italia, senza rinnovare le case troppo vecchie e malsane, senza disaffollare dall'indice di 1,4 persone per ogni stanza abitata, si calcolava che, per l'aumento di abitanti e per il naturale degrado delle case, si sarebbero dovute costruire ogni anno 400 000 stanze nuove. Oggi, con un minimo apporto per colmare il danno di guerra e l'arretrato di costruzioni, e sempre senza la pretesa di disaffollare e migliorare, quindi a benefizio scarso delle classi male alloggiate, si dovrebbe arrivare almeno a 6000 mila@@ stanze annue di abitazione. Costo: almeno 250 miliardi annui.
C'è un grosso problema che non è ancora entrato nella testa dei pianificatori centrali, dei loro osservatori e laboratori di sapienza economica e statistica. Non occorrono solo abitazioni, ma costruzioni di ogni tipo, perché anche per queste giocano invecchiamento, danno di guerra, arretrato di rinnovi. Ogni vano di abitazione ne comporta altri due mediamente per lavorarci, fare pratiche varie, commerciare, e divertirsi: ciò malgrado abbiano aperte le case chiuse.
L'economista pubblico anteguerra aveva già concluso che per le abitazioni lo Stato doveva intervenire a fondo perduto con un 20%, oggi sa concludere che deve intervenire almeno per il 60%. Ma per gli altri vani, che sarebbero dunque 1.200.000 annui, prima si supponeva che sorgessero per privato investimento al di fuori di pubblici aiuti: oggi così non è, salvo che in una minoranza di casi, e quindi nei bilanci pubblici andrebbero altre potenti cifre.
Restiamocene alle case. Contro i 250 miliardi che servono «per non rinculare» che cosa danno tutte le leggi speciali? Forse la decima parte, sulla carta.
La legge Fanfani mobilita 15 miliardi annui statali, e inoltre contributi sul volume dei salari che per due terzi pagano i padroni, per un terzo i lavoratori. Senza tediare con calcoli, sarebbero a pieno regime del piano forse altrettanto, e quindi 30 miliardi. Non bastano per centomila vani annui, una sesta parte del minimo necessario. Il problema trascende le possibilità del regime presente. In pratica resta poi da vedere quanta parte dei 30 miliardi, che in sostanza paga la classe lavoratrice, sia pure in senso lato, andranno a finire non in case, ma in lauti profitti di imprenditori, mediatori di ogni genere, e piloti di carrozzoni finanziari e costruttivi.
Ed allora vediamo pure le cifre dal lato del problema disoccupazione. Il capitalismo e i suoi agenti organizzatori sindacali hanno già detto al nullatenente disoccupato: Hai fame? Vuoi mangiare? Ebbene, investi.
Investi, a coro bene intonato gridano l'ECA e il Cominform allo Stato italiano e alla classe operaia italiana. Quando investe il povero, pappa il ricco.
Fanfani, uomo di genio, che non crediamo discenda da quello del dizionario, e non bada al senso letterale, ha un'altra formula: hai fame? Costruisciti la casa. La formula è così intelligente che conduce ad una ulteriore economia: la casa la faremo senza cucina.
Descriviamo la società Fanfani, la Città dell'Ombra, in cui tutti sono muratori. Un milione di abitanti di Fanfània, coll'indice italiano anteguerra, abbisognano di 650.000 stanze. Supponiamo che una casa duri 50 anni; è già un ritmo moderno, superato solo in America, a cui aspirano in Francia; noi abitiamo in case vecchie di secoli e secoli. Ma al ritmo di una casa su 50 all'anno ci troviamo bene col programma italiano di 600.000 vani annui contro i circa 29 milioni di stanze che ospitano 45 milioni di italiani.
Il milione di fanfànici costruisce dunque ogni anno 13.000 stanze. Quanti lavoratori occorrono? Se una stanza costa 340.000 lire e per manodopera la metà, ossia 170.000, possiamo calcolare 200 giornate lavorative medie, e l'impiego al massimo di un lavoratore annuo. Dunque del milione lavorano solo 13.000 persone. Le altre 987.000 non lavorano, ma stanno in casa. Mangiare non mangiano, e del resto nessuno mangia, in Fanfània.
Veniamo alla conclusione che i cantieri Fanfani, a pieno ritmo, ossia dopo il primo ciclo settennale, impiegheranno per fare 100.000 stanze annue 100.000 lavoratori. A sua difesa dalle mende americane Pella ha rilevato che il solo incremento demografico gettò sul mercato ogni anno 200.000 nuovi lavoratori. Il piano Fanfani, dunque, non spianta né la peste edilizia, né la peste sociale.
Il più bello è che, mentre si vanta che finalmente si avranno case che saranno in effetti occupate da operai, il calcolo conduce ad un affitto talmente forte che un operaio coi salari attuali non lo può pagare.
Quando poi si tocca l'apice della casa in proprietà all'operaio, a parte il labirinto delle disposizioni per prenotare, assegnare, smistare, ereditare, cambiare se si cambia lavoro e residenza, ecc. ecc., si vede che l'assegnatario dovrà, per 25 anni, pagare una rata enorme. Essa corrisponde al costo di costruzione, maggiorato delle spese generali della Gestione Fanfani-case, diminuito del valsente del contributo statale dell'1% annuo, che sarà distribuito in rate costanti, oltre a tasse, contributi e spese condominiali. Provvisoriamente si è annunziata una rata di 1.100 lire mensili, ma un computo che per brevità omettiamo conduce alla previsione sicura di almeno 1.500 lire mensili per stanza, e quindi per una casa operaia modestissima 5.000 o 6.000. Nei nostri computi sul salario netto di meno di mille lire, a giornate non tutte lavorative, anche col francese 12%, il lavoratore non dovrebbe e non potrebbe spendere per la casa più di tremila lire, a parte le categorie privilegiate e specializzate.
Ne seguirà che, poiché le case pronte saranno sempre poche, e molti i lavoratori contribuenti, l'operaio italiano pregherà al mattino: Dio di De Gasperi, fammi vincere alla Sisal, ma non ai sorteggi delle case Fanfani.
Se, come per il blocco, si tiene conto che l'onere statale è onere della classe attiva e non dei ricchi, ben si vedrà come il lavoratore, se il piano avrà effetto, avrà forse una casa sua, ma la avrà pagata il buon doppio del suo valore di mercato, in rinunzie, sacrifizi e tagli sulla sua remunerazione reale.
Questi i miracoli dell'intervento dello Stato nell'economia, che sono poi gli stessi con la formula mussoliniana, hitleriana, rooseveltiana, con quella laburista e quella «sovietista» di oggi.
Non solo fino a che lo Stato è nelle mani della classe capitalistica, ma fino a che nel mondo vi saranno Stati capitalistici potenti, la pianificazione economica è una chimera, una fanfania universale. Ovunque e da chiunque sia essa tentata, non riuscirà a governare i fatti dell'umana soddisfazione e benessere, ma costruirà piedistalli al privilegio, allo sfruttamento e al saccheggio, al «tormento di lavoro» cui sottopone le popolazioni.
Source: «Prometeo», serie II, n. 1 del 1950