Una delle conseguenze della guerra del Golfo è stato il riemergere in tutta la sua drammacità della «questione curda». La lotta delle tribù curde per il mantenimento della indipendenza risale al secolo scorso quando si opposero, non senza alcuni successi, ai tentativi di sottometterle messi in atto dall’Impero Ottomano. Ma è a seguito quegli accordi tra gli Stati imperialisti usciti vincitori dalla I guerra mondiale per spartirsi la regione mediorientale che essa ha assunto i tragici aspetti che tutt’ora presenta. Con quegli accordi si diedero al Medio Oriente confini assurdi con lo scopo di favorire gli interessi dei vincitori; di impedire ogni possibilità di riuscita per la rivoluzione nazionalista turca ed araba; di formare un valido contrafforte contro le minacce di espansione della rivoluzione bolscevica. Il territorio curdo fu diviso tra quattro Stati e furono poste le premesse dello sterminio di quel popolo.
Nei decenni seguenti le consistenti minoranze curde presenti all’interno di Stati a diverso livello di sviluppo, con economia, lingua, religione, cultura diverse, hanno risposto ai tentativi di assimilazione forzata con la ribellione, e con la lotta armata per l’indipendenza. A questi tentativi tutti gli Stati hanno opposto la repressione più feroce.
D’altronde se i guerriglieri curdi sono riusciti ad ottenere anche dei successi sul piano militare, la loro estrema arretratezza economica e politica ha impedito il formarsi di un partito nazional-rivoluzionario capace di dare direttive precise ed univoche, di diventare un vero punto di riferimento per tutto il popolo curdo, ovunque vivesse. La presenza inoltre in territorio curdo di grandi riserve petrolifere ed altre materie prime ha sempre tenuto desta l’attenzione degli Stati imperialisti e delle potenze regionali che più volte si sono alleate per togliere di mezzo il fastidioso incomodo. Irrisolvibile sul piano militare, data la consistenza numerica e la tenacia combattiva del popolo curdo, la questione è irrisolvibile anche sul piano politico come hanno dimostrato i continui tentativi di accordo, raggiunti a decine negli ultimi anni e sempre falliti. Non crediamo servirà ad aprire nuovi spiragli neppure la disponibilità dimostrata da alcuni dei partiti curdi più rappresentativi, che si dicono disposti al rispetto delle attuali frontiere e a rinunciare all’indipendenza per accontentarsi di una qualche forma di autonomia all’interno dei vari Stati; non sono tempi di facili e pacifiche convivenze.
Il regime imperialista, negli ultimi anni ha dato avvio alla sua soluzione: massacri, spostamenti forzati di decine di migliaia di uomini, dure repressioni di ogni velleità di resistenza, emigrazione «volontaria» verso l’occidente industrializzato.
L’alternativa alla soluzione imperialista non sta nella ricerca dell’impossibile indipendenza nel quadro di questo regime, come si propone le formazioni politiche più estreme, ma nello spezzare il sistema sociale che ha originato e che continua ad originare le tremende contraddizioni che costringono la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta a condurre una vita miserabile, ad essere spazzata via dalla fame, dalle malattie, dalle guerre. Il proletariato d’occidente e i proletari dei paesi a più giovane capitalismo del Medio Oriente, dovranno ritrovare la strada della loro emancipazione, della lotta rivoluzionaria di classe. Su quella strada troveranno nella guerra delle plebi curde un alleato da scagliare per la distruzione dagli Stati borghesi della regione. Fuori da questa prospettiva non c’è speranza per quella fiera ma sfortunata popolazione.
Il Kurdistan, o Paese dei curdi, copre un vasto territorio montagnoso che si estende per circa 475 000 chilometri quadrati dalla catena dell’Anti-Tauro ad ovest fino all’altopiano iranico ad est, dal monte Ararat a nord, alla pianura della Mesopotamia a sud. Il Kurdistan non è uno Stato, è un territorio che si estende ai margini di quattro mondi etnici politici e culturali diversi e da sempre antagonisti: l’arabo, il persiano, il turco, il russo. Il suo territorio è diviso tra quattro Stati: Turchia, Irak, Iran e Siria. Il Kurdistan settentrionale comprende 18 delle 67 province (vilayet) turche ufficialmente questo territorio viene chiamato «Anatolia Orientale»; Il Kurdistan orientale si estende su 4 delle 24 province (ostan) iraniane; ufficialmente solo una di queste province è riconosciuta come curda; Il Kurdistan meridionale comprende 4 delle 18 province (muhafadha) irachene; 3 di queste formano la regione autonoma curda costituita nel 1974 e chiamata anche «Regione del Nord». Non è invece riconosciuta come curda la provincia di Kirkuk. Il Kurdistan sud-occidentale congloba anche la regione curda della Siria settentrionale.
Il territorio del Kurdistan è ricchissimo di acque; a settentrione sgorgano le sorgenti dei due fiumi Tigri ed Eufrate. Il lago di Van, a 1720 metri s.l.m., è il maggiore della Turchia e si estende per 3764 Kmq; in Tran il lago di Urmia (Rezaiyeh in persiano) delimita in parte il Kurdistan iraniano: si trova a un’altitudine di 1250 m.; ha salinità altissima e non permette la vita ai pesci. Il problema dell’acqua è vitale per tutti i paesi della regione che hanno costruito dighe soprattutto sul Tigri ed Eufrate. Il territorio del Kurdistan costituito da alte montagne solcate da valli e fertili pianure, ha un’altitudine media superiore ai 1000 m.s.l.m.
Quantificare in modo preciso la popolazione dei curdi è impossibile, data la mancanza di censimenti attendibili. Le statistiche ufficiali spesso non comprendono come curdi le tribù nomadi e seminomadi e assimilano la popolazione curda sedentaria – urbana e rurale – alla etnia dominante; le cifre avanzate dalle autorità ufficiali degli Stati in cui vivono i curdi sono molto al di sotto della realtà, quelle fornite dai movimenti nazionalisti tendono invece a gonfiare le stime, la tabella che riporta dati risalenti alla seconda metà degli anni ottanta, descrive una situazione certamente già mutata o in rapido cambiamento a causa delle migrazioni determinate dalle guerre, dalle repressioni, dalla crisi economica. Essa costituisce un dato di partenza a cui ci possiamo riferire:
Stato | Popolazione totale (migliaia) |
Popolazione curda (migliaia) |
Incidenza % della popolazione |
---|---|---|---|
Turchia (1985) * | 50 664 | 12 058 | 23,8 |
Iran (1986) * | 49 857 | 5982 | 12 |
Iraq (1987) * | 16 278 | 4069 | 25 |
Siria (1986) * | 10 612 | 1061 | 10 |
Urss | – | 500 | – |
Altri | – | 1000 | – |
Totale | 127 411 | 24 670 | – |
Fonte: «The Middle East and North Africa 1989», London, Europa Pubblications, 1988. |
Il numero dei curdi è dunque superiore alla popolazione di ogni singolo Stato arabo, escluso l’Egitto, ma è minoritario in ciascuno degli Stati in cui è inglobato.
Negli ultimi decenni è stato sconvolto da mutamenti demografici senza precedenti soprattutto a causa della politica economica e sociale dei governi centrali, sopratutto in Turchia e Tiraq che hanno sistematicamente attuato la deportazione in massa dei curdi per stroncarne i tentativi di rivolta e per assimilarli. A questi vanno aggiunti i rifugiati, costretti a vivere accampati in tende di fortuna che già prima del recente e tragico esodo postbellico erano numerosissimi: l’Iran accoglieva già 400 mila curdi iracheni, giunti in tre distinti flussi migratori: nel 1975 dopo la sconfitta di Barzani, nel 1980 all’inizio del conflitto Iran-Iraq, nel 1988 dopo l’uso massiccio di armi chimiche da parte di Baghdad. L’Iraq ospita circa 200 mila curdi iraniani. La Turchia nell’agosto-settembre 1988 ha aperto la frontiera a 100–120 mila curdi iracheni. In Siria vive qualche migliaio di profughi provenienti dalla Turchia. Secondo il leader curdo iraniano Ghassemlou, nel 1965 i curdi costituivano ancora l’85 % della popolazione del Kurdistan, ma da allora questa percentuale è sicuramente diminuita anche a causa dell’intensificarsi del processo di emigrazione a causa dello stato di arretratezza economica in cui quelle regioni sono mantenute: la Germania ospita circa 300 000 curdi, la Francia 50/60 mila, la Svezia 12 mila, la Gran Bretagna 15 mila, ecc.
Nonostante la ricchezza delle risorse naturali il Kurdistan è un paese povero: praticamente non vi esistono industrie se non quelle direttamente legate alle attività estrattive del petrolio o di altri minerali; l’agricoltura è ancora condotta con metodi primitivi e potrebbe essere definita «di sopravvivenza»; l’allevamento, soprattutto di ovini, è ancora l’occupazione nazionale della popolazione e fornisce i prodotti base dell’alimentazione, ma è stato duramente colpito dalla divisione del Kurdistan avvenuta dopo la I guerra mondiale che ha distrutto l’unità economica esistente durante l’Impero ottomano. La delimitazione delle frontiere nel 1925 ha impedito la tradizionale transumanza effettuata dalle tribù tra Turchia e Irak. Adesso l’area principale per l’allevamento si trova al confine turco-iraniano, dove vi sono i pascoli migliori e le popolazioni sono meno soggette ai controlli e alle pressioni dei governi centrali.
Le ricchezze minerarie sono consistenti: nel Kurdistan turco sono presenti fosfati, lignite, rame, ferro, cromo (uno dei giacimenti più rilevanti del globo), petrolio. Nel Kurdistan meridionale viene prodotto il 75 % del greggio iracheno. Nella regione di Kermanshah in Iran, viene estratto petrolio, così come anche nel Kurdistan siriano. Queste risorse naturalmente non vanno a vantaggio dei curdi, ma vengono incamerate dagli Stati in cui quei territori sono inglobati.
Sulle origini del popolo curdo vi sono diverse ipotesi: una tesi sostiene la loro origine iranica, indoeuropea ed il loro spostamento nel VII secolo a.C. dalla regione del lago di Urmia verso occidente nell’area del Bohtan. L’altra sostiene il carattere autoctono dei curdi, imparentati con altri popoli asiatici come caldei, georgiani, armeni, di cui parlavano la lingua che fu più tardi sostituita da un idioma iranico. Non essendo dimostrata la loro parentela con genti omonime citate da testi antichi (dai Karda delle iscrizioni sumeriche ai Carduchi di Senofonte nell’Anabasi), è necessario arrivare al VII secolo d. C. per avere notizie storiche sui curdi, ai tempi cioè in cui le tribù dell’altopiano iranico, attratte nell’orbita musulmana e rapidamente islamizzate, aderirono alla confessione sunnita (tuttora professata dalla maggioranza della popolazione).
L’Islam non assimilò completamente il particolarismo e piccoli reami curdi indipendenti si staccarono all’autorità troppo «araba» dei califfi. Molte tribù si sedentarizzarono.
I curdi, la cui struttura tribale era ancora molto forte, si dimostrarono guerrieri coraggiosi e amministratori abili, nonostante ciò non gettarono le basi per la fondazione di uno Stato curdo; l’Islam assorbiva le nazionalità, l’elemento sovranazionale ritardava la presa di coscienza nazionalista. Sotto gli Abbasidi e soprattutto sotto i Selgiuchidi i curdi formarono una sorta di aristocrazia militare che ebbe il suo più illustre rappresentante in Ṣalāḥ al-Dīn, il Saladino (m. 1193), fondatore della dinastia curda degli Ayyubidi che regnò sull’Egitto nei secoli XII e XIII.
Dopo la dominazione mongola dei secoli XIII e XIV, cui furono tra gli ultimi a soccombere, durante i secoli XV e XVI il loro territorio divenne il campo di battaglia delle lotte tra Impero ottomano e Impero persiano.
Dopo la vittoria di Cialdiran (1514) da parte degli Ottomani guidati dal Sultano Selim I contro le forze persiane, la maggioranza dei capi curdi si schierò dalla parte degli Ottomani a cui erano legati dalla comune fede religiosa. Gli Ottomani utilizzarono i curdi per la difesa dei loro confini orientali; alcune importanti tribù curde furono fatte emigrare in aree armene con promesse di feudi militari, dignità e cariche amministrative; furono istituiti cinque Principati curdi indipendenti in cui capi, discendenti dalle antiche dinastie, battevano moneta. Il Kurdistan venne così suddividendosi in una miriade di Principati o piccoli Feudi, governati autocraticamente da dinastie ereditarie con proprie armate regolari, anche di forza e dimensioni considerevoli. I capi curdi godevano di una quasi completa autonomia; dovevano pagare un tributo al Sultano e fornirgli soldati in caso di bisogno ma, a causa della lontananza dalla capitale e delle difficoltà di comunicazione, molti capi si astenevano da questi obblighi o li onoravano solo saltuariamente. Fu questa l’epoca d’oro del Kurdistan. Nel corso del XVII secolo il Sultano cercò di esautorare i Principi curdi per sostituirli con governatori nominati dal governo centrali ma il progetto falli per l’indebolimento causato dall’Impero dalle molteplici guerre in Europa e contro la Persia. Il trattato di pace del 1639 tra i due Imperi consacra la spartizione del Kurdistan in due grandi zone d’influenza.
Dal XVI al XIX secolo l’autorità degli Imperi ottomano e persiano rimase nominale, molti Principati rimasero autonomi all’interno dei loro piccoli territori e l’intera regione divenne una specie di terra di nessuno, tribale, remota ed impenetrabile, uno Stato cuscinetto montagnoso; ma l’isolamento che «proteggeva» i curdi dagli altri popoli, insieme alla rivalità tra i signori feudali ed all’arretratezza economica, impedirono che si facessero dei passi avanti verso l’unità politica. Malgrado la successiva politica centralizzatrice intrapresa dai governi ottomano e persiano, la maggior parte dei Principati sopravvisse fino alla metà del XIX secolo.
Nel corso del XIX secolo non mancò un’opposizione al governo ottomano che nell’ambito di un vasto piano di riforme economiche e sociali tese alla modernizzazione dell’Impero in senso borghese, tentava di limitare l’autorità dei capi curdi, inasprire l’esazione fiscale, imporre la coscrizione obbligatoria. Queste rivolte erano però capeggiate dai capi feudali e religiosi e tendevano a mantenere lo status quo, muovendosi quindi in senso conservatore più che in direzione di un nascente nazionalismo. Interessante una descrizione della situazione del Kurdistan da parte del Helmuth vоn Moltke, consigliere militare presso le forze armate ottomane e futuro generale riformatore dell’esercito prussiano: «L’Impero ottomano abbraccia grandi territori dove la Porta non esercita alcuna autorità di fatto, ed è certo che il Sultano ha molte conquiste a fare nella periferia dei suoi propri Stati. Di questo numero è il paese montuoso tra la frontiera persiana e il Tigri (…) Non è mai riuscito alla Porta di atterrare in questi monti la potestà ereditaria delle famiglie. I Principi curdi hanno un gran potere sui loro sudditi; guerreggiano fra loro, sfidano l’autorità della Porta, negano le imposte, non permettono la leva e cercano un ultimo rifugio nelle rocche che hanno innalzato sulle alte vette». Nel corso del XIX secolo si contarono una cinquantina di rivolte nel Kurdistan ottomano, tutte represse nel sangue anche con l’aiuto della Francia e della Gran Bretagna, la cui penetrazione economica nell’Impero era già notevole. Alla fine del secolo tutti i Principati curdi indipendenti erano scomparsi.
La rivoluzione dei Giovani Turchi. Nel corso del XIX secolo, nonostante i tentativi riformatori, l’Impero ottomano andava sfaldandosi sotto i colpi delle sue contraddizioni interne e l’opera delle grandi potenze ansiose di spartirsi le spoglie del «Grande malato». Nel 1908, un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito, più esposti alle influenze dell’Europa avanzata, diede origine ad una rivoluzione nazionalista che mise fine al regime reazionario del sultano Abdulhamid.
Questa rivoluzione sollevò naturalmente, assieme alla coscienza nazionale dei Turchi, anche l’entusiasmo di tutte le nazionalità soggette e, nonostante che alcune tribù curde si schierassero dalla parte del Sultano, la parte più avanzata della società curda soprattutto l’intellettualità formatasi ad Istambul o nell’Europa occidentale, iniziò a porre il problema della identità e della indipendenza nazionale. Il clima di relativa tolleranza seguito alla rivoluzione portò al formarsi, a Costantinopoli, di associazioni politiche, sociali e culturali sotto la guida di personalità curde, ma lo scoppio della prima guerra mondiale e l’adesione della Turchia al fianco delle potenze centrali, determinarono l’immediata messa al bando di ogni attività nazionalista antiturca e la ripresa delle persecuzioni.
Alla fine del secolo la lotta tra le maggiori potenze imperialistiche per la spartizione del mondo era ormai in pieno svolgimento; la lotta per il petrolio mediorientale mostrava già la contrapposizione di interessi tra Inghilterra, Francia e Germania; il fatto che una delle zone più ricche di petrolio, il vilaiet di Mossul, fosse in territorio curdo determinò il destino di questo popoìo divenuto improvvisamente un inutile fardello per i disegni egemonici delle superpotenze; lo spazio rimasto per il movimento nazionalista, già oggettivamente debole per le condizioni socio-economiche del paese, era ben poco.
Durante la guerra l’Inghilterra cercò di sollevare le popolazioni curde, così come fece con quelle arabe, contro l’Impero turco con la promessa dell’indipendenza. Alla fine della guerra, con la sconfitta degli Imperi centrali e della Turchia, le speranze dei curdi ripresero vigore; dopo la firma dell’armistizio di Modros l’Emin Ali Bedirxan e il senatore Abdülkadir crearono un’associazione per il risorgimento curdo e nacque un Partito nazionale. Le potenze imperialiste, alla fine della guerra, per contrastare l’influenza della rivoluzione bolscevica, sostennero in linea teorica il diritto all’indipendenza dei popoli oppressi dall’ex Impero turco: l’art. 12 dei famosi «14 Punti» di Wilson (1918), afferma che «Le nazionalità che vivono attualmente sotto l’Impero turco devono godere una sicurezza certa di esistenza e di potersi sviluppare senza ostacoli; l’autonomia deve essere loro concessa». Nei fatti si trattò di una divisione delle sue spoglie tra Francia ed Inghilterra; infatti la Germania era stata sconfitta e non aveva voce in capitolo, la Russia era in piena guerra civile, l’Italia era considerata un alleato trascurabile e gli Stati Uniti non arrivavano ancora ad intromettersi nella regione. Gli accordi Sykes-Picot, con qualche modifica, servirono di base per la spartizione: Parigi accettò per esempio di lasciare Mossul agli Inglesi contro la parte tedesca nella Turkish Petroleum Co. e la zona internazionale è abbandonata. Per ingannare il proletariato internazionale e lisciare Wilson si inventò il quadro giuridico del «mandato», vero capolavoro d’inganno per mascherare le mire colonialiste ed imperialiste sotto un discorso civilizzatore.
Il compromesso franco-inglese del settembre 1919 suggella la morte dello Stato arabo unito e gli accordi di Sanremo (aprile 1920) lo sotterrano. Alla Francia va la Siria, all’Inghilterra la Palestina e la Mesopotamia. Nel settembre del 1920 la Francia, in base alle esigenze dei suoi alleati maroniti, crea il grande Libano a danno della Siria il cui effimero re, Faysal, è costretto all’esilio. La stessa Siria viene divisa e viene creato uno statuto speciale per il sandjak di Alessandretta, che poi nel 1939 verrà attribuito alla Turchia. In Irak l’Inghilterra, dopo aver dovuto fare fronte ad una grande rivolta nel 1920, decide di recuperare Faysal e di imporlo come re dell’Irak nell’agosto del 1921.
Per quanto riguarda lo Stato curdo essa sembrava propensa a mantenere la promessa fatta qualche anno prima, a differenza di quanto aveva fatto con gli Arabi. Il motivo principale che aveva indotto le grandi potenze a prospettare l’indipendenza del Kurdistan era la volontà di imporre una «cintura di sicurezza» fra l’URSS e la Turchia. Le potenze europee volevano prevenire l’allargamento della rivoluzione socialista ed intendevano creare uno Stato cuscinetto, feudale ed arretrato, da poter utilizzare contro l’URSS e gli altri popoli, un potenziale punto strategico posto nelle vicinanze dei pozzi petroliferi sovietici nel Caucaso. Il trattato di Sèvres (1920) prevedeva in due articoli la costituzione di uno Stato curdo, ma ridotto solo ad alcuni territori nei confini dell’attuale Turchia e con una sovranità limitata a vantaggio delle potenze coloniali vincitrici. Questa la pidocchiosa generosità dell’Imperialismo inglese che naturalmente voleva trattenere sotto il suo controllo i territori curdi più fertili e soprattutto ricchi di petrolio. Infatti l’antico vilayet di Mossul, benché facesse indubbiamente parte del territorio curdo, nonostante fosse reclamato a gran voce della Turchia kemalista, nel 1925 fu definitivamente attribuito all’Irak, cioè all’Inghilterra, dalla Società delle Nazioni.
Nonostante tutto il trattato di Sèvres resta ancora oggi un punto di riferimento per il movimento nazionalista, che vi trova una legittimazione delle sue aspirazioni da parte del «diritto internazionale».
Il trattato di Sèvres però non fu mai attuato. Il governo turco, uno dei firmatari, aveva perduto la sua autorità e l’assemblea nazionale di Ankara non ratificò l’accordo che avrebbe ridotto la Turchia ad una colonia delle potenze occidentali. Cominciò così la guerra turca per l’indipendenza. Nel settembre 1922 quasi tutta la Turchia era liberata dalle truppe straniere ed il primo novembre il Sultano venne deposto.
La Turchia rientrava in possesso di tutti i suoi territori in Asia Minore. Il risultato della rivoluzione nazionalista in Turchia e delle manovre dell’imperialismo anglo-francese per fermarla e rafforzare il suo potere sulla regione mediorientale fu che il popolo curdo si trovò diviso in tre Stati, Turchia, Irak ed Iran, mentre alcune minoranze restavano in Siria ed in Unione Sovietica.
Nella prima parte di questo lavoro abbiamo visto come la Francia e l’Inghilterra, divenute padrone del Medio Oriente alla fine della I guerra mondiale, si trovarono osteggiate nei loro piani di spartizione di quell’area dal forte movimento nazionalista turco e dalla minaccia costante dell’URSS che coll’esempio e con la parola incitava alla rivoluzione antimperialista i popoli d’Oriente. Gli accordi segreti Sykes-Picot che già nel 1916 spartivano tra le due potenze imperialiste alleate il grande ma ormai cadente Impero Ottomano erano stati resi pubblici e condannati dinanzi al proletariato mondiale dalla giovane repubblica rivoluzionaria ed il trattato di Sèvres, che ne era l’applicazione a guerra vinta, era saltato sotto i colpi decisi delle armate nazionaliste di Kemal [Atatürk] decise a difendere l’esistenza di uno Stato turco indipendente.
Col trattato di Sèvres naufragò anche il progetto di formare, a spese della Turchia, una barriera di piccoli Stati che costituisse un argine all’espansionismo sovietico verso sud; in questa prospettiva era stata prevista anche la costituzione di uno Stato dei Curdi che avrebbe dovuto sorgere alle frontiere meridionali della Turchia e comprendere la parte più povera della regione del Kurdistan.
Il trattato di Losanna (1923), prendendo atto dei mutati rapporti di forza assegnava alla Turchia l’intera Asia minore e dunque buona parte del Kurdistan; intanto con un accordo tra Francia e Gran Bretagna che risaliva all’ottobre del 1921 le province curde di Diazjreh e di Kurd-dagh erano state attribuite alla Siria; restava ancora in sospeso la sorte della provincia di Mossul, ricca di petrolio e contesa tra Turchi e Britannici. Fu incaricata di regolare il litigio l'«imparziale» Società delle Nazioni; una commissione fu incaricata di condurre un’inchiesta: l’inchiesta rivelò che la stragrande maggioranza della popolazione non voleva andare né sotto il giogo turco ne sotto quello inglese ma voleva uno Stato curdo indipendente. Preso atto della volontà dei popoli il Consiglio della Società delle Nazioni decise, nel dicembre del 1925, di assegnare la provincia al regno d’Irak, cioè all’Inghilterrra non senza avere concesso in contropartita alla Francia e agli Stati Uniti, perché accordassero il loro consenso, il 23,75 % ciascuno delle azioni della Turkish Petroleum che sfruttava i giacimenti petroliferi del Kurdistan. Questi due Stati hanno così beneficiato della rendita di questo petrolio fino al 1972; in cambio i Curdi ottennero la promessa di essere posti sotto un’amministrazione autonoma, con funzionari scelti tra la popolazione locale e la cui lingua ufficiale sarebbe stata il curdo.
In quel torno d’anni le potenze imperialistiche avevano così tracciato il destino tragico del popolo curdo; infatti, mentre prima della guerra esso era diviso dal solo confine tradizionale che separava l’Impero ottomano da quello persiano, dopo la guerra si trovò diviso tra cinque Stati, la Turchia, l’Irak, l’Iran, la Sira, l’URSS. Questa situazione affatto diversa ha avuto e continua ad avere conseguenze drammatiche per questo popolo improvvisamente divenuto una «minoranza nazionale» e soprattutto per le masse diseredate per le quali l’oppressione nazionale si aggiunge a quella di classe; la stessa nascita di un radicale movimento nazionalista è stata pesantemente ostacolata dalla sua frammentazione in quelle diverse entità statali.
Dopo questo episodio determinante a cui la nazione curda non fu in grado di opporsi a causa della sua arretratezza economica e politica, non è più possibile tracciare una storia unitaria del movimento nazionalista che si frantuma in vari spezzoni a seconda dello Stato in cui si trova ad operare, nonostante che questi Stati, caratterizzati da regimi politici apparentemente diversi abbiano adottato verso la minoranza curda una politica similare di repressione, di militarizzazione, di assimilazione forzata che in settant’anni ha ridotto di più di un terzo la popolazione indigena del Kurdistan.
Alla fine della prima guerra mondiale i piani imperialisti prevedevano non solo la spartizione tra le potenze vincitrici di ogni più piccola parte dell’Impero Ottomano, ma anche la riduzione della Turchia ad un piccolo Stato facilmente riducibile alla condizione di colonia; il piano non era riuscito a causa del sussulto del nazionalismo turco che, spinto anche dall’aperto sostegno di Mosca, riuscì nel 1922, vincendo la guerra con la Grecia sostenuta dalla Gran Bretagna, a liberare il territorio corrispondente all’incirca all’attuale Turchia dagli eserciti stranieri, ad abolire il sultanato e a proclamare la repubblica.
Ai rivoluzionari turchi non mancò in un primo tempo l’appoggio dell’URSS che, seguendo la tattica chiaramente esposta nelle tesi sulla questione nazionale e coloniale del II Congresso del Comintern, appoggiava i movimenti nazionali antimperialisti pur non mancando di avvisare il proletariato in quegli stessi paesi della necessità dell’organizzazione autonoma e indipendente dai partiti borghesi. Anche il movimento nazionale curdo appoggiò la lotta del nazionalismo turco; contingenti interi di Curdi parteciparono alla guerra contro la Grecia mentre la prima assemblea nazionale contò più di un terzo di deputati curdi; uno di essi divenne anche ministro dell’interno nel primo gabinetto di İsmet Pascià [İnönü]. Si prevedeva per il Kurdistan di arrivare ad uno statuto di autonomia vicino al federalismo forse sull’esempio delle repubbliche sovietiche.
È tesi del nostro movimento che la borghesia rivoluzionaria, appena arrivata al potere diventa immediatamente reazionaria non soltanto verso il proletariato che pure costituisce la massa d’urto che permette la presa del potere ma anche verso le minoranze nazionali; la borghesia turca non fece eccezione alla regola. Gli Armeni che avevano addirittura potuto costituire un loro Stato al confine con l’URSS, dovettero subire feroci massacri che li costrinsero all’emigrazione in massa; le forti minoranze greche che vivevano nel Ponto furono obbligate a trasferirsi in Grecia; dopo il Trattato di Losanna, nel marzo del 1924 venne iniziata una politica di assimilazione forzata della forte minoranza curda che rappresentava circa un quarto dell’intera popolazione. Si vietò l’uso della lingua curda, vennero chiuse scuole e giornali, sciolta l’assemblea nazionale dove sedevano deputati curdi. Dopo la conclusione della questione di Mossul la politica di repressione si intensificò ulteriormente. La popolazione curda rispose a queste misure con una vasta insurrezione che però, data l’arretratezza della società curda, rimase sotto il controllo dei capi tribali e religiosi, dei grandi proprietari fondiari conservatori e tradizionalisti: la parola d’ordine principale fu addirittura «Per la creazione di un Kurdistan indipendente sotto protettorato turco e per la restaurazione del Sultanato». Schierarsi contro la giovane repubblica per rivendicare il ritorno del Sultano era una rivendicazione reazionaria che certo contribuì a togliere a quel movimento ogni sostegno da parte del proletariato turco ed internazionale.
Isolata, mal diretta, divisa al suo interno, l’insurrezione era destinata alla sconfitta; la repressione fu terribile; circa 500 000 curdi vennero deportati e di questi circa 200 000 perirono di stenti, di freddo o sotto le baionette dei soldati. Era l’inizio della soluzione borghese al problema curdo. Il presidente della corte marziale che pronunciò la sentenza a morte contro alcuni dei capi della rivolta volle indicarne il fine ultimo dichiarando «A pretesto della rivolta alcuni di voi si sono basati sul cattivo trattamento amministrativo dell’autorità governativa, altri sulla difesa del califfato, ma tutti vi eravate uniti nel voler creare un Kurdistan indipendente».
Negli anni seguenti il governo turco rafforzò il suo controllo militare sulle province curde e perfezionò il processo di assimilazione forzata; la risposta furono le periodiche rivolte che, secondo stime dei nazionalisti curdi, tra il 1925 ed il 1938 fecero più di un milione di morti, mentre, almeno altrettanti curdi furono deportati in altre parti della Turchia.
Intanto, preoccupati per l’estensione assunta dal movimento nazionalista che, pur non coordinato era attivo in tutto il Kurdistan, i tre principali Stati in cui si divide quel territorio, nonostante i loro attriti, cercano di coordinare la politica di repressione. Così nel 1929 venne firmato un accordo tra Turchia e Persia che prevedeva la chiusura delle frontiere ai curdi mentre queste rimasero aperte per gli eserciti dei due paesi in azione contro di essi. Nel 1937, sotto l’egida della Gran Bretagna, Turchia, Iran, Iraq e Afghanistan firmarono il patto di Sa’dabad che aveva soprattutto una funzione antirussa ma prevedeva anche la collaborazione dei quattro paesi nella lotta contro la ribellione curda.
Nel secondo dopoguerra la situazione si è evoluta in seguito alla ripresa di attività, anche in Turchia, di un movimento operaio, pur muovendosi nella situazione di piena controrivoluzione che è seguita alla vittoria dello stalinismo a livello internazionale; d’altronde le ferree leggi dello sviluppo economico premono sulla società turca ed ancor più su quella curda perché ancor più arretrata, spezzando i vecchi equilibri sociali e portanto in primo piano, con forza sempre maggiore, i moderni rapporti di classe. Ancora nel 1984 la situazione economico-sociale del Kurdistan turco veniva così descritta:
«Il governo (turco) ha lasciato che le strutture sociali si irrigidissero nel più tradizionale conservatorismo quando questo serviva ai suoi interessi. Così è stato per il problema della terra, essenziale in una popolazione in grande maggioranza contadina. Il governo turco ha lasciato che si sviluppasse nella regione una grande proprietà fondiaria nettamente parassitaria. Un sesto dei proprietari possiede i tre quarti delle terre mentre l’83 % dei contadini è senza terra. L’appropriazione privata delle terre non è stata granché ostacolata dalla struttura tribale. Appoggiandosi sul nuovo codice civile, ispirato al codice svizzero che conferisce al diritto di proprietà un ruolo molto importante, i capi delle tribù, gli sceicchi, le confraternite religiose, si sono attribuiti terre fino ad allora comuni. L’Agha, curdo anche lui, si è rivelato un padrone esigente che pratica il paternalismo tribale, lo sfruttamento signorile e il profitto capitalistico con uguale attitudine (…). Questi benefici, corvèes, tasse prelevano gran parte dei redditi e costringono all’indebitamento un contadiname povero e strettamente controllato (…). L’indifferenza dei notabili locali, la politica deliberata delle autorità turche hanno contribuito a mantenere le regioni curde in uno stato di sottosviluppo. Il Kurdistan non ha beneficiato in alcun modo degli aspetti modernisti del kemalismo. Il reddito annuale dei curdi, che costituiscono un quinto della popolazione turca, è di quattro o cinque volte minore di quello dei turchi che è ben lontano dall’essere elevato; il 72 % della popolazione è analfabeta contro il 38 % in media del resto del paese» (J. Blau, «Le mouvement national kurde», in «Les temps modernes», 1984, n. 456–457).
Opere più recenti non riportano dati molto diversi.
«Nel Kurdistan turco lo standard di vita ed il reddito sono molto inferiori alla media nazionale. La proprietà terriera è distribuita in modo ineguale. Il 3 % della popolazione del Kurdistan possiede un terzo dei terreni coltivabili. Il 40 % non possiede nulla, mentre il restante ha appezzamenti troppo piccoli e antieconomici. Nell’area curda viene investito annualmente solo il 10 % degli investimenti pubblici ed il 3 % degli investimenti privati. In una regione che costituisce il 30 % del territorio turco ed un quarto della sua popolazione è presente meno del 3 % dell’industria turca». (M. Galletti, «I curdi nella storia», 1990, pp. 129–130).
Questa disastrosa situazione economica, la stretta implacabile dell’esercito e della polizia turca che mantiene da decenni l’intera regione in un regime di stato d’assedio, la situazione tragica delle decine di migliaia di profughi in fuga dall’Iran e dall’Irak in cerca di salvezza dalle stragi della guerra, creano una situazione in cui sembra avere una certa risonanza tra i 10 milioni di curdi che si stima risiedano ancora in quella regione, l’azione del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) che, fondato nel 1978, a differenza della maggioranza dei movimenti politici curdi, non si definisce col nome dello Stato in cui opera e, richiamandosi a posizioni terzomondiste, propugna la lotta armata per il conseguimento dell’indipendenza del Kurdistan e per liberare i contadini dal giogo feudale. Nel 1985 questo partito ha annunciato la creazione del Fronte di Liberazione del Kurdistan e ha dato inizio alla lotta armata; nel marzo 1990, dopo che 13 militanti del PKK erano rimasti uccisi in uno scontro a fuoco con l’esercito e le autorità avevano rifiutato di riconsegnare i corpi alle loro famiglie si è verificata una vera insurrezione con scioperi e manifestazioni di piazza.
Di pochi giorni fa la notizia di importanti scontri armati tra esercito turco e milizie del PKK. Migliaia di persone hanno abbandonato terrorizzate la città curda di Sirnak nella Turchia sud orientale dopo che l’esercito e l’aviazione turca l’avevano sottoposta a pesanti bombardamenti in risposta ad un attacco di guerriglieri contro una base militare alla periferia della città.
In questo paese vivono circa 4 milioni di curdi, il 25 % dell’intera popolazione composta per il 70 % da arabi, suddivisi in una maggioranza sciita ed in una minoranza sunnita, e per il resto da altre minoranze, caldei, assiri, turcomanni, armeni ecc.
E questo il paese dove i curdi sono percentualmente più numerosi; è qui inoltre che essi hanno sempre avuto un maggior potere di contrattazione «data l’importanza economica dei giacimenti petroliferi per lo Stato iracheno e le potenze imperialiste, la debolezza del governo di Baghdad e la compattezza della popolazione curda» (M. Galletti, op. cit., p. 153).
Abbiamo visto come furono gli inglesi a voler creare lo Stato dell’Irak e furono essi ad imporre come re l’emiro Faysal nel 1921.
«Di tutti gli Stati del vicino Oriente sorti dopo la prima guerra mondiale, l’Iraq è probabilmente quello meno omogeneo e verosimilmente il meno stabile. Il meno omogeneo perché, a parte le minoranze importanti di cristiani, yezidi, ebrei, ecc., la popolazione comprende una forte maggioranza di sciiti nella provincia di Baghdad, mentre i numerosi sunniti della provincia di Mossul sono per la maggior parte curdi e ben pochi arabi vi risiedono. I principali poteri del governo sono in mano ai sunniti arabi, il 17 % della popolazione, a detrimento degli sciiti arabi (51 %) e curdi, che si considerano minoritari» (M. Galletti, op. cit., p. 157).
L’assegnazione nel 1925 della regione di Mossul al regno d’Irak, sotto mandato britannico per 25 anni, determinò una serie di rivolte della popolazione curda che aveva sperato di poter arrivare all’indipendenza; inoltre la formazione della frontiera turco-curda aveva avuto effetti disastrosi sull’economia delle tribù curde nomadi che costituivano circa un terzo dell’intera popolazione curda. L’impero ottomano era un’unità economica e da secoli le tribù curde delle pianure mesopotamiche usavano lasciare i loro quartieri invernali all’inizio della primavera e condurre le mandrie nelle vallate della regione sita a meridione del lago Van. Ma dopo il 1925 le frontiere vennero chiuse e non fu possibile per i nomadi curdi esercitare i loro diritti sulle terre da pascolo.
Nel 1932 l’Inghilterra rinunciò al mandato e l’Iraq divenne indipendente; nell’occasione vennero presi dal governo iracheno solenni impegni di riconoscimento dei diritti dei curdi nelle province dove essi rappresentavano la maggioranza della popolazione, Mosul, Erbil, Kirkuk, Sulaimaniya; questi obblighi furono rispettati per alcuni anni finché nel 1943 scoppiò una nuova rivolta guidata da Mustafa Barzani che diverrà un capo carismatico del nazionalismo curdo. Battuta nell’estate del 1945, dopo aver registrato notevoli successi, l’armata di Barzani si rifugiò in Iran dove era in vita l’effimera repubblica curda di Mahabad.
Nel 1958 anche in Iraq una rivoluzione nazionalista guidata da ufficiali dell’esercito, sull’esempio di quella egiziana abbatté la monarchia hascemita filo-occidentale e proclamò la repubblica. Il nuovo regime, in cambio del sostegno ricevuto, autorizzò l’attività del PDK Irak (Partito Democratico del Kurdistan Iracheno) e Mustafa Barzani rientrò dall’esilio in Russia durato undici anni. La costituzione provvisoria riconobbe al suo articolo III i diritti dei curdi: «Arabi e curdi sono associati in questa patria e questa costituzione garantisce loro i diritti nazionali in seno all’entità irachena», ma all’articolo precedente dichiarava: «Lo Stato iracheno è parte integrante della nazione araba». La contraddizione si sciolse tre anni dopo, nel 1961, quando il governo assunse aperte forme dittatoriali e iniziò nuovamente la repressione e la guerra contro il movimento curdo. La guerriglia cessò solo nel 1963 quando il PDK appoggiò un nuovo colpo di stato in cambio di altrettanto nuove promesse di autonomia.
Gli anni seguenti vedono il succedersi di durissimi scontri tra il movimento armato curdo ed i governi sempre più reazionari che si susseguono a Baghdad. Lo stato iracheno non è abbastanza forte per arrivare a schiacciare definitivamente la guerriglia e i curdi non lo sono abbastanza per ottenere risultati di lunga durata. D’altronde Mustafa Barzani che controlla l’armata e rappresenta gli interessi degli strati più abbienti, notabili, capi tribali e proprietari terrieri rifiuta di affrontare il problema della riforma agraria e chiude il movimento a qualsiasi alleanza col proletariato arabo. Per sostenere la guerra cerca aiuti dall’Iran che verso la metà degli anni sessanta comincia a fornire viveri ed armi. Nel 1970 si arriva ad un nuovo accordo di pace «che si distingue dai precedenti per la maggiore consistenza delle concessioni fatte dal governo iracheno ai diritti nazionali curdi e per l’accento posto sulla realizzazione dell’autonomia amministrativa nelle regioni a maggioranza curda» (Galletti, op. cit., pag. 185). Il punto di maggior attrito resta la delimitazione della zona che dovrà godere dell’autonomia perché il governo vuole che Kirkuk ed i suoi pozzi petroliferi, benché a maggioranza curda, ne resti fuori.
Nel 1972 l’Iraq firma un trattato di amicizia con la Russia e nazionalizza la Iraq Petroleum Company, la maggiore compagnia petrolifera del paese. Ma questo sforzo della borghesia irachena per favorire lo sviluppo economico e sociale del paese deve accompagnarsi ad una politica sempre più dura verso ogni opposizione interna. Di fronte alla richiesta del PDK che le rendite del petrolio vadano per un quarto alla popolazione curda e che sia esteso il territorio soggetto all’autonomia scoppia una nuova guerra.
Barzani chiede aiuto all’occidente e gli Stati Uniti non restano sordi alle sue richieste non tanto perché intendano favorire una vittoria dei curdi, quanto per indebolire il governo filomoscovita iracheno. Sotto lo stretto controllo dell’esercito iraniano deciso ad impedire che i guerriglieri possano costituire dei depositi di armamenti e ottenere così un certo margine di autonomia, vengono comunque consegnate ai curdi armi per un valore di 16 milioni di dollari. Sull’altro fronte il regime iracheno è armato da Mosca. La situazione si trova in una fase di stallo quando avviene un accordo che cambia completamente la situazione militare.
Il 6 marzo 1975 lo scià d’Iran e Saddam Hussein firmano l’Accordo di Algeri in base al quale l’Irak rinuncia alle sue pretese territoriali sull’Arabistan (o Khuzistan, territorio sotto sovranità iraniana a maggioranza araba), riconosce la delimitazione del confine sullo Shatt-El-Arab secondo il fondovalle ed in cambio l’Iran cessa di concedere aiuti militari ai curdi ed anzi collabora alla lotta contro la guerriglia.
Questo accordo è una vera pugnalata alle spalle per l’armata di Barzani ma risponde agli interessi dei due Stati firmatari; il governo di Baghdad, alle prese con i problemi dell’industrializzazione del paese, desideroso di non dipendere così massicciamente dall’aiuto sovietico, non può più permettersi una guerra che gli costa 700 000 sterline al giorno; l’Iran teme che un eccessivo rafforzamento della guerriglia curda possa estendere il movimento anche nei suoi confini ed inoltre riesce ad ottenere concessioni territoriali tanto importanti che appena cinque anni dopo saranno tra le cause della lunga guerra con Baghdad.
Raggiunto l’accordo l’esercito iracheno approfittando della situazione di sbandamento delle forze curde lancia una grande offensiva. Dopo una prima resistenza, venuto meno ogni aiuto esterno, l’armata curda si sgretola; circa 200–300 mila curdi iracheni sono costretti a fuggire in Iran. Gli Stati Uniti non solo rifiutano qualsiasi intervento per fermare la strage, ma negano anche gli aiuti di tipo umanitario.
Dopo la bruciante sconfitta militare Barzani decide di ritirarsi definitivamente dalla lotta armata, una decisione che data l’importanza della sua leadership corrisponde ad un’ammissione di fallimento; la tremenda disfatta doveva avere insegnato qualcosa al vecchio leader se è vero che in una lettera scritta al presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, egli dichiarerà: «Noi non siamo stati sconfitti militarmente dal nostro nemico. Noi siamo stati distrutti dai nostri amici.» Ma l’imperialismo americano o iraniano non poteva essere considerato «amico» per il popolo curdo e l’averlo sperato è stato un enorme errore politico, errore che d’altra parte verrà ripetuto ancora molte volte negli anni seguenti costringendo nuovamente le masse diseredate del Kurdistan a patirne le tragiche conseguenze.
Dopo la vittoria militare il regime di Baghdad inasprisce la sua politica di assimilazione forzata della minoranza curda e per tutti gli anni '70 si assiste a continui episodi di deportazione della popolazione di interi villaggi del nord verso il sud del paese e al suo rimpiazzo con famiglie arabe irachene o egiziane. Nel 1975 viene stipulato un accordo con l’Egitto per l’invio in Irak di mezzo milione di contadini egiziani.
Nel settembre del 1980 l’Irak dichiara guerra all’Iran; la guerra che durerà Otto anni con conseguenze devastanti per entrambe i paesi è una prova durissima per le popolazioni curde e porta nuovamente alla luce del sole la completa sudditanza dei partiti nazionalisti curdi al disegno imperialista. La guerra tra i due Stati non costituirà infatti per essi l’occasione per unirsi al di sopra delle frontiere imposte dall’imperialismo e, approfittando della momentanea debolezza dei due Stati in guerra, tentare di cogliere l’indipendenza; al contrario essi si sono fatti strumento nelle mani degli Stati belligeranti. I curdi d’Irak si sono schierati a fianco dell’Iran, i curdi dell’Iran e fianco dell’Irak arrivando persino a scontrarsi pesantemente tra di loro.
Intanto nel 1984 viene rinnovato un accordo segreto già sottoscritto nel 1978 tra Turchia e Iraq che dà mano libera agli eserciti dei due Stati per intraprendere azioni militari in una fascia di 18 miglia dal confine anche senza preavviso.
Durante la guerra il metodo borghese tradizionale per risolvere la questione delle minoranze, lo sterminio di massa, prosegue e si rafforza; l’episodio famoso della città di Halabja in cui 12 mila curdi sono uccisi da un bombardamento con gas venefici non è certo l’unico.
Quando diventa effettivo il «cessate il fuoco» con Teheran, Baghdad lancia un offensiva contro la popolazione del Bahdinan al confine con la Turchia; migliaia sono massacrati, 65 000 curdi si rifugiano (sic!) in Turchia e il doppio in Iran.
L’ultima strage, è storia recente, si è avuta dopo la fine della guerra per il Kuwait; lo sfaldamento dell’esercito iracheno dinanzi all’offensiva alleata dimostra la profonda crisi sociale che scuote il paese; decine di migliaia di proletari in divisa, arabi e curdi, disertano sfidando le mitragliatrici della guardia repubblicana e le più sofisticate armi alleate e raggiungono le città del sud del paese; lì trovano aiuto e sostegno nel proletariato locale mentre la terribile situazione sociale, l’odio contro il regime e contro l’occidente massacratore di civili, provoca lo scoppio di una rivolta proletaria di grande ampiezza che i giornali occidentali si affretteranno a far passare come un movimento a base religiosa (gli sciiti del sud), fomentato da Teheran; la città di Bassora cade nelle mani degli insorti; rivolte scoppiano anche in alcuni quartieri proletari di Baghdad. Propagatesi anche al nord le notizie dell’insurrezione, il proletariato delle città del Kurdistan si solleva; Kirkuk, Erbil, Sulaimaniya sono prese dagli insorti; proletari curdi e arabi combattono insieme ma i partiti nazionalisti curdi, che rappresentano gli interessi della borghesia e dei proprietari fondiari, non vogliono un’insurrezione proletaria e cercano l’accordo col governo. Nel frattempo il regime iracheno riesce ad organizzare le forze per la controffensiva e riceve carta bianca per procedere all’opera di repressione da parte degli Alleati anch’essi preoccupati che le masse diseredate dell’intero paese possano sfuggire al controllo delle classi dominanti. Ancora una volta Saddam Hussein è il boia più quotato e proprio con lo sterminio spietato dei proletari insorti per la difesa della loro vita riesce a salvare il suo potere. Sotto gli occhi benevoli delle strapotenti armate occidentali, la guardia repubblicana, lasciata volutamente intatta, interviene in forze con mezzi corazzati ed aviazione prima nel sud, poi nel nord del paese. Si valuta che almeno 200 000 siano stati i proletari massacrati al sud e 100 000 al nord. Centinaia di migliaia di proletari fuggono verso la frontiera turca, sulle alte montagne che fanno da confine, senza cibo, senza riparo, costretti, i più disperati a cercare rifugio nei campi militarizzati allestiti dalla pelosa carità dell’ONU.
(Risibili sono, a distanza di appena un anno da questi fatti, le argomentazioni statunitensi che hanno preso a pretesto per il nuovo intervenuto in Irak addirittura «la difesa delle popolazioni sciite del sud dagli attacchi dell’aviazione irachena»).
In questo clima di appestante controrivoluzione la fiammata di classe che per qualche settimana ha permesso al proletariato d’Irak di gridare, al di sopra delle divisioni di razza e religione «Ero, sono, sarò», è stata stroncata con la forza dall’internazionale imperialistica, nemica al suo interno, ma unita contro il nemico di classe.
Da questa ennesima sconfitta dovranno trarre lezioni anche i proletari curdi; anche per essi si è chiusa la prospettiva della lotta nazionalista e dell’adesione ai marci partiti borghesi che la sostengono, si è aperta quella della lotta rivoluzionaria per il comunismo a fianco dei loro fratelli di classe.
Abbiamo visto che nel 1946 Barzani, in fuga dall’Irak si era rifugiato, non senza problemi, nella repubblica curda di Mahabad in Iran. In effetti parte dell’Iran settentrionale, alla fine della II guerra mondiale era stato occupato dalle truppe di Mosca che avevano favorito la formazione di una Repubblica Democratica dell’Azerbaigian ed intendevano unire a questa anche il Kurdistan iraniano con l’intento di attirarla sotto la propria influenza. I partiti curdi non accettarono questa prospettiva e diedero vita ad una Repubblica indipendente, appunto la Repubblica di Mahabad. Però pochi mesi dopo le truppe britanniche evacuarono il sud dell’Iran e le truppe sovietiche dovettero fare altrettanto, ricevendo in cambio dal governo iraniano alcune concessioni per lo sfruttamento del petrolio dell’Iran settentrionale.
Appena partiti i soldati russi il governo centrale avviò la riconquista del territorio delle due repubbliche ed in un mese raggiunse l’obiettivo, passando poi a feroci repressioni. La sconfitta militare ancora una volta non fu che la conseguenza della debolezza politica del movimento nazionalista curdo le cui milizie erano ancora organizzate su base tribale e tradizionalmente ostili ad accettare una direzione centralizzata oltre che a fare proprio un programma sociale radicale che, contemplando una profonda riforma agraria, riuscisse a coinvolgere sino in fondo nella guerra il contadiname povero.
Dagli anni '50 fino a tutti gli anni '70 e al movimento insurrezionale che abbatterà lo Scià Reza Pahlavi, ci sarà un susseguirsi di rivolte anche nel Kurdistan iraniano con un carattere più spiccatamente sociale che in Iraq dove il predominio dei proprietari terrieri sul movimento sembra molto più stretto. In Iran si parla addirittura di rivolte contadine per ottenere la riforma agraria, rivendicazione che avrebbe allontanato i proprietari fondiari e la grande borghesia dai partiti nazionalisti.
Alla metà degli anni '60 il regime di Teheran invia aiuti alla guerriglia curda in Irak ottenendo in cambio che questa collabori alla lotta contro i curdi d’Iran. Il regime tenta anche di militarizzare la popolazione e crea una milizia curda denominata «Cirik», forte di circa 50 000 uomini, che viene stanziata alla frontiera iraco-iraniana per bloccare i movimenti della popolazione curda. La città curda di Kermanshah nella cui provincia si trovano importanti pozzi petroliferi viene sottoposta ad un processo di persianizzazione.
Nel 1975, come abbiamo visto viene raggiunto con Bagdad l’accordo di Algeri le cui conseguenze abbiamo analizzate riguardo ai curdi d’Iraq.
Neppure la caduta dello Scià nel 1979, a cui le masse povere del Kurdistan avevano certamente contribuito, attenua la pressione del governo centrale verso la comunità curda, anzi la inasprisce.
«Le richieste per l’autonomia del Kurdistan, seguite a ruota di quelle degli altri popoli dell’Iran (turchi azeri dell’Azerbaigian, arabi del Khuzistan, beluci, turcomanni, ecc.), ottengono un netto rifiuto da parte di Khomeyni che nega il concetto di nazione, sostituendogli quello di umma (comunità dei credenti per la quale non esiste frontiera). Vengono quindi considerate anti-islamiche le rivendicazioni di autonomia politica delle etnie non persiane, che costituiscono la metà della popolazione iraniana. Sussiste quindi il timore della balcanizzazione dell’Iran e del suo smembramento. La contrapposizione tra il popolo curdo e Teheran è diventata insanabile anche per l’intrecciarsi di diversi fattori riconducibili alla questione nazionale, alla mancata riforma agraria, all’elemento religioso.» (M. Galletti, op. cit., p. 144–145).
Pare addirittura che i proprietari terrieri curdi si siano alleati al nuovo regime per riprendere ai contadini la terra che era stata loro concessa dalla riforma agraria voluta dallo Scià!
Un mese prima di esser ucciso dai sicari di Teheran, «alla domanda sui motivi per cui il PDK Iran rimane l’unico partito curdo a chiedere l’autonomia, mentre in Turchia e Iraq i curdi chiedono l’autodeterminazione, il leader curdo Ghassemlou aveva risposto che «un partito responsabile deve prefiggersi obiettivi realizzabili. Nel contesto attuale, nella situazione geopolitica in cui si trovano i curdi, non è concepibile l’indipendenza. L’indipendenza esige il mutamento delle frontiere di almeno quattro Stati, in una regione così sensibile come la nostra. I curdi confondono il sogno con la politica… Ogni curdo può sognare l’indipendenza… Noi domandiamo l’autonomia. Siamo iraniani. Restiamo nel quadro dell’Iran. Non avanziamo alcuna rivendicazione che travalichi le frontiere iraniane».
Come si vede dunque, nonostante la spinta radicale dei contadini poveri e senza terra, i partiti politici che guidano il movimento nazionalista in Iran non conducono una politica migliore di quelli iracheni. Allo scoppio della guerra con l’Iraq essi hanno offerto la disponibilità a combattere contro l’Iraq a patto che Teheran accogliesse le loro richieste di autonomia e si sono poi schierati con Baghdad quando questa è stata loro rifiutata. Anch’essi sono foraggiati da Baghdad anche se ci tengono a ribadire una formale indipendenza.
All’interno di questi partiti non esiste futuro per il proletariato e le masse diseredate curde che saranno sempre considerate solo carne da macello da una classe dirigente ansiosa solo di rendere più sicuri ed aumentare rendite e profitti.
Nell’attuale situazione storica di pieno controllo politico e militare dell’imperialismo le masse diseredate curde sono isolate nella lotta contro gli Stati in cui sono divise e contro le classi dominanti curde di questi alleate.
Per il continuo accrescersi dei contrasti tra i maggiori paesi imperialisti dovuto all’inasprirsi della crisi economica e per l’acuirsi delle contraddizioni anche all’interno di imperialismi sub-regionali come la Turchia, l’Irak, la Siria, l’Iran, valutiamo che siano sempre più scarse non solo le possibilità di accordi che portino alla formazione di un Kurdistan indipendente, ma anche alla formazione di regioni curde dotate di ampia autonomia dagli stati centrali.
Questo condanna ad una azione senza sbocco anche l’eroica lotta armata condotta dal Partito dei Lavoratori in Turchia, certo il più radicale nel panorama del nazionalismo curdo. La risposta degli Stati sarà solo militare.
Ma se esiste una speranza per il proletariato ed il contadiname povero curdo di salvarsi dallo sterminio imposto dal regime imperialista, questa sta nell’organizzarsi indipendentemente dalle classi dominanti curde; nel rifiuto di andare allo sbaraglio sotto le bandiere del nazionalismo, in cambio di fragili accordi con avide quanto sanguinarie borghesie; nella convinzione che non potranno trovare alcuna solidarietà tra gli Stati, i movimenti o i partiti sedicenti democratici ma solo tra i loro fratelli di classe; nell’organizzarsi sulla base dei principi immutabili del comunismo in previsione della rinascita di un movimento rivoluzionario nei paesi industrializzati, in Medio Oriente, in Turchia, in Irak, nell’Occidente sempre più stretto dalla crisi economica.
Il lavoro svolto dal Partito sulla questione curda, i cui primi risultati sono apparsi nei numeri 31 e 32 di questa rivista, aveva portato alla conclusione che il movimento nazionalista del Kurdistan non ha alcuna possibilità di raggiungere il suo fine storico, la creazione di uno Stato curdo indipendente, e rappresenta perciò, anche nelle sue ali più radicali, un movimento di retroguardia quando non apertamente reazionario. La situazione storica odierna pone infatti all’ordine del giorno per il proletariato e le masse povere dell’intera regione mediorientale il problema della presa del potere politico in prima persona, superando le divisioni di carattere nazionale, razziale, religioso, volute e alimentate dai regimi e dalle classi al potere.
Abbiamo in quel lavoro constatato come le divisioni di confine imposte dall’imperialismo alla fine della prima guerra mondiale, tenendo conto solo dei propri interessi e dei rapporti di forza tra le grandi potenze, hanno ormai dato vita a Stati dove, almeno nei casi di più consistente popolazione e risorse, i pur deboli strati borghesi hanno dato vita a rivolgimenti e rivoluzioni nazionaliste e antimperialiste, guadagnandosi con notevoli sforzi un posto al sole, e che hanno dunque ormai un loro fondamento politico.
Abbiamo anche constatato come in tutti questi Stati le classi dominanti tengono per nemico principale il numeroso e spesso miserabile proletariato delle città e dei campi e come siano sempre state disposte alle più rocambolesche alleanze pur di schiacciarne ogni tentativo di ribellione.
Gli avvenimenti di questo autunno, che hanno visto lo svolgimento, tra le aspre catene montagnose che segnano il confine tra Turchia e Irak, di una dura e lunga guerra tra esercito turco e curdi d’Irak da una parte contro i curdi di Turchia dall’altra, segnano un nuovo capitolo a favore della dimostrazione che il proseguire nella lotta per l’indipendenza a fianco dei partiti borghesi sta conducendo il proletariato curdo, in Turchia come in Irak, in Iran come in Siria, e potremmo aggiungere nella stessa Germania, alla catastrofe. La borghesia turca, ma anche quella curda, hanno un enorme interesse a mantenere vivo l’odio tra i proletari delle due etnie, cercando di mascherare l’odioso sfruttamento dei lavoratori e dei contadini poveri curdi e turchi come un problema di razza e di religione e non di classe.
Nell’agosto scorso la stampa occidentale dava le prime notizie degli scontri tra esercito turco e guerriglieri del PKK (Partito dei Lavoratori dei Kurdistan) nei dintorni della città di Sirnak, dei pesanti bombardamenti a cui la città era stata sottoposta, della fuga, cui erano stati costretti decine di migliaia di civili terrorizzati dalle bombe e dalle incursioni dei soldati.
Gli scontri, molto cruenti, sono poi proseguiti per tutto settembre e ottobre e si sono conclusi solo con la seconda metà di novembre. L’esercito turco ha attaccato le posizioni dei guerriglieri in Turchia poi, utilizzando spesso le infrastrutture create pochi mesi fa nel quadro dell’operazione internazionale di soccorso al profughi iracheni (strade, aeroporti), li ha incalzati con massiccio impegno di forze corazzate ed aviazione nelle loro basi in Irak, spingendosi fino a 30 chilometri oltre frontiera. In questa azione l’armata turca è stata appoggiata direttamente dai guerriglieri curdi iracheni del Fronte Democratico di Barzani e dell’Unione Patriottica di Talabani.
La decisione del primo ministro turco Süleyman Demirel, succeduto a Turgut Özal alla fine del 1991, di dare l’avvio ad una decisa offensiva contro i «terroristi» del PKK più che essere dipesa dalla volontà di risolvere l’annoso problema curdo ci sembra essere stata determinata dalla frenesia di cogliere il momento opportuno per mettere decisamente piede in territorio iracheno, approfittando della latitanza dell’esercito di Bagdad e dalla favorevole congiuntura internazionale. Ankara ha voluto così riaprire la questione del controllo della ricca provincia petrolifera di Mossul, da sempre rivendicata (vedi «Comunismo», n. 32, pag. 1). Secondo questo disegno la Turchia punterebbe a spostare la zona di «protezione» per i curdi dal 36° al 34° parallelo in modo da includervi Kirkuk; la regione potrebbe poi passare sotto l’indiretto controllo turco tramite la creazione di uno staterello curdo magari anche nominalmente indipendente. E su queste basi probabilmente che sono stati stretti gli accordi tra i notabili del movimento curdo d’Irak e lo Stato Maggiore turco, accordi che hanno portato ai primi di ottobre i guerriglieri agli ordini di Talabani e di Barzani ad attaccare le basi del PKK in Irak
A metà ottobre, dopo dieci giorni di duri combattimenti pare comunque che non fossero ancora riusciti a spezzare la resistenza dei militanti del PKK. E probabile che i giovani proletari e contadini poveri, che costituiscono la gran parte di chi imbraccia il fucile, pur se ancora legati ai loro capi tradizionali su base tribale, non ne condividano più la politica di appoggio all’imperialismo statunitense prima e turco oggi e soprattutto non abbiamo condiviso l’ordine di attaccare i loro fratelli di classe e di razza in Turchia.
È certo che l’intervento diretto dell’esercito turco in territorio iracheno era inevitabile e deciso da tempo. Nel giro di pochi giorni Ankara ha inviato in Irak un corpo di spedizione di circa 20 000 uomini, con appoggio di aviazione e mezzi corazzati. Nonostante l’operazione non abbia raggiunto lo scopo di annientare completamente la struttura del PKK, centinaia di proletari sono stati uccisi altre centinaia si sono arresi ai curdi iracheni ma rischiano di essere consegnati all’esercito turco, migliaia di civili sono in fuga. L’occupazione prosegue ancora; nel programma dello Stato Maggiore di Ankara, che naturalmente non ha alcuna fretta di ritirare le sue truppe, c’è la creazione di una serie di caserme sul confine con l’Irak che permettano di controllare direttamente la provincia meridionale irachena.
Il fatto che le truppe statunitensi ed i loro alleati presenti nella zona, tra l’altro interdetta al sorvolo da parte degli aerei di Bagdad, non siano in alcun modo intervenuti nel conflitto ci pare dimostri un assenso di massima all’azione del governo turco. Difficile da decifrare al presente la posizione tedesca certo molto interessata alla politica di Ankara; non bisogna infatti sottovalutare gli stretti legami economici e militari che uniscono tradizionalmente i due paesi. D’altronde se la Turchia ha rappresentato fino ad oggi, per posizione geografica e potenza militare, uno dei bastioni dell’imperialismo americano in funzione antirussa ma anche per il controllo del Mediterraneo e del Medio Oriente, è che anche la Germania, nel quadro di un rivolgimento dei rapporti di forza a livello internazionale, tende ad attirare questo paese nella sua orbita. Gran parte del materiale bellico turco è di origine tedesca: la Germania dal 1960 in poi ha fornito armi alla Turchia per ben 5,5 miliardi di marchi e a questo si è aggiunto il regalo di materiale bellico per un valore di circa un miliardo e mezzo di marchi, fornito durante la guerra del golfo e proveniente dalla ex RDT; la Turchia inoltre attende dalla Germania ancora 150 carri armati Leopard e 45 aerei Phantom da ricognizione. La fornitura è stata sospesa dopo lo scandalo scoppiato alla fine del marzo scorso che ha costretto il ministro della difesa Genscher alle dimissioni: una campagna di stampa denunciò che le armi fornite da Bonn ad Ankara venivano usate contro la popolazione curda e non per la difesa (?) del paese.
Gli Stati Uniti naturalmente non intendono restare indietro e hanno in programma di fornire al prezioso alleato, entro la prima metà del '93, 22 del 100 elicotteri d’assalto Cobra già promessi, oltre a 50 aerei anticarro A-lo e alcune fregate per la Marina.
D’altronde la politica statunitense pare tendere al ridimensionamento territoriale dell’Irak favorendo i piani espansionistici dell’imperialismo turco. Nell’aprile scorso il comitato incaricato dall’ONU (leggi USA) di stabilire i nuovi confini tra Irak e Kuwait ha deciso di spostarli all’interno del territorio iracheno fino a comprendere il villaggio di Safwan, la base civile e militare irachena di Umm Qasr e soprattutto tre quarti dei pozzi di petrolio di Rumaila, giacimenti considerati tra i più ricchi del mondo. In precedenza solo un decimo di questi pozzi faceva parte del territorio kuwaitiano. Inoltre la nuova frontiera sottrae all’Irak il principale sbocco del Golfo, quello sullo Shatt-El-Arab è infatti «vigilato» dalle navi da guerra americane e il porto di Bassora non può accogliere petroliere di grandi dimensioni. L’Irak è così costretto a vendere i quantitativi di petrolio per i quali l’ONU autorizza l’esportazione soltanto tramite i poco sicuri oleodotti che attraversano il territorio turco.
Oltre a questo l’isola di Abu Musa è stata occupata dall’Iran che sembra intenda impiantarvi la base dei due sottomarini recentemente acquistati dalla Russia.
A metà novembre si è svolto ad Ankara un summit tra Turchia, Iran e Siria proprio per accordarsi sulla spartizione dell’Irak, quando, nel prossimo dicembre, dovessero ritirarsi le truppe alleate; l’ipotesi in discussione è quella di un’influenza turca a nord ed una iraniana a sud del 32° parallelo. A questa soluzione si oppone però l’Arabia Saudita che non ha partecipato al summit (anche se invitata) e non ha approvato, assieme ad Oman e Qatar, la revisione dei confini meridionali dell’Irak, temendo la minaccia iraniana.
Da tutte queste manovre il proletariato mediorientale, come quello d’occidente, oggi apparentemente separati da enormi barriere, non hanno da aspettarsi che nuovi sacrifici, nuova miseria, nuove guerre; ma il gigante sta ridestandosi dal suo sonno e dovrà riprendere consapevolezza di se stesso, della sua forza, della necessità della lotta per la difesa dei suoi interessi contingenti come di quelli storici.